Santa Maria,

Santa Maria,
...donna del primo sguardo, donaci la grazia dello stupore.

martedì 30 agosto 2016

"Penultimo"

In Cammino:

 Paolo Curtaz

 "Penultimo"


Penultimo
Commento al Vangelo di domenica 4 settembre 2016 - Paolo Curtaz 
Ma, alla fine della fiera, sul serio, per davvero, in cosa consiste la nostra vita?

Sarà la fine dell’estate, sarà che ho superato il mezzo secolo, sarà che la luce settembrina mi ispira sentimenti gravidi di dolce malinconia che mi invadono l’anima, ma la domanda, se la lasciamo crescere, ci interroga. Necessariamente.
Sì certo, è bene curare il corpo, intessere belle relazioni, avere un lavoro accettabile e quanto più gratificante, giusto. E, anche, crescere nella conoscenza, coltivare gli interessi, avere dei risultati, delle soddisfazioni. Riuscire a districarsi in questi tempi complessi, a volte un po’ complicati.
Ma, ribadisco, e poi?
Fra cento anni nessuno si ricorderà di me.
Forse, se ci sarà, qualche mio discendente, avrà un mio libro nella sua biblioteca. Ma anche no.
Gesù lo sa.
Lo vive.
Sa bene quanta eccedenza portiamo nel cuore. Quanto tutto ciò che viviamo, per quanto bello, per quanto grande, per quanto luminoso, non può mai colmare la nostra anima.
Bella forza, è eterna.

Caccia al tesoro
Perciò la nostra anima eterna anela a cose eterne.
E anche quando le incontra, e ne è posseduta, sa bene che è solo per un attimo fugace. Un attimo che, pure, riempie la vita di nostalgia e di luce, di intenso amore e di gioia.
È un patrimonio condiviso, un sentimento comune. L’autore del libro della Sapienza, scritto da ebrei in un ambiente culturale ricco e variegato, ragiona su cosa è essenziale. E conclude: l’unica cosa importante è cercare la sapienza, entrare dentro le cose, non accontentarsi, andare oltre l’apparenza, riscoprire le profondità dell’essere, là dove dimora Dio.
La sapienza che non è cultura o intelligenza, ma assaporare la realtà (la parola sapienza deriva da sàpere, insaporire), scoprire, come ci dirà Gesù, che siamo creati per amare e, amando, cambiare il mondo.
Abbiamo bisogno del dono della Sapienza per sollevare il nostro sguardo in alto.

Patti chiari
Gesù osa: molti lo stanno seguendo, li vede.
Mette in chiaro le cose. La ricerca di Dio che egli promuove richiede tutto, perché dà tutto.
Niente mezze misure, niente sequele da facciata, niente part-time.
In gioco c’è la vita dell’Eterno, bisogna farsi bene i conti in tasca.
Non importa quanto sia spesso il filo che lega la zampa dell’uccello al suolo. Se non si recide, questi non può spiccare il volo.
Osa Gesù, folle presuntuoso.
È bellissimo amare, essere riamati, avere degli affetti e godere delle gioie legittime.
Eppure lui è di più. Più della più grande gioia che abbiamo vissuto e che mai vivremo.
Bisogna prenderla bene, questa pagina. Ascoltare ciò che dice veramente.
In passato, purtroppo, è stata interpretata facendole dire il contrario di ciò che vi si legge. Per sminuire le gioie e le relazioni. Che idiozia.
Amatevi teneramente, voi che vi amate. E godete tutte le gioie che Dio vi dona come segno della sua bontà. Ma sappiate che ogni gioia è e resta realtà penultima
Che rimanda all’Ultimo, al Solo, al tutto.
Questo dice Gesù.
Ci chiede di scavare e di arare nella nostra vita, fino a trovare il tesoro nascosto nel campo.
Bella sfida.
Rileggo ciò che scrivo. Ci credo. L’ho visto. Lo vivo.
Male, a corrente alterna, facendo i conti con i miei insopportabili limiti.
Ma ci credo.
Gesù è l’unico che, da ora, già riempie l’anima.

Cambiamenti
Così facendo la nostra vita, da ora, cambia di prospettiva.
Mettere la ricerca del tutto, la ricerca di Dio al centro della nostra vita, ci fa divenire persone nuove.
Ne sa qualcosa Filemone, simpatico cristiano delle origini, cui Paolo indirizza un biglietto di accompagnamento rimandandogli uno schiavo che si era rifugiato presso l’apostolo.
Paolo invita Filemone ad uscire dalla logica di questo mondo, padrone-schiavo, per entrare nella logica del Regno, fratello-fratello. Paolo non lo sa, ma in questo piccolo biglietto pianta il seme che diventerà l’albero dell’abolizione della schiavitù.
Cerchiamo Dio, allora.
Non quello piccino delle nostre paure, dei nostri deliri, delle nostre ossessioni.
Quello magnifico del Signore Gesù.
Più grande della più grande gioia che siamo in grado di vivere.

Fonte:http://www.tiraccontolaparola.it/

lunedì 29 agosto 2016

IL MARTIRIO DELLA VERITA' CHE CI FA LIBERI DI SERVIRE L'OPERA DI DIO IN OGNI UOMO

29 Agosto. Martirio di San Giovanni Battista



αποφθεγμα Apoftegma

Giovanni non visse soltanto per se stesso, e neppure morì solo per sé. 
Quanti uomini, carichi di peccati, 
la sua vita dura e austera seppe trarre a conversione! 
Quante persone la sua morte immeritata incoraggiò a sopportare le avversità! 
E a noi, da dove viene oggi l’occasione di rendere grazie a Dio con fede 
se non dal ricordo di san Giovanni ucciso per la giustizia, cioè per Cristo?
Egli non amò la sua anima, 
cioè la parte sensitiva che cerca il piacere e rifugge l’austerità, 
ma la odiò nel senso che non volle affatto acconsentire alle voglie istintive. 
Così odiandola, o meglio amandola in modo vero e religioso, 
l’ha conservata per la vita eterna. 
E non ha salvato soltanto se stesso, 
ma col suo esempio ha coinvolto moltissimi nella difesa della giustizia.

Giovanni Giusto Lanspergio











L'ANNUNCIO

Dal Vangelo secondo Marco 6, 17-29

Erode infatti aveva fatto arrestare Giovanni e lo aveva messo in prigione a causa di Erodìade, moglie di suo fratello Filippo, che egli aveva sposata. Giovanni diceva a Erode: «Non ti è lecito tenere la moglie di tuo fratello».
Per questo Erodìade gli portava rancore e avrebbe voluto farlo uccidere, ma non poteva, perché Erode temeva Giovanni, sapendolo giusto e santo, e vigilava su di lui; e anche se nell'ascoltarlo restava molto perplesso, tuttavia lo ascoltava volentieri.
Venne però il giorno propizio, quando Erode per il suo compleanno fece un banchetto per i grandi della sua corte, gli ufficiali e i notabili della Galilea. Entrata la figlia della stessa Erodìade, danzò e piacque a Erode e ai commensali. Allora il re disse alla ragazza: «Chiedimi quello che vuoi e io te lo darò». E le fece questo giuramento: «Qualsiasi cosa mi chiederai, te la darò, fosse anche la metà del mio regno». La ragazza uscì e disse alla madre: «Che cosa devo chiedere?». Quella rispose: «La testa di Giovanni il Battista». Ed entrata di corsa dal re fece la richiesta dicendo: «Voglio che tu mi dia subito su un vassoio la testa di Giovanni il Battista». Il re ne fu rattristato; tuttavia, a motivo del giuramento e dei commensali, non volle opporle un rifiuto.
E subito il re mandò una guardia con l'ordine che gli fosse portata la testa [di Giovanni]. La guardia andò, lo decapitò in prigione e portò la testa su un vassoio, la diede alla ragazza e la ragazza la diede a sua madre.
I discepoli di Giovanni, saputa la cosa, vennero, ne presero il cadavere e lo posero in un sepolcro.







IL MARTIRIO DELLA VERITA' CHE CI FA LIBERI DI SERVIRE L'OPERA DI DIO IN OGNI UOMO


Sì, si può perdere la testa per Gesù. La verità, quella che ci fa liberi, quella che non è barattabile, la nemica dei falsi compromessi volti a salvare la pelle, fa perdere la testa. Ci sono sempre tagliatori di teste in cerca di poveri profeti disarmati che annunciano senza posa la verità. E la verità, normalmente è scomoda. Ne sappiamo qualcosa anche noi, quando qualcuno osa rimproverarci, evidenziarci un errore, un peccato. Per la Bibbia correggere un saggio è renderlo ancora più saggio. Correggere uno stolto invece, significa attirarne le ire. Facciamo due conti e vediamo da che parte stiamo. Probabilmente da quella dei tagliatori di teste, degli stolti, come Nabal, letteralmente, «colui al quale non si può dire nulla». Uno stolto, uno che per tacitare la verità e potersi rimirare tranquillo allo specchio, non esita a ghigliottinare il profeta. Il Vangelo di oggi ci chiama a conversione, a guardare senza sconti la nostra vita, a lasciarci illuminare sui compromessi, sulle situazioni pericolose nelle quali ci troviamo, proprio dove non abbiamo forza e volontà per tagliare, voltare pagina e abbandonarci alla fedeltà di Dio. Quell'amicizia che ci insinua calunnie sugli altri, quell'affetto troppo corposo, che ha già messo il laccio al cuore e ci ha deposto sul piano inclinato che conduce al tradimento; quel rancore che arde, sordo, sotto la cenere del tempo che vorremmo capace di essiccare il peccato; quell'adulazione che risuona nelle nostre orecchie e ci pianta al centro di un universo che ci appare ogni giorno più ostile a tutto quanto facciamo e pensiamo. La verità che la Chiesa ci annuncia ci fa liberi, smaschera il serpente antico e le sue menzogne che ci tengono schiavi, e apre la strada al liberatore, il Signore Gesù, la Verità incarnata per la nostra salvezza. "Non ti è lecito" gridava Giovanni Battista, e non per un rigido legalismo, ma perché sei creato per essere libero, felice, e non ti è lecito andare contro natura, il peccato non si addice all'uomo, genera la morte, sempre. 




Erode si era infilato in una strada senza ritorno, condannandosi ad una vita sterile, chiusa nell'egoismo. Una vita infelice: "Se uno prende la moglie del fratello è una impurità, egli ha scoperto la nudità del fratello; non avranno figli" (cfr. Lv. 18,16 e 20,21). La concupiscenza lo aveva accecato per trasformarlo in oggetto della maledizione più grande, quella di non avere figli; non vi era cosa più disonorante che scendere nella tomba senza una discendenza, perché era il segno di una vita senza frutto, scivolata via senza amore, senza consistenza, una vita in fumo. Come è accaduto a Davide che, alla vista della bellezza di Betsabea, chiude in prigione ragione e fede, si lascia trascinare dai vortici della passione, e macchina piani e menzogne per dar corpo agli sconvolgimenti dell'istinto ormai senza freno. Morirà Uria, ucciso dalla malizia di Davide. E morirà il bambino nato dalla passione, perché ogni pensiero e ogni azione che non siano ispirate da Dio attraverso la ragione illuminata dalla fede sono senza frutto. Erode «ascoltava perplesso», vigilava, temeva. Ma non era sufficiente. Aveva ormai consegnato il cuore a Erodiade. Al contrario di Davide, peccatore, fragile, ma, inspiegabilmente per chi legge le cose solo carnalmente, proprio lui è il campione dell'uomo secondo il cuore di Dio. Il punto è tutto qui. Un cuore radicato in Dio, anche se cade, è capace di contrizione e di umiltà. Anche se la mareggiata della passione ne ha sconvolto gli equilibri, può tornare ad aggrapparsi all'àncora che non ha smesso di legarlo misteriosamente a sé. Erode invece ha scelto il peccato, lo ha scelto nel fondo del suo intimo, laddove l'uomo è completamente libero e si giocano le sue sorti; Erode ha reciso la fune che lo legava all'àncora e la tempesta ha rotto, inesorabilmente, gli ormeggi. Lo si comprende al «momento propizio», che può essere quello in cui il Signore scuote la coscienza intorpidita, ma anche quello in cui il demonio sferra l’attacco decisivo. Per Davide il «kairos» è giunto con il profeta Natan, le cui parole dissolvono la menzogna e lo conducono al pentimento: «ho peccato» risponde, senza accampare scuse; così, nel riconoscersi peccatore, Davide accetterà, umilmente, le sofferenze che ne conseguono. Erode non può. Il rancore di Erodiade, alla quale aveva consegnato l'anima, lo trascina nell'abisso, perché l'accendersi di una passione spalanca sempre il passo a peccati più gravi. Per questo l'episodio di Erode ci invita a chiedere a Dio la grazia del cuore di Davide, pronto al pentimento, a rientrare in se stesso come il figliol prodigo, ad ascoltare la voce dei profeti che, con amore e fermezza, ci chiamano a conversione: ispirati da Dio, i pastori, i catechisti, i fratelli, i genitori, il coniuge, illuminano quanto, nella nostra vita, «non è lecito» ed è destinato a restare senza figli, svelando la parte di noi che, infeconda, appartiene alla terra ed è incapace di ereditare il Cielo. La correzione, certo, quando arriva fa male, perché graffia l’orgoglio che ci vorrebbe impenitenti, ma poi reca il bene immenso della libertà. Accettiamo la correzione, per divenire liberi come Giovanni, senza paura e lontani dai compromessi, dalle ipocrisie e dai ricatti, sino a perdere la testa, cioè oltrepassando "il lecito" della ragione strozzata dalla ricerca del proprio tornaconto; così mostreremo al mondo che non è lecito chiudersi in ciò che è lecito per assecondare la carne, mentre è lecito perché secondo Dio e per il bene dell'uomo, abbandonare schemi e criteri che appesantiscono mente e cuore nell'egoismo, per uscire da se stessi e donarsi senza riserve.



QUI IL COMMENTO COMPLETO 



APPROFONDIMENTI



I quattro messaggi dati della Regina della Pace di agosto

Medjugorje tutti i giorni:



I quattro messaggi dati della Regina della Pace nel mese di agosto 2016

* Messaggio del 2 agosto 2016 Cari figli, sono venuta a voi, in mezzo a voi, perché mi diate le vostre preoccupazioni, affinché possa presentarle a mio Figlio e intercedere per voi presso di lui per il vostro bene. So che ognuno di voi ha le sue preoccupazioni, le sue prove. Perciò maternamente vi invito: venite alla Mensa di mio Figlio! Egli spezza il pane per voi, vi dà se stesso. Vi dà la speranza. Egli vi chiede più fede, speranza e serenità. Chiede la vostra lotta interiore contro l’egoismo, il giudizio e le umane debolezze. Perciò io, come Madre, vi dico: pregate, perché la ... 
altro »
 Rosaria Gialdinia

domenica 28 agosto 2016

ALL'ULTIMO POSTO DOVE CRISTO E' SCESO PER FARCI PASSARE AL CIELO



αποφθεγμα Apoftegma

Quando l’uomo si colloca davanti a Dio in umiltà, 
allora, come per uno straordinario paradosso, Dio lo esalta. 
Dio si china verso la sua bassezza per elevarlo fino a sé; 
gli dona se stesso in eredità; 
lo chiama al possesso dei beni più grandi, 
lo rende partecipe della sua vita, dei suoi doni, 
delle realtà eterne che sono le sole che rendono grande l’uomo.

San Giovanni Paolo II












ALL'ULTIMO POSTO DOVE CRISTO E' SCESO PER FARCI PASSARE AL CIELO

Presentandoci la vita come il funerale dei desideri, il demonio vuole indurci a non accogliere l’«invito a nozze» che il Signore ci consegna attraverso i fatti e le persone. Ogni giorno, infatti, rifiutiamo qualcosa della volontà del Padre, spinti a tentare di «occupare il suo posto» per saziare in libertà le concupiscenze. Sperperiamo la sua eredità per «esaltarci» ai «primi posti» del prestigio e dell’onore, dove ci illudiamo si possa realizzare la nostra esistenza. Umiliamo e strumentalizziamo gli altri, mentiamo esibendo curriculum artefatti, sino a che il pallone gonfiato dagli inganni non ci scoppia tra le mani.
Precipitiamo allora all’«ultimo posto», accanto ai porci come il figlio prodigo, dove ci scopriamo «nudi» come i progenitori e, avvolti nella stessa «vergogna», ci nascondiamo dagli altri, affamati e soli. È quando il Signore, certo «più ragguardevole di noi», appare attraverso i fatti che ci umiliano, e il Padre ci dice di «lasciare a Lui il primo posto» nella nostra vita, come in quella della moglie, del marito, dei figli, del fidanzato o degli amici. Grazie all’amore di Dio che, geloso della sua creatura, attraverso la Croce ci umilia seriamente, la superba scalata alla menzogna del primo posto ci precipita sempre nella verità dell’ultimo.
Ma proprio in quel porcile immondo, seduti al «nostro posto», quello che ci spetta quale giusta conseguenza delle nostre scelte, ci raggiunge, gratuito e del tutto inaspettato, l’amore di Dio. Egli, infatti, vede in noi il suo Figlio disceso nel sepolcro, sino al «posto» dell’«ultimo» dei peccatori. E qui, con Gesù, il Padre abbraccia anche noi, ci risolleva e ci sussurra le parole più dolci: «amico mio vieni più avanti», ecco per te l’«onore» che ho dato a mio Figlio risuscitandolo dalla morte.
Il Signore ci chiama dunque a riconoscerci peccatori, ad accettare «umilmente» la nostra debolezza e a «metterci all’inferno e non disperare» (Silvano del Monte Athos) in attesa che ci «innalzi» nel suo perdono. A vivere ogni relazione nella verità che ci fa liberi davvero, senza stupirci di non essere considerati, «diminuendo» agli occhi degli altri perché il Signore «cresca» in noi e in loro, divenendo così il centro dove incontrarci e amarci.
Per questo la Chiesa ogni giorno è messa all’ultimo posto «davanti a tutti»; è solo lì che può annunciare l’«onore» di Cristo risorto preparato per ogni figlio scappato di casa. Altro che onori, legittimazioni, accoglienze nei parterre culturali. La Chiesa, cioè ciascuno di noi, esiste per occupare l’ultimo posto, quello che nessuno vuole. Mamma mia, a scuola ogni giorno come l’ultimo degli studenti? A casa sempre un passo dietro a mio marito? Al lavoro seduto a raccogliere il mobbing ingiusto, a sbrigare le pratiche che nessuno vuole guardare? Io, il parroco, in ginocchio davanti a ogni pecora affidata, lasciando che le nevrosi, le invidie e le gelosie si infrangano su di me?
Sì, perché questo è il posto che Dio ha riservato ai suoi apostoli, quello scelto da suo Figlio per salvare ciascuno di noi. Con Lui siamo chiamati ad essere gli ultimi per lavare i piedi di tutti; come scrive San Paolo, “spettacolo e spazzatura per il mondo”. Perché solo all’ultimo posto il Vangelo è autentico e credibile.
Così accadde a San Francesco Saverio, apostolo indomito dell’Asia. Un giorno si trovava a Yamaguchi, in Giappone, annunciando il Vangelo; in giapponese sapeva solo il Credo, e questo ripeteva, con un sorriso disarmante. Alcuni ragazzini, vedendolo vestito così stranamente e con una faccia così ridicola, e udendolo balbettare in un giapponese improbabile parole astruse, presero a insultarlo, a sputargli e a tirargli pietre. E Francesco impassibile continuava “seduto all’ultimo posto”, il sorriso sul viso e il Credo sulle labbra. Passava di lì un samurai, osserva la scena e si ferma impietrito. Poi, stordito, si avvicina a Francesco. Attraverso il suo compagno e interprete gli dice: “Che cos’hai tu più di me? Io sono il primo in questa città, e l’onore è la cosa più importante per la mia vita. Tu qui sei l’ultimo, eppure devi avere una cosa più grande e importante dell’onore, per essere così libero da lasciare che te lo tolgano. Voglio quello che tu hai”. Fu il primo samurai convertito al cristianesimo. L’ultimo posto lo aveva attirato a cercare il tesoro meraviglioso che vi si nasconde.
Forse per noi continua ad essere diverso… Nella nostra vita sperimentiamo che ogni relazione, precaria nella friabilità degli affetti e instabile sotto la dittatura degli umori, nasce ferita da un’assenza. Nessuno può dare l’amore che il cuore dell’altro desidera. E invece ci ostiniamo a chiedere al prossimo di saziare i nostri vuoti. Quando «invitiamo amici, fratelli e parenti» ad entrare in comunione con noi ai nostri «banchetti», e sembriamo aprirci alle loro necessità, in realtà «offriamo» sofisticati menù a base di compromessi e ipocrisia; pensieri, parole e gesti come lacci tesi perché ci «invitino a loro volta» nell’intimità.
Come incantatori di serpenti cerchiamo di ipnotizzare e legare a noi il coniuge, i figli, gli amici. La nostra identità dipende dall’esile filo che ci lega al «contraccambio» degli sforzi profusi per contare qualcosa nel cuore degli altri. Non possiamo vivere senza la loro attenzione, l’indifferenza ci polverizza. Così, ad esempio, diluiamo i «no» che dovremmo dire ai figli e gli permettiamo vestiti e orari inaccettabili, discoteche sature di droga e sesso, vacanze promiscue, gadget costosissimi: li tempestiamo di «inviti» al dialogo per non perdere l’affetto e non dover sopportare ribellione e rifiuto. Allo stesso modo con il coniuge, il fidanzato e gli amici: non amiamo perché non ci interessa il bene dell’altro. Non siamo “inquieti” per loro, come dice Papa Francesco. Al contrario, siamo sterili perché in tutto cerchiamo i "primi posti” dove saziare noi stessi.
Ma la verità è che siamo tutti «poveri, storpi, zoppi e ciechi». Abbiamo bisogno di gustare le primizie della «ricompensa» celeste, la vita e l’amore più forti della morte capaci di liberarci dalla paura e dall’esigenza. Il compimento di ogni vita è in Cielo, inutile e dannoso sperare di cambiare i rapporti per perfezionarli qui sulla terra, mentre proprio la precarietà che è un’eco del peccato e del disordine da esso provocato, ci impedisce di appropriarcene aprendoci alla beatitudine. Dietro ad essa vi è l’amore di Dio, non il suo castigo.
Attraverso di essa ci chiama a guardarlo e a cercare le cose di lassù in ogni cosa di quaggiù. Lavorare, studiare, cucinare, lavare e stendere, fare qualunque cosa aspettando o esigendo una ricompensa è stolto e frustrante, perché ci schiaccia sulla carne e ci impedisce di sperare il Cielo. «Beato», invece, è colui che «invita» il prossimo accogliendolo proprio quando non ha nulla per «contraccambiare»: è allora che il Signore si fa presente provvedendo con più generosità, facendoci così gustare le primizie della Vita Beata.
Siamo chiamati ad “invitare” la moglie quando è più povera e più debole; a perdonarla e a donarci a lei quando la carne la rifiuterebbe perché non vi trova nessuna soddisfazione. Questo è il Cielo sulla terra! Questo amore è il segno che esiste la vita eterna, infinitamente più grande, libera e felice di quella della carne. Ogni rapporto è un cantiere aperto al dono di Dio; l’unico modo per vivere in pienezza il matrimonio, la famiglia, l’amicizia e il fidanzamento è accogliere insieme l’«invito» del Signore alla sua mensa della Parola e dei Sacramenti; e qui lasciarsi sfamare ogni istante dai frutti fecondi della sua «risurrezione».

sabato 27 agosto 2016

Dov'è Dio e dov'è l'uomo


Una statua della Madonna nella chiesa distrutta di Cossito, frazione di Amatrice (Lapresse)
combonianum.org

Il terremoto in Centro Italia 
Enzo Bianchi


Distruzione, morte e umanità
Dov'è Dio dov'è l'uomo
di Enzo Bianchi


Il giorno dei funerali delle vittime del terremoto è il momento in cui il dolore dei singoli assume una dimensione e una visibilità comunitaria, sociale. Nelle bare, che sono sempre troppe, insopportabilmente troppe, sono rinchiuse le speranze di chi è rimasto sotto le macerie e di chi da quelle macerie è uscito distrutto nei suoi sentimenti più cari.

In modo misterioso, i veri celebranti del rito funebre sono proprio i morti: sono infatti le loro vite spezzate, la comunione che alimentavano attorno a sé, l’amore di cui si sono mostrati capaci ad aver convocato quanti li hanno amati e quanti hanno tragicamente scoperto la fragilità di ogni esistenza, la solidarietà nella comune debolezza umana. Non ci sono parole all’altezza di questi eventi: ciò che spetta a noi tutti è assumere, ciascuno con i propri limiti, la responsabilità di farsi prossimo con umiltà e nella compassione.

Da alcuni giorni non cessano di risuonare due domande che sono un unico grido di dolore: "Perché?" e "Dio, dove sei?". Sono domande antiche come il mondo e brutalmente nuove di fronte a ogni catastrofe. Soprattutto sono domande che ciascuno sente sgorgare in sé all’improvviso, dopo che tante volte aveva potuto illudersi che riguardassero solo gli altri. Poi, più ancora che la forza delle immagini trasmesse dai media, basta l’evocazione di un luogo conosciuto, la somiglianza con un volto familiare, il ricordo di un’amicizia lontana per rendere la disgrazia vicina, nostra.

Il "perché?" riguarda le cause del terremoto, che non sono mai solo naturali, e che dovrebbero essere affrontate con lucidità e serietà nell’immediato, ma ancor più nelle fasi successive, per dare non una risposta ma un fine a questo "perché" e renderlo un "affinché", così che il "mai più!" non risuoni come generica promessa, reiterata in modo scandalosamente inutile a ogni sciagura.

"Dio, dove sei?" invece è l’interrogativo che scuote la nostra fede nel Dio narratoci da suo figlio Gesù: un Padre che non castiga né punisce, ma che perdona, resta misericordioso e invita tutti a non peccare più. È l’antica domanda rilanciata da Voltaire dopo il terremoto di Lisbona del 1755: «O Dio è onnipotente, e allora è cattivo, oppure Dio è impotente, e allora non è il Dio in cui gli uomini credono».

Eppure tutta la tradizione spirituale ebraica e cristiana, ci dice che Dio non è lontano, è con le vittime, accanto a loro, in qualche misura partecipa alle sofferenze umane e accompagna silenziosamente ciascuna di loro per abbracciarla al di là della morte e darle quella vita promessa che è stata contraddetta e negata nella storia. Dio è misericordioso, compassionevole, fedele nell’amore: egli ci accompagna senza mai abbandonarci, anche se il male, la sofferenza e la morte restano un enigma che solo a fatica, grazie alla fede e a Gesù Cristo, può diventare mistero di vita.

Ma chiediamoci anche: può Dio intervenire nel mondo con eventi di cui lui è protagonista senza l’azione degli uomini? Può intervenire castigando o compiendo materialmente il bene senza la cooperazione degli uomini? Oppure Dio interviene solo inviando il suo spirito nella mente e nel cuore delle persone che poi agiscono per il bene o per il male? Molti cristiani oggi sono persuasi che il mondo abbia una propria autonomia da Dio, che siamo veramente liberi e che Dio non può costringerci né con il castigo né con il premio terreno e che quindi la vera domanda da porsi è"Dov’è l’uomo?".

Già Rousseau rispondeva in questi termini all’interrogativo di Voltaire. Sì, dov’è l’uomo con le sue responsabilità concrete nella mancata prevenzione, nella cattiva gestione del territorio, nel prevalere dell’interesse personale su quello comune?Eppure questi tragici eventi ci rivelano un duplice volto dell’essere umano: quello assente, irresponsabile, cinico che purtroppo ben conosciamo. Ma anche quello radicalmente "umano", quello della compassione, della dedizione spontanea, volontaria, del lanciarsi in soccorso di sconosciuti, dell’umanissimo piangere con gli altri, del ritrovare proprio scavando tra le macerie del dolore l’appartenenza all’unica famiglia umana che era andata smarrita. Ecco dov’è l’uomo, l’essere umano nella sua verità più profonda: lì, a mani nude e a cuore aperto, accanto al fratello, alla sorella nella disgrazia.

Anche oggi che siamo senza parole dobbiamo ripeterci gli uni altri che l’ultima parola non è e non sarà la morte, ma la vita piena che Dio dona a tutti noi, suoi figli e figlie:l’ultima parola spetterà a Dio, nella Pasqua eterna, quando asciugherà le lacrime dai nostri occhi, distruggerà la morte e, perdonando il male da noi compiuto, trasfigurerà questa terra in terra nuova, dimora del suo Regno.
(fonte: Avvenire 27/08/2016)
PIETRE VIVE:

ACCOGLIERE IL POTERE DI CRISTO RISORTO PERCHE' COMPIA IN NOI LA MISSIONE DI SERVIRE NELL'AMORE GRATUITO OGNI UOMO

Il Vangelo del giorno. 




αποφθεγμα Apoftegma

Non abbiamo forse tutti in qualche modo paura, 
se lasciamo entrare Cristo totalmente dentro di noi, 
se ci apriamo totalmente a lui, 
paura che Egli possa portar via qualcosa della nostra vita? 
Non abbiamo forse paura di rinunciare a qualcosa di grande, 
di unico, che rende la vita così bella? 
Non rischiamo di trovarci poi nell'angustia e privati della libertà? 
Ed ancora una volta San Giovanni Paolo II voleva dire: 
no! chi fa entrare Cristo, non perde nulla, nulla - assolutamente nulla 
di ciò che rende la vita libera, bella e grande. 
No! solo in quest'amicizia si spalancano le porte della vita. 
Solo in quest'amicizia si dischiudono realmente 
le grandi potenzialità della condizione umana. 
Solo in quest'amicizia noi sperimentiamo ciò che è bello e ciò che libera.

Benedetto XVI












L'ANNUNCIO

Dal Vangelo secondo Matteo 25,14-30.
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli questa parabola: 
«Un uomo, partendo per un viaggio, chiamò i suoi servi e consegnò loro i suoi beni. 
A uno diede cinque talenti, a un altro due, a un altro uno, a ciascuno secondo la sua capacità, e partì. 
Colui che aveva ricevuto cinque talenti, andò subito a impiegarli e ne guadagnò altri cinque. 
Così anche quello che ne aveva ricevuti due, ne guadagnò altri due. 
Colui invece che aveva ricevuto un solo talento, andò a fare una buca nel terreno e vi nascose il denaro del suo padrone. 
Dopo molto tempo il padrone di quei servi tornò, e volle regolare i conti con loro. 
Colui che aveva ricevuto cinque talenti, ne presentò altri cinque, dicendo: Signore, mi hai consegnato cinque talenti; ecco, ne ho guadagnati altri cinque. 
Bene, servo buono e fedele, gli disse il suo padrone, sei stato fedele nel poco, ti darò autorità su molto; prendi parte alla gioia del tuo padrone. 
Presentatosi poi colui che aveva ricevuto due talenti, disse: Signore, mi hai consegnato due talenti; vedi, ne ho guadagnati altri due. 
Bene, servo buono e fedele, gli rispose il padrone, sei stato fedele nel poco, ti darò autorità su molto; prendi parte alla gioia del tuo padrone. 
Venuto infine colui che aveva ricevuto un solo talento, disse: Signore, so che sei un uomo duro, che mieti dove non hai seminato e raccogli dove non hai sparso; 
per paura andai a nascondere il tuo talento sotterra; ecco qui il tuo. 
Il padrone gli rispose: Servo malvagio e infingardo, sapevi che mieto dove non ho seminato e raccolgo dove non ho sparso; 
avresti dovuto affidare il mio denaro ai banchieri e così, ritornando, avrei ritirato il mio con l'interesse. 
Toglietegli dunque il talento, e datelo a chi ha i dieci talenti. 
Perché a chiunque ha sarà dato e sarà nell'abbondanza; ma a chi non ha sarà tolto anche quello che ha. 
E il servo fannullone gettatelo fuori nelle tenebre; là sarà pianto e stridore di denti».




ACCOGLIERE IL POTERE DI CRISTO RISORTO PERCHE' COMPIA IN NOI LA MISSIONE DI SERVIRE NELL'AMORE GRATUITO OGNI UOMO 


L'inizio della parabola descrive, in una profezia, il cuore della missione di Gesù e della sua Chiesa: "consegnando i suoi beni", l' "uomo", immagine di Gesù, "consegna" tutto se stesso. Ma quest' "uomo" è anche immagine di ogni uomo, creato da Dio a immagine del Figlio, perché si "consegni" senza riserve. Dopo aver compiuto il suo Esodo dalla morte alla Vita, Egli chiama gli apostoli "che si era scelti nello Spirito Santo" e impartisce loro le istruzioni sulla missione svelando i segreti del Regno. A Gesù che sta per partire, è stato dato ogni potere in cielo e in terra: consegnando i “talenti” Egli dice agli apostoli: "Andate dunque e ammaestrate tutte le nazioni, battezzandole nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro ad osservare tutto ciò che vi ho comandato. Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo" (Mt. 28, 18-20). I "talenti" sono dunque colmi del potere stesso di Cristo. Comprendiamo allora l'incipit della parabola, che è poi quello della nostra vita, come lo è stato di quella del Signore: l'amore smisurato spinge il Padre a consegnare il Figlio al posto nostro, e il Figlio a consegnarsi al Padre. Il frutto di questo amore intimo e perfetto, è la consegna dei beni di Dio alla Chiesa, a ciascuno di noi, perché siano consegnati ad ogni uomo. E il bene più grande di Dio è il Figlio stesso. E' Lui il talento prezioso che i servi ricevono. "Come il Padre ha mandato me anche io mando voi", perché "come il Padre ha amato me, anche io ho amato voi". Il "come" è descritto nel diverso numero dei talenti che ricevono i servi. Non si tratta di qualità umane diverse, ma delle varie grazie donate in funzione della missione specifica che ciascuno riceve. Se il talento è Cristo, consegnato attraverso la sua Parola, i sacramenti e tutti i beni che la Chiesa ha sempre custodito e amato, anche chi riceve un solo talento non ha affatto ricevuto meno. Al contrario, ha ricevuto tutto, e nulla manca per compiere la sua missione. Significa che la storia di ciascuno è diversa e irripetibile; agli occhi di Dio la vita di San Francesco Saverio non è più importante di quella di una sconosciuta monaca di clausura nascosta a Lisieux. Il Papa riceve i talenti necessari per adempiere alla sua missione, così come la vedova ammalata che vive in uno sperduto paese di montagna. E noi, che ne abbiamo fatto dei “talenti” che Dio ci dona? Qui sorge una prima questione, fondamentale: per riceverli abbiamo bisogno della Chiesa. Per consegnarli, infatti, “l’uomo chiama i suoi servi”: c’è una chiamata alla quale occorre rispondere. Abbiamo ascoltato l’annuncio della Chiesa e accolto in esso la voce del Signore che ci “chiama”? Altrimenti è inutile cercare i talenti, di fronte alle situazioni della vita nelle quali potremmo “farli fruttare”, non avremo nulla da “consegnare”. Ma, anche se abbiamo accolto la “chiamata” ciò non assicura i “frutti”. I “talenti” dei quali parla Gesù non appaiono così, all’improvviso, ma essendo dati in funzione di una missione, si accolgono nella comunione della Chiesa, dove si impara a “trafficarli”.




Seconda questione: stiamo camminando nella comunità, oppure siamo “cristiani fai da te”, come ripete Papa Francesco? Forse siamo proprio come il “servo fannullone”, la cui "paura" nasceva dall'invidia. Come Caino che non guardava di buon occhio suo fratello, anche lui guardava storto gli altri servi. Nella parabola questo non è scritto, ma si può dedurre da come guardava il Signore. Quell'unico talento tra le mani gli innesca i pensieri più terribili: "so che sei un uomo duro, che mieti dove non hai seminato e raccogli dove non hai sparso". E’ invidioso, che, etimologicamente, significa avere un occhio cattivo. Il servo è in-capace di vedere, e quindi conoscere, Colui che gli ha dato il talento e per questo nasconde ciò che ne è immagine e presenza. Ma, con il talento, nasconde anche se stesso. Come Adamo, che si nasconde dopo aver creduto al demonio che gli aveva presentato un Dio geloso di lui. Sotterrare il talento, infatti, significa seppellire la propria dignità, la primogenitura e il senso della propria vita; significa nascondersi e macerarsi nella solitudine. Perché sotterrare il talento è occultare Cristo, ucciderlo, come Caino uccise Abele. Non gli piaceva quel Talento. Spingeva ad uscire da se stessi, a dimenticare i propri criteri e a donarsi. No, non era il talento che desiderava, per saziarsi e realizzarsi. Era un mostro di talento, inaccettabile. Ma era Cristo, che, giorno dopo giorno, aveva rifiutato. Il "servo malvagio e infingardo" non ha trattato il Talento con familiarità, amore, dedizione, fedeltà, come fosse cosa propria, accogliendo in esso la presenza di Colui che glielo aveva affidato. Nascondendolo, ha perso l'occasione di abbandonarsi alla fedeltà, al potere e all'amore di Dio per vivere secondo la sua volontà. E la sua vita è divenuta un brandello da gettare "fuori nelle tenebre", dove "sarà pianto e stridore di denti". Come spesso facciamo anche noi, in una sorta di "damnatio memoriae" delle persone e degli eventi che non abbiamo accettato. Sotterriamo, ma è solo la paura di chi non è ancora divenuto figlio perché non conosce l’amore del Padre. Pensiamo che Dio voglia sottrarci qualcosa e sospettiamo di Lui, ingannati dalla menzogna primordiale nella quale sono caduti i progenitori: Dio non ti ama, vuole solo limitarti. E’  esigente, e la Chiesa, peggio di peggio. Così, ascoltando il demonio, comincia a dominare in noi la paura che dietro alla Croce non vi sia la resurrezione, ma, nella migliore delle ipotesi, solo un grande punto interrogativo. La paura di chi ha smarrito la fede o si è lasciato raffreddare dagli insuccessi e dallo scandalo della sofferenza. E' lo stesso timore che a volte prende la Chiesa e le impedisce di annunciare il Vangelo sotterrando il talento in discussioni, convegni, slogan e proclami. La Chiesa che non annuncia il Vangelo è sempre una Chiesa che ha sepolto Cristo di nuovo. E così lascia sepolti quelli a cui è mandata, al suo interno e nel mondo. Il servo malvagio, infatti, non riporta nessun talento guadagnato: la sua vita è stata infeconda. Quando la Chiesa, mondanizzata, ha paura e non crede nel potere della predicazione, sta gravemente abdicando, si converte in una serva malvagia e fannullona, che lascia nell'inganno e nella morte i suoi figli e i pagani: non li porta e riconsegna a Cristo. Invece, proprio nei momenti in cui la storia ci crocifiggeva, il Signore consegnava il talento! I talenti, infatti, sono Cristo Crocifisso e risorto in noi, inviato ancora a vivere nella storia per seminarvi la sua vittoria sulla morte e il peccato. Nei momenti di dolore e precarietà, lungi dall'essere duro ed esigente, Dio rivela il suo volto pieno di generosità e misericordia: proprio nella durezza della vita - che esiste a causa del peccato - Dio elargisce gratuitamente il suo potere. Per questo, quando ci assalgono i pensieri tristi che ci gettano nella paura e nell'invidia bisogna correre "dai banchieri", dagli esperti del “trading”, per imparare da loro, e perché ci aiutino a trafficare bene quanto ricevuto. Quando ci accorgiamo di perdere il gusto per la volontà di Dio, avviciniamoci ai presbiteri, ai catechisti, ai genitori, agli esperti nella fede che Dio ha messo sul nostro cammino, e affidiamoci a loro. Il Vangelo di oggi rovescia completamente la prospettiva del servo. E’ una catechesi decisiva nel cammino di fede che veniva data ai catecumeni perché non perdessero tempo e obbedissero alla Chiesa, che li invitava a trafficare nel crogiuolo della storia le Grazie e i beni, anche il denaro, ricevuti da Dio. Per questo, "i servi fedeli nel poco" che ancora è questa vita terrena, con le occasioni di amare che ogni giorno ci offre, consegnano al Signore i talenti esattamente raddoppiati: a ciascun talento corrisponde un evento redento, un uomo salvato. A ciascun talento, infatti, corrisponde lo Spirito Santo per entrare nella storia. Anche oggi l'"Uomo" vero, Cristo risorto, si consegna a noi perché possiamo "trafficare" il suo amore con tutti. Sono loro "i frutti" già maturi per l’opera di Cristo che attendono il nostro talento per tornare a Lui. Quando entriamo in ufficio e salutiamo i colleghi, abbiamo mai pensato che sono venuti a lavorare perché aspettano da noi il talento che trasforma la loro invidia in pazienza? O che moglie e figli ci sono donati per immergere ogni loro peccato nella misericordia? Che ogni istante è un appuntamento unico e irripetibile, per "guadagnare" a Cristo la persona che incontriamo? Quando marito e moglie si uniscono, il piacere è massimo e sazia proprio quando si donano mutuamente e completamente, senza riserve e contraccettivi, siano essi sulla carne e o nel cuore perché anche nel sesso il Talento è fecondo. Ovunque siamo chiamati, preti, suore e laici, è preparata per noi la gioia piena e autentica dell'amore. La stessa gioia di Cristo esplosa la sera di Pasqua nel rivedere i suoi discepoli: il suo talento aveva dato il frutto meraviglioso della salvezza di quel manipolo di traditori. Per questo la missione della Chiesa, è un'avventura affascinante: vivere trafficando il talento per oltrepassare ogni giorno la soglia dell'impossibile, oltre la quale c'è la gioia vera, la partecipazione piena ed eterna a tutti i beni di Dio.

APPROFONDIMENTI


P. Raniero Cantalamessa. Scopritori di talenti, non per guadagno ma per altruismo