Santa Maria,

Santa Maria,
...donna del primo sguardo, donaci la grazia dello stupore.

venerdì 18 aprile 2014

Venerdì Santo - Passione del Signore.

Venerdì Santo




Dopo la luce rossa delle torce su volti sudati
Dopo il silenzio gelido nei giardini
Dopo l'angoscia in luoghi petrosi
Le grida e i pianti
La prigione e il palazzo e il suono riecheggiato
Del tuono a primavera su monti lontani
Colui che era vivo ora è morto
Noi che eravamo vivi ora stiamo morendo.

T. S. Eliot, La Terra desolata

Dalla Passione di Gesù

"Giuseppe d’Arimatea... chiese a Pilato di prendere il corpo di Gesù. Pilato lo concesse... Vi andò anche Nicodemo... e portò una mistura di mirra e di aloe di circa cento libbre. Essi presero allora il corpo di Gesù e lo avvolsero in bende insieme con oli aromatici, com’è usanza seppellire per i giudei" (Gv 19,38-40). "Giuseppe, preso il corpo di Gesù, lo avvolse in un candido lenzuolo e lo depose nella sua tomba nuova che si era fatta scavare nella roccia: rotolata poi una gran pietra sulla porta del sepolcro se ne andò... Il giorno dopo, che era Parasceve (venerdì, giorno in cui si facevano i preparativi per il sabato), si riunirono presso Pilato i sommi sacerdoti e i farisei dicendo: "Signore, ci siamo ricordati che quell’impostore disse, mentre era vivo: dopo tre giorni risorgerò. Ordina dunque che sia vigilato il sepolcro fino al terzo giorno, perché non vengano i suoi discepoli, lo rubino e poi dicano al popolo: È risuscitato dai morti. Così quest’ultima impostura sarebbe peggiore della prima! Pilato disse loro: Avete la vostra guardia, andate e assicuratevi come credete. Ed essi andarono e assicurarono il sepolcro, sigillando la pietra e mettendovi la guardia" (Mt 27,59-66).


Meditazione


Immaginiamo per un momento che cosa sia accaduto quel giorno. Un tumulto si impossessa di quel mattino di festa, quel Galileo che parla bene da commuovere, che fa miracoli da far pensare al Messia, ora è trascinato fuori della città come un impostore e un provocatore, lì dove si giustiziano i delinquenti. Una morte atroce e poi un rantolo della terra nel rantolo delle carni, segni sconvolgenti, e poi più nulla, il silenzio, e un corpo deposto in una tomba.
E' qui che oggi desideriamo fermarci, nell'ultimo capitolo della Passione di Gesù. Ci siamo genuflessi all'estremo sospiro di Gesù, abbiamo seguito la traiettoria della lancia vergare il suo fianco, abbiamo desiderato quell'acqua e quel sangue, abbiamo pianto con Maria abbracciando il suo corpo esanime, ed è stata l'ultima emozione.
Ora tutto tace. Gesù è disteso sul marmo gelido del sepolcro, riposa nell'oscurità, non vede nessuno, nessuno lo vede; una pietra lo separa dalla vita, da questa vita nostra, dai sogni e dalle speranze, dai pensieri, dalle famiglie, dal lavoro, anche dai nostri mal di denti. Sino a qualche istante prima si era appassionato per le vicende della nostra storia, e tutti noi, come seguendo il filo di un racconto incalzante, ci eravamo appassionati a Lui, afferrati da quell'amore così sconvolgente; sino a un istante fa ci eravamo sentiti amati, avevamo provato dolore per Lui e per i nostri peccati, la sua lancia aveva dilaniato anche le nostre coscienze; abbiamo pianto, commossi da tanto dolore e tanto male.
E ci eravamo visti, protagonisti negativi, nel fluire esagitato di quegli eventi malvagi, come nella nostra storia di tutti i giorni, disseminata degli stessi frammenti raccolti nelle ore di Passione di Gesù. Abbiamo accettato la nostra dura realtà di peccato, ci è sorto dentro il desiderio d'esser perdonati, una fitta nel petto, la compunzione madre della conversione.
Però ora abbiamo fretta che sia domenica, che sia resurrezione. Gli eroi vincono sempre, anche quando perdono. E vogliamo che sia vittoria, vittoria subito. E scivoliamo, veloci e distratti, sul sabato santo. In fondo sappiamo che dietro l'angolo di quella passione c'è il lieto fine. E' un film che abbiamo visto migliaia di volte, e ogni volta ci ha rapito, scuotendoci il cuore e rigandoci il volto di lacrime e commozione; ma l'aver visto l'epilogo, ci priva di qualcosa, ci protegge dallo scendere davvero in fondo al baratro del non essere.
Sembra paradossale, ma sapere che tanto poi Lui risorgerà ci immunizza dal sabato santo. Conoscere il risultato finale della partita, anche se in bilico sino all'ultimo secondo, ci anestetizza inconsapevolmente, e fa della tomba una sala d'aspetto d'aeroporto, tappa anonima e obbligata di ogni viaggio: sappiamo che cosa abbiamo lasciato, conosciamo la meta, quella sala è nient'altro che un istante da sfogliare riviste o da approfittare per dormire un pochino.
Ma, tra il dolore crocifisso e la gioia risorta, c'è il nulla del sabato santo. E' vero che le chiese in questo giorno sono disadorne; è vero che è l'unico giorno dell'anno in cui non si celebrano messe. E' vero che il tabernacolo è desolatamente vuoto. E se Lui non c'è neanche la chiesa ha senso - dove pregare, a chi pregare se tutto è spoglio e vuoto? - e infatti, al passare rapido delle ore mattutine, preti, sacrestani e fedeli sono di nuovo indaffarati a farla bella e splendente per accogliere il colpo di scena che ci ridia presto quello che abbiamo perso, che ci rassicuri e ci tolga da questo impaccio da sabato santo.
Il nulla ci disturba, è ciò che più ci inquieta; il silenzio vero, l'oscura notte che soffoca lo sguardo ci dilania. Proviamo un istante a chiudere gli occhi, e sprofondare nel silenzio di parole e sentimenti. E' la morte! Tutto il resto della Passione di Gesù ci è familiare, lo catturiamo con i sensi, possiamo gestirlo tra pensieri, sentimenti, risposte; anche il male, in fondo, si muove e ci muove, la Via Crucis è pur sempre un cammino e ci sembra d'essere vivi nonostante tutto, ma alla XIV stazione siamo stanchi di tanto dolore, e, mentre vi giungiamo, abbiamo già in mano le chiavi della macchina per tornare a casa.
Quel corpo esanime, il freddo emaciato di quel volto, e quel buio senz'aria, è la claustrofobia del cuore e dell'anima, ed è insopportabile. Eludere la tomba, sgusciarvi frettolosamente per riemergere quanto prima alla luce di Pasqua sarebbe tradire Cristo, e tradire irrimediabilmente noi stessi.
Questo giorno fatto di sepolcro, questi tre giorni secondo il cuore della fede, sono essenziali, decisivi quanto asfissianti, e non vi resistiamo, l'apnea della tomba ci spacca i polmoni, cerchiamo la luce e l'aria per vedere e respirare: la morte non ci può appartenere, sembra fatta solo per essere sfuggita. Ma la morte esiste. Esiste oggi, perché è il capolinea di ogni cosa, relazione, giornata. Non può essere diversamente, rigettarla significherebbe fare di Cristo e ella sua vicenda una caricatura, peggio, un'impostura.
Nulla è stato creato per la morte, nelle creature non c'è veleno di morte ci insegna la Sapienza della Scrittura; ma a causa di satana il nemico, la morte ha preso il suo posto nel mondo, e ne fanno esperienza coloro che gli appartengono. E non appartengono a lui tante, tantissime cose di noi? Non portiamo le sue tossine sin dal seno materno? Non le porta il mondo a lui sottomesso, e la natura che geme in attesa di liberazione?
Senza ipocrisie e illusioni a buon mercato, la morte è l’amaro in cui è immersa la vita; si muore soli, esattamente come si nasce, quando ti tagliano quel cordone e devi vedertela da te. Non vi sono biberon per dissetare l'anima, non esistono flebo per nutrire lo spirito: la porta della vita è identica a quella della morte, stretta, un abito su misura, e chissà quando il sarto ha preso le tue misure, quelle di oggi, e di ieri e di domani, e nessun altro che te può varcare quella soglia.
Nel Mistero Pasquale non c’è fretta. La morte scende realmente a prendere possesso di Gesù, non si è trattato di una visita lampo, di un raid aereo. No, Gesù è stato tre lunghi giorni in quell'anfratto di solitudine. Tre giorni, spazio ricorrente nella Scrittura, anello misterioso che lega il tempo della sofferenza alla manifestazione prodigiosa di Dio, preludio necessario al suo intervento salvifico. Tre giorni in compagnia della morte. I tre giorni più importanti. Quei miracoli, quelle parole, quelle torture, quella Croce, senza il sepolcro dal quale destarsi vittorioso, non ci avrebbero salvato. Sarebbe stato un amore sino al limite, non un amore sino alla fine.
Invece Gesù, sin dalla nascita è stato come risucchiato da quella fenditura nella Roccia, dal sepolcro di Giuseppe. Lì doveva scendere, lì era la fine del suo amore sino alla fine; quell'ultimo respiro infondeva a tutto il compimento. Un alito debole, impercettibile, e dentro tutta la vita di Dio, come una benedizione che scendeva, si adagiava umile, invisibile: quel “Tutto è compiuto!” apriva il cammino al suo corpo senza vita, pervadeva quella tomba preparandola ad accogliere quella morte unica e santa. Un refolo divino interdetto all'occhio furbo dell'uomo; un mistero di vita che esplode nella morte, nessuna scienza potrà mai spingere quel bottone ad innescarlo. E' sceso lì, in quel sepolcro, il gamete di Dio, come nel seno di una donna, e ogni tomba, da quell'istante, s'è fatta Sposa dell'Altissimo.
Il Figlio di Dio, uguale a Dio, Dio in Persona, doveva donarsi senza riserve a colei che tutti ci imprigiona; doveva passare da lei, la morte, per giungere a noi, suoi schiavi. Doveva immergersi nella nostra realtà perché ci accorgessimo di Lui accorgendoci della morte che portiamo dentro; doveva sposarci in quel sepolcro per riportarci nel Paradiso.
Il sepolcro che oggi contempliamo, riflesso della nostra vita, donata per essere giardino e vissuta come un deserto. Ma è proprio lì, come il chicco caduto in terra di cui nessuno si accorge, che è deposta la vita. La sterilità diviene fecondità, l'impotenza è trasformata in potere senza barriere, la morte si volge in seno benedetto di vita. Il sepolcro nello scrigno della letizia che non ha fine. Quei tre giorni, lunghi, amari, oscuri e dolorosi, quei tre giorni nei quali la vita è sottratta e sembra non esservi più speranza, quei tre giorni sono i più fecondi.
Nessuno sapeva quello che stava accadendo dietro quella pietra, nessuno, forse neanche noi stessi, sa quale mistero inaudito si stia compiendo in noi. Ora, esattamente in questa situazione concreta, che forse durerà ancora molto, il tempo necessario e perfetto, forse sino all'ultimo nostro respiro. Nessuno poteva immaginare che in quel sepolcro nella sperduta terra di Giudea, in un giorno come tutti gli altri, per il contadino egiziano, per la prostituta romana, per il navigatore fenicio di molti secoli prima, per il derelitto che vaga nella metropoli del terzo millennio, per ciascuno di noi, in quel sepolcro si giocava la salvezza, la felicità eterna.
L'evento decisivo della storia si consumava nel chiuso di un sepolcro, lontano anni luce dai riflettori dei media, dalla gloria mondana, come lontano dalla frenesia quotidiana in cui scorre la vita di tutti. Mentre il mondo prima, durante e dopo quei tre giorni di sepolcro, ha continuato a fare le stesse identiche cose, in quella gola di morte, Lui vinceva proprio la morte e ogni peccato. Mentre gli occhi vedevano un sepolcro e una pietra a sigillarlo, Lui ci ridava la vita.
E' questo il cuore di questi giorni, è qui che è seminata la Pasqua. Nel suo sepolcro, che è il nostro. La vita che oggi ci è data, quest'apnea priva d'aria e pace e felicità, questi tre giorni che sembrano non passare mai, sono già la Pasqua, indispensabile passaggio alla pienezza della vita. Santa solitudine, benedetta angoscia, beata sofferenza del tempo fecondo che prepara la vita eterna. Assorbiti oggi nel fallimento di Gesù, uniti alla sua morte, soli con Lui e invisibili per il mondo, si compie in noi pienamente la vita che ci è donata. Non manca nulla alla nostra Pasqua, a quest'oggi che è già Pasqua.
Occorre solo restare, pazienti, nel sepolcro. Abbandonati all'abbandono di Dio, il paradosso che ci ha redenti. Con Cristo consegnare tutto, senza riserve, lasciare che il Padre si prenda tutto, ma proprio tutto, che ci faccia morire su una Croce, che ci deponga in un sepolcro, che ci chiuda nel buio del suo abbandono, della sua assenza, alla solitudine totale. Come ha fatto con suo Figlio. 
E lì, in quel nulla che ti crolla addosso come una pietra, scoprire il volto sconosciuto di Dio, quello sguardo che nessuno ha mai potuto vedere scolpito sul volto di quel suo Figlio crocifisso: lo sguardo di Gesù rivolto al Padre nell'ultimo, decisivo abbandono, consegna ciascuno di noi al perdono che è l'amore più grande, che fa di ogni lontananza la prossimità più intima, come la luce della Pasqua che si fa strada nel duro spessore della roccia.


Sieda costui solitario e resti in silenzio,
poiché egli glielo ha imposto;
cacci nella polvere la bocca,
forse c'è ancora speranza;
porga a chi lo percuote la sua guancia,
si sazi di umiliazioni.
Poiché il Signore non rigetta mai...
Ma, se affligge, avrà anche pietà
secondo la sua grande misericordia.

(Lam. 3,28-32)





APPROFONDIRE


A Elberti. E' la Pasqua del Signore. Venerdì Santo

A.M. Sicari. VIA CRUCIS IN COMPAGNIA DEI SANTI

Meditazione di Chiara Lubich per il Venerdì Santo
Meditazioni di monsignor Ravasi per la “Via Crucis” al Colosseo
H. U. Von Balthasar. Mysterium Paschale. La Consegna
Don Divo Barsotti. Meditazioni per il Venerdì SantoVanhoye. La Croce
Accadde al Getsemani. Fare memoria del suo dolore
V. Messori. In coda lungo le autostrade nel giorno della Via Crucis
Venerdì Santo. Romano Guardini, Il Signore
Lo sconosciuto del Getsemani
LA CROCE E IL CROCIFISSO. Uno studio da meditare
IL GIARDINO DEGLI OLIVI
Mons. Caffarra. LA CROCE E LA VERITA’ SULL’UOMO
Il Mistero nella dipinta croce
P. R. Cantalamessa: OMELIE SULLA PASSIONE DEL SIGNORE
P. R. Cantalamessa. UNO SGUARDO DA STORICI SULLA PASSIONE DI CRISTO
P. R. Cantalamessa. “Giuseppe d''Arimatea” per i crocifissi di oggi
P. Cantalamessa: “Cristo Imparò l’obbedienza dalle cose che patì”
Venerdì Santo. Hamon-Borla, Meditazioni
In Passione Domini. Dal "Libro delle Rivelazioni" di Giuliana di Norwich
Esegesi del Nuovo Testamento: Gv 13-17: i discorsi d''addio
Inos Biffi. Cristo ascende la Croce. Inizia il tempo nuovo. L''inno "All''ora terza" di sant''Ambrogio
S. Fausti. Commento esegetico alla Passione di Matteo
Sabourin. La Passione
M.J. Lagrange. La Passione
LA PASSIONE DI CRISTO di MEL GIBSON. VIDEO E LETTURA TEOLOGICO-SPIRITUALE DEL FILM
La passione di Gesu’ alla luce degli scritti di Santa Veronica Giuliani

La Passione secondo A.K. Emmerick
La Passione secondo Suor Maria d''Agreda. Dalla "Mistica Città di Dio"
Vittorio Messori. La sfida: la cronaca della passione e morte
LETTURE SULLA PASSIONE DI GESU'' CRISTO
Chi è costui? La Passione nella letteratura
Gli ultimi giorni di Gesù
Dalla via dolorosa al Golgota
Così è morto Gesù: check up della Passione
La Passione secondo Matteo di J.S.Bach. Lettura e Mp3
Tallo e l''oscuramento del sole
J. Jeremias. La Passione

La morte di Gesù come espiazione nella concezione paolina. Pino Pulcinelli
J. Ratzinger. Gesù tra la bellezza e il dolore
Giuda Iscariota. Ratzinger - Benedetto XVI, Tradizione, i Padri, esegesi
Santa Caterina da Siena. « Sapendo che era giunta la sua ora... Gesù li amò sino alla fine »

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Per i nostri peccati

(Inos Biffi) Cristo è «il sacrificio propiziatorio per i peccati nostri e di quelli di tutto il mondo»: lo afferma Giovanni nella sua Prima lettera (2, 2). Ma occorre comprendere bene questo sacrificio. Esso non è assolutamente un riscatto che Cristo ha pagato per noi a Satana, il quale in realtà non è detentore di diritto alcuno ed è assolutamente abbattuto.
E neppure una pena imposta da Dio a Gesù, quale nostro rappresentante, perché essa compensi il peccato commesso dall’uomo, e così che ne sia ottenuto il perdono. In realtà, il perdono proviene non da una compensazione ma sempre dalla ricchezza della misericordia divina, o — come afferma l’apostolo Paolo — dall’«eccessiva carità con cui Dio ci ha amato» (Efesini, 2, 4).
Quanto al sacrificio della Croce, esso trova la sua origine nell’amore di Gesù verso il Padre. D’altronde, solo il Figlio di Dio può avere l’adeguata consapevolezza e il giusto giudizio della gravità dell’offesa; solo lui, che ne ha patito in sé tutto il peso e la gravità. Cristo, infatti, ascende al Calvario non per una forza esterna che ve lo costringa. «Io vengo — egli dichiara — per fare la tua volontà» (Ebrei, 10, 7). La motivazione che lo spinge è il desiderio amoroso e il bisogno filiale di riparare tale offesa col dono di sé al Padre: egli si avvia all’immolazione — sono le sue stesse parole — «affinché il mondo sappia che io amo il Padre» (Giovanni, 14, 31).
È noto un colloquio negli Esercizi spirituali di sant’Ignazio, che sono tutti pervasi da un’ispirazione e da un intento mistico: «Immaginandomi di avere davanti Cristo nostro Signore posto in Croce, fare un colloquio domandandogli come mai se Creatore è venuto a farsi uomo, e da eterna vita a morte temporale, e a morire così per i miei peccati. Similmente, rimirando me stesso, chiedere che cosa ho fatto io per Cristo, che cosa faccio per Cristo, che cosa devo fare per Cristo» (n. 43). Si può avere il senso del peccato solo partecipando ai sentimenti di Gesù crocifisso. Il quale non è un uomo puramente inchiodato e oppresso dal dolore, che non è come tale redentivo, ma porta alla disperazione, all’annullamento. Sul Legno noi troviamo, invece, il Figlio di Dio paziente, amante e affidato. Noi siamo redenti dalla sua sofferenza in quanto essa è segno e come corpo dell’amore che nutre per il Padre.
Morendo, Gesù si affida tutto a lui, quasi si perde e si fonde in lui, e per questo egli sente al suo contatto riaccendersi una vita nuova nella risurrezione. E, mentre è tradizione al Padre, il sacrificio di Cristo è tradizione a noi. «Il Figlio di Dio — è detto in Paolo — mi ha amato e ha consegnato se stesso per me» (Galati, 2, 20).
Il Crocifisso è l’antitesi del peccato, a cominciare dal peccato originale. Questo consistette nel sottrarsi a Dio, nell’infastidirsene, nel ribellarsi alla sua signoria, nel rifiuto di amare Dio e di amare il prossimo (ecco l’uccisione di Abele). Gesù in croce rappresenta il «sì» assoluto al Padre celeste: il suo «sì» sofferto fino al sudore di sangue nell’Orto degli ulivi. Il principio del peccato è l’assenza dell’amore — l’inferno e la dannazione è lo stato gelido di quanti non sanno e non sapranno più amare —; la fonte della redenzione è la presenza e l’opera dell’amore e del suo ardore. Per questo il paradiso è la gloriosa comunione dei santi.



La Croce, un amore che si perpetua nel tempo

di Gloria Riva

Croce di Sestino

Lo conoscono in pochi questo paesino sperduto tra gli Appeninni, proprio sotto il Sasso Simone e Simoncello, dove la parte marchigiana del Montefeltro, confina con la Toscana. Si chiama Sestino ed era la sesta provincia romana, la più vicina al Mare Adriatico. Qui, oltre a un museo che raccoglie i resti dell'antica provincia romana, si possono ammirare due crocefissi di scuola (giottesca) riminese.

Entri nella pieve di san Pancrazio e non puoi fare a meno di sollevare lo sguardo. Nel catino absidale pende una croce dipinta bellissima e maestosa, carica di simbologia. Forse unica nel suo genere.
Il Cristo maestoso e bianchissimo adagia le braccia sulla croce come per raggiungere i confini della terra. Le trafitture dei chiodi gettano rigoli di sangue e i piedi sono inchiodati insieme e non separatamente, com'era d'uso nei crocefissi fino all'XI secolo. Questo è già il Christus Patiens col volto dolente e gli occhi chiusi. Dal suo fianco ferito zampillano sette rigagnoli di sangue che cadono idealmente sopra l'altare sottostante. Gli altri due rigagnoli di sangue corrono lungo il corpo del Salvatore. Questa ferita è la sorgente dei sette sacramenti e del comandamento nuovo dato da Gesù ai suoi (l'amore a Dio e l'amore al prossimo). Da qui nasce la nuova Eva, la Chiesa, simboleggiata dalla Madonna e da San Giovanni che si trovano nei terminali del braccio orizzontale della croce. Ma quello che più sorprende è il simbolo del pellicano che campeggia proprio sopra il capo di Cristo, tra la scritta INRI e la cimasa.
Il pellicano, che secondo la tradizione si ferisce il petto per nutrire con la sua carne i piccoli, è immagine di Cristo, Pie pellicáne, Jesu Dómine lo definisce, infatti San Tommaso nell'Adoro te devote. Il pellicano è, dunque, un potente richiamo simbolico al Giovedì Santo, al momento in cui Cristo istituisce la nuova Pasqua nel suo sangue. Il pane e il vino distribuiti nell'ultima cena ai suoi, segno del suo Corpo dato e del suo Sangue versato, rivelano tutta la pregnanza di significato nell'ora della croce. Sulla croce, davvero Cristo è il pio pellicano che dà se stesso in cibo.
Croce Sestino, particolare: Il Pantocratore
Lo scomparto collocato nella parte più alta del braccio verticale, la cimasa, presenta il Cristo Pantocratore, Signore di tutte le cose; il Giudice, colui che verrà a giudicare i vivi e i morti per mezzo della sua Parola potente, una spada a doppio taglio che penetra fino alle midolla rivelando all'uomo la verità. L'immagine è classica: Cristo ci guarda fisso, con il libro in mano e lo sguardo benedicente, veste di rosso e di blu, colori che rimandano alle sue due nature: quella umana e quella divina. Nella mano sinistra tiene stretto il libro della Parola e porta il pettorale del sommo sacerdote: è il Cristo, giudice, re e sacerdote, rientrato in quella gloria che già possedeva prima che il mondo fosse.
Al fedele che si accosta all'altare o che partecipa alla liturgia della Messa nella pieve di san Pancrazio, la croce racconta sinteticamente i giorni più importanti dell'anno liturgico: il triduo pasquale. Sono i giorni fondanti la nostra fede e narrano il kèrigma: «Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture, fu sepolto ed è risuscitato il terzo giorno secondo le Scritture, e che apparve a Cefa e quindi ai Dodici» (1Cor, 15, 3-5). Non a caso sotto il pellicano ci sono quattro piccoli, simbolo di quegli evangelisti che in tutto il mondo hanno diffuso la volontà del loro Signore: compiere ovunque quel gesto in memoria di Lui.
Sì, Cristo ha patito per noi e si è liberamente consegnato alla morte per la nostra salvezza. E che quest'uomo crocefisso si sia liberamente dato, si evince dalla maestà del suo morire e dal simbolo del pellicano che, appunto, liberamente dà la sua carne. E ciò avviene non principalmente per una espiazione, ma per la vita dei suoi piccoli.
Allo stesso modo, che il Pantocratore della cimasa non sia un giudice implacabile che incute timore, ma un Dio misericordioso e fedele, lo dice ancora il pellicano e l'offerta sacrificale sulla croce: il Signore Gesù giudicherà il mondo a partire dalla misura di questo amore.
Così le croci dipinte, pur nell'abbondanza dei rigoli di sangue e nell'evidenza del pallore mortale, non vogliono rappresentare un dolore, ma vogliono rivelare un amore la cui grazia santificante si perpetua nel tempo grazie alla liturgia della Chiesa. Tanto nella Pasqua di ogni anno che nella pasqua settimanale.

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