Santa Maria,

Santa Maria,
...donna del primo sguardo, donaci la grazia dello stupore.

mercoledì 31 ottobre 2012

Mercoledì & Martedì della XXX^ settimana del Tempo Ordinario

Da Il Vangelo del Giorno di oggi


La Porta Santa evoca il passaggio
che ogni cristiano è chiamato a compiere dal peccato alla grazia.
Gesù ha detto: «Io sono la porta»,
per indicare che nessuno può avere accesso al Padre
se non per mezzo suo.
C'è un solo accesso che spalanca l'ingresso nella vita di comunione con Dio:
questo accesso è Gesù, unica e assoluta via di salvezza.
Solo a lui si può applicare con piena verità la parola del Salmista:
«E' questa la porta del Signore, per essa entrano i giusti».
Giovanni Paolo II, Incarnationis Mysterium

Dal Vangelo secondo Luca 13,22-30.
Passava per città e villaggi, insegnando, mentre camminava verso Gerusalemme.
Un tale gli chiese: «Signore, sono pochi quelli che si salvano?». Rispose: «Sforzatevi di entrare per la porta stretta, perché molti, vi dico, cercheranno di entrarvi, ma non ci riusciranno. Quando il padrone di casa si alzerà e chiuderà la porta, rimasti fuori, comincerete a bussare alla porta, dicendo: Signore, aprici. Ma egli vi risponderà: Non vi conosco, non so di dove siete. Allora comincerete a dire: Abbiamo mangiato e bevuto in tua presenza e tu hai insegnato nelle nostre piazze. Ma egli dichiarerà: Vi dico che non so di dove siete. Allontanatevi da me voi tutti operatori d'iniquità! Là ci sarà pianto e stridore di denti quando vedrete Abramo, Isacco e Giacobbe e tutti i profeti nel regno di Dio e voi cacciati fuori. Verranno da oriente e da occidente, da settentrione e da mezzogiorno e siederanno a mensa nel regno di Dio. Ed ecco, ci sono alcuni tra gli ultimi che saranno primi e alcuni tra i primi che saranno ultimi».
Il commento
Una «porta stretta» ci separa dalla felicità. Anticamente all’interno della porta grande ve ne era una di servizio, più piccola, che veniva chiusa per ultima. Era quella che attendeva il Servo di Dio a «Gerusalemme», e ogni suo discepolo nella propria «città». Essa è un appello di Gesù alla nostra libertà: Egli «passa», e «insegnando» la dischiude dinanzi a noi chiamandoci a seguirlo sul cammino della salvezza. Viviamo in un tempo di Grazia per convertirci, perché un giorno la porta sarà «chiusa». Il «tale» del Vangelo però sembra non lasciarsi coinvolgere. Anonimo e indifferente sulla soglia della questione fondamentale dell’esistenza, è immagine di ciascuno di noi di fronte all’urgenza della chiamata di Gesù. Come quell’uomo e i rabbini del tempo, ci interessiamo della «salvezza» accademicamente, forse scandalizzati della possibilità che i pagani - la «casta» che ruba o il collega che ci fa le scarpe - si salvino con noi che crediamo di essere già «in salvo», lontani dalla loro corruzione e malvagità. Ma non siamo salvi affatto, l’indifferenza verso il drammatico appello di Gesù nasconde la paura che ci impietrisce dinanzi alla «porta stretta» dove passare per donarci ai fratelli. «Cerchiamo» di «entrare» nella comunione e nella pace con loro ma «non ci riusciamo». Il peccato ci ha fatto sperimentare la morte e, come i progenitori «scacciati» «fuori» dalla casa del «Padrone», «non abbiamo forza» di «lottare» (sforzarci) per amare.
Allora ci affrettiamo a «bussare», pregando e chiedendo consigli, ma non è la conversione. È il tentativo di giustificarci accusando Dio subdolamente opponendogli le nostre «opere». Certo Gesù ha «insegnato» nelle nostre chiese, è stato «presente» quando «abbiamo mangiato e bevuto» nelle liturgie, ma nel fondo non lo abbiamo mai accolto. Dinanzi alla «porta stretta» infatti cadono tutte le maschere e appare l’autentica matrice delle nostre «opere»: la superbia nella quale viviamo per noi stessi servendoci «iniquamente» dei fratelli. Sono opere così diverse da quelle del Figlio da renderci «irriconoscibili» al Padre; non può aprirci perché «non sa da dove veniamo», la lingua delle nostre preghiere infatti è radicalmente diversa da quella del suo Regno. Ma è ancora giorno, i fratelli sono accanto a noi e la «porta» è tenuta aperta dalla pazienza di Dio. Possiamo convertirci perché il «pianto» di oggi non ci accompagni domani e per l’eternità. La salvezza è dischiusa dinanzi a noi oltre la «porta stretta» del sepolcro del Signore. La forza dirompente della sua risurrezione ha rotolato via la pietra che ci impauriva. Il suo amore ci attira dietro a Lui nella «lotta» quotidiana per uscire dal peccato ed entrare nel Regno di Dio e sederci a «mensa» in compagnia dei Patriarchi e di tutti i peccatori salvati prima di noi. Lasciamo che il Signore tagli via quanto in noi è troppo grande e ci impedisce di passare, per scendere dai «primi» posti della superbia che ci aveva condannato, all’«ultimo» dell’umiltà dove il Signore ci aspetta per salvarci

Ieri Martedì della XXX settimana del Tempo Ordinario


Nagasaki, 17 marzo 1865. Padre Petitjean "scopre" i cristiani nascosti giapponesi. 
Dopo trecento anni avevano conservato la fede.


La fede ci dà già ora qualcosa della realtà attesa, 
e questa realtà presente costituisce per noi 
una «prova» delle cose che ancora non si vedono. 
Essa attira dentro il presente il futuro. 
Il fatto che questo futuro esista, cambia il presente; 
il presente viene toccato dalla realtà futura, 
e così le cose future si riversano in quelle presenti
e le presenti in quelle future.
Il suo regno non è un aldilà immaginario, 
posto in un futuro che non arriva mai; 
il suo regno è presente là dove Egli è amato
e dove il suo amore ci raggiunge.
Benedetto XVI, Spes salvi

Lc 13,18-21
In quel tempo, Gesù diceva: "A che cosa è simile il regno di Dio, e a che cosa lo rassomiglierò? È simile a un granellino di senapa, che un uomo ha preso e gettato nell'orto; poi è cresciuto e diventato un arbusto, e gli uccelli del cielo si sono posati tra i suoi rami". E ancora: A che cosa rassomiglierò il regno di Dio? È simile al lievito che una donna ha preso e nascosto in tre staia di farina, finché sia tutta fermentata".
Il commento
La pienezza della vita è nascosta nell'insignificanza, quella da cui tutti scappiamo con terrore. Ma è proprio in ciò che scivola via invisibile che appare il Regno di Dio, come in un «seme gettato» in un campo o nel «lievito nascosto» nell’impasto è presente qualcosa di vivo e fecondo. Come è accaduto nel sepolcro dove è disceso il Signore: al di fuori era solo morte e dolore, ma al di qua della pietra risplendevano vita e gioia. Era un granello quando viene sepolto in terra, ma è un albero quando si eleva al cielo (S. Ambrogio). Gli strumenti umani, tarati sul successo, il prestigio e la visibilità, non possono rilevare le coordinate del Regno di Dio; esse infatti coincidono con il punto esatto della nostra vita dove, umiliati, fraintesi, traditi, diveniamo invisibili alla vista del radar mondano. Solo la fede sa discernere nella Croce il trono regale di Dio, sul limite oltre il quale ci attendono la disperazione, l'esaurimento, la resa riconoscere Gesù che si dona a noi. 
L'umana insignificanza definisce l'autenticità del nostro essere: come «il granellino di senapa» e il «lievito» nel buio di terra e farina diventano fecondi, così anche noi siamo spogliati di tutto per rivestirci di Cristo e vivere nell’amore per il quale siamo stati creati. «Gettati» nell’«orto» di Dio e «cresciuti» nella fede della Chiesa, siamo chiamati a distendere le nostre braccia sui «rami» della Croce per accogliere «gli uccelli del cielo», immagine biblica dei popoli pagani. La fede infatti triturata dalle avversità, diffonde il suo vigore (S. Ambrogio). «Nascosti» nell’impasto quotidiano di famiglia, scuola, ufficio, mercato, siamo inviati a «fermentare» di luce i fallimenti che prima o poi aggrediscono ogni uomo. Attraverso la nostra insignificanza redenta, nel martirio silenzioso e nascosto che ogni giorno ci attende, il Signore rinnova il suo amore per questa generazione, mostrando in noi il paradosso del Regno di Dio che la può salvare.

I martiri e i cristiani nascosti in Giappone, seme e lievito di salvezza
In Giappone la Chiesa vanta decine di migliaia di martiri. Essa ha conosciuto quasi trecento anni di solitudine, stretta da una persecuzione feroce. Nulla che lasciasse presagire un cambiamento. Non fu una settimana, un mese, un anno. Furono migliaia di giorni, e generazioni che sorgevano e tramontavano nella cappa asfissiante di una vita nascosta, nel timore delle delazioni, ogni preghiera sussurrata, le feste celebrate con gli abiti di ogni giorno: niente sacerdoti, niente sacramenti dopo il battesimo, niente chiese. Solo la propria vita dentro un'interminabile e buia catacomba. Ma il Regno di Dio era lì, nascosto, invisibile, disciolto come lievito nella storia comune di ogni giorno. Insignificanti, i kakure kiristan (cristiani nascosti) hanno vissuto aggrappati alla promessa dei missionari: “torneremo un giorno...”. La fede è stata l'unica roccia cui aggrappare la loro vita. La larghissima maggioranza di loro non hanno visto quel giorno con gli occhi della carne. Ma il regno di Dio non si è mai allontanato dal Giappone: in mezzo alle persecuzioni, nell'insignificanza e nel disprezzo, nel dissolversi quotidiano di ogni speranza umana, esso ha fecondato quella terra, ha fermentato quel popolo. In quei giorni intrisi di fede Dio era presente in loro, nascosto con loro. Nessuno poteva sapere o immaginare. Anche a Roma erano convinti che non vi fossero più cristiani in Giappone. Invece, un giorno di marzo del 1865, a Nagasaki dove aveva costruito una cappella per i commercianti stranieri, ancora vigente l'editto di persecuzione, un missionario francese è raggiunto da una notizia sconvolgente: "abbiamo lo stesso cuore!". Erano un pugno di uomini e donne, un granello di senapa, un po' di lievito. Erano i discendenti dei martiri, nascosti nella terra, nella farina, nella solitudine di ogni giorno. Ed ora erano lì, pronti a stendere ancora le braccia, ad offrire la propria vita, con lo stesso cuore di Cristo. L'insignificanza aveva partorito il senso autentico e profondo celato in essa. Molti di essi morirono martiri poco tempo dopo, testimoniando l'amore di Dio sino alla fine. Questa è la comunità cristiana, la Chiesa di Cristo: braccia distese sulla Croce della misericordia, distese verso ogni uomo, il peggiore, il più peccatore, il più perduto.

APPROFONDIMENTI




ABBIAMO LO STESSO CUORE! IL SEME DI NAGASAKI HA DATO IL SUO FRUTTO

Il chicco di grano caduto in terra a Nagasaki e scoperto, ormai albero forte e robusto, quando si pensava fosse ormai seccato. 


A Nagasaki, quel 17 marzo del 1865, sembrava una giornata come qualsiasi altra. Padre Petitjean, dopo aver finito il pranzo, prese un panno asciutto ed entrò nella nuova cappella di Oura, nel quartiere di Murakami. Come ogni giorno, poteva scorgere, attraverso la porta parzialmente aperta, la folla di spettatori che lo scrutavano con curiosità. A causa del divieto del magistrato, i giapponesi non avrebbero fatto un ulteriore passo avanti verso la chiesa. Quando ebbe finito le pulizie, si inginocchiò davanti all'altare e strinse le mani. Pasqua era vicina. 
Erano appena passate le dodici e trenta quando udì un lieve rumore dietro di lui; si voltò, e vide quattro o cinque giapponesi in silenzio intenti a fissarlo. Gli uomini indossavano abbigliamento trasandato e le loro facce sembravano cotte al sole. Lo guardavano timidamente, i loro occhi erano come quelli dei topi quando scrutano l'ambiente circostante; ma quando Padre Petitjean girò la testa verso di loro, si ritirarono velocemente. Con un sorriso forzato congiunse di nuovo le mani e riprese la sua preghiera.
Ancora una volta udì un debole rumore. Questa volta però rimase inginocchiato e non prestò attenzione ai curiosi, così da offrire loro del tempo per guardare l'altare e le statue di Gesù e Maria. Gli uomini presero un po' di coraggio: sentì dei passi, i giapponesi sembravano venire ancora più vicino. "Queste cose strane in fila qui. . . Sai come si chiamano? ". Erano ormai tanto vicini da poter ascoltare la loro conversazione. Padre Petitjean Era così nervoso da trovarsi sul punto di piangere.
Ad un tratto una donna gli chiese: «Signore. . . Dove si trova la statua di Santa Maria? "
Padre Petitjean cercò di alzarsi, ma non riusciva a rimettersi in piedi. L'intensità di quelle emozioni gli rendeva impossibile muoversi. "La statua. . . di Santa Maria", sussurrò. "Vieni con me". Padre Petitjean  condusse la donna alla base della statua della Madonna a destra dell'altare. La giovane Madre sorrideva, aveva una corona sulla testa e il bambino Gesù in braccio. [La statua stessa è ancora in mostra oggi nella cattedrale di Oura a Nagasaki.]
La donna, insieme ad altri uomini e donne nel gruppo, sollevò gli occhi per guardare dove Petitjean stava indicando. Stettero in silenzio per un po’ di tempo, finché la donna mormorò, quasi come un sospiro o un gemito, "E’ così bella!". Anche gli altri sospirarono. Poi, con alcuni di loro, gli chiese se fosse per caso sposato. E ancora, se lo avesse inviato lì il Papa di Roma.
Poi, una voce di donna si udì scandire alcune parole: "Signore . .  Abbiamo lo stesso cuore".
Era la voce di una donna di mezza età. Si fermò dietro di lui, sussurrando dolcemente come a svelare un importante segreto. "Signore . .  Abbiamo lo stesso cuore". Padre Petitjean ne rimase talmente sbalordito che non potè cogliere immediatamente il significato di quelle parole. Ma nell'istante in cui il loro significato gli divenne chiaro, si sentì come colpito da un fulmine. Erano loro! Erano apparsi finalmente! Erano i cristiani!
Padre Petitjean allora chiese con voce rauca: "Sei Kirishitan. . . ? ". Aveva la gola riarsa.
"Sì", rispose un giovane di fronte al gruppo.
Petitjean avrebbe voluto dire loro che era un sacerdote. Ma non c'era ancora una parola giapponese per dire "prete". "Petitjean. Petitjean". Indicò il naso e ripetè il suo nome. Poi chiese al giovane: "Da dove vieni?" Questi rispose: "Urakami".
Proprio in quel momento, una voce gridò dall'ingresso, "Presto! Sta arrivando un ufficiale!", Quelli nella cappella si allontanarono rapidamente sparendo come fumo attraverso l'uscita.
Petitjean rimase immobile nella cappella vuota. Ondate di emozioni inesprimibili si infrangevano nel suo cuore. Aveva voglia di urlare. Voleva gridare al Padre Furet: “Vedete! Sono qui a Nagasaki! Essi esistono davvero! Che splendida città è questa!”. Attraverso 200 anni di persecuzione spietata e feroce oppressione, i cristiani giapponesi, come un unico albero, avevano subito un acquazzone, e alcuni di loro erano ancora rimasti vivi!. “Abbiamo lo stesso cuore!”.



Sant'Ambrogio (circa 340-397), vescovo di Milano e dottore della Chiesa 
Commento al Vangelo di Luca, 7, 176-180

Il granellino di senapa

Vediamo dunque perché il sublime regno dei cieli è paragonato a un granello di senape. Ricordo di aver letto, anche in un altro passo, del granello di senape, dove dal Signore è paragonato alla fede con queste parole: "Se avrete fede pari a un granellino di senape, direte a questo monte: spostati da qui a là, ed esso si sposterà, e niente vi sarà impossibile" (Mt 17,20)... Orbene, se il regno dei cieli è come un granellino di senape e anche la fede è come un granellino di senape, la fede è certamente il regno dei cieli, e il regno dei cieli è la fede. Quindi, chi ha la fede ha il regno dei cieli... E infine Pietro, che aveva tutta la fede, ricevette le chiavi del regno dei cieli, per aprirne le porte agli altri (cfr. Mt 16,19). Consideriamo ora, tenendo conto della natura della senape, la portata di questo paragone. Il suo granello è senza dubbio una cosa modesta e semplice, ma se si comincia a tritarlo, diffonde il suo vigore. E così la fede sembra semplice di primo acchito, ma triturata dalle avversità, diffonde il suo vigore... Granello di senape sono i nostri martiri Felice, Nabor e Vittore : essi avevano il profumo della fede, ma li si ignorava. Venne la persecuzione; essi deposero le armi, porsero il collo e, abbattuti dal fendente della spada, diffusero la grazia del loro martirio per tutto il mondo, tanto da potersi dire giustamente: "La loro eco si è propagata per tutta la terra"  (Sal 19,5). Lo stesso Signore è un granello di senape. Egli non aveva subito ingiurie, ma, come il granello di senape, prima di essersi accostato a lui, il popolo non lo conosceva. Egli volle essere stritolato...; volle essere premuto, sicché Pietro disse: "Maestro, la folla ti stringe da ogni parte e ti schiaccia" (Lc 8,45); ed infine volle essere anche seminato come il granello che fu « preso e gettato da un uomo nel suo orto ». Infatti in un orto Cristo fu catturato e poi seppellito; in un orto crebbe, dove pure risorse... Dunque, anche tu semina Cristo nel tuo orto... Tu semina il Signore Gesù: egli è un granello quando viene arrestato, un albero quando risuscita, un albero che fa ombra a tutto il mondo. È un granello quando viene sepolto in terra, ma è un albero quando si eleva al cielo.


San Giovanni Crisostomo (circa 345-407), vescovo d'Antiochia poi di
Costantinopoli, dottore della Chiesa
Omelie sul Vangelo di Matteo, 46, 2

«Finché sia tutta fermentata»

Il Signore presenta poi l'immagine del lievito... Come il lievito diffonde la sua forza in tutta la pasta, così anche voi trasformerete tutto il mondo. (Considerate la sapienza del Salvatore. Egli vuol far intendere questo: come è impossibile che i fatti naturali non si realizzino, così quanto io ho preannunciato avverrà infallibilmente)... Il lievito fermenta
la massa quando lo si accosta alla farina; e non semplicemente lo si accosta, ma lo si mescola. Gesù non dice che la donna mette il lievito nella farina, ma che lo nasconde dentro, impastandolo con essa. Così anche voi, quando sarete spinti dentro e vi troverete in mezzo alle folle che da ogni parte vi faranno guerra, allora le vincerete. Il lievito si nasconde nella massa, ma non va perduto; anzi, a poco a poco, le comunica la sua forza: lo stesso avviene per il messaggio evangelico. Non abbiate quindi timore delle numerose difficoltà che vi ho preannunciato: è in questo modo che risplenderà la vostra forza e vincerete.


Simeone il Nuovo Teologo (circa 949-1022), monaco 
Inno 17

Il regno di Dio

Ti mostrerò chiaramente che ti occorre ricevere quaggiù tutto il Regno dei cieli, se vuoi entrarvi anche dopo la tua morte. Ascolta Dio che ti parla in parabole : « A che cosa è simile il Regno dei cieli ? È simile, ascolta bene, ad un granellino di senapa, che un uomo ha preso e gettato nell’orto ; poi è cresciuto e, in verità, è diventato un albero ». Questo granellino, è il Regno dei cieli, è la grazia dello Spirito divino, mentre l’orto, è il cuore di ogni uomo, là dove, chi l’ha ricevuto, nasconde lo Spirito nel profondo del suo animo, nei recessi delle sue viscere, perché nessuno possa vederlo. E lo custodisce con ogni cura perché cresca, e diventi un albero e si innalzi verso il cielo. Se dunque dici : « Non quaggiù, ma dopo la morte, riceveranno il Regno coloro che l’avranno desiderato con fervore », sconvolgi le parole del Salvatore nostro Dio. E se non prenderai quel granellino, quel granellino di senapa, come egli ha detto, se non lo gettera i nel tuo orto, rimarrai completamente sterile. In quale altro momento, se non ora, pensi di poter ricevere quel seme ? « Quaggiù, ricevi il pegno, dice il Maestro ; quaggiù, ricevi il sigillo. Fin da quaggiù accendi la tua lampada. Se avrai buonsenso, per te, quaggiù, diventerò la perla (Mt 13,45), quaggiù sarò il tuo chicco di grano e come il granellino di senapa. Quaggiù divento per te il lievito che fa lievitare la pasta. Quaggiù sono per te come acqua e divento un dolce fuoco. Quaggiù divento il tuo vestito e il tuo cibo e la tua bevanda, se lo desideri ». Questo dice il Maestro : « Se dunque, fin da quaggiù, mi riconoscerai come tale, lassù allora mi possederai ineffabilmente, e diventerò tutto per te ».


Sant’Ambrogio nel quarto secolo

«Gli uccelli del cielo possono ripararsi alla sua ombra»

Il Signore stesso è un granello di senapa... Se Cristo è un granello di senapa, in quale modo egli è il più piccolo, e come cresce? Non nella sua natura egli cresce, ma secondo l’apparenza. Volete sapere come egli è il più piccolo? “Non ha apparenza né bellezza per attirare i nostri sguardi” (Is 53,2). Imparate che egli è il più grande: “Tu sei il più bello tra i figli dell’uomo” (Sal 44,3). Infatti colui che non aveva apparenza né bellezza è diventato superiore agli angeli (Eb 1,4) superando tutta la gloria dei profeti di Israele... Egli è il più piccolo di tutti semi, perché non è venuto con la regalità, né con le ricchezze, né con la sapienza di questo mondo. Ora, come un albero, ha fatto crescere l’alta cima della sua potenza, cosicché diciamo: “Alla sua ombra, cui anelavo, mi siedo” (Ct 2,3). Secondo me, sovente sembrava contemporaneamente albero e seme. È seme quando dicono: “Non è egli forse il figlio del carpentiere,” (Mt 13,55). E proprio durante queste parole é improvvisamente cresciuto: “Da dove mai viene a costui questa sapienza? ” (vs. 54). Nel fogliame dei suoi rami potranno ripararsi con sicurezza l’uccello notturno nella sua dimora, l’uccello solitario sopra il tetto (Sal 101,7), quello che fu rapito fino al terzo cielo (2 Cor 12,3), e quello che sarà “rapito tra le nuvole, nell’aria” (1 Tes 4,17). Là riposeranno anche le potenze e gli angeli dei cieli e quanti hanno, grazie alle loro azioni spirituali, preso il volo. San Giovanni vi si è riparato quando riposava sul petto di Gesù (Gv 13,25)... E noi che “eravamo lontani” (Gal 2,13), radunati da mezzo alle nazioni, a lungo sballottati nel vuoto del mondo dalle tempeste dello spirito del male, spiegando le ali delle virtù, dirigiamo il nostro volo affinché questa ombra dei santi ci ripari dal caldo soffocante di questo mondo.

lunedì 29 ottobre 2012

Da il Vangelo del Giorno di oggi Lunedì ..La Parola che libera

Lunedì della XXX settimana del Tempo Ordinario



L’uomo, anche se creato per contemplare la luce dall’alto,
è stato scacciato dal paradiso per colpa dei suoi peccati
e, per conseguenza, le tenebre regnano nella sua anima,
facendogli perdere l’appetito delle cose dell’alto
e portare la sua attenzione verso le cose del basso.

San Gregorio Magno




Dal Vangelo secondo Luca 13,10-17.

Una volta stava insegnando in una sinagoga il giorno di sabato.
C’era là una donna che aveva da diciotto anni uno spirito che la teneva inferma; era curva e non poteva drizzarsi in nessun modo.
Gesù la vide, la chiamò a sé e le disse: «Donna, sei libera dalla tua infermità», e le impose le mani. Subito quella si raddrizzò e glorificava Dio.
Ma il capo della sinagoga, sdegnato perché Gesù aveva operato quella guarigione di sabato, rivolgendosi alla folla disse: «Ci sono sei giorni in cui si deve lavorare; in quelli dunque venite a farvi curare e non in giorno di sabato».
Il Signore replicò: «Ipocriti, non scioglie forse, di sabato, ciascuno di voi il bue o l’asino dalla mangiatoia, per condurlo ad abbeverarsi?
E questa figlia di Abramo, che satana ha tenuto legata diciott’anni, non doveva essere sciolta da questo legame in giorno di sabato?».
Quando egli diceva queste cose, tutti i suoi avversari si vergognavano, mentre la folla intera esultava per tutte le meraviglie da lui compiute.


Il commento

Gesù «insegna di sabato» per accompagnarci a scoprire in esso il suo amore infinito. Per Israele «Shabbat» è un frammento di Cielo deposto sulla terra. Celebrarlo fedelmente astenendosi dai 39 lavori proibiti significa impedire al tempo di chiudersi su se stesso in un angosciante «eterno ritorno». «Shabbat» infatti segna il cammino della vita consegnato da Dio sul Sinai: è una sosta nella fatica, la gioia nel dolore, la memoria sempre viva del destino a cui ogni uomo è chiamato. «Shabbat» custodisce e fa gustare la fragranza della Terra Promessa, accoglie ogni uomo nella gratuità dell’amore di Dio per aprirlo alla lode. «Shabbat» è la misericordia di Dio che cerca il peccatore. E proprio in giorno di «Shabbat» una donna «curva» e «legata da satana» «era là», in quella sinagoga. aSenza dire una parola, senza far nulla ascoltava Gesù. Non era «venuta a farsi curare», non lo aveva chiesto, ma, essendo «figlia di Abramo», ne custodiva con fede la promessa nell’attesa del suo compimento.

Anche noi siamo «legati» da satana, «curvi» sotto il peso dei peccati che ci impediscono di «drizzarci» per amare chi ci è accanto. Non possiamo liberarcene «in nessun modo», tanto meno attraverso il moralismo «ipocrita» del «capo della sinagoga» che si «sdegna» dell’amore gratuito di Dio. Come lui spesso anche noi, genitori, preti, educatori, scambiamo per «lavoro» l’opera della Grazia che proprio il sabato profetizza e finiamo con il chiuderne le porte a tutti. Orgogliosamente incapaci di accettare di essere deboli e peccatori, crediamo di curarci attraverso i nostri sforzi, nel «dolore» e nel «sudore» dei «sei giorni» di lavoro. Ci illudiamo così di stare in piedi, mentre restiamo per «diciotto anni» – la nostra vita lontana dal «giardino» – «curvi» sulla terra a cercare tra «spine e cardi», la felicità che solo il «sabato» della Misericordia può donarci. Ma l’unico «modo» per «guarire all'istante» è «essere là» come quella donna, nel seno della Chiesa nostra madre che ci accoglie così come siamo nel compimento dello «Shabbat». Anche oggi nell’Assemblea Santa il Signore ci «vede», ci «chiama», ci annuncia la «libertà» e ci «impone le mani» perdonandoci i peccati per darci il suo Spirito. Ascoltiamo allora il suo «insegnamento» che ha il potere di «scioglierci» dalla «mangiatoia» dove lo spirito malvagio ci «tiene infermi» a saziare le nostre concupiscenze; lasciamoci condurre ad «abbeverarci» alla fonte della Grazia che sono i sacramenti, per celebrare «esultanti» nella liturgia le «meraviglie» del suo amore, «glorificando» Dio con i fratelli. 


Lunedì della XXX^ settimana del T.O.
L'uomo, anche se creato per contemplare la luce dall'alto,
è stato scacciato dal paradiso per colpa dei suoi peccati
e, per conseguenza, le tenebre regnano nella sua anima,
facendogli perdere l'appetito delle cose dell'alto
e portare la sua attenzione verso le cose del basso.

San Gregorio Magno


Dal Vangelo secondo Luca 13,10-17.

Una volta stava insegnando in una sinagoga il giorno di sabato.
C'era là una donna che aveva da diciotto anni uno spirito che la teneva inferma; era curva e non poteva drizzarsi in nessun modo.
Gesù la vide, la chiamò a sé e le disse: «Donna, sei libera dalla tua infermità»,
e le impose le mani. Subito quella si raddrizzò e glorificava Dio.
Ma il capo della sinagoga, sdegnato perché Gesù aveva operato quella guarigione di sabato, rivolgendosi alla folla disse: «Ci sono sei giorni in cui si deve lavorare; in quelli dunque venite a farvi curare e non in giorno di sabato».
Il Signore replicò: «Ipocriti, non scioglie forse, di sabato, ciascuno di voi il bue o l'asino dalla mangiatoia, per condurlo ad abbeverarsi?
E questa figlia di Abramo, che satana ha tenuto legata diciott'anni, non doveva essere sciolta da questo legame in giorno di sabato?».
Quando egli diceva queste cose, tutti i suoi avversari si vergognavano, mentre la folla intera esultava per tutte le meraviglie da lui compiute.

IL COMMENTO

La Parola guarda, chiama a sé e libera. La Parola si fa mani che toccano le infermità, e raddrizzano. La Parola schiude alla lode chi è curvo, incapace di raddrizzarsi in alcun modo. La Parola compie il sabato del riposo, il destino cercato, sperato e mai raggiunto.

Gesù insegna di sabato rivelando cosa sia il sabato. Esso vede, chiama a sé e guarisce: shabbat è la porzione di Cielo dischiusa nel tempo, il kairos che, come una ferita, spezza la trama grigia dei giorni; shabbat impedisce al tempo di chiudersi su se stesso, e spegnere così la speranza. La donna inferma, curva e incapace di drizzarsi è immagine del nostro tempo senza shabbat. La nostra storia che ha smarrito il sigillo dell'Alleanza, la caparra della vita eterna, la breccia che circoncide la carne aprendola ad un destino più grande. Questa donna è immagine di ciascuno di noi curvo sui suoi pensieri, sulle ansie, sulle nevrosi. Incapaci di rizzarci dalle paure per un passato non risolto, pesante come un macigno sul presente. Una offesa, chissà. Un'ingiustizia non digerita. I peccati, gli inganni del demonio come una mano sulla nuca a obbligarci con gli occhi abbassati. Non un pezzo di cielo, lo sguardo sempre sul selciato, senza sapere da dove veniamo e dove andiamo.

Ma Gesù colma shabbat; Egli denuncia l'ipocrisia che si indigna della libertà facendo di shabbat un idolo muto. Di chi rende le nostre chiese, la Parola, il Signore stesso come lo shabbat pervertito dal capo della sinagoga: un peso in più, un moralismo, una garanzia sulla vita che uccide la vita. Gesù guarda oggi la nostra vita, non se ne scandalizza, e dischiude le porte di shabbat perchè esso accolga il nostro tempo curvo sul non senso. Gesù ci dona oggi shabbat in tutto il suo splendore, nel suo sapore unico di festa e libertà. Oggi ci scioglie dalle catene delle menzogne e ci conduce a magiare e a bere i frutti della terra, la vita autentica per la quale siamo nati.

Meditazione
Finalmente. Sei arrivato Signore, mi hai guardato, mi hai chiamato. Mi hai guarito. Curvo sui miei pensieri, sulle mie ansie, sulle mie nevrosi. Le paure per un passato non risolto, pesante come un macigno sul mio presente. Una offesa, chissà. Un'ingiustizia non digerita, ed eccomi da anni accasciato e incapace di sollevare lo sguardo. Si, questa è la mia vita. I peccati, gli inganni del demonio come una mano sulla nuca a obbligarmi con gli occhi abbassati. Non un pezzo di cielo, lo sguardo sempre sul selciato, senza sapere da dove vengo e dove vado. Ma sei arrivato, oggi, con il tuo amore. Hai vinto l'ipocrisia moralista delle regole di facciata, buone solo a far schiava la gente. Il cuore hai cercato. Eccolo allora il mio cuore. E' pronto per te, guariscilo Signore. E' giunto finalmente il sabato eterno delle tue nozze con la mia povertà. Non ti è importato che il tuo amore sconfinato ti abbia condotto alla Croce. E' lì che mi aspetti da sempre per donarmi la salvezza che attendo. Grazie Signore della tua misericordia. Anche oggi, ti prego, attirami a te, solleva il mio sguardo, libera le mie spalle dai troppi fardelli. Chiamami, salvami, che io non resista al tuo amore.


* * *

San Gregorio Magno (circa 540-604), papa, dottore della Chiesa
Omelie sui Vangeli, 17 § 6-7

«Donna, sei libera dalla tua infermità»

« Gesù insegnava in una sinagoga il giorno di sabato. C'era là una donna che aveva da diciotto anni uno spirito che la teneva inferma; era curva e non poteva drizzarsi in nessun modo. » Il peccatore, preoccupato delle cose della terra e non cercando quelle del cielo, è incapace di guardare verso l'alto: siccome segue i desideri che lo spingono verso il basso, la sua anima, perdendo la sua rettitudine, s'incurva, e non vede più che ciò a cui pensa continuamente. Ritornate nei vostri cuori, fratelli carissimi, e esaminate continuamente i pensieri che non cessano di girare nella vostra mente. Uno pensa agli onori, l'altro al denaro, un altro ancora ad aumentare le sue proprietà. Tutte queste cose sono basse, e quando lo spirito ne è investito, s'incurva perdendo la sua rettitudine. E poiché non si raddrizza per desiderare i beni dell'alto, egli è come la donna curva che non può assolutamente guardare verso l'alto...

Il salmista ha descritto molto bene la nostra curvatura quando ha detto di lui stesso, come simbolo di tutto il genere umano : « Sono curvo e accasciato, triste mi aggiro tutto il giorno. » (Sal 38,7). Egli considerava che l'uomo, anche se creato per contemplare la luce dall'alto, è stato scacciato dal paradiso per colpa dei suoi peccati e, per conseguenza, le tenebre regnano nella sua anima, facendogli perdere l'appetito delle cose dell'alto e portare la sua attenzione verso le cose del basso... Se l'uomo, perdendo di vista le cose del Cielo, non pensasse che alle necessità di questo mondo, sarebbe senza dubbio curvo e umiliato, ma comunque non « a l'eccesso ». Ora, siccome non solo le necessità fanno cadere questi pensieri..., ma inoltre il piacere proibito lo stermina, egli non è solamente curvo, ma « curvo a l'eccesso ».


* * *


San Cirillo di Gerusalemme (313-350), vescovo di Gerusalemme, dottore della Chiesa
Catechesi, n°13, 1-3 ; PG 33, 771-774


Liberati dai legami del peccato per mezzo della croce di Cristo
Senza dubbio ogni azione di Cristo è fonte di gloria per la Chiesa; ma la croce è la gloria delle glorie. È proprio questo che Paolo diceva: « Quanto a me, non ci sia altro vanto che nella croce del Signore nostro Gesù Cristo » (Gal 6,14). Fu certo una cosa straordinaria che quel povero cieco nato riacquistasse la vista presso la piscina di Siloe: ma cos'è questo in paragone dei ciechi di tutto il mondo? Cosa eccezionale e fuori dell'ordine naturale che Lazzaro, morto da ben quattro giorni, ritornasse in vita. Ma questa fortuna toccò a lui e a lui soltanto. Che cosa è mai se pensiamo a tutti quelli che, sparsi nel mondo intero, erano morti per i peccati? Stupendo fu il prodigio che moltiplicò i cinque pani, fornendo il cibo a cinquemila uomini con l'abbondanza di una sorgente. Ma che cosa è questo miracolo quando pensiamo a tutti coloro che, sulla faccia della terra, erano tormentati dalla fame dell'ignoranza? Così pure fu degno di ammirazione il miracolo che in un attimo liberò dalla sua infermità quella donna che Satana aveva tenuta legata da ben diciotto anni. Ma anche questo, che cos'è mai in confronto della liberazione di tutti noi, carichi di tante catene di peccati?

La gloria della croce ha illuminato tutti coloro che erano ciechi per la loro ignoranza, ha sciolto tutti coloro che erano legati sotto la tirannide del peccato e ha redento il mondo intero... Infatti non era un semplice uomo colui che diede la vita per noi, bensì il Figlio di Dio, Dio stesso, fattosi uomo... La colpa di Adamo portò la morte al mondo intero; « se per la caduta di uno solo la morte ha regnato a causa di quel solo uomo, molto di più quelli che ricevono l'abbondanza della grazia e del dono della giustizia regneranno nella vita per mezzo di Gesù Cristo » (Rm 5,17). Un tempo, a causa dell'albero di cui hanno mangiato il frutto, i nostri progenitori sono stati cacciati fuori dal paradiso; ma ora, per mezzo dell'albero della croce di Gesù, non entreranno più facilmente in paradiso tutti i credenti? Se il primo essere plasmato dalla terra ha portato la morte a tutti, colui che lo ha plasmato dalla terra non porterà forse loro la vita eterna, lui che è la

vita? (Gv 14,6)

Lunedì della XXX^ settimana del Tempo Ordinario






Dal Vangelo secondo Luca 13,10-17.

Una volta stava insegnando in una sinagoga il giorno di sabato.
C'era là una donna che aveva da diciotto anni uno spirito che la teneva inferma; era curva e non poteva drizzarsi in nessun modo.
Gesù la vide, la chiamò a sé e le disse: «Donna, sei libera dalla tua infermità»,
e le impose le mani. Subito quella si raddrizzò e glorificava Dio.
Ma il capo della sinagoga, sdegnato perché Gesù aveva operato quella guarigione di sabato, rivolgendosi alla folla disse: «Ci sono sei giorni in cui si deve lavorare; in quelli dunque venite a farvi curare e non in giorno di sabato».
Il Signore replicò: «Ipocriti, non scioglie forse, di sabato, ciascuno di voi il bue o l'asino dalla mangiatoia, per condurlo ad abbeverarsi?
E questa figlia di Abramo, che satana ha tenuto legata diciott'anni, non doveva essere sciolta da questo legame in giorno di sabato?».
Quando egli diceva queste cose, tutti i suoi avversari si vergognavano, mentre la folla intera esultava per tutte le meraviglie da lui compiute.




IL COMMENTO


Finalmente. Sei arrivato Signore, mi hai guardato, mi hai chiamato. Mi hai guarito. Curvo sui miei pensieri, sulle mie ansie, sulle mie nevrosi. Le paure per un passato non risolto, pesante come un macigno sul mio presente. Una offesa, chissà. Un'ingiustizia non digerita, ed eccomi da anni accasciato e incapace di sollevare lo sguardo. Si, questa è la mia vita. I peccati, gli inganni del demonio come una mano sulla nuca a obbligarmi con gli occhi abbassati. Non un pezzo di cielo, lo sguardo sempre sul selciato, senza sapere da dove vengo e dove vado. Ma sei arrivato, oggi, con il tuo amore. Hai vinto l'ipocrisia moralista delle regole di facciata, buone solo a far schiava la gente. Il cuore hai cercato. Eccolo allora il mio cuore. E' pronto per te, guariscilo Signore. E' giunto finalmente il sabato eterno delle tue nozze con la mia povertà. Non ti è importato che il tuo amore sconfinato ti abbia condotto alla Croce. E' lì che mi aspetti da sempre per donarmi la salvezza che attendo. Grazie Signore della tua misericordia. Anche oggi, ti prego, attirami a te, solleva il mio sguardo, libera le mie spalle dai troppi fardelli. Chiamami, salvami, che io non resista al tuo amore.



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Evangelio según San Lucas 13,10-17.
Un sábado, Jesús enseñaba en una sinagoga.
Había allí una mujer poseída de un espíritu, que la tenía enferma desde hacía dieciocho años. Estaba completamente encorvada y no podía enderezarse de ninguna manera.
Jesús, al verla, la llamó y le dijo: "Mujer, estás curada de tu enfermedad",
y le impuso las manos. Ella se enderezó en seguida y glorificaba a Dios.
Pero el jefe de la sinagoga, indignado porque Jesús había curado en sábado, dijo a la multitud: "Los días de trabajo son seis; vengan durante esos días para hacerse curar, y no el sábado".
El Señor le respondió: "¡Hipócritas! Cualquiera de ustedes, aunque sea sábado, ¿no desata del pesebre a su buey o a su asno para llevarlo a beber?
Y esta hija de Abraham, a la que Satanás tuvo aprisionada durante dieciocho años, ¿no podía ser librada de sus cadenas el día sábado?".
Al oír estas palabras, todos sus adversarios se llenaron de confusión, pero la multitud se alegraba de las maravillas que él hacía.




COMENTARIO


Por fin. Has llegado Señor, me has mirado, me has llamado. Me has curado. Curvo sobre mis pensamientos, sobre mis ansiedades, sobre mis neurosis. Los miedos por un pasado no solucionado, pesado como un peñasco sobre mi presente. Una ofensa, tal vez. Una injusticia no digerida y he aquí yo, desde hace años abatido e incapaz de levantar la mirada.Es cierto, ésta es mi vida. Como el Pueblo de Israel duro a convertirse, "llamado hacia lo alto, pero ni uno solo levanta los ojos al Cielo" (Oseas 11,7). Los pecados, los engaños del demonio estan como una mano sobre el cogote a obligarme con los ojos bajados.
No un trozo de cielo, la mirada siempre sobre el adoquinado, sin saber de dónde vengo y dónde voy. Pero has llegado, hoy, con tu amor. Has vencido la hipocresía moralista de las reglas de fachada, buenas sólo a hacer esclava la gente. El corazón has buscado. Aquì està entonces mi corazón. Està listo para ti, cúralo Señor.
Por fin ha llegado el sábado eterno de tu bodas con mi pobreza. No te ha importado que tu amor ilimitado te haya conducido a la Cruz. Es allí que me esperas desde siempre, para donarme la salvación que espero desde siempre. Gracias Señor de tu misericordia. También hoy, te ruego, atráeme a ti, levanta mi mirada, libera mis hombros de los demasiados fardos. Llámame, sálvame, que yo no resista a tu amor.




San Cirillo di Gerusalemme (313-350), vescovo di Gerusalemme, dottore della Chiesa
Catechesi, n°13, 1-3 ; PG 33, 771-774

Liberati dai legami del peccato per mezzo della croce di Cristo
Senza dubbio ogni azione di Cristo è fonte di gloria per la Chiesa; ma la croce è la gloria delle glorie. È proprio questo che Paolo diceva: « Quanto a me, non ci sia altro vanto che nella croce del Signore nostro Gesù Cristo » (Gal 6,14). Fu certo una cosa straordinaria che quel povero cieco nato riacquistasse la vista presso la piscina di Siloe: ma cos'è questo in paragone dei ciechi di tutto il mondo? Cosa eccezionale e fuori dell'ordine naturale che Lazzaro, morto da ben quattro giorni, ritornasse in vita. Ma questa fortuna toccò a lui e a lui soltanto. Che cosa è mai se pensiamo a tutti quelli che, sparsi nel mondo intero, erano morti per i peccati? Stupendo fu il prodigio che moltiplicò i cinque pani, fornendo il cibo a cinquemila uomini con l'abbondanza di una sorgente. Ma che cosa è questo miracolo quando pensiamo a tutti coloro che, sulla faccia della terra, erano tormentati dalla fame dell'ignoranza? Così pure fu degno di ammirazione il miracolo che in un attimo liberò dalla sua infermità quella donna che Satana aveva tenuta legata da ben diciotto anni. Ma anche questo, che cos'è mai in confronto della liberazione di tutti noi, carichi di tante catene di peccati?

La gloria della croce ha illuminato tutti coloro che erano ciechi per la loro ignoranza, ha sciolto tutti coloro che erano legati sotto la tirannide del peccato e ha redento il mondo intero... Infatti non era un semplice uomo colui che diede la vita per noi, bensì il Figlio di Dio, Dio stesso, fattosi uomo... La colpa di Adamo portò la morte al mondo intero; « se per la caduta di uno solo la morte ha regnato a causa di quel solo uomo, molto di più quelli che ricevono l'abbondanza della grazia e del dono della giustizia regneranno nella vita per mezzo di Gesù Cristo » (Rm 5,17). Un tempo, a causa dell'albero di cui hanno mangiato il frutto, i nostri progenitori sono stati cacciati fuori dal paradiso; ma ora, per mezzo dell'albero della croce di Gesù, non entreranno più facilmente in paradiso tutti i credenti? Se il primo essere plasmato dalla terra ha portato la morte a tutti, colui che lo ha plasmato dalla terra non porterà forse loro la vita eterna, lui che è la vita? (Gv 14,6)


San Cirilo de Jerusalén (313-350), obispo de Jerusalén y doctor de la Iglesia
Catequesis bautismal, nº 13

Liberados de las ataduras del pecado por la cruz de Cristo
San Pablo dijo: «Dios me libre de gloriarme si no es en la cruz de nuestro Señor Jesucristo» (Gal 6,14). Fue una cosa asombrosa que el ciego de nacimiento recobrara la vista en Siloé; pero esto, ¿qué beneficio reportaba a todos los ciegos del mundo? Fue una cosa muy grande y por encima de la naturaleza la resurrección de Lázaro, muerto hacía ya cuatro días; pero de esta gracia sólo se beneficiaba él, no socorría en nada a todos los que, en el mundo, estaban muertos por sus pecados. Fue extraordiario sacar, de cinco panes, comida para cinco mil hombres; pero eso no servía para nada a los que, en todo el universo, sufrían hambre por su ignorancia. Fue asombroso liberar a una mujer encadenada por Satán desde hacía dieciocho años; pero ¿qué supone eso para todos nosotros que vivimos atados por las cadenas de nuestros pecados?
Ahora bien, la victoria de la cruz ha llevado la luz a todos los que la ignorancia los hacía estar ciegos, desató todos los que estaban cautivos del pecado, y rescató a toda la humanidad. No te sorprenda, pues, que el mundo entero haya sido rescatado. El que murió por esta causa no era tan sólo un hombre, sino el Hijo único de Dios. La falta de Adán trajo la muerte al mundo entero; si la caída de uno solo hizo reinar la muerte sobre todos, ¿con cuanta más razón, la justicia de uno solo no hará que reine la vida? (Rm 5,17). Si antiguamente, por el árbol del que comieron el fruto, nuestros primeros padres fueron echados del paraíso, ¿es que ahora, por el árbol de la cruz de Jesús, los creyentes no entrarán con mucha más facilidad en el Paraíso? Si el primer ser modelado de tierra trajo la muerte para todos ¿es que el que lo modeló de tierra no va a traerle la vida eterna, puesto que él es la misma vida? (Jn 14,6).

sabato 27 ottobre 2012

Da il Vangelo del giorno di oggi sabato " L'ora di raccogliere i frutti


Sabato della XXIX settimana del Tempo Ordinario



Non maledirmi come il fico,
Anche se sono uguale all'albero sterile,
Per timore che il fogliame della fede
Venga essiccato con il frutto delle mie opere.

Ma fissami nel bene,
Come il tralcio sulla santa Vite,
Di cui si prende cura il tuo Padre celeste
E che, con la crescita, fa fruttificare lo Spirito.

E l'albero che io sono, sterile di frutti gustosi,
Ma fecondo di frutti amari,
Non sradicarlo dalla tua vigna,
Ma cambialo, scavando nel letame.

San Nersès Snorhali, patriarca armeno 1102-1173


Dal Vangelo secondo Luca 13,1-9.

In quello stesso tempo si presentarono alcuni a riferirgli circa quei Galilei, il cui sangue Pilato aveva mescolato con quello dei loro sacrifici. Prendendo la parola, Gesù rispose: «Credete che quei Galilei fossero più peccatori di tutti i Galilei, per aver subito tale sorte? No, vi dico, ma se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo. O quei diciotto, sopra i quali rovinò la torre di Sìloe e li uccise, credete che fossero più colpevoli di tutti gli abitanti di Gerusalemme? No, vi dico, ma se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo». Disse anche questa parabola: «Un tale aveva un fico piantato nella vigna e venne a cercarvi frutti, ma non ne trovò. Allora disse al vignaiolo: Ecco, son tre anni che vengo a cercare frutti su questo fico, ma non ne trovo. Taglialo. Perché deve sfruttare il terreno? Ma quegli rispose: Padrone, lascialo ancora quest'anno finché io gli zappi attorno e vi metta il concime e vedremo se porterà frutto per l'avvenire; se no, lo taglierai».


Il commento


La sapienza consiste nel saper contare i propri giorni, ciascuno come un «kairos», un momento favorevole per «convertirsi». Come «questo preciso momento» in cui le notizie dal fronte della storia ci annunciano terremoti e crisi finanziarie nel mondo, gelosie, invidie e divisioni nei cuori. È vero, la «creazione geme e soffre» a causa del peccato, ma non è impazzita. La cronaca registra il dolore, ma è quello delle «doglie» che annunciano la vita per la quale Dio ha plasmato ogni cosa. Essa risplende come una primizia nei Figli di Dio «piantati» nella vigna del Signore. Nel seno della Chiesa, come pazienti «vignaioli», pastori e catechisti li hanno curati con «zappa» e «concime», la Parola che dissoda con la Verità, e i sacramenti che nutrono del Mistero Pasquale di Gesù. Una storia d’amore che ha accolto anche noi nel seno di una terra di misericordia e tenerezza, grazie e segni, correzioni e consolazioni. Il «terreno» fecondato dal seme benedetto del corpo del Signore, nel quale siamo stati chiamati a crescere e risuscitare con Lui, per presentare al mondo i «frutti» maturi della fede adulta, le opere che annunciano in noi la sua vittoria sulla morte.
Il mondo ha bisogno dei nostri «frutti», é questione di vita o di morte. Accanto a noi qualcuno sta per abortire, divorziare, gettare al vento la propria dignità. Le persone più care «soffrono e gemono» brancolando nel buio; troveranno oggi in noi il discernimento, la Parola di Verità, l’amore di cui hanno diritto? Forse no. Forse, come quei giudei, «abbiamo mangiato e ci siamo saziati» dei segni con i quali il Signore ha «moltiplicato» la nostra povera vita e abbiamo cominciato a «sfruttare» per noi stessi «il terreno» del Padrone. Forse ci stiamo approfittando del matrimonio, del ministero, dell’amicizia, di Dio stesso. E l’amore? Che ne abbiamo fatto di tutto l'amore seminato nella nostra vita? «Taglialo» dice il Signore. E’ una scure questa parola, ed è rivolta a noi. Come mai ancora non è giunta sulla nostra vita per portarsela via? Forse siamo migliori del collega morto all’improvviso o della ragazza rapita, violentata e uccisa? O forse Dio è un mostro e fa preferenze e vibra la scure scegliendo chi colpire come in una lotteria? «No, vi dico, ma se non vi convertite», la morte sarà per voi un’ingiustizia senza senso come lo è per il mondo. «No, vi dico, ma se non vi convertite», il mondo resterà senza speranza e ne chiederò conto a voi. «Convertirci» allora è ricordare che c’è un «taglialo» che ci aspetta e meritiamo; è fermo a mezz’aria per la pazienza magnanime di Dio che desidera che tutti si salvino. Per questo ci concede ancora quest’«anno» di misericordia, la vita che abbiamo davanti come un giubileo, per lasciare il peccato e abbandonarci all’opera del «vignaiolo».

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Il Vangelo di oggi 27 ottobre, sabato della XXIX settimana del T.O. (2)

Non maledirmi come il fico,
Anche se sono uguale all'albero sterile,
Per timore che il fogliame della fede
Venga essiccato con il frutto delle mie opere.

Ma fissami nel bene,
Come il tralcio sulla santa Vite,
Di cui si prende cura il tuo Padre celeste
E che, con la crescita, fa fruttificare lo Spirito.

E l'albero che io sono, sterile di frutti gustosi,
Ma fecondo di frutti amari,
Non sradicarlo dalla tua vigna,
Ma cambialo, scavando nel letame.

San Nersès Snorhali, patriarca armeno 1102-1173





Dal Vangelo secondo Luca 13,1-9.


In quello stesso tempo si presentarono alcuni a riferirgli circa quei Galilei, il cui sangue Pilato aveva mescolato con quello dei loro sacrifici. Prendendo la parola, Gesù rispose: «Credete che quei Galilei fossero più peccatori di tutti i Galilei, per aver subito tale sorte? No, vi dico, ma se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo. O quei diciotto, sopra i quali rovinò la torre di Sìloe e li uccise, credete che fossero più colpevoli di tutti gli abitanti di Gerusalemme? No, vi dico, ma se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo». Disse anche questa parabola: «Un tale aveva un fico piantato nella vigna e venne a cercarvi frutti, ma non ne trovò. Allora disse al vignaiolo: Ecco, son tre anni che vengo a cercare frutti su questo fico, ma non ne trovo. Taglialo. Perché deve sfruttare il terreno? Ma quegli rispose: Padrone, lascialo ancora quest'anno finché io gli zappi attorno e vi metta il concime e vedremo se porterà frutto per l'avvenire; se no, lo taglierai». 


IL COMMENTO


Possiamo fare un test velocissimo per vedere il tasso di moralismo che abbiamo nel cuore. E, di conseguenza, quanto di autentico sia il desiderio di convertirci. Se questo Vangelo ci intristisce, ci angoscia e, se pure molto in fondo, ci fa pensare a Dio con una punta di sconcerto di fronte a tanta crudezza, siamo dei veri moralisti con ben poco desiderio di convertirsi. Perchè in realt:à questo Vangelo è una notizia bellissima. In questo preciso momento, in questo kairos, secondo l'originale greco tradotto con "in quello stesso tempo". Siamo in un tempo favorevole, quello nel quale Dio viene a giudicare. La natura è ferita e "la creazione geme e soffre fino ad oggi nelle doglie del parto" (Rom. 8,22); il peccato ha inferto una ferita ed il male esiste, e con esso la sofferenza: la malattia, la violenza, i disastri naturali, tutto ci annuncia la caducità e il cammino inesorabile verso la morte. Quando essa appare con tutto il suo carico di dolore sconcerta e scuote la vita. Ancora più la sofferenza e la morte degli innocenti. Non abbiamo risposte. La frustrazione e la consapevolezza di aver subito una grande ingiustizia ci lacerano e, spesso, segnano di morte la vita dei parenti, amici e conoscenti di chi è morto. Ad ogni funerale al quale partecipiamo, inconscia, si fa strada in noi l'angoscia di vederci, comunque si viva, dentro la bara della persona che piangiamo. Proviamo un istante a pensare alla nostra morte.....


Si può reagire come Steve Jobs: "Siate affamati, siate folli". Cercare un senso in quello che ci piace, affermarci e lottare per le nostre idee. E' un modo di riempire il vuoto che la morte annuncia. Ma non risolve la questione, la sposta più in là, nel momento in cui la morte giunga a visitarci. Ma vi è un altro modo: guardare in faccia la morte e ascoltare che cosa Dio vuole dirci. "Se non vi convertirete...." perirete tutti all'improvviso, anche se sarete vittime di un cancro con sofferenze ed agonie lunghissime. Perchè la morte, quell'attimo che raccoglie l'ultimo respiro, può essere un ladro che viene a rubare o un contadino che viene a raccogliere frutto. O la morte si viene a prendere le nostre cose o è l'appuntamento in cui, in pienezza, possiamo consegnare la nostra vita colma d'amore. Tutte le parabole sulla fine dei tempi e sul giudizio finale dicono la stessa cosa: si può vivere per se stessi, "siate folli, siate affamati", o per gli altri "siate giusti, siate cibo per sfamare". La conversione è passare dall'egoismo - il peccato - all'amore. Per chi ama, la morte è ilkairos, il tempo favorevole, nel quale dar frutto, nel quale poter amare davvero, gratuitamente, senza nulla sperare in cambio. La morte è infatti la soglia sull'eternità, sul tempo redento; essa segna, paradossalmente, la sua stessa fine: Cristo l'ha vinta entrandoci dentro e ha consegnato al Padre se stesso, il frutto più bello e più buono. La morte indica allora la stagione più bella, quando finalmente si possono presentare i frutti; l'amata del Cantico dei Cantici attende con ansia l'arrivo del suo amato per offrirgli i frutti più belli del suo giardino. E come in un rapporto d'amore è coinvolto anche il corpo in un dono totale che abbraccia l'intera esistenza, così la morte è l'incontro sperato nel quale il corpo e l'intera storia della nostra vita si consegnano all'Amato come frutti squisiti. Per questo la Chiesa, con amore di madre, aspetta, ha pazienza, imitando la pazienza di Dio: attende che le morti di ogni giorno, la Croce dei rapporti familiari, del lavoro, della salute, ci preparino all'incontro decisivo. Un anno di misericordia, il giubileo dell'amore paziente di Dio nel quale Egli stesso prepara i frutti che verrà a cogliere nel Dies natalis che ci attende. L'anno in cui è predicato il Vangelo ai poveri, ai piccoli, a tutti noi. Perchè annunciare il Vangelo è preparare il mondo al'incontro con Cristo! Anche oggi sarà zappato il terreno della nostra storia, e il concime sarà sparso nelle ore delle nostre giornate. Anche oggi la sofferenza ci visiterà: ma sarà dolore che prelude al parto, la voce dell'Amato che bussa la nostro cuore, l'annuncio del banchetto dove Egli stesso ci servirà il suo frutto più buono, l'amore che ci colmerà eternamente. Quest'oggi ci è dato per donare a Cristo, vivo in chi ci è vicino, il frutto della nostra stessa vita. Perchè essa è il dono offertoci per essere consegnato nelle braccia dell'amato.


COMMENTI PATRISTICI

S. Agostino
Durante il periodo della nostra miseria – o, come si esprime la Scrittura, nei giorni della nostra vanità – dobbiamo conoscere bene da quali cause deve procedere la nostra tristezza. La tristezza infatti può somigliarsi al letame: se sta in un posto dove non dovrebbe stare è una sporcizia; se sta in un luogo dove non dovrebbe stare, ad esempio, in casa, la rende sudicia. Se invece sta dove deve stare, metti in un campo, lo rende fruttuoso: sicché voi vedete i contadini sistemare il letame in un posto a ciò destinato. Ebbene, così dice l’Apostolo: Chi mai mi arrecherà gioia se non colui che da me è rattristato? (2 Cor 2, 2). E altrove: La tristezza che è secondo Dio produce un pentimento salutare non suscettibile di ripensamenti (2 Cor 7, 10). La persona che si rattrista secondo Dio si rattrista dei suoi peccati con il pentimento, per cui la tristezza causata dalla propria colpa produce la giustificazione. Ti dispiaccia quindi d’essere quello che sei, per poter essere quello che non sei. Dice: La tristezza che è secondo Dio produce un pentimento salutare non suscettibile di ripensamenti. Un pentimento salutare, dice. Perchésalutare? Perché non suscettibile di ripensamenti? In che senso non suscettibile di ripensamenti? Nel senso che mai dovrai pentirtene. Abbiamo condotto una vita di cui è stato necessario pentircene, abbiamo condotto una vita suscettibile di pentimento; e alla vita esente da pentimento non possiamo arrivare se non attraverso il pentimento della vita cattiva. Forse che, o fratelli (per seguitare l’immagine usata all’inizio), forse che nel mucchio di grano vagliato si potrà trovare del letame? Tuttavia è con l’uso del letame che si arriva a quella pulitezza, a quel luccichio, a quella beltà. Il sudiciume è stato la via per giungere alla bellezza.
A proposito di una pianta sterile diceva con ragione il Signore nel Vangelo: Ecco, sono ormai tre anni che vengo da questa pianta e non vi trovo mai alcun frutto; la taglierò, quindi, perché non mi occupi inutilmente il terreno. Il contadino lo supplica: lo supplica quando la scure sta per cadere su quelle radici infruttuose ed è sul punto di reciderle. Quel contadino intercede come aveva fatto Mosè con Dio; intercede e dice: Signore, lasciala stare anche per quest’anno, io la zapperò all’intorno e verserò nella buca un cesto di letame. Se produrrà frutto, bene; altrimenti verrai e la taglierai. L’albero in parola è il genere umano. Il Signore venne a visitare quest’albero al tempo dei patriarchi, e questo si potrebbe considerare come primo anno; venne a visitarlo al tempo della legge e dei profeti, e questo potrebbe essere il secondo anno. Col Vangelo ecco spuntato il terzo anno: a questo punto lo si sarebbe dovuto quasi tagliare. Ma un uomo compassionevole intercede presso colui che è compassionevole. Difatti colui che voleva porre in risalto la sua misericordia si mette dinanzi quell’altro che fa da intercessore. Dice: Lo si lasci sopravvivere anche quest’anno; gli si zappi attorno – la buca è un richiamo all’umiltà -; gli si getti sulle radici un cesto di letame, e speriamo che rechi del frutto. Anzi, siccome per una parte darà frutto mentre per un’altra non ne darà, verrà il suo padrone e lo dividerà. Che significa: Lo dividerà? È in relazione al fatto che ci sono i buoni e i cattivi, i quali adesso sono tutti insieme, come costituiti in un unico corpo.
Come ho già detto, fratelli miei, il letame gettato in luogo adatto produce frutti, gettato in luogo non adatto sporca. Ecco un tale che si trova nella tristezza, m’imbatto in uno che vedo triste: è letame ciò che vedo e mi metto a indagare il posto: Amico, dimmi perché sei triste. Mi risponde: Perché ho perso del danaro. È un posto insudiciato: non verrà fuori alcun frutto. Ascolti l’Apostolo: La tristezza di questo mondo causa la morte. Non solo quindi, niente frutto, ma al contrario grande danno. E lo stesso si dica delle altre cose che producono gioie di carattere mondano: cose che sarebbe lungo elencare. ... Mi volsi poi verso un altro che parimenti gemeva, piangeva e pregava; e anche lì, vedendo del letame, volli ricercare il posto. Feci attenzione alla sua preghiera e sentii che diceva: Io ho detto: Signore, abbi pietà di me; guarisci la mia anima poiché ho peccato contro di te (Sal 40, 5). Geme deplorando il peccato. Vedo il terreno; aspetto il frutto. Grazie a Dio! Il letame si trova in un posto adatto: non resterà infruttuoso ma produrrà il frumento.
Adesso è veramente il tempo della tristezza: la quale sarà fruttuosa se il nostro dolore sarà motivato dalla condizione di mortalità in cui ci troviamo, dalle tentazioni che abbondano, dal peccato che s’infiltra dovunque, dalle passioni che oppongono resistenza, dall’attrattiva malsana che ci muove guerra e sta sempre in tumulto contro i buoni pensieri. Per tutti questi motivi dobbiamo essere nella tristezza.
Segno di questo tempo in cui si vive nella miseria e nel gemito – se c’è qualcuno che abbia una speranza degna di gemito – sono i quaranta giorni che precedono la Pasqua. Il tempo invece della gioia futura, della quiete, della felicità, della vita eterna del regno senza fine che ancora non c’è, è figurata nei cinquanta giorni in cui cantiamo lodi a Dio. Esiste infatti una simbologia che rappresenta i due periodi di tempo: il periodo prima della resurrezione del Signore e il periodo dopo la resurrezione; il periodo in cui viviamo adesso e l’altro in cui speriamo di vivere in avvenire. Il periodo dell’afflizione, raffigurato nel tempo quaresimale l’abbiamo e nel simbolo e nella realtà; viceversa il periodo della gioia, della quiete, del regno lo rappresentiamo col canto dell’Alleluia, ma queste lodi non le possediamo ancora: verso quest’Alleluia rivolgi ora i sospiri.
(Dal Discorso 254, 2-4)
***
L’albero di fico simboleggia il genere umano, mentre i tre anni raffigurano le tre epoche: la prima precedente la legge, la seconda sotto la legge, la terza sotto la grazia. Quanto all’albero di fico, non è fuor di luogo vedervi il genere umano. In effetti il primo uomo, quando peccò, coprì con foglie di fico le parti vergognose, quelle parti per cui siamo nati, quelle membra che, degne d’onore prima del peccato, divennero dopo il peccato parti vergognose. Insomma: Erano nudi e non ne sentivano vergogna (Gn 2, 25)non avevano motivo d’arrossire, perché non era stato ancora commesso il peccato e quindi non potevano vergognarsi delle opere del Creatore in quanto non avevano mescolato ancora nessuna azione cattiva alle opere buone del Creatore. Da lì dunque nacque il genere umano: uomini da un uomo, colpevoli da un debitore, mortali da un mortale, peccatori da un peccatore. Mediante dunque quest’albero egli indica coloro che per tutto il tempo non vollero dar frutto: e sulle radici di quest’albero infruttuoso era sospesa la scure.
Intercede il contadino: viene differito il castigo perché venga applicato il rimedio. Intercede il contadino, cioè ogni fedele dentro la Chiesa prega per coloro che sono fuori della Chiesa. Che cosa chiede?Signore, lascialo ancora per quest’anno. Cioè: in questo tempo, che è sotto il regno della grazia, risparmia i peccatori, risparmia gli infedeli, risparmia gli sterili, risparmia coloro che non portano frutto. Scavo un solco intorno ad esso e ci metto una cesta di concime: se darà frutto, bene; altrimenti verrai e lo taglierai. Verrai: quando? Nel giudizio. Verrai: quando? Di lì verrà a giudicare i vivi e i morti (1 Pt 4, 5)Adesso frattanto viene accordato il perdono.
Ma che significa scavare un solco se non insegnare l’umiltà della penitenza? Il solco infatti è una parte bassa della terra.
La cesta di concime deve intendersi in senso buono. Esso è sporco, ma produce frutto. La sporcizia del contadino significa il dolore del peccatore. Chi fa penitenza, la fa nello squallore; naturalmente se la fa con intelligenza e con sincerità. A quest’albero dunque viene detto: Fate penitenza, poiché è vicino il regno dei cieli (Mt 3, 2).
(Dal Discorso 110, 1)
S. Ambrogio
Adamo ed Eva, i nostri famosi progenitori sia nella discendenza che nel peccato, i quali si ricoprirono delle foglie di quest’albero [di fico], meritarono di essere proscritti dal paradiso, quando, consci della loro trasgressione, cercavano di sfuggire alla presenza del Signore, il quale stava passeggiando; essi dovevano simboleggiare quanto doveva avvenire, che cioè negli ultimi tempi il popolo dei Giudei, ormai nell’imminenza della venuta del Signore della salvezza, il quale discese quaggiù per chiamarli, riconoscendosi nudo di ogni virtù per le tentazioni del diavolo e pieno di paura per le turpitudini scoperte della coscienza, avendo smarrito la strada della religione, si vergognò per la propria prevaricazione; egli doveva fuggire lontano da Dio, con le vergogne delle sue azioni coperte direi dal velo di parole inutili, come da altrettante foglie.
Ecco allora che essi, i quali avevano spiccato dal fico non frutti, ma foglie, furono radiati dal Regno di Dio; ed erano un’anima vivente. Venne il secondo Adamo, e andava non più in cerca di fogliame, ma di frutti; ed era spirito vivificante (1 Cor 15, 45). Ma nello spirito si consegue il frutto della virtù, e si adora il Signore. Eppure il Signore cercava il frutto, non perché ignorasse che l’albero di fico ne era privo, ma perché voleva far vedere in un simbolo che la Sinagoga doveva ormai produrre frutto. Del resto, in ciò che vien dopo, Egli dimostra di non esser giunto anzi tempo, perché venne per un periodo di tre anni: così infatti trovi: Ecco sono tre anni che vengo a cercare frutti su questo fico, ma non ne trovo. Taglialo dunque; perché sta a occupare la terra?Egli venne ad Abramo, venne a Mosè, venne a Maria, venne nel segno, venne nella Legge, venne nel corpo. Ne riconosciamo la venuta dai suoi benefici: in una vi è la purificazione, nell’altra la santificazione, nell’altra ancora la giustificazione. La circoncisione purificò, la Legge santificò, la grazia giustificò: Egli solo è tutte queste cose, e tutte queste cose sono una sola. Infatti nessuno può diventar mondo se non colui che teme il Signore. Nessuno merita di ricevere la Legge se non è stato purificato dalla colpa e nessuno si accosta alla grazia se non conosce la Legge. Perciò il popolo dei Giudei non poté essere purificato, perché ebbe la circoncisione del corpo, ma non quella dell’anima; né poté essere santificato, perché la potenza della Legge gli fu sconosciuta, dato che seguiva le prescrizioni carnali piuttosto che quelle spirituali – invece la Legge è spirituale – né poté essere giustificato, perché non si pentiva dei suoi peccati e perciò ignorava la grazia. Giustamente, dunque, non si è trovato alcun frutto nella sinagoga e si comanda di reciderla.
Ma il buon agricoltore, e direi colui nel quale è posto il fondamento della Chiesa, avendo il presentimento che un altro doveva essere inviato alle Genti, lui invece al popolo della circoncisione, si interpone chiedendo piamente che esso non sia tagliato, perché era sicuro in base alla propria vocazione che anche il popolo dei Giudei poteva essere salvato mediante la Chiesa; e per questo motivo dice: Lascialo anche quest’anno, perché gli zappi intorno e metta un cesto di concime.Come ha fatto presto a riconoscere che le cause della sterilità sono l’indurimento e la superbia dei Giudei! E perciò sa bene come coltivare perché sa bene come scoprire le deficienze. Egli assicura che le dure zolle del loro cuore debbono essere zappate con le marre degli apostoli, affinché la parola, acuminata da una parte e dall’altra, rovesci la terra incolta dello spirito, screpolata per il lungo abbandono, e aprendo il cuore ne stimoli la sensibilità ormai viva per lo spiraglio spirituale che si è aperto, affinché il peso enorme della terra non seppellisca e nasconda alla vista la radice della sapienza. Afferma pure che bisogna spargere un cesto di concime: ed è tanto grande la forza del concime, che rende feconde le piantagioni infeconde, verdeggianti quelle secche, fruttuose quelle sterili. Su di esso sedeva Giobbe quando fu tentato, e non poté esser vinto; e Paolo giudica il resto concime, al fine di guadagnare Cristo. In fin dei conti Giobbe prima aveva subito moltissime perdite, ma dopo che sedette sul concime, non ebbe più proprietà alcuna che il diavolo potesse portargli via. Dunque è una terra buona quella che vien zappata, efficace il concime che vi si sparge. Del resto, il Signoresolleva dalla polvere l’indigente, rialza dal concime il povero (Sal 112, 7).
Pertanto, quel bravo agricoltore pensa che, mediante l’assiduo lavoro dell’intelletto spirituale e il sentimento dell’umiltà, anche i Giudei diventarono fecondi nei confronti del Vangelo di Cristo. ...
Ma da ciò che è detto dei Giudei io giudico che anche tutti debbano guardarsi, e specialmente noi, perché, vuoti di ogni merito, non ci accada di sfruttare il terreno fertile della Chiesa; mentre invece, benedetti come melograni, dobbiamo produrre frutti interiori, frutti di pudicizia, frutti di buona armonia, frutti di carità e d’amore, restando racchiusi entro l’unico grembo della madre Chiesa, affinché il vento non ci danneggi, la grandine non ci abbatta, l’arsura della passione non ci bruci, l’acqua delle tempeste non ci sconquassi.
(Dall’Esposizione del Vangelo secondo Luca, VII, 164-171 passim)

Sant'Asterio di Amasea ( ? – circa 410), vescovo
Omelia sulla conversione (15) PG 40, 356-357,361


Imitare la pazienza di Dio


Poiché il modello, a immagine del quale siete stati fatti, è Dio, procurate di imitare il suo esempio. Siete cristiani, e col vostro stesso nome dichiarate che siete amici dell'uomo : perciò siate imitatori dell'amore di Cristo. Considerate le ricchezze della sua bontà... A coloro che risposero alla sua chiamata, concesse un pronto perdono dei peccati e li liberò da quanto li angustiava... Imitiamo l'esempio che ci ha dato il Signore, il buon Pastore...


Nelle parabole, infatti, vedo un pastore che ha cento pecore. Essendosi una di esse allontanata dal gregge e vagando perduta, egli non rimane con quelle che pascolavano in ordine, ma messosi alla ricerca dell'altra, supera valli e foreste, scala monti grandi e scoscesi e, camminando per lunghi deserti con grande fatica, cerca e ricerca fino a che non trova la pecora smarrita. Dopo averla trovata, non la bastona, né la costringe a forza a raggiungere il gregge, ma, presala sulle spalle e trattatala con dolcezza, la riporta al gregge, provando una gioia maggiore per quella sola ritrovata, che per la moltitudine delle altre.


Sabato della XXIX settimana del Tempo Ordinario (3)        



Dal Vangelo secondo Luca 13,1-9.

In quello stesso tempo si presentarono alcuni a riferirgli circa quei Galilei, il cui sangue Pilato aveva mescolato con quello dei loro sacrifici. Prendendo la parola, Gesù rispose: «Credete che quei Galilei fossero più peccatori di tutti i Galilei, per aver subito tale sorte? No, vi dico, ma se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo. O quei diciotto, sopra i quali rovinò la torre di Sìloe e li uccise, credete che fossero più colpevoli di tutti gli abitanti di Gerusalemme? No, vi dico, ma se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo». Disse anche questa parabola: «Un tale aveva un fico piantato nella vigna e venne a cercarvi frutti, ma non ne trovò. Allora disse al vignaiolo: Ecco, son tre anni che vengo a cercare frutti su questo fico, ma non ne trovo. Taglialo. Perché deve sfruttare il terreno? Ma quegli rispose: Padrone, lascialo ancora quest'anno finché io gli zappi attorno e vi metta il concime e vedremo se porterà frutto per l'avvenire; se no, lo taglierai». 


IL COMMENTO

Possiamo fare un test velocissimo: che tasso di moralismo abbiamo nel cuore. E, di conseguenza, quanto vero desiderio di convertirci abbiamo nella mente. Se questo Vangelo ci intristidce, ci angoscia e, se pure molto in fondo, ci fa pensare a Dio con una punta di sconcerto di fronte a tanta crudezza, siamo dei veri moralisti con ben poco desiderio di convertirsi.

Perchè questo Vangelo è una bellissima e buonissima notizia. E' inaugurato per noi un anno di conversione, un anno di Grazia, e anoi, poveri, zoppi, malati e schiavi è predicato il Vangelo. Cristo Gesù amore incarnato di Dio. La vita è seria, e già questa , con i tempi che corrono, è una buona notizia. Tutto può accedere da un istante all'altro, anche che la tranquilla routine sia sconvolta da una malattia, un lutto, un fallimento. Per questo è ancor più serio l'amore di Dio. Al punto di consegnare alla morte il Suo Figlio. E alla vittoria.
Convertirsi altro non è che alzare gli occhi e lasciarsi conquistare dalla vittoria di Cristo sui nostri peccati per essere liberati. Liberi di morire; si, la morte come un appuntamento d'amore con Cristo, non più una falce improvvisa e violenta a strappare la vita. Ogni piccola e grande morte quotidiana come un incontro d'amore. Doloroso a volte, certo. Ma pieno di frutti deliziosi per la vita eterna. Ancora un anno per convertirci, un anno di festa per abbracciare il Suo amore.



Evangelio según San Lucas 13,1-9.
En ese momento se presentaron unas personas que comentaron a Jesús el caso de aquellos galileos, cuya sangre Pilato mezcló con la de las víctimas de sus sacrificios.
El les respondió: "¿Creen ustedes que esos galileos sufrieron todo esto porque eran más pecadores que los demás?
Les aseguro que no, y si ustedes no se convierten, todos acabarán de la misma manera.
¿O creen que las dieciocho personas que murieron cuando se desplomó la torre de Siloé, eran más culpables que los demás habitantes de Jerusalén?
Les aseguro que no, y si ustedes no se convierten, todos acabarán de la misma manera".
Les dijo también esta parábola: "Un hombre tenía una higuera plantada en su viña. Fue a buscar frutos y no los encontró.
Dijo entonces al viñador: 'Hace tres años que vengo a buscar frutos en esta higuera y no los encuentro. Córtala, ¿para qué malgastar la tierra?'.
Pero él respondió: 'Señor, déjala todavía este año; yo removeré la tierra alrededor de ella y la abonaré.
Puede ser que así dé frutos en adelante. Si no, la cortarás'".



COMENTARIO


Podemos hacer una prueba veloz: qué nivel de moralismo tenemos en el corazón. Y, por consiguiente, cuánto verdadero deseo de convertirnos tenemos en la mente. Si este Evangelio nos entristece, nos angustia y, aunque muy en el fondo, nos hace pensar en Dios con una punta de desconcierto frente a mucha crudeza, somos verdaderos moralistas con poco deseo de convertirse.

Porque este Evangelio es una maravillosa y buena noticia. Es inaugurado para nosotros un año de conversión, un año de Grazia y a nosotros, pobres, cojos, enfermos y esclavos es predicado el Evangelio: Cristo amor encarnado de Dios. La vida es seria, y ya darnos cuenta de eso, con los tiempos que corren, es una buena noticia. Todo puede ocurrir de un instante al otro, también que la tranquila rutina sea revuelta por una enfermedad, un luto, una quiebra. Por éso, todavía más serio es el amor de Dios. Al punto de entregar a la muerte a Su Hijo. Y a la victoria.

Convertirse otro no es que levantar los ojos y dejarse conquistar de la victoria de Cristo sobre nuestros pecados para ser liberados. Libres de morir; sì, la muerte como una cita de amor con Cristo, no más una hoz repentina y violenta a arrancar la vida. Cada pequeña y grande muerte cotidiana como un encuentro de amor. Doloroso a veces, ciertamente. Pero lleno de frutos deliciosos por la vida eterna. Todavía un año para convertirnos, un año de fiesta para abrazar Su amor.




Meditazione del giorno:

Sant'Asterio di Amasea ( ? – circa 410), vescovo
Omelia sulla conversione (15) PG 40, 356-357,361

Imitare la pazienza di Dio


Poiché il modello, a immagine del quale siete stati fatti, è Dio, procurate di imitare il suo esempio. Siete cristiani, e col vostro stesso nome dichiarate che siete amici dell'uomo : perciò siate imitatori dell'amore di Cristo. Considerate le ricchezze della sua bontà... A coloro che risposero alla sua chiamata, concesse un pronto perdono dei peccati e li liberò da quanto li angustiava... Imitiamo l'esempio che ci ha dato il Signore, il buon Pastore...

Nelle parabole, infatti, vedo un pastore che ha cento pecore. Essendosi una di esse allontanata dal gregge e vagando perduta, egli non rimane con quelle che pascolavano in ordine, ma messosi alla ricerca dell'altra, supera valli e foreste, scala monti grandi e scoscesi e, camminando per lunghi deserti con grande fatica, cerca e ricerca fino a che non trova la pecora smarrita. Dopo averla trovata, non la bastona, né la costringe a forza a raggiungere il gregge, ma, presala sulle spalle e trattatala con dolcezza, la riporta al gregge, provando una gioia maggiore per quella sola ritrovata, che per la moltitudine delle altre.

Consideriamo la realtà velata e nascosta della parabola... Sono figure che contengono grandi realtà sacre. Ci ammoniscono, infatti, che non è giusto disperare degli uomini, e che non dobbiamo trascurare coloro che si trovano nei pericoli, né essere pigri nel portare loro il nostro aiuto, ma che è nostro dovere ricondurre sulla retta via coloro che da essa si sono allontanati e che si sono smarriti. Dobbiamo rallegrarci del loro ritorno e ricongiungerli alla comunità di quanti vivono nella fedeltà.



San Cipriano (hacia 200-258). Obispo de Cartago y mártir
Los beneficios de la paciencia, 7

«A ver si dará fruto»: imitar la paciencia de Dios
Queridos hermanos, Jesucristo, nuestro Señor, no se contentó con enseñar la paciencia de palabra, sino que la enseño sobre todo en sus actos... En la hora de la Pasión y de la cruz ¡cuántos sarcasmos ofensivos escuchados pacientemente, cuántas burlas injuriosas no soportó hasta el punto de recibir salivazos, él, que con su propia saliva había abierto los ojos a un ciego (Jn 9,6)...; coronado de espinas, él, que corona a los mártires con flores eternas; golpeado su rostro con la palma de las manos, él, que otorga las verdaderas palmas a los vencedores; despojado de sus vestiduras, él, que reviste a los otros de inmortalidad; alimentado con hiel, él, que da una alimento celestial; dándole a beber vinagre, él, que hace participar de la copa de la salvación. Él, el inocente, el justo, o mejor dicho, la misma inocencia y la misma justicia, puesto en la hilera de los criminales; falsos testimonios aplastan a la Verdad; se juzga al que ha de juzgar; la Palabra de Dios, callada, es conducida al sacrificio. Después, cuando se eclipsan los astros, cuando los elementos se perturban, cuando tiembla la tierra... él no habla, no se mueve, no revela su majestad. Hasta el final lo soporta todo con una constancia inagotable para que la paciencia plena y perfecta encuentre su término en Cristo.

Después de todo eso, todavía acoge a los homicidas, si se convierten y vuelven a él; gracias a su paciencia..., a nadie cierra su Iglesia. Sus adversarios, los blasfemos, los eternos enemigos de su nombre, no sólo los admite a su perdón si se arrepienten de su falta, sino que incluso les concede la recompensa del Reino de los cielos. ¿Podría alguien citar a alguno más paciente, más benévolo? El mismo que derramó la sangre de Cristo es vivificado por la sangre de Cristo. Así es la paciencia de Cristo, y si no fuera tan grande, la Iglesia no poseería al apóstol Pablo