Santa Maria,

Santa Maria,
...donna del primo sguardo, donaci la grazia dello stupore.

sabato 9 maggio 2015

Prepararsi alla VI Domenica di Pasqua.

Originally posted on combonianum.org Formazione Permanente:

VI Domenica di Pasqua (B) 
10 maggio 2015, 
Gv 15,9-17

Hans Memling, Cristo benedicente, 1478

La differenza cristiana: amarsi come ama il Signore, 
Commento di Ermes

Un canto d’amore al cuore degli insegnamenti di Gesù. Una poesia dolcissima e profonda, ritmata sul lessico degli amanti: amare, amore, gioia, pienezza, frutti…. È il canto della nostra fede. Come il Padre ha amato me, io ho amato voi. Di amore parliamo come di un nostro compito. Ma noi non possiamo far sgorgare amore se non ci viene donato. Siamo letti di fiume che Dio trasforma in sorgenti. Rimanete nel mio amore. Nell’amore si entra e si dimora. Rimanete, non andatevene, non fuggite dall’amore. Spesso all’amore resistiamo, ci difendiamo. Abbiamo il ricordo di tante ferite e delusioni, ci aspettiamo tradimenti. Ma Gesù ti dice: “arrenditi all’amore”. Se non lo fai, vivrai sempre affamato. Gesù: il guaritore del tuo disamore. Il mondo sembra spesso la casa dell’odio, eppure l’amore c’è, reale come un luogo. È la casa in cui già siamo, come un bimbo nel grembo della madre: non la può vedere, ma ha mille segni della sua presenza: «Il nostro vero problema è che siamo immersi in un oceano d’amore e non ce ne rendiamo conto» (G. Vannucci). L’amore è, esiste, circola, ed è cosa da Dio: amore unilaterale, a prescindere, asimmetrico, incondizionato. Questo vi ho detto perché la vostra gioia sia piena. L’amore è da prendere sul serio, il Vangelo è da ascoltare con attenzione, ne va della nostra felicità, che sta in cima ai pensieri di Dio. Amatevi gli uni gli altri come io vi ho amato. Non semplicemente: amate. Ma fatelo in un rapporto di comunione, un faccia a faccia, una reciprocità. E aggiunge la parola che fa la differenza cristiana: amatevi come io vi ho amato. Amare come Cristo, che lava i piedi ai suoi; che non giudica nessuno; che mentre lo ferisci, ti guarda e ti ama; in cerca degli ultimi. Chiunque ami così, qualsiasi sia il suo credo, è entrato nel flusso dell’amore di Cristo, dimora in lui che si è fatto canale dell’amore del Padre. Come lui ognuno può farsi vena non ostruita, canale non intasato, perché l’amore scenda e circoli nel corpo del mondo. Se ti chiudi, in te e attorno a te qualcosa muore, come quando si chiude una vena nel corpo. Voi siete miei amici. Non più servi. Amico: parola dolce, musica per il cuore dell’uomo. Un Dio che da signore e re si fa amico, e teneramente appoggia la sua guancia a quella dell’amato. Nell’amicizia non c’è un superiore e un inferiore, ma l’incontro di due libertà che si liberano a vicenda. Perché portiate frutto e il vostro frutto rimanga. Quali frutti dà un tralcio innestato su una pianta d’amore? Pace, guarigione, un fervore di vita, liberazione, tenerezza, giustizia: questi nostri frutti continueranno a germogliare sulla terra anche quando noi l’avremo lasciata.

Il comandamento nuovo 
Commento al Vangelo di Enzo Bianchi

Nei discorsi di addio” (cf. Gv 13,31-16,33), attraverso i quali Giovanni ci svela le parole del Signore risorto alla sua comunità, per due volte viene annunciato il “comandamento nuovo”, cioè ultimo e definitivo: “Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri. Come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri (Gv 13,34); “Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri come io ho amato voi” (Gv 15,12, all’interno del brano di questa domenica).
Sono parole certamente consegnate ai discepoli, ai discepoli di Gesù che in ogni tempo lo seguono, ma questo comandamento non è limitante, non è riduttivo delle parole sull’amore comandato da Gesù addirittura verso i nemici e i persecutori (cf. Mt 5,44; Lc 6,27-28.35). L’amore è sempre amore di chi dà la vita per i propri amici, è sempre amore che ha avuto la sua epifania sulla croce, dunque amore di Dio per il mondo, per tutta l’umanità (cf. Gv 3,16). Questo amore è innanzitutto ciò che Dio è, perché “Dio è amore” (1Gv 4,8.16); è ciò che è vita del Padre e del Figlio nella comunione dello Spirito santo; è amore che Gesù di Nazaret ha vissuto fino alla fine, fino all’estremo (eis télos: Gv 13,1).
Per noi l’abisso di amore estatico che è Dio stesso, è incommensurabile, e riusciamo solo a leggerlo guardando alla vita e alla morte di Gesù, che avendo spiegato Dio (exeghésato: Gv 1,18), ci ha narrato il suo amore. Con tutta l’autorevolezza di chi ha vissuto l’amore fino all’estremo, Gesù ha potuto dire: “Come il Padre ha amato me, così anche io ho amato voi”. Ancora una volta queste parole di Gesù ci dovrebbero scandalizzare, perché appaiono come una pretesa: Gesù pretende di aver amato i suoi discepoli come Dio sa amare e di questo amore di Dio dice di avere conoscenza, di averne fatto esperienza.
Come può un uomo dire questo? Eppure il Kýrios risorto lo afferma e lo dice a noi che lo ascoltiamo. In questi nove versetti per nove volte risuona la parola “amore/amare” e per tre volte la parola “amici”: questo amore discende da Dio Padre sul Figlio, dal Figlio sui discepoli suoi amici e dai discepoli sugli altri uomini e donne. È un amore che si incarna e si dilata per poter raggiungere tutti. È quasi impossibile seguire adeguatamente il discorso di Gesù; possiamo però almeno segnalare che in lui l’amore di Dio è diventato amore dei discepoli, i quali possono rispondere a questo amore discendente, donato a loro gratuitamente, dimorando in tale amore, ossia restando saldi nel realizzare la volontà di Gesù, ciò che lui ha comandato.
E questa volontà consiste, in estrema sintesi, nell’amare l’altro, ogni altro. Riusciamo a capire cosa Gesù ci chiede nel farci dono del suo amore? Non ci chiede innanzitutto che amiamo lui, che ricambiamo il suo amore, amandolo a nostra volta. No, la risposta al suo amore è l’amare gli altri come lui ci ha amati e li ha amati. La restituzione dell’amore, il contro-dono, che è la legge dell’amore umano, deve essere amore rivolto verso gli altri. Allora questo amore fraterno è compiere la volontà di Dio, dunque amarlo in modo vero, come Dio desidera essere amato. Gesù ha risposto all’amore del Padre amando noi, e noi rispondiamo all’amore di Gesù amando l’altro, gli altri. Per questo tutta la Legge, tutti i comandamenti sono ridotti a uno solo, l’ultimo e il definitivo, che relativizza tutti gli altri: l’amore del prossimo.
In questa pagina del quarto vangelo Gesù ha anche l’audacia di reinterpretare il rapporto tra Dio e il credente tracciato da tutte le Scritture prima di lui. Il credente è certamente un servo (termine che indica un rapporto di sottomissione e di obbedienza) del Signore, ma Gesù dice ai suoi che ormai non sono più servi, bensì sono da lui resi amici: “Non vi chiamo più servi … ma vi ho chiamati amici (phíloi), perché tutto ciò che ho udito dal Padre mio l’ho fatto conoscere a voi”. Intimità più profonda di quell’amicizia di Abramo (cf. Gc 2,23) o di Mosè (cf. Es 33,11) con Dio; intimità che è comunione di vita, comunione di amore. Il discepolo di Gesù è stato da lui scelto, l’amore di Cristo lo ha preceduto e il frutto che Cristo attende è l’amore per gli altri. Questo sarà anche l’unico segno di riconoscimento del discepolo cristiano nel mondo (cf. Gv 13,35): null’altro, anzi il resto offusca l’identità del cristiano e non permette di vederla.
Che cosa dunque fare come discepoli di Gesù? Credere all’amore (cf. 1Gv 4,16), amare gli altri perché Dio ci ha amati per primo (cf. 1Gv 4,19) e non cedere mai alla tentazione di pensare che amiamo Dio solo desiderandolo o attendendolo: no, lo amiamo se realizziamo il comandamento nuovo dell’amore reciproco, a immagine di quello vissuto da Gesù. L’amore presente nel desiderio di Dio può essere una grande illusione, e Giovanni lo ribadisce con forza: “Se uno dice: ‘Io amo Dio’ e odia suo fratello, è un bugiardo. Chi infatti non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede” (1Gv 4,20). Stiamo attenti, soprattutto noi persone investite di un ruolo e di un’immagine ecclesiale: facilmente siamo bugiardi proprio nel confessare il nostro amore per Dio!

Fino in fondo,
Commento di Antonio Savone

Aveva, forse, ancora le mani inumidite quando Gesù proferiva le parole che oggi la liturgia consegna a noi. Sapeva cosa stava per accadere: Gv, al cap. 13, per tre volte richiama la consapevolezza di Gesù. Si era spogliato delle sue vesti (d’altronde non si può amare se non rinunciando a quanto potrebbe essere qualcosa da custodire in maniera gelosa: cfr. Fil 2,5-11) e aveva cominciato a lavare i piedi dei suoi amici. Le sue mani avevano accolto e ospitato tutto quanto l’acqua di quel catino aveva lavato, se è vero che Dio conta anche i passi del mio vagare e nel suo libro raccoglie persino le mie lacrime (cfr. Sal 55,9). Mentre lo faceva, Gesù era consapevole che i piedi dei più non si sarebbero lasciati trattenere da quel suo modo di rivelare l’amore. Quelli di qualcuno gli si sarebbero addirittura alzati contro, nonostante il gesto da lui compiuto. La maggior parte avrebbe intrapreso altri percorsi perché convinti che un simile modo di amare non può che conoscere la sconfitta e la smentita.
Quanto aveva compiuto quella sera, era a testimonianza che egli avrebbe messo a repentaglio la sua vita per gente che neppure comprendeva la portata e il senso di quel gesto. Il suo dono affidato a chi lo avrebbe tradito, rinnegato, comunque non riconosciuto. Mi ritrovo così a pensare al nostro valutare se è il caso o meno di fare qualcosa per qualcuno, quando si è fermamente certi che se non lo accoglierà, di certo non lo capirà.
Non finiremo mai di comprendere il paradosso di quelle ore: per Gesù, notte di tradimento e notte di amore coincidono. Noi siamo soliti parlare di amore là dove c’è riconoscimento, reciprocità, risposta, consapevolezza del dono, gratitudine. A riascoltare invece questo brano, sembrerebbe quasi che il tradimento e la morte siano il contesto più appropriato per parlare di un amore che è oltre i nostri criteri di ragionevolezza perché parla il linguaggio della dismisura, del sine modo (come direbbe don Tonino Bello).
È a contatto con questo paradosso che ci riportano le parole e i gesti di Gesù che rompono quell’equilibrio mortifero secondo il quale solo se il dono è valorialmente riconosciuto, apprezzato e perciò accolto, esso merita di essere condiviso.
Quella sera, proprio mentre vedeva incombere la sua fine imminente, non era preoccupato per sé, sebbene di lì a poco conoscerà anch’egli paura e angoscia. No. A Gesù stava di più a cuore la sorte dei suoi che non avrebbero retto alla tentazione di fuggire. Per questo, con tono accorato, li esortava a rimanere.
Rimanete nel mio amore…, vale a dire, lasciate che io mi prenda cura della vostra vulnerabilità, lasciate che mi prenda cura persino del vostro recalcitrare e resistere. Perché mai quello sguardo che, durante la passione, farà sciogliere Pietro in lacrime? Perché quella parola “amico” ripetuta a Giuda proprio in un momento che aveva tutto il carattere dell’inimicizia dichiarata?
Come io vi ho amati… Come, Signore? A partire dai piedi. L’Onnipotente (Gv aveva ricordato che Gesù aveva compiuto quel gesto “sapendo che il Padre gli aveva posto tutto nelle sue mani) non ricusa di accarezzare con delicatezza il punto più vulnerabile – perché più esposto – dei suoi amici. Amare, in fondo, cos’altro è se non avere attenzione e cura per la vulnerabilità dell’altro? Gesù si inginocchia per toccare e guarire il punto ferito in modo più grave, i nostri piedi, appunto: il punto in cui l’uomo si confonde con la terra, il punto in cui sperimenta tutta la sua fatica a essere creatura, il punto che più esprime la nostra instabilità (sappiamo bene cosa vuol dire mettere un piede in fallo). In qualunque condizione umiliante l’uomo si trovi, scoprirà ai suoi piedi il volto del suo Signore pronto ad avvolgerli nella sua compassione. Amati, così.
La vita cristiana ha nulla a che spartire con una proposta spirituale che faccia volare alto: la vita cristiana è piegare le ginocchia, porgere le mani, toccare gli altri restando umili, chinati, in atteggiamento di silenzioso servizio. Questo amore non è mai un amore generico, astratto: è avere a cuore l’impuro che c’è in ciascuno di noi, l’inamabile tra di noi, Giuda, l’inservibile in mezzo a noi, Pietro.
L’amore di Dio rivelato da Gesù non conosce parentesi e non conosce riserve. Il gesto di quella sera – come il gesto che ripetiamo in ogni Eucaristia – ricorda che ciascuno di noi, Giuda compreso, diventa il discepolo amato. Nella notte in cui fu tradito, prese il pane. Così risponde Dio ai nostri tradimenti, prendendo se stesso e offrendosi per amore dell’uomo. Quella notte e in tutte le notti dei nostri abbandoni.
Rimanete nel mio amore… Non si darà pace neppure di fronte alla fuga dei discepoli; dopo la Pasqua li raggiungerà ciascuno nella propria terra di dispersione, sulla strada di Emmaus o nell’esperienza del dubbio lancinante di Tommaso, nelle lacrime di Maria o nella chiusura per paura all’interno del cenacolo. A voler dire che se noi manchiamo di fede egli però rimane fedele (2Tm 2,13), se noi fuggiamo egli resta e resta come disponibilità mai rinnegata.
Posso rimanere perché egli rimane.

Una gioia piena,
Commento di don Luciano Cantini

Rimanete nel mio amore

Con lo stesso amore con cui Gesù percepisce l’amore del Padre, il Signore ama i suoi discepoli ed esorta a permanere in quell’amore che insieme è del Padre e suo. Dall’inizio della cena (Gv 13,1) troviamo usato spesso il verbo agapaô (amare), e il sostantivo agapê (amore), nel greco classico è piuttosto raro, nel NT, invece, è molto usato, soprattutto in Giovanni, per esprimere l’amore gratuito e disinteressato di Dio, e conseguentemente la risposta dell’uomo.
Quella dell’Amore è una questione infinita che sembra non avere soluzione. L’amore è talmente connaturale all’uomo che sembra semplice parlarne, ma è una realtà così complessa che è difficile analizzarne motivazioni e conseguenze. La natura umana è dominata da istinti primordiali come la sopravvivenza o la continuità della specie ma è la potenzialità dell’amore che li amalgama e dà loro contenuto, eleva gli istinti alla sublimità spirituale dell’essere umano. È l’amore che ha la forza spirituale di fondersi con la nostra corporeità, dargli energia e capacità d’azione, così che san Paolo arriva a dire: Vi esorto dunque, fratelli, per la misericordia di Dio, a offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio; è questo il vostro culto spirituale (Rm 12,1).
L’amore istintuale dell’uomo è così legato agli altri aspetti della vita da diventare utilitaristico perché consolida alcune relazioni, ma anche le deforma fino a trasformarle in passione e addirittura in possesso, il fenomeno dilagante di femminicidio ne è un segnale. Tutti continuamente amiamo in qualche modo, tutti quasi amiamo male e quanto più amiamo tanto peggio amiamo (Marsilio Ficino).

Questo è il mio comandamento

Gesù ci lascia solo un comandamento: Amatevi gli uni gli altri, ponendo l’amore in relazione al suo: come io ho amato voi. L’Amore di Dio è infinito e assoluto, eterno e perfetto, irraggiungibile dall’uomo fatto di limiti, immerso nel tempo, e nei condizionamenti della storia. Gesù aveva dimostrato la profondità del suo amore perché li amò sino alla fine (Gv 13,1).
Cristo, come mediatore fra noi e Dio, in un estremo gesto di amore, sacrificando la sua vita ci racconta l’amore del Padre e ce lo rende possibile chiedendoci di rimanere in Lui. Nella comunione con Lui, nella quotidianità della conversione, nella sperimentazione del peccato e della sua misericordia, è reso comprensibile l’amore che Cristo ci ha fatto conoscere con le sue parole e col suo esempio. L’unico comandamento (al singolare), quello nuovo, si traduce praticamente nella condivisione, perdono, aiuto, solidarietà pacificazione, compassione… sono i comandamenti nuovi (al plurale), che, osservati, ci permettono di abitare in Cristo e rimanere nel suo amore.
Da Cristo va appreso l’amore, quello senza profitto, per metterlo in pratica in tutte le occasioni della vita, per gioirne una volta che lo abbiamo conosciuto. Non c’è gioia superiore alla gioia che l’amore può darci perché è la stessa gioia del Signore, ed è una gioia piena.

Vi ho chiamato amici

L’amore è liberante perché trasforma lo schiavo in amico e l’amicizia in gioia, senza escludere nessuno. L’amore è liberante perché non ha aspettative, la gratuità basta a se stessa, non attende riscontri e non può avere delusioni, gode di tutte le sfumature, trasforma ogni relazione in gioia piena e coinvolgente.
La storia ci ha costretti a parlare dei diritti e dei doveri, della reciprocità dell’amore, arrivando a stabilirne norme (vedi il patto coniugale, il diritto di famiglia,…); privato della sua essenzialità, della libertà, della gratuità, della totalità oblativa si rende l’amore vittima di una qualche forma di schiavitù.
Il sacrificio è l’essenza dell’amore, è la dimensione che libera davvero l’amore e trasforma ogni relazione in amicizia perché ci rende simili a Dio che per amore si fa schiavo d’amore: egli, pur essendo nella condizione di Dio, non ritenne un privilegio l’essere come Dio, ma svuotò se stesso assumendo una condizione di servo, diventando simile agli uomini. Dall’aspetto riconosciuto come uomo, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e a una morte di croce (Fil 2,6-8).

Vi ho costituiti perché andiate

Tra i tanti istinti di cui siamo vittime c’è quello del protagonismo, di sentirci autori e attori di se stessi, capaci di costruirci la vita e le relazioni, eppure Gesù ci avverte: Non voi avete scelto me. Anche la nostra relazione con Lui è una sua scelta d’amore. Non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi (1Gv 4,10) e se noi siamo capaci di amare è perché egli ci ha amati per primo (1Gv 10,19).
Padroni di questo dono di amore siamo chiamati a andare e portare il frutto di quello stesso amore. Gesù non desidera averci dintorno, attaccati a Lui, sì (Cfr Gv 15,4), ma distanti da Lui perché il frutto del suo amore che germoglia in noi possa giungere lontano nel tempo e nello spazio.
Non è difficile, basta lasciarsi amare da Dio e capiremo come amare gli altri. In pratica è sufficiente dimenticarsi di noi stessi e mettere gli altri al centro dei nostri interessi. Non ci è chiesta nessuna ricerca intimistica, né devozionale, nessun sforzo ascetico, nemmeno una pratica religiosa.
Se ci facciamo dono agli altri alla fine troveremo Dio come dono per noi, perché Dio abita dove noi ci siamo persi amando. Preoccupiamoci dei poveri, degli abbandonati, degli smarriti, degli umili, degli emarginati, dei malati, degli stranieri, dei pellegrini, delle persone di passaggio, dei provvisori, degli inutili… al colmo Dio si manifesterà con tutta la sua potenza di amore e ci adombrerà della sua gioia, e sarà una gioia piena.

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