Santa Maria,

Santa Maria,
...donna del primo sguardo, donaci la grazia dello stupore.

martedì 30 gennaio 2018

L'equilibrio tra relazioni e solitudine

VIDEOCONFERENZE sul VANGELO DOMENICALE

 videoconferenze, diretta streaming, vangelo, domenicale, Luca Buccheri, Parrocchia dell'Invisibile
MARTEDÌ 30 GENNAIO VIDEOCONFERENZA alle ORE 21 in STREAMING sul tema "L'equilibrio tra relazioni e solitudine
(Mc 1,29-39).


 Gesù ama stare tra la gente e servirla come ritirarsi nel deserto per nutrire la propria interiorità. E ci indica uno stile di vita equilibrato, oltre i nostri sbilanciamenti. A cura della Parrocchia dell'Invisibile.

La solitudine di chi protegge il mondo 

Il brano e video musicale consigliato è il brevissimo "La solitudine di chi protegge il mondo" del gruppo "Le Orme". A cura di Sauro Secci.  

Con la luce dell'aurora Cristiano Sementa



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>>> biografia-del-silenzio

www.terradelsanto.it/it/videoconferenze-sul-vangelo-domenicale

sabato 27 gennaio 2018

RICORDARE NEL TEMPO DELLA DIMENTICANZA / ETTY HILLESUM. EPPURE, LA VITA

RICORDARE NEL TEMPO DELLA DIMENTICANZA

UOMINI E PROFETI

Le “giornate della memoria” stanno acquistando, in questi anni, una nuova e maggiore problematicità. Se da un lato il tema della Shoà non smette di turbarci nel profondo, nello stesso tempo ci accorgiamo, affacciati sulla vastità del mondo, che di infiniti altri stermini nulla o poco sappiamo, mentre continuano a creare rigurgiti di odio e ritorsioni che sembrano non finire mai.Anna Pozzi ricorda con Guido Dotti, monaco di Bose, i genocidi di Armenia, Cambogia, Algeria, Burundi, Ruanda, ma si sofferma in particolare sul genocidio del Ruanda del 1994 conJean Pierre Kagabo, presidente della commissione “Memoria e giustizia” in Italia; e con John Mpaliza, congolese trapiantato in Italia, che ha marciato verso Roma e verso Bruxelles per tener viva l’attenzione sulla situazione della Repubblica Democratica del Congo. Quali vie sono possibili per fr sì che la memoria possa avere una efficacia nella vita dei popoli? Le risposte possono essere molte. 

ETTY HILLESUM. EPPURE, LA VITA

Con Gabriella Caramore e Lorenzo Pavolini, Nadia Neri, Luciana Breggia, Simon Levis Sullam, Klaas Smelik
“Se non sapremo offrire al mondo impoverito del dopoguerra nient’altro che i nostri corpi salvati a ogni costo, e non un nuovo senso delle cose, attinto dai pozzi più profondi della nostra miseria e disperazione, allora non basterà. Dai campi stessi dovranno irraggiarsi nuovi pensieri …” Questo è un frammento di una delle Lettere che Etty Hillesum scriveva ai suoi amici dal campo di smistamento di Westerbork, nel 1942. È una questione che ci accompagna ancora, ogni volta che si ripropone il tema di come “fare memoria” dopo la Shoà e le innumerevoli Shoà della storia. In questo speciale proveremo a seguire gli interrogativi che sgorgano dalla lettura di queste lettere, tentando anche di ricostruire la breve vita di Etty Hillesum, la ragazza olandese che morì deportata ad Auschwitz con la famiglia all’età di ventinove anni, e che ci ha lasciato testimonianza di una vita intensissima vita spirituale e affettiva.
Questa puntata di Uomini e Profeti inaugura la lettura che verrà fatta del Diario di Hillesum in Ad alta voce nel mese di gennaio.
Interventi in studio di Lorenzo Pavolini, Nadia Neri, Luciana Breggia, Simon Levis Sullam, Klaas Smelik.
Vedi anche il ciclo di “Uomini e Profeti”:
“Un ardore elementare. Etty Hillesum, tra le baracche e il fango, 1941-43”
di Gabriella Caramore
15, 22, 29 giugno 1996
Musica:
Ludvig van Beethoven, Quartetto op.59 n.1
Franz Schubert, Quintetto d’archi  in Do maggiore op. 163
Hugo Wolf, Quartetto d’archi in re minore

Meditando ...Niente di nuovo sotto il sole


Niente di nuovo sotto il sole

di Gianfranco Ravasi 
È certamente la proposta di lettura biblica più ampia tra quelle finora suggerite in questa rubrica.
La stiamo dedicando già dalla scorsa settimana a Qohelet - Ecclesiaste, il sapiente dell’Antico Testamento che fa balenare idealmente davanti ai nostri occhi sette malattie dello spirito che sono ancor oggi attuali.
La prima riguarda il linguaggio: «Tutte le parole sono logore e l’uomo non può più usarle» (1,8). L’idea è straordinariamente moderna, se pensiamo all’attuale crisi del linguaggio, alle parole “malate”, a quelle “nere”, cioè prive di senso e abusate, alle ragnatele della chiacchiera e dei luoghi comuni. In ebraico, però, considerata l’efficacia del termine, debarim, “parole”, significa anche “fatti”: le cose sono stanche, si disfanno, «tutto nella vita diventa logoro: parole e situazioni.
Tutte le parole sono già state dette» - così il romanziere ebreo austriaco Joseph Roth nel Mercante dei coralli. E la parola stampata corre lo stesso rischio: «Si fanno libri e libri senza fine» (12,12). Lo scrittore ebreo di lingua tedesca Elias Canetti nel suo romanzo "Auto da fé" introduce Qohelet: «Una voce annuncia - questa voce sa tutto ed è la voce di Dio -: Qui non ci sono libri. Tutto è vanità». Persino il linguaggio visivo e musicale si stempera: «Mai l’occhio è sazio di vedere, mai l’orecchio è sazio di sentire. Eppure quel che è stato sarà, quel che si è fatto si rifarà: assolutamente niente di nuovo sotto il sole!» (1,8-9).
La seconda malattia è quella del fare o, come ama dire Qohelet, dell’amai, del “faticare”, per cui il lavoro è labor, cioè “fatica”, alienazione, travaglio (il travail francese!). Siamo ben lontani dall’entusiasmo mostrato dalla sapienza biblica tradizionale nel descrivere le capacità eccezionali dell’uomo lavoratore. La domanda d’avvio del libro è lapidaria: «Quale valore ha tutta la fatica che affatica l’uomo sotto il sole?» (1,3). Sembra di sentire il Petrarca del Trionfo della morte: «O ciechi, e il tanto affaticar che giova?». Di nuovo in 2,18: «Io ho in odio ogni fatica di cui io ho faticato sotto il sole», parole messe in bocca a Salomone! E poche righe dopo: «Io ho il cuore invaso dalla disperazione per tutta la fatica con cui ho faticato sotto il sole» (2,20), fatica destinata a dissolversi nello spreco degli eredi. E ancor più forte la domanda diviene in 5,15: «Che valore ha faticare per il vento?». A confessarlo è Salomone, delle cui spoglie si ammanta Qohelet, che aveva fatto «opere magnifiche, si era eretto palazzi, si era piantato vigne, preparato giardini e parchi, piantandovi alberi dai mille frutti, si era scavato canali d’acqua per irrigare quelle piantagioni lussureggianti, si era allevato mandrie di buoi e di pecore più numerose di tutte quelle dei suoi predecessori in Gerusalemme, aveva accumulato anche argento e oro, tesori di regni e di province» (2,4-8).
Terza malattia: la crisi dell’intelligenza. Qohelet è un sapiente, uno scriba, un intellettuale, come dice anche l’epigrafe finale (12,9-10), disprezza la stupidità; per ben ottantacinque volte introduce le sue riflessioni in prima persona, consapevole di una sua originalità di pensiero. Eppure il risultato finale del conoscere è amaro: «La mia mente è penetrata profondamente nella sapienza e nella scienza. Sì, la mia mente è penetrata nella sapienza e nella scienza, nella follia e nella stupidità e ho capito che anche questo è fame di vento. Infatti, grande sapienza è grande tormento; chi più sa più soffre»(1,16-18).


Tratto da Famiglia Cristiana

Il vaccino efficace
che ci libera dalle parole logore

 In ebraico dabar non è solo "parola", ma anche "atto":

>>> "Tutte le parole sono logore e l'uomo non può più usarle"

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il Mare e la Bibbia, di G. Ravasi
Più di 1500 versetti dell'Antico Testamento sono "bagnati" dalle acque e per 397 volte è jam, il "mare", a dilagare. Tuttavia sbaglierebbe chi volesse mettersi davanti alle pagine sacre marine con quell'atteggiamento di serena contemplazione, di requie, di pace che forse alcuni nostri lettori stanno sperimentando lungo una spiaggia mentre scorrono queste righe.il Mare e la Bibbia (in www.vatican.va)più di 1500 versetti dell'Antico Testamento sono "bagnati" dalle acque e per 397 volte è jam, il "mare", a dilagare. Tuttavia sbaglierebbe chi volesse mettersi davanti alle pagine sacre marine con quell'atteggiamento di serena contemplazione, di requie, di pace che forse alcuni nostri lettori stanno sperimentando lungo una spiaggia mentre scorrono queste righe. È questo un equivoco in cui sono caduti molti esegeti che hanno ricondotto il tema del mare al bacino semantico più vasto delle "acque", in ebraico majim (582 volte nell'Antico Testamento). Emblematico è, ad esempio, lo sterminato Grande Lessico del Nuovo Testamento che nella sua quindicina di volumi non trova spazio per la voce thálassa, "mare", e si accontenta di hydor, "acqua". Al massimo ci s'interessa del mar Rosso o mar delle Canne, del mar Morto, del mare di Galilea (il lago di Tiberiade), del "Mare" per eccellenza che è il Mediterraneo (nella Bibbia la locuzione "verso il mare" sta per "occidente"), del "mare di bronzo", il grande bacino di acqua lustrale del tempio di Salomone (80.000 litri di capacità). E se è robusta la bibliografia sull'acqua biblica, segno vitale e catartico, per il mare dobbiamo in pratica ancor oggi far riferimento solo al saggio di Otto Kaiser, intitolato Die mythische Bedeutung des Meeres in Ägypten, Ugarit und Israel, pubblicato a Berlino nel 1959 e riedito nel 1962. Sì perché il mare per l'antico Vicino Oriente è stato prima di tutto e sopra tutto un grandioso simbolo negativo, una categoria espressa con un vocabolo che a Ugarit, celebre città cananea della Siria, era il nome stesso di una divinità, Jamn appunto, che attentava allo splendore del cosmo e duellava col dio della creazione Baal. In questa linea si collocano i sinonimi come tehom, l'abisso acquatico primordiale da cui era sbocciata la terra, o le "molte acque", majim rabbim che trascinavano con sé diluvio e morte. Difficile è, perciò, per l'uomo biblico sostare davanti al mare su un litorale e cantare, come fa Luzi, "il mare fermo sotto il volo dei gabbiani sfrangiato appena tra gli scogli dell'isola, dove una terra nuda si fa ombra con le sue gobbe". Un'eccezione c'è ed è nello stupendo "cantico delle creature" del Salmo 104, da alcuni raccordato all'Inno ad Aton del faraone "monoteista" solare Akhnaton. In un bozzetto di straordinaria intensità pittorica anche i famosi mostri marini come Leviatan (o Rahab o Behemot o Tannin), simboli del caos e del nulla, partecipano a una festa di vita e di pace: "Ecco il mare ampio e spazioso, là brulicano innumerevoli animali piccoli e grandi; là passano le navi e il Leviatan che hai plasmato per tuo divertimento" (versetti 25-26). In questo spirito nel corale cosmico del Salmo 148, intonato da 22 creature tante quante sono le lettere dell'alfabeto ebraico anche il mare è invitato a intonare il suo halleluia: "Lodate il Signore mostri marini e voi tutti abissi!" (versetto 7).Ma questa è una piacevole eccezione. Nella Bibbia il mare incombe arcigno, come nel tempestoso canto V dell'Odissea, allorché "si sciolsero a Odisseo le ginocchia e il cuore" o come nella turbinosa scena del I canto dell'Eneide (versi 81-123) o come in tanti altri passi "procellosi" della letteratura classica. Tutto era cominciato con la creazione allorché "Dio Disse: Le acque che sono sotto il cielo si raccolgono in un solo luogo e appaia l'asciutto. E così avvenne. Dio chiamò l'asciutto terra e la massa delle acque mare" (Genesi 1,9-10). La bellezza del mondo ("Dio vide che era cosa buona e bella") riposa su questo equilibrio instabile, frutto dell'atto creativo, tra la terraferma e il mare che è visto come un'esplosione in superficie del grande abisso sotterraneo, il tehom appunto (la divinità Tiamat negativa mesopotamica), che è il sottofondo "infernale" della mappa cosmologica biblica. Il Creatore ha steso una frontiera tra i due esseri in tensione, mare e terra: è la battigia del litorale. Lo dice in modo superbo Dio stesso nel libro di Giobbe, comparando il mare a un bimbo turbolento stretto nelle fasce delle nubi e a un prigioniero inchiavardato in un carcere di massima sicurezza: "Chi serrò tra due battenti il mare quando erompeva a fiotti dal suo grembo materno, quando gli davo per manto le nubi e per fasce la foschia, quando spezzavo il suo slancio imponendogli confini, spranghe e battenti, e gli dicevo: Fin qui tu verrai e non oltre, qui si abbasserà l'arroganza delle tue onde?" (38,8-11). Un'idea, questa, ripetuta nel canto autocelebrativo che la Sapienza divina creatrice proclama nel capitolo 8 del libro dei Proverbi: "Quando stabiliva al mare i suoi confini sicché le sue acque non oltrepassassero la spiaggia io ero con lui (il Creatore)", (versetti 29-30). Dante nel Convivio parafraserà il testo: "Quando (Dio) circuiva lo suo termine al mare e poneva legge a l'acque che non passassero li suoi confini con lui io era" (III, 15,16). Stare, perciò, sul bagnasciuga vuol dire per l'antico ebreo vivere un'esperienza simile a quella di chi s'affaccia su un cratere vulcanico, colto quasi da vertigine. Esperienza ben diversa da chi ora sta ammirando il giuoco delle onde, come aveva fatto Montale in un suo bel distico: "Una carezza disfiora la linea del mare e la scompiglia". Il diluvio nel libro della Genesi è, allora, visto come lo scardinamento di quell'equilibrio cosmico perché alle acque celesti si incrociano quelle del mare, lasciato libero da Dio di impazzare sulla terra: "e ruppero tutte le sorgenti del grande abisso e le cateratte del cielo si aprirono" (7,11). È per questo che il mare viene iscritto nella panoplia con cui il Dio giudice condanna l'umanità peccatrice: "È lui che comanda alle acque del mare, dichiara il profeta Amos (5,8) e le spande sulla terra". Gli fa eco Geremia: "Il Signore degli eserciti solleva il mare e ne fa mugghiare le onde" (31,35). In versetti e versetti della Bibbia la potenza divina si dispiega in tutta la sua infinità proprio dominando il mare e tenendo saldo l'organico della creazione, con la terra come una piattaforma sospesa su colonne sopra l'abisso caotico marino. È per questo che nell'esodo d'Israele dall'Egitto Dio prima impone al mare di bloccarsi come muraglia, obbedendo al suo potente imperativo (Esodo 14,22), e poi scatenandolo come arma del suo giudizio sugli oppressori egiziani: "Al soffio della tua ira si accumularono le acque, si alzarono le onde come un argine, si rappresero gli abissi in fondo al mare. Soffiasti col tuo alito: il mare li coprì, sprofondarono come piombo in acque profonde" (Esodo 15,8.10). Suggestiva è la rielaborazione poetica dell'evento offerta dal Salmo 114: "Il mare vide e si ritrasse indietro.. Che hai tu, mare, per fuggire?" (versetti 3,5). Esemplare è, al riguardo, la scena evangelica della tempesta sedata ove Cristo, identificato ormai col Signore Creatore, attacca il mare come se fosse un essere diabolico, riprendendo una classica concezione mitica, e lo sottopone a un esorcismo: "Sgridò il vento e disse al mare: Taci, calmati! Furono presi da grande timore e si dicevano l'un l'altro: Chi è costui al quale anche il vento e il mare obbediscono?" (Marco 4,39. 41). Se noi, dunque, ci tuffiamo in mare come in una specie di grembo sereno, l'uomo biblico vi penetra con terrore sentendolo quasi come il sudario della morte. Dio solo può strapparlo da quelle fauci, come canta Davide nel Salmo 18: "Stese la mano dall'alto, mi afferrò, mi sollevò dalle grandi acque mi portò al largo, mi liberò perché mi vuol bene" (versetti 17 e 20). Dio solo può "con una minaccia prosciugare il mare: i suoi pesci, per mancanza d'acqua, restano all'asciutto, muoiono di sete" (Isaia 50,2). A questa ripulsa nei confronti del mare contribuì, certo, anche la configurazione della costa palestinese piuttosto rettilinea: solo Salomone organizzò una flotta di bandiera, usando tecnici fenici, la cui competenza era celebre in tutto il Mediterraneo.Israele fu, infatti, un popolo di santi, di eroi, di poeti ma non di navigatori. Se ne ricordano di famosi solo tre e tutti sfortunati. C'è innanzitutto Giona il profeta renitente alla sua missione, che si imbarca su una nave fenicia diretta a Tarshish (forse Gibilterra o la Sardegna) per sfuggire all'ordine divino che lo invia all'antipodo, cioè a Ninive, e che incappa in un terribile fortunale.Il delizioso racconto, una specie di favola morale di taglio universalistico comprende, come è noto, anche il ricorso ai mostri oceanici mitici, l'enorme pesce che inghiotte il misero per tre notti e tre giorni. Dal ventre del mostro Giona riesce anche a cantare un salmo "marino": "Mi hai gettato nell'abisso, nel cuore del mare, tutti flutti e le onde sono passate sopra di me. Le acque mi hanno sommerso fino alla gola, l'abisso mi ha avvolto, l'alga si è avvinta al mio capo" (2,4.6.).Sarà l'Onnipotente a comandare al cetaceo di vomitare Giona su una spiaggia. Su una spiaggia, quella di Malta, andrà ad approdare coi suoi compagni di avventura anche Paolo, al termine di un uragano scatenatosi sul Mediterraneo mentre veniva trasferito a Roma per il processo d'appello. Chi ama racconti di mare alla Conrad dovrebbe leggere il capitolo 27 degli Atti degli Apostoli con la sua pittoresca descrizione della vicenda vissuta da Paolo su una nave oneraria romana. Lo stesso Apostolo confesserà di "aver fatto naufragio tre volte e di aver trascorso un giorno e una notte in balia delle onde" (2 Corinzi 11,25). Ma è con un terzo navigatore, questa volta anonimo, che vogliamo concludere il nostro breve viaggio sui flutti marini della Bibbia. Nel Salmo 107 entrano in scena quattro personaggi che nel tempio di Gerusalemme stanno sciogliendo i loro voti. C'è un carovaniere che aveva smarrito la pista nel deserto e l'aveva ritrovata, c'è un carcerato liberato, c'è un malato grave guarito. Alla fine si alza a pronunciare il suo ex-voto un marinaio e il suo è il racconto più emozionante. Il Siracide, sapiente biblico del II secolo a.C., riconosceva che "i naviganti parlano dei pericoli del mare e a sentirli coi nostri orecchi restiamo stupiti" (43,24).Ascoltiamo anche noi il marinaio devoto. "Coloro che solcavano il mare sulle navi facendo commerci sulle acque immense, videro le opere del Signore e i suoi prodigi nelle profondità marine. Egli parlò e fece levare un vento tempestoso che sollevò le onde. Salivano al cielo, scendevano negli abissi, il respiro veniva meno per il pericolo. Ballavano e barcollavano come ubriachi, tutta la loro perizia era svanita. Nell'angoscia gridarono al Signore ed egli li estrasse da quell'angustia. Ridusse la tempesta alla calma, s'acquetarono le onde del mare. Giorino per la bonaccia ed egli li guidò al porto sospirato" (versetti 23-30). Théophile Briant nella sua antologia Les plus beaux textes sur la Mer, pubblicato a Parigi nel 1951, ha inserito questa strofa accanto ai classici delle tempeste marine, dai citati Omero e Virgilio, ad Alceo e Ovidio. Potremmo pensare anche all'Ulisse dantesco: "Un turbo nacque, e percosse del legno il primo canto. Tre volte il fe' girar con tutte l'acque; a la quarta levar la poppa in suso e la prora ire in giù, com'Altrui piacque, infin che 'l mar fu sopra noi rinchiuso" (Inferno XXVI, 137-142). Ma per la Bibbia, come si è ripetuto, non c'è solo il terrore primordiale dell'uomo di fronte alle energie scatenate della natura.Non c'è solo l'esperienza fisica dello stordimento e del mal di mare, usata tra l'altro dal libro di Proverbi per dipingere ironicamente l'ondeggiare dell'ubriaco: "Sarai come chi giace in mezzo al mare, come chi siede sull'albero maestro" (23,24). C'è, invece, l'emozione tutta metafisica dell'incontro col nulla; c'è la sensazione raggelante dell'abbraccio con gli inferi e con la morte.È per questo che nella nuova e perfetta creazione escatologica il mare scomparirà: "Vidi un nuovo cielo e una nuova terra, annota Giovanni nell'Apocalisse perché il cielo e la terra di prima erano scomparsi e il mare non c'era più". (21,1)
[cardinale, Prefetto Biblioteca Ambrosiana, Milano Il mare e la Bibbia
http://www.cercasiunfine.it/meditando/scelti-da-noi/sul-tema-mare-n.-71-di-cercasi-un-fine
Vedi anche
Diventare uomini diventare cristiani
Sorella Alessandra Buccolieri
http://irc2.vicenza.chiesacattolica.it/documenti/didattica/documentiamoci/Relazione%20sr.%20Buccolieri.pdf


Corpo celeste film 2011
https://m.youtube.com/watch?v=Uf7JUVFojx8

Si diventa cristiani per essere uomini!
http://www.theologhia.com/2016/09/si-diventa-cristiani-per-essere.html?m=1

venerdì 26 gennaio 2018

#LEGGEREZZA

Leggerezza

Tv 2000 continua a camminare lungo la nostra via della Resurrezione. L'appuntamento mensile con il percorso proposta dalla Fraternità è giunto a scandire la quarta tappa, quella dedicata alla parola "Leggerezza". Dopo "Umiltà", "Fiducia", "Libertà", Gabriella Facondo, conduttrice della trasmissione pomeridiana "Siamo noi" ha intervistato il nostro don Luigi Verdi sui contenuti di questa parola e sul suo valore nel personale cammino di rinascita. Nel corso della trasmissione è stata presentata anche la pubblicazione delle Edizioni Romena sul tema leggerezza: una conversazione con Arturo Paoli, il grande

missionario, scomparso a 102 anni di età.

Fraternità di Romena


giovedì 25 gennaio 2018

Esodo ed esodi / racconti patriarcali

AlzogliOcchiversoilCielo:

Lidia Maggi Esodo ed esodi Genova 20 gennaio 2018





martedì 23 gennaio 2018

Incontro con il lebbroso...

Incontro con il lebbroso – Tommaso da Celano


Da : leggoerifletto.blogspot.it

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17. "Poi, come vero amante della umiltà perfetta, il Santo si reca tra i lebbrosi e vive con essi, per servirli in ogni necessità per amor di Dio. Lava i loro corpi in decomposizione e ne cura le piaghe virulente, come egli stesso dice nel suo Testamento: 'Quando era ancora nei peccati, mi pareva troppo amaro vedere i lebbrosi, e il Signore mi condusse tra loro e con essi usai misericordia'. La vista dei lebbrosi infatti, come egli attesta, gli era prima così insopportabile, che non appena scorgeva a due miglia di distanza i loro ricoveri, si turava il naso con le mani. Ma ecco quanto avvenne: nel tempo in cui aveva già cominciato, per grazia e virtù dell'Altissimo, ad avere pensieri santi e salutari, mentre viveva ancora nel mondo, un giorno gli si parò innanzi un lebbroso: fece violenza a se stesso, gli si avvicinò e lo baciò. Da quel momento decise di disprezzarsi sempre più, finché per la misericordia del Redentore ottenne piena vittoria.
Quand'era ancora nel mondo e viveva vita mondana, egli si occupava dei poveri, li soccorreva generosamente nella loro indigenza e aveva affetto di compassione per tutti gli afflitti. Una volta, che aveva respinto malamente, contro la sua abitudine, poiché era molto cortese, un povero che gli aveva chiesto l'elemosina, pentitosi subito, ritenne vergognosa villania non esaudire le preghiere fatte in nome di un Re così grande. Prese allora la risoluzione di non negar mai ad alcuno, per quanto era in suo potere, qualunque cosa gli fosse domandata in nome di Dio. E fu fedele a questo proposito, fino a donare tutto se stesso, mettendo in pratica anche prima di predicarlo il consiglio evangelico: Dà a chi ti domanda qualcosa e non voltar le spalle a chi ti chiede un prestito (Mt 5,42)."
- Tommaso da Celano -
Fonte: Tommaso da Celano, Vita prima di San Francesco d'Assisi, nn. 348-349
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4 ottobre, ed il serafico padre migra da questa vita a Dio.


Si fa deporre "nudo a terra" e "sembrava l'immagine del crocifisso".
Passa con facilità da questo mondo al Padre, com'è invece difficile attraversare "sorella nostra morte corporale" se non si è trovati nudi delle cose di questo mondo. "Guai a quelli ke morrano ne le peccata mortali" ed invece felici "quilli ke trovarà ne li toi santissime volontade ke lla morte seconda no li farà male".
A lui non ha fatto male, anzi.



sabato 20 gennaio 2018

Lettera ai cercatori di Dio LE DOMANDE CHE CI UNISCONO II - LA SPERANZA CHE È IN NOI III - COME INCONTRARE IL DIO DI GESÙ CRISTO 1. FELICITÀ E SOFFERENZA

Conferenza Episcopale Italiana 
Lettera ai cercatori di Dio  
audio>>>Presentazione
I - LE DOMANDE CHE CI UNISCONOII - LA SPERANZA CHE È IN NOIIII - COME INCONTRARE IL DIO DI GESÙ CRISTO
1. FELICITÀ E SOFFERENZA6. GESÙ11. LA PREGHIERA
2. AMORE E FALLIMENTI7. IL CRISTO12. L’ASCOLTO DELLA PAROLA DI DIO
3. LAVORO E FESTA8. DIO PADRE, FIGLIO E SPIRITO13. I SACRAMENTI, LUOGO DELL’INCONTRO CON CRISTO
4. GIUSTIZIA E PACE9. LA CHIESA DI DIO14. IL SERVIZIO
5. LA SFIDA DI DIO10. LA VITA SECONDO LO SPIRITO15. LA VITA ETERNA
Questa “Lettera ai cercatori di Dio” è stata preparata per iniziativa della Commissione Episcopale per la dottrina della fede, l’annuncio e la catechesi della Conferenza Episcopale Italiana, come sussidio offerto a chiunque voglia farne oggetto di lettura personale, oltre che come punto di partenza per dialoghi destinati al primo annuncio della fede in Gesù Cristo, all’interno di un itinerario che possa introdurre all’esperienza della vita cristiana nella Chiesa. Il Consiglio Episcopale Permanente ne ha approvato la pubblicazione nella sessione del 22-25 settembre 2008.  Frutto di un lavoro collegiale che ha coinvolto vescovi, teologi, pastoralisti, catecheti ed esperti nella comunicazione, la Lettera si rivolge ai “cercatori di Dio”, a tutti coloro, cioè, che sono alla ricerca del volto del Dio vivente. Lo sono i credenti, che crescono nella conoscenza della fede proprio a partire da domande sempre nuove, e quanti - pur non credendo - avvertono la profondità degli interrogativi su Dio e sulle cose ultime. La Lettera vorrebbe suscitare attenzione e interesse anche in chi non si sente in ricerca, nel pieno rispetto della coscienza di ciascuno, con amicizia e simpatia verso tutti.           Il testo parte da alcune domande che ci sembrano diffuse nel vissuto di molti, per poi proporre l’annuncio cristiano e rispondere alla richiesta: dove e come incontrare il Dio di Gesù Cristo? Ovviamente, la Lettera non intende dire tutto: essa vuole piuttosto suggerire, evocare, attrarre a un successivo approfondimento, per il quale si rimanda a strumenti più adatti e completi, fra cui spiccano il Catechismo della Chiesa Cattolica e i Catechismi della Conferenza Episcopale Italiana.       
La Commissione Episcopale si augura che la Lettera possa raggiungere tanti e suscitare reazioni, risposte, nuove domande, che aiutino ciascuno a interrogarsi sul Dio di Gesù Cristo e a lasciarsi interrogare da Lui. Affida perciò al Signore queste pagine e chi le leggerà, perché sia Lui a farne strumento della Sua grazia.X Bruno Forte Arcivescovo di Chieti-Vasto Presidente della Commissione Episcopale per la dottrina della fede, l’annuncio e la catechesiRoma, 12 aprile 2009, Pasqua di Risurrezione 
(Audio)  Premessa 
Come credenti in Gesù Cristo, animati dal desiderio di far conoscere colui che ha dato senso e speranza alla nostra vita, ci rivolgiamo con rispetto e amicizia a tutti i cercatori di Dio. Li riconosciamo in tanti uomini e donne del nostro tempo, guardando alla situazione di inquietudine diffusa, che non ci sembra possibile ignorare. È un’inquietudine che abbiamo riconosciuta anche in noi stessi e che si esprime nella domanda, presente nel cuore di molti: Dio, chi sei per me? E io chi sono per te?  Ci rendiamo conto che, abitualmente, questa domanda viene espressa con parole molto diverse da quelle appena accennate. Sappiamo anche che a volte è soffocata, disturbata, fraintesa o sembra lanciata inutilmente, verso orizzonti indecifrabili. Abbiamo però l’impressione che l’interrogativo sul mistero ultimo che tutti ci avvolge, e di conseguenza sul senso della nostra esistenza, sia veramente diffuso. Ci preoccupa anzi il dover constatare che a volte e per ragioni diverse esso venga spento sul nascere o corra il rischio di insabbiarsi. È questo che ci ha sollecitati a scrivere una “lettera” a coloro che cercano e spesso faticano a trovare una risposta alle domande più profonde del loro cuore e anche a coloro che non cercano più, rassegnati o delusi. Vorremmo fosse un dialogo tra amici, lo spunto per trovarsi a riflettere insieme con verità e trasparenza. Una “lettera” che è piuttosto un insieme di lettere, un po’ come lo sono alcune dell’apostolo Paolo, per usare un esempio familiare a chi conosce le Sacre Scritture.  Chiediamo a chi leggerà queste pagine di interpretarle come un gesto di amicizia. Le abbiamo intitolate “Lettera ai cercatori di Dio”, perché riteniamo che chi cerca ragioni per vivere, in qualche modo e nel profondo della sua attesa cerchi Dio: vogliamo proporre una strada per incontrare Gesù, il Cristo, il Figlio del Dio vivente venuto fra noi, colui che sovverte i nostri schemi e le nostre attese, ma è anche il solo che riteniamo possa darci l’acqua che disseta per la vita eterna.  
 Si tratta dunque:  - di un invito a riflettere insieme sulle domande che ci uniscono (parte I); - di una testimonianza, tesa a rendere ragione della speranza che è in noi (parte II);  
di una proposta fatta a chi cerca la via di un incontro possibile con il Dio di Gesù Cristo (parte III).  (Audio)
 I
le domande che ci uniscono
            In questa prima parte, cerchiamo di dare uno sguardo al cuore di tutti, capace di andare oltre le apparenze. Constatiamo così la presenza di una diffusa attesa di qualcosa – o di Qualcuno – cui si possa affidare il proprio desiderio di felicità e di futuro, e che sia in grado di dischiuderci un senso, tale da rendere la nostra vita buona e degna di essere vissuta. 
Non possiamo certamente dimenticare che questo sogno di felicità e di futuro viene percepito in modi diversissimi e si manifesta con tanti nomi. Dobbiamo cercare di decifrarlo, organizzandolo intorno ad alcune domande concrete. Abbiamo scelto degli interrogativi, che ci sembrano attraversare eventi, persone, esperienze di gioia e di limite, riconoscibili nella vita di ognuno.  
Si tratta delle domande che riguardano la nostra esistenza, il nostro destino e il senso di ciò che siamo e facciamo, oltre che di tutto ciò che ci circonda. Sono interrogativi che, per essere veramente affrontati, richiedono il coraggio della ricerca della verità e la libertà del cuore e della mente. Come discepoli di Gesù, ci sembra di poter discernere in queste molteplici attese una forte domanda di incontro con il Dio che lui ci ha rivelato.

1. FELICITÀ E SOFFERENZA 
  Siamo cercatori di felicità, appassionati e mai sazi. Questa inquietudine ci accomuna tutti. Sembra quasi che sia la dimensione più forte e consistente dell’esistenza, il punto di incontro e di convergenza delle differenze. Non può essere che così: è la nostra vita quotidiana il luogo da cui sale la sete di felicità. Nasce con il primo anelito di vita e si spegne con l’ultimo. Nel cammino tra la nascita e la morte, siamo tutti cercatori di felicità.Certo, questa esperienza comune si frastaglia in mille direzioni differenti. Tutti possiamo riconoscerci nel bisogno di felicità: ma quale felicità cerchiamo? come la cerchiamo? quali strumenti ce ne assicurano il possesso? e gli altri, in questa appassionata ricerca, che posto hanno?  Qualcuno ha accusato la tradizione cristiana di opporsi alla voglia di felicità, di guardare eccessivamente al futuro dimenticando il presente. Qualche volta è stato contestato ai credenti in Cristo l’eccessivo prezzo da pagare per assicurare la felicità, o si sono loro rimproverati i modelli dal sapore rinunciatario, persino un poco masochista, presentati come condizione per raggiungere la felicità. Qualcuno è arrivato alla decisione di dover liberare l’uomo da Dio per restituirgli il diritto alla felicità.  Le provocazioni ci sfidano e ci aiutano a pensare, facendoci riscoprire alla radice dell’esperienza cristiana la figura di Gesù, che ci ha offerto il volto di un Dio amante della vita e della felicità dell’uomo. Peraltro, le crisi nel rapporto tra vita e felicità non riguardano solo noi cristiani. Chiunque ama la vita e cerca la gioia duratura per sé e per gli altri, non riuscirà certamente ad accontentarsi di proposte che legano la felicità unicamente al possesso, alla conquista, al potere, al solo piacere, all’egoismo personale o di gruppo.

  L’esperienza della fragilità 
  Come credenti, abbiamo una convinzione irrinunciabile, che ci viene dalla nostra esperienza cristiana. Su di essa cerchiamo il confronto con tutti coloro che preferiscono la vita alla morte e cercano la felicità come la qualità profonda di questa stessa vita. La vita è bella nonostante tutte le prove e le disavventure, perché esistiamo e sperimentiamo l’amore.  Non per tutti, certo, è così. La vita è segnata in tutte le sue fasi e le sue forme dalla fragilità: la fragilità del nascituro, del bambino, dell’anziano, del malato, del povero, dell’abbandonato, dell’emarginato, dell’immigrato, del carcerato. In tutte le età ci sono sofferenze fisiche, psichiche, sociali. Come avviene per la felicità, anche l’esperienza del dolore ci accomuna tutti.  Come in ogni situazione umana si sperimenta la fragilità, così ogni ambiente vitale è frutto di un fragile equilibrio. Nei volti delle famiglie ci sono spesso più lacrime da asciugare che sorrisi da raccogliere. Nella vita ci sono sofferenze che arrivano contro ogni nostra aspettativa e ci sono anche sofferenze che nascono dai nostri errori e dalle nostre colpe, quelle che costruiamo con le nostre mani: quando, ad esempio, diamo la prevalenza all’avere sull’essere; quando ci carichiamo di cose inutili; quando diamo la precedenza alle cose sulle persone, agli interessi materiali sugli affetti.  La fragilità rimane una grande sfida: da sempre essa ha suscitato interrogativi, problemi, dubbi. Un personaggio della Bibbia è diventato una sorta di riferimento per coloro che hanno il coraggio di riflettere sul dolore. Si tratta di Giobbe: con il suo nome chiamiamo chi soffre ingiustamente e chi giustamente ha motivi per lamentarsi. Con Giobbe ci chiediamo: perché dobbiamo soffrire e morire?  Molti non conoscono le parole che la Bibbia mette sulle labbra di Giobbe nel momento in cui il contatto con il dolore diventa bruciante. Parole simili, forse, le abbiamo gridate noi stessi, una o tante volte:  Perisca il giorno in cui nacqui… Perché non sono morto fin dal seno di mia madre e non spirai appena uscito dal grembo? Perché due ginocchia mi hanno accolto, e due mammelle mi allattarono? … Come lo schiavo sospira l’ombra e come il mercenario aspetta il suo salario, così a me sono toccati mesi di illusione e notti di affanno mi sono state assegnate… Ricordati che un soffio è la mia vita, il mio occhio non rivedrà più il bene. 

                           (Giobbe 3,3. 11-12; 7,2-3. 7)  

Quale felicità?  Facciamo fatica ad accettare la scuola della sofferenza per scoprire che cosa sia la vita e la felicità. Nonostante tutte le nostre riflessioni e le nostre proteste, infatti, la debolezza, il dolore, la morte rimangono un mistero La cultura moderna, non sapendo dare una risposta a queste sfide, cerca di nasconderle con l’ebbrezza del consumismo, del piacere, del divertimento, del non pensarci. In tal modo, però, si nega il significato profondo della debolezza e della vulnerabilità umane e se ne ignora sia il peso di sofferenza, sia il valore e la dignità: e questo rende interiormente aridi e induce a vivere in modo superficiale.  L’esperienza della fragilità, del limite, della malattia e della morte può insegnarci alcune cose fondamentali. La prima è che non siamo eterni: non siamo in questo mondo per rimanerci per sempre; siamo pellegrini, di passaggio. La seconda è che non siamo onnipotenti: nonostante i progressi della scienza e della tecnica, la nostra vita non dipende solo da noi, la nostra fragilità è segno evidente del limite umano. Infine, l’esperienza della fragilità ci insegna che i beni più importanti sono la vita e l’amore: la malattia, ad esempio, ci costringe a mettere nel giusto ordine le cose che contano davvero.  La fragilità è una grande sfida anche per la fede nel Dio di Gesù Cristo. Il Signore ci ha creati per la vita, per la felicità. Perché, allora, permette il dolore, l’invecchiamento, la morte? Quante domande di fronte a un dolore o a un lutto che fa sanguinare il cuore! Si può perfino dire che la sofferenza e la morte sono la più grossa sfida contro Dio. C’è chi si è dichiarato “ateo” per amore di Dio, per giustificare la sua assenza e il suo silenzio davanti al dolore innocente.  Che cosa possiamo sperare?  Le domande si moltiplicano. Ciascuno ha le proprie. A pensarci bene, cambiano le parole, ma il grido resta, comune e condiviso da tutti: abbiamo una gran voglia di vita, di felicità, di sicurezza e di tranquillità, e il dolore, la fragilità e la morte sembrano fatti apposta per distruggere tutto questo. Dobbiamo rassegnarci? Spegnere la voglia di vita, raffreddando i nostri slanci? Dobbiamo riconoscere che questa non è la nostra casa e rimandare tutto a un dopo, a quando saremo finalmente a casa?  Ma questa casa, lontana e non sperimentabile, c’è davvero o resta un’illusione, più o meno com’è per tanti tentativi che costruiamo con le nostre pretese e che ci lasciano l’amaro in bocca? Qualcuno va oltre, pensando: smettiamola di sognare e accontentiamoci di quello che possiamo avere tra le mani. Pazienza, poi, se dobbiamo sottrarlo, violentemente o astutamente, ad altri. Questa è la vita. Non è più saggio rassegnarsi?  La nostra esperienza quotidiana è spesso tentata di cadere nella rassegnazione e nel cinismo, eppure si spalanca continuamente verso una forte necessità di speranza. Ma che cosa significa sperare? La speranza ha a che fare con la gioia di vivere. Suppone un futuro da attendere, da preparare, da desiderare. Sentiamo che la speranza richiede e suscita unità nel cuore: dà senso e motiva ogni nostro sentimento, ogni nostra aspirazione, ogni nostro progetto. Promuove anche unità nella storia: nelle tante cose che pensiamo e che facciamo ogni giorno ci può essere un filo conduttore che collega e illumina tutto quanto. Se c’è speranza, c’è pazienza e c’è la vigilanza che sa vagliare e spinge all’impegno in ogni cosa.  Non si può vivere senza speranza: sarebbe come vivere senza riuscire a dare una prima iniziale risposta all’interrogativo “perché sono al mondo”? Tutti abbiamo bisogno di un orizzonte di senso, per dire qualcosa di vero sul nostro futuro. Ha senso sperare che ciò che desideriamo si attui; così pure ha senso sperare di avere successo nei singoli aspetti su cui puntiamo. C’è una speranza a livello personale e c’è una speranza a livello storico-cosmico. Il tempo e le circostanze sono importanti per dare un contesto e un contenuto alle nostre speranze.  C’è una speranza che nasce e cresce grazie ai rapporti con le persone; anzi certi rapporti, aperti al dialogo e alla collaborazione, generano speranza, perché ci fanno sentire accolti e cercati e ci stimolano all’azione. Ma è possibile pensare e desiderare la speranza come dono che viene a noi in modo imprevedibile, come intervento non soltanto umano? Un dono che trascende le nostre possibilità, la nostra progettualità, i nostri orizzonti?  Nei momenti più felici, come in quelli più profondi, anche quando sono sofferti, sogniamo una speranza che crede e che ama: la speranza di chi si sente amato, cercato, sostenuto nel quotidiano, in un crescendo di senso, di gioia, di operosità costruttiva, che va oltre la fine di tutto. È questa la speranza che viene da Dio?
http://www.atma-o-jibon.org/file_pdf/CEI_Cercatori_Dio.pdf

Ecco PAPA FRANCESCO: dall'Argentina, il Card. Jorge Mario Bergoglio!
www.atma-o-jibon.org/italiano4/ritagli_francesco

>>>  www.atma-o-jibon.org/italiano/documenti10.htm


Un uomo non dovrebbe mai vergognarsi di confessare di aver avuto torto. Che è poi come dire, in altre parole, che da oggi è più saggio di quanto non lo fosse ieri.

IL SALE DELLA TERRA



Il digiuno è sempre simbolico, è una purificazione. I nostri cinque sensi ingurgitano tutto, si tratta di digerire e creare uno spazio di interiorità, di trovare in sé la propria libertà interiore, di non divorare ma entrare in una relazione corretta e libera con le cose e con gli altri: ciascuno decide in coscienza ciò da cui astenersi, le cose che lo rendono schiavo o con le quali rende schiavi gli altri...  

Silvano Fausti 
Gesuita e Biblista



Un uomo non dovrebbe mai vergognarsi
di confessare di aver avuto torto.
Che è poi come dire, in altre parole,
che da oggi è più saggio di quanto non lo fosse ieri.

Jonathan Swift