Santa Maria,

Santa Maria,
...donna del primo sguardo, donaci la grazia dello stupore.

lunedì 30 settembre 2013

«Chi accoglierà questo bambino nel mio nome, accoglie me; e chi accoglie me, accoglie colui che mi ha mandato. Chi infatti è il più piccolo fra tutti voi, questi è grande».

Lunedì della XXVI settimana del Tempo Ordinario


Discesa agli inferi e risurrezione. Icona del XVIII secolo


E sono rimasta li’, sul marciapiede del quartiere povero di Calcutta, 
e ho visto che quella non era l’unica donna che vi giaceva, 
e che veniva mangiata dai topi. 
Ho visto anche che era Cristo stesso a soffrire su quel marciapiede.
Mi sono voltata e sono tornata indietro da quella donna, 
ho cacciato via i topi, l’ho sollevata e, 
siccome non volevano accoglierla in nessun luogo,
io stessa l’ho curata. 
Da quel giorno la mia vita e’ cambiata. 
Da quel giorno il mio progetto e’ stato chiaro: 
avrei dovuto vivere per e con il piu’ povero dei poveri su questa terra, 
dovunque lo avessi trovato.

Madre Teresa di Calcutta






Dal Vangelo secondo Luca 9,46-50.

In quel tempo, nacque una discussione tra i discepoli, chi di loro fosse più grande. 
Allora Gesù, conoscendo il pensiero del loro cuore, prese un bambino, se lo mise vicino e disse loro: «Chi accoglierà questo bambino nel mio nome, accoglie me; e chi accoglie me, accoglie colui che mi ha mandato. Chi infatti è il più piccolo fra tutti voi, questi è grande».
Giovanni prese la parola dicendo: «Maestro, abbiamo visto uno che scacciava demòni nel tuo nome e glielo abbiamo impedito, perché non ti segue insieme con noi». Ma Gesù gli rispose: «Non lo impedite, perché chi non è contro di voi, è per voi».


Il commento

Vi è una piccolezza che è l'unica e autentica grandezza. Un mistero, un arcano che rimane velato ai discepoli perch non si tratta di un insegnamento da recepire intellettualmente, di una legge morale, di una meta da raggiungere, di un impegno da prendere. E' la piccolezza rivelata sulla Croce. E' lì che Gesù sarà apostolo perfetto del Padre; sulla Croce tutto sarà compiuto. All'udire l'annuncio di questo compimento - il passaggio doloroso del Messia nel rifiuto, nell'umiliazione e nella morte di croce - i discepoli restano come indifferenti, rimuovono la questione in modo del tutto naturale, secondo la carne, e, in tutta risposta, cominciano a discutere su chi, tra loro, fosse il più grande. 

Probabilmente, secondo il significato originale del termine dialogismos che appare nel testo, si tratta di una riflessione interiore e non di una vera e propria discussione tra i discepoli. Ciascuno dialoga con se stesso, ed è la trappola più subdola: l'orizzonte celeste è chiuso, si guarda solo a se stessi, non si riconosce un Altro cui sottoporre i propri pensieri; non si ascolta, è pura solitudine e soliloquio, profezia di una morte incipiente. Dialogando con se stessi ci si consola, ci si vizia, ci si compatisce; o, al contrario, ci si disprezza, ci si giudica senza misericordia. Su tutto campeggia un idolo che si fa sempre più grande, il proprio ego, inizio e fine di ogni pensiero, desiderio, progetto. Sono evidenti le tracce del diavolo, di colui che, attraverso il dialogo, ha diviso il cuore dell'uomo, spezzando il filo di abbandono, dipendenza e obbedienza fiduciosa che lo legava al suo Creatore. Dialogando con se stessi su chi fosse il più grande, i discepoli, senza rendersene conto, dialogavano con il demonio, perché in ogni dialogo chiuso e ripiegato nel proprio ego, si nasconde l'interlocutore più perverso e subdolo, pronto ad ingannare e a gettare in schiavitù. 

Colpisce infatti come proprio all'annuncio della Verità - l'umiliazione della Croce che attendeva il Messia - i discepoli cadano preda dell'esaltazione del proprio ego: è il rantolo di satana di fronte alla Croce, lo stesso che aveva colto Pietro dinanzi allo stesso annuncio: "questo non ti accadrà mai", che è come dire, "Tu sei il più grande, e noi con te! La sofferenza, il rifiuto, il disprezzo, la sofferenza, la morte, non si addicono né a Te nè a noi. E' roba dei piccoli, dei falliti, degli ignoranti, di chi, in questo mondo, vive come un bambino".  L'uomo dei dolori, il servo sofferente, il Messia umiliato, restano figure incomprensibili, inaccettabili. I criteri che guidano i pensieri dei discepoli sono irrimediabilmente mondani, perché schiavi dell'inganno satanico. Il potere, il prestigio, la grandezza umana non sono che la griffe del demonio, logo inconfondibile del nemico della Croce e di ogni uomo.

E' la nostra esperienza di fronte alla via crucis che ci attende allo schiudersi di un nuovo giorno, le relazioni familiari difficili con marito, moglie, figli, genitori, parenti; la precarietà dei nostri progetti spesso ribaltati dalle contingenze; il lavoro, la scuola, gli amici, il denaro, la sessualità, tutto ciò che coinvolge la nostra vita è deposto sulla via che conduce al Calvario. In ogni esperienza è impresso il sigillo della Croce, cui si oppone, ferocemente, il demonio. E ci troviamo a dialogare con noi stessi, cercando di scoprire la nostra grandezza, il peso nella famiglia, tra gli amici, nel matrimonio, con il fidanzato, a scuola e al lavoro. Cerchiamo una grandezza che ci rassicuri, che scacci timori e precarietà, che ci strappi all'insignificanza, che dia sostanza al nostro stare al mondo. Ma non ci rendiamo conto che il panorama della nostra storia è stato pervertito, e che, dialogando con noi stessi, ci stiamo abbeverando delle menzogne del nemico. Ogni pensiero chiuso in noi stessi è un dialogo con il demonio, ed è, senza appello, nemico di Cristo e della sua Croce, e, di conseguenza, nemico di ciascuno di noi

Per questo sorgono le gelosie di chi, senza appartenere alla ristretta cerchia degli affetti, o degli schemi ideologici e legalistici che spesso infettano la Chiesa, e che portano a chiusure inopinate al soffio dello Spirito Santo. La propria grandezza, veleno demoniaco, il prestigio ed il potere, camuffati dal "non sono dei nostri, non ti seguono insieme con noi", erigono un muro intorno a Gesù, e alla sua stessa missione. I discepoli, mossi dalla carne, non comprendono di essere essi stessi chiamati per pura Grazia e senza alcun merito. Il seguire Gesù non conferisce alcun diritto di grandezza, è opera della forza intrinseca della Parola che chiama. Quante volte ci imbattiamo nelle pastoie di queste gelosie, nella Chiesa e fuori, arrogandoci diritti che non ci appartengono, usando simoniacamente del ministero che ci è affidato, della missione che ci ha raggiunto per condurre a Cristo, e non a noi stessi, gli uomini... Quante difficoltà hanno incontrato ed incontrano i carismi donati da Dio alla Chiesa, scontrandosi, nella loro effervescenza e nel loro zelo, con la durezza di chi, spesso affetto da clericalismo cronico, ritiene di essere l'unico depositario del Nome di Gesù.... 

Ma è proprio quel Nome che si fa dono (carisma) anche nei tempi e luoghi e alle persone più imprevedibili, perché ovunque sia annunciato e conduca alla salvezza le generazioni. Gesù stesso in fondo è stato un carisma incompreso, uno che, secondo il Sinedrio e i potenti di Israele, aveva usato in modo improprio del Nome di Dio, sino a morire per aver bestemmiato ed essersi fatto Dio, ovvero apostolo del Padre. Ma Gesù impedisce che sia impedito l'annuncio, educando così i suoi discepoli a quello che, di lì a poco, anche loro sperimenteranno: il rifiuto da parte della comunità ebraica, la proibizione esplicita di parlare nel Nome di Gesù, sino al martirio. Gesù spezza il laccio della gelosia svelando la verità, che nessuno è contro chi annuncia il Vangelo, non vi può essere rivalità tra chi è stato raggiunto dalla stessa Grazia, dallo stesso amore gratuito: tutti sono quello che sono perché è Cristo in ciascuno a dare autenticità e forza, autorità e pienezza all'annuncio. Sarà poi Pietro, agli albori della Chiesa e durante i secoli, a confermare i carismi, come ha confermato Paolo e i vari iniziatori di Ordini Religiosi e Movimenti. 

Non si tratta infatti di dialogare, ma di ascoltare - "mettetevi bene nelle orecchie" - e di obbedirePiccolo è chi ascolta, e obbedisce alla volontà di un altro. Piccolo è chi non reclama alcun diritto, l'ultimo della terra consegnato alla storia, così come essa si manifesta. I bambini, nella società di duemila anni fa, erano nulla, erano non persone, miserabili, pitocchi, secondo la traduzione dell'originale termine greco del Vangelo. Al bambino era negato anche il diritto alla vita. Nel caso suo padre non lo avesse accettato in famiglia, il bambino poteva essere gettato fuori, buttato giù da una rupe, lasciato per strada a morire, o essere ceduto come schiavo. Di questa piccolezza parla il Signore, e non di qualche presunta caratteristica morale dei fanciulli. Gesù parla di se stesso, e con quel prendere vicino a sé un fanciullo ha voluto presentare la sua carta di identità, svelare il mistero della sua autentica grandezza, quella del Messia crocifisso. Al fianco di Gesù quel bambino appare come la profezia del Figlio, dell'autentico apostolo del Padre. Infatti,  "Non è il potere che redime, ma l’amore! Questo è il segno di Dio: Egli stesso è amore... Il Dio, che è divenuto agnello, ci dice che il mondo viene salvato dal Crocifisso e non dai crocifissori" (Benedetto XVI, Omelia di inizio pontificato). 

Secondo la sua etimologia, la parola apostolo deriva dal verbo inviareLa grandezza di un apostolo non risiede in se stesso, neanche i quello che fa o dice, ma nella grandezza di colui che lo ha inviato. Nell'ambiente ebraico del Nuovo Testamento esisteva lo schaliah, l'inviato, un procuratore nel quale era considerato presente colui che lo ha inviato. Tutto quello che lo schaliah faceva era considerato come opera di colui che egli rappresentava. Nel Talmud si ripete più di venti volte che "Lo schailiah di una persona è un altro se stesso". Con Cristo, questa finzione giuridica diviene realtà: in Lui è presente il Padre, come nei suoi inviati è presente Egli stesso e, di conseguenza, Colui che lo ha inviato. "La missione della chiesa non è soltanto analoga alla missione del Figlio e dello Spirito santo: è in diretta continuità con essa, e non può essere concepita che in diretta continuità con essa" (L. Bouyer, Il senso della missione sacerdotale).  


Per questo Gesù non nega la possibilità di una grandezza ai suoi discepoli, semplicemente la  illumina con il suo significato autentico. E' la grandezza di un bambino, di un pitocco. E' la grandezza dell'estrema piccolezza, del rifiuto, dell'ultimo posto, della Croce. E' la grandezza dell'amore di Dio che salva ogni uomo, della missione dell'Inviato che realizza l'opera stessa del Padre, scendere sino all'ultimo gradino della storia per raccogliere anche l'ultimo peccatore, l'uomo più lontano, più disprezzato, il più piccolo tra i piccoli, il più povero tra i poveri, quelli per i quali ha speso la sua vita Madre Teresa di Calcutta. Per questo Gesù prende quel bambino, probabilmente, secondo quanto indicherebbe la grammatica de testo, lo stesso che aveva appena liberato dal potere del demonio, e lo pone accanto a sé, al posto d'onore, proprio quello, che in un passo parallelo, i discepoli reclamavano per loro. Non si tratta di sentimentalismo, ma di un segno inequivocabile: quel bambino è immagine di Gesù stesso, il Messia che si inginocchia a lavare i piedi, il Servo che scenderà all'ultimo posto della storia, dietro l'ultimo e più incallito peccatore, più giù di ogni disprezzato, perseguitato, sofferente della terra. E, come il Padre lo ha risollevato dalla tomba per sederlo accanto a sé nella Gloria eterna, così anche ogni uomo sarà strappato dalle fauci del demonio e del peccato, dal male e dall'ingiustizia, per essere innalzato alla destra di Dio. Come nell'icona della Discesa agli inferi e Risurrezione, il riscatto di Adamo ed Eva è il riscatto di ogni uomo:


Chi è pari al Signore nostro Dio che siede nell'alto 
e si china a guardare nei cieli e sulla terra? 
Solleva l'indigente dalla polvere, 
dall'immondizia rialza il povero, 
per farlo sedere tra i principi, 
tra i principi del suo popolo.

Salmo 112

E' anche la sorte promessa agli Apostoli, dei quali quel bambino è immagine: hanno lasciato tutto, nessuna parte ormai in questa terra: ultimi e spazzatura del mondo, rifiutati, insultati, perseguitati, uccisi, sono, attraverso le generazioni, spettacolo per gli angeli e per gli uomini. Piccoli, i più piccoli perchè apostoli del Più Piccolo, la missione di Gesù è la loro stessa missione. In loro Gesù è, come scriveva Pascal, "in agonia sino alla fine del mondo". Negli apostoli Gesù non solo dona al mondo ciò che ha, ma dona se stesso. Chi incontra ed accoglie un apostolo che è come un bambino, l'ultimo e il più debole, accoglie Cristo, e chi accoglie Cristo accoglie il Padre, e gli sono così dischiuse le porte del Regno dei Cieli.

E' questa una Parola per ciascuno di noi. La storia che ci attende anche oggi, la Croce preparata per noi è il luogo dove Dio ha pensato manifestare il suo amore, in noi, per noi e per il mondo. All'alba di ogni giorno, come all'aurora della nostra vita, vi è una Parola da ascoltare, accogliere e custodire: l'elezione ad essere apostoli di Cristo, crocifissi con Lui perché Egli viva in noi; e l'invio in missione nelle trame delle nostre esistenze, nelle quali tutto ci fa piccoli, ultimi, bambini perché attraverso ogni istante il Signore possa chiamarci accanto a sé e mostrare al mondo la Verità che salva, la sua vittoria sul peccato e la morte. Smettiamo allora di dialogare con noi stessi, rinneghiamo la voce subdola che ci inchioda alla menzogna, solleviamo lo sguardo e apriamo le nostre orecchie alla sua Parola che ci chiama, ci libera, ci illumina e ci invia in una missione meravigliosa, vivere nel mondo la vita di Cristo crocifisso e risorto, la grandezza autentica, il valore inestimabile della nostra vita, che nulla e nessuno potrà cancellare, su questa terra e nell'eternità. 


Il Signore ci ama e viene ogni giorno per strapparci a  un'esistenza distesa tra vizi e lussi anestetizzanti. Non servono chissà quanti soldi per vivere come l’ “uomo ricco”. Bastano anche i desideri, quelli indotti dalle pubblicità suadenti di prodotti che sembrano regalati; e non possiamo più vivere senza essere connessi non-stop e senza i film in HD, mentre le concupiscenze inesauste ci sbiadiscono i sentimenti.
“Banchettare lautamente” significa mangiare ovunque e senza freni per diventare poi obesi di effimero; “vestirsi di porpora e bisso” significa indossare ipocritamente l’onore, il rispetto, il prestigio e il successo per i quali si è sacrificato tutto, soprattutto la propria anima. I mille compromessi, le menzogne, le invidie, le gelosie e l’avarizia, sono le portate del crasso menu di cui ci satolliamo ogni giorno. E’ la nostra vita, spesa tra banchetti per saziare una fame insaziabile, e vestiti per coprire una nudità che non si può dimenticare, l’indigenza mortale dove ci ha sospinto il demonio.
Per questo la salvezza appare sulla soglia della nostra vita con gli abiti lisi di un mendicante affamato: "Il vero protagonista della storia è il mendicante: Cristo mendicante del cuore dell'uomo e il cuore dell'uomo mendicante di Cristo" (don Giussani). Anche oggi, infatti, è come quell'oggi del ladrone crocifisso accanto a Gesù: proprio in quel momento l'infinita misericordia lo visitava con la carne lacerata di Cristo crocifisso giunta a un passo da lui. Dio era lì come l’ultimo peccatore della terra e mendicava da lui una parola capace di mendicare il suo perdono.
Come oggi è a un soffio da te e da me, “coperto di piaghe” - una per peccato, i nostri - “bramoso di sfamarsi di quello che cade dalla nostra mensa”, mendicando cioè un frammento della nostra vita sfregiata dal peccato. Gesù “brama” solo una briciola insanguinata, quella di cui neanche ci avvediamo: quel giudizio avventato e scivolato sulle labbra, e uccidevamo un fratello; quell’ironia gratuita che ha umiliato la moglie o il figlio, e noi continuando a vedere la televisione come niente fosse… Il Signore desidera tutti i momenti nei quali non abbiamo saputo e potuto amare, briciole capaci di sfamare e, invece, buttate via.
Tutti quei momenti che, ripensandoli, ci fanno dire: “se avessi fatto o detto in quest’altro modo…”; che ciechi siamo, quel “se” è assurdo perché in quei frangenti ci siamo comportati come potevamo, e non c’era alternativa, perché siamo peccatori, punto. Non esisteva un altro me stesso, buono e santo… E’ illusorio e fuorviante pensare che le cose sarebbero potute andare diversamente, perché solo una completa rigenerazione del cuore può cambiare parole e gesti. Per questo Gesù ci chiede di dargli i nostri vestiti pieni di strappi e scuciture, perché possa darci la veste bianca del perdono e dell’amore, per entrare con Lui nel Paradiso.
E’ per il Cielo, infatti, che siamo nati. Una volta varcata la soglia della tomba il “ricco” apre gli occhi sulla verità. La vita non si giocava tutta sulla terra perché oltre la morte esistono davvero Paradiso e inferno. Come possiamo accorgercene anche noi, tutte le volte che precipitiamo negli inferi a causa dei nostri peccati. Hai disprezzato tua moglie e ora non ti parla da un mese e ti si nega per vendetta? Hai tradito la fiducia di chi ti è accanto, lo hai usato per saziarti, e ora ti trovi solo, crocifisso nell’impotenza? Guarda bene, apri gli occhi e capirai che nulla è senza conseguenze, e queste sono, già qui, anticipo e profezia di ciò che vi sarà oltre la morte.
Come non credere all’eternità se ogni giorno sperimentiamo il gusto dolce o amaro delle decisioni? E come mai l’amaro ci vien voglia di sputarlo? Perché non siamo fatti per l’inferno e i suoi “tormenti”, ma per il paradiso e le sue “consolazioni”, quelle che pregustiamo quando amiamo davvero. Allora, come pensare che non vi sia nulla oltre la morte se c’è qualcosa oltre anche ogni nostra parola? La vita è seria, eccome, e tutto ha un valore immenso, anche le “briciole”, perché perfino ogni sguardo ha il suo riverbero oltre la morte, per il Cielo o per l’inferno.
Anche noi, proprio come il “ricco”, possiamo oggi “alzare lo sguardo” e contemplare Abramo e i santi nel Cielo. Tra “i tormenti” di un rancore possiamo sperare lo stesso destino di Lazzaro, il fratello che ha saputo amare in mezzo ai “suoi mali”. Non siamo morti, c’è ancora un oggi per convertirci: proprio ora Cristo è accanto a te, e, come Lazzaro, mendica la tua attenzione. Il fratello che oggi busserà e chiederà amore, è l’occasione che Di ci dona per aprire gli occhi:la povertà di Lazzaro infatti, è l'immagine che il ricco non vuole guardare, è la propria realtà cancellata e dimenticata.
Per raggiungerci, Gesù ha assunto la nostra natura di poveri Lazzaro: è Lui che, oggi, giace alla nostra porta, sulla soglia della nostra vita mondana, orgogliosa e arrogante. Gesù si è fatto Lazzaro perché potessimo riconoscere la nostra realtà; ha bussato al nostro cuore vestito della stessa nostra debolezza per svegliarci dall’inganno della superbia e della superficialità. Ci chiede le briciole, per dirci che anch’esse sono importanti e decisive. Lazzaro le voleva, gli bastavano, come a tuo figlio, o a tua sorella…
Convertirsi è riconoscere di essere come i pagani, poveri “cani” scacciati da tutti, secondo l’immagine forte che li descriveva. Ma proprio per questo erano gli unici ad accorgersi del suo dolore innamorato: ne erano mendicanti, pronti a curare le “piaghe” che li salvavano, tra l’indifferenza e il rifiuto dei farisei, che non avevano bisogno di nulla.
Convertirsi è scoprire di non avere nessuno che “bagni la punta del dito per bagnarci la lingua” e ridonarci parola e comunione. Senza un amore che superi le barriere della carne, infatti, siamo chiusi a tutti, ed è l’inferno: “un grande abisso” tra i coniugi, tra genitori e figli, tra colleghi e fidanzati. E non si può fare nulla, perché così è “stabilito” dalle nostre scelte. Ma Cristo è risuscitato, ha vinto peccato e morte; e ora, in Cielo, intercede per noi, e ci aiuta a “rientrare in noi stessi”, come il figlio prodigo; e accettare di essere, in questa terra, dei poveri mendicanti che possono solo tendere la mano alla misericordia di Dio.
Così un matrimonio sarà vero e autentico nella misura in cui entrambi i coniugi vivranno nella verità della mendicanza. La moglie che non ci parla sarà allora trasfigurata e riconosceremo in lei il povero Lazzaro: non più un nemico da combattere e sul quale prevalere, ma la nostra stessa povertà che bussa al nostro cuore: nell’esperienza di essere stati amati così come siamo potremo accogliere e amare Cristo crocifisso in chi, invece, vorremmo cancellare, e così entrare insieme nel Paradiso di un matrimonio rigenerato.
Ma per giungere a questa umiltà, occorre un cammino lungo quanto tutta la vitaperché nulla si improvvisa. Per questo, anche se ora apparisse Cristo risorto davanti a noi, non cambierebbe nulla. Non crederemmo, perché ancora chiusi nell’orgoglio. Abbiamo bisogno di “ascoltare Mosè e i Profeti”, per accogliere la fede che ci apra all’annuncio che illumina e salva la nostra vita; occorre imparare a camminare ascoltando, per aprire gli occhi e accogliere Cristo che, anche ora, bussa al nostro cuore in modo inaspettato, nel povero più povero, nel peccatore rifiutato, nell’ultimo di questa generazione.
 Occorre una iniziazione cristiana seria e approfondita perché non ci chiudiamo nel nostro lusso spirituale egoista che ci corrompe dentro: sì, perché anche l'amore infinito di Dio, i doni immensi ricevuti possono trasformarsi in un'autostrada per l'inferno. A Lucifero è successo, e non è una possibilità remota neanche per noi... Occorre vigilare, ed essere aiutati per non distruggere l'opera di Dio, per non accumulare la manna che ci sfama ogni giorno. Vi è una sola possibilità: non trattenere per sé l'abbondanza, i lauti banchetti di Parola e sacramenti, comunione e Grazia, ma aprirci a tutti quelli che bussano per annunciare loro il Vangelo e donarci senza riserve:" Dove c’è vera vita in Cristo, c’è apertura all’altro, c’è uscita da sé per andare incontro all’altro nel nome di Cristo. Sono le due cose: io mi unisco a Gesù ed esco all’incontro con gli altri. Se manca uno di questi due movimenti non batte più, non può vivere. Riceve in dono il kerigma, e a sua volta lo offre in dono. Questa parolina: dono. Il catechista è cosciente che ha ricevuto un dono, il dono della fede e lo dà in dono agli altri. E questo è bello. E non se ne prende per sé la percentuale! Tutto quello che riceve lo dà! Questo non è un affare!... Quando  rimaniamo chiusi e ci succede quello che accade a tutto quello che è chiuso; quando una stanza è chiusa incomincia l’odore dell’umidità. E se una persona è chiusa in quella stanza, si ammala! 

domenica 29 settembre 2013

Commento al Vangelo della XXVI Domenica del Tempo Ordinario - Anno C

"Solo una completa rigenerazione del cuore può cambiare parole e gesti"

Il Signore ci ama e viene ogni giorno per strapparci a  un'esistenza distesa tra vizi e lussi anestetizzanti. Non servono chissà quanti soldi per vivere come l’ “uomo ricco”. Bastano anche i desideri, quelli indotti dalle pubblicità suadenti di prodotti che sembrano regalati; e non possiamo più vivere senza essere connessi non-stop e senza i film in HD, mentre le concupiscenze inesauste ci sbiadiscono i sentimenti.Takamatsu,  (Zenit.orgDon Antonello Iapicca | 319 hits

“Banchettare lautamente” significa mangiare ovunque e senza freni per diventare poi obesi di effimero; “vestirsi di porpora e bisso” significa indossare ipocritamente l’onore, il rispetto, il prestigio e il successo per i quali si è sacrificato tutto, soprattutto la propria anima. I mille compromessi, le menzogne, le invidie, le gelosie e l’avarizia, sono le portate del crasso menu di cui ci satolliamo ogni giorno. E’ la nostra vita, spesa tra banchetti per saziare una fame insaziabile, e vestiti per coprire una nudità che non si può dimenticare, l’indigenza mortale dove ci ha sospinto il demonio.
Per questo la salvezza appare sulla soglia della nostra vita con gli abiti lisi di un mendicanteaffamato: "Il vero protagonista della storia è il mendicante: Cristo mendicante del cuore dell'uomo e il cuore dell'uomo mendicante di Cristo" (don Giussani). Anche oggi, infatti, è come quell'oggi del ladrone crocifisso accanto a Gesù: proprio in quel momento l'infinita misericordia lo visitava con la carne lacerata di Cristo crocifisso giunta a un passo da lui. Dio era lì come l’ultimo peccatore della terra e mendicava da lui una parola capace di mendicare il suo perdono.
Come oggi è a un soffio da te e da me, “coperto di piaghe” - una per peccato, i nostri - “bramoso di sfamarsi di quello che cade dalla nostra mensa”, mendicando cioè un frammento della nostra vita sfregiata dal peccato. Gesù “brama” solo una briciola insanguinata, quella di cui neanche ci avvediamo: quel giudizio avventato e scivolato sulle labbra, e uccidevamo un fratello; quell’ironia gratuita che ha umiliato la moglie o il figlio, e noi continuando a vedere la televisione come niente fosse… Il Signore desidera tutti i momenti nei quali non abbiamo saputo e potuto amare, briciole capaci di sfamare e, invece, buttate via.
Tutti quei momenti che, ripensandoli, ci fanno dire: “se avessi fatto o detto in quest’altro modo…”; che ciechi siamo, quel “se” è assurdo perché in quei frangenti ci siamo comportati come potevamo, e non c’era alternativa, perché siamo peccatori, punto. Non esisteva un altro me stesso, buono e santo… E’ illusorio e fuorviante pensare che le cose sarebbero potute andare diversamente, perché solo una completa rigenerazione del cuore può cambiare parole e gesti. Per questo Gesù ci chiede di dargli i nostri vestiti pieni di strappi e scuciture, perché possa darci la veste bianca del perdono e dell’amore, per entrare con Lui nel Paradiso.
E’ per il Cielo, infatti, che siamo nati. Una volta varcata la soglia della tomba il “ricco” apre gli occhi sulla verità. La vita non si giocava tutta sulla terra perché oltre la morte esistono davvero Paradiso e inferno. Come possiamo accorgercene anche noi, tutte le volte che precipitiamo negli inferi a causa dei nostri peccati. Hai disprezzato tua moglie e ora non ti parla da un mese e ti si nega per vendetta? Hai tradito la fiducia di chi ti è accanto, lo hai usato per saziarti, e ora ti trovi solo, crocifisso nell’impotenza? Guarda bene, apri gli occhi e capirai che nulla è senza conseguenze, e queste sono, già qui, anticipo e profezia di ciò che vi sarà oltre la morte.
Come non credere all’eternità se ogni giorno sperimentiamo il gusto dolce o amaro delle decisioni? E come mai l’amaro ci vien voglia di sputarlo? Perché non siamo fatti per l’inferno e i suoi “tormenti”, ma per il paradiso e le sue “consolazioni”, quelle che pregustiamo quando amiamo davvero. Allora, come pensare che non vi sia nulla oltre la morte se c’è qualcosaoltre anche ogni nostra parola? La vita è seria, eccome, e tutto ha un valore immenso, anche le “briciole”, perché perfino ogni sguardo ha il suo riverbero oltre la morte, per il Cielo o per l’inferno.
Anche noi, proprio come il “ricco”, possiamo oggi “alzare lo sguardo” e contemplare Abramo e i santi nel Cielo. Tra “i tormenti” di un rancore possiamo sperare lo stesso destino di Lazzaro, il fratello che ha saputo amare in mezzo ai “suoi mali”. Non siamo morti, c’è ancora un oggiper convertirci: proprio ora Cristo è accanto a te, e, come Lazzaro, mendica la tua attenzione. Il fratello che oggi busserà e chiederà amore, è l’occasione che Di ci dona per aprire gli occhi:la povertà di Lazzaro infatti, è l'immagine che il ricco non vuole guardare, è la propria realtà cancellata e dimenticata.
Per raggiungerci, Gesù ha assunto la nostra natura di poveri Lazzaro: è Lui che, oggi, giace alla nostra porta, sulla soglia della nostra vita mondana, orgogliosa e arrogante. Gesù si è fatto Lazzaro perché potessimo riconoscere la nostra realtà; ha bussato al nostro cuore vestito della stessa nostra debolezza per svegliarci dall’inganno della superbia e della superficialità. Ci chiede le briciole, per dirci che anch’esse sono importanti e decisive. Lazzaro le voleva, gli bastavano, come a tuo figlio, o a tua sorella…
Convertirsi è riconoscere di essere come i pagani, poveri “cani” scacciati da tutti, secondo l’immagine forte che li descriveva. Ma proprio per questo erano gli unici ad accorgersi del suo dolore innamorato: ne erano mendicanti, pronti a curare le “piaghe” che li salvavano, tra l’indifferenza e il rifiuto dei farisei, che non avevano bisogno di nulla.
Convertirsi è scoprire di non avere nessuno che “bagni la punta del dito per bagnarci la lingua” e ridonarci parola e comunione. Senza un amore che superi le barriere della carne, infatti, siamo chiusi a tutti, ed è l’inferno: “un grande abisso” tra i coniugi, tra genitori e figli, tra colleghi e fidanzati. E non si può fare nulla, perché così è “stabilito” dalle nostre scelte. Ma Cristo è risuscitato, ha vinto peccato e morte; e ora, in Cielo, intercede per noi, e ci aiuta a “rientrare in noi stessi”, come il figlio prodigo; e accettare di essere, in questa terra, dei poveri mendicanti che possono solo tendere la mano alla misericordia di Dio.
Così un matrimonio sarà vero e autentico nella misura in cui entrambi i coniugi vivranno nella verità della mendicanza. La moglie che non ci parla sarà allora trasfigurata e riconosceremo in lei il povero Lazzaro: non più un nemico da combattere e sul quale prevalere, ma la nostra stessa povertà che bussa al nostro cuore: nell’esperienza di essere stati amati così come siamo potremo accogliere e amare Cristo crocifisso in chi, invece, vorremmo cancellare, e così entrare insieme nel Paradiso di un matrimonio rigenerato.
Ma per giungere a questa umiltà, occorre un cammino lungo quanto tutta la vitaperché nulla si improvvisa. Per questo, anche se ora apparisse Cristo risorto davanti a noi, non cambierebbe nulla. Non crederemmo, perché ancora chiusi nell’orgoglio. Abbiamo bisogno di “ascoltare Mosè e i Profeti”, per accogliere la fede che ci apra all’annuncio che illumina e salva la nostra vita; occorre imparare a camminare ascoltando, per aprire gli occhi e accogliere Cristo che, anche ora, bussa al nostro cuore in modo inaspettato, nel povero più povero, nel peccatore rifiutato, nell’ultimo di questa generazione. 

Per la mia catechista - RISERVATO

Scritto da don Marco Pozza  www.sullastradadiemmaus.it
Sarà anche vero che la Chiesa deve somigliare a quell'ospedale da campo sul finire di una battaglia: l'urgenza non sarà quella di controllare il colesterolo o gli zuccheri ma di medicare le ferite mortali, per far ripartire la vita della persona ferita. Com'è di un ospedale da campo così Francesco sogna la sua Chiesa. E' un Papa che lentamente abbandona il sospetto d'essere un bravo “parroco di campagna” per mostrarsi sempre più agli occhi del mondo nella figura del condottiero, del leader che essendo tale avverte anche l'urgenza di pronunciare parole impopolari, di elaborare pensieri che nessuno forse vorrebbe sentirsi dire, di additare a quei sentieri di novità che sono il segno di una rinnovata fiducia verso Cristo e i suoi segreti percorsi nel cuore della storia. Lo fa usando immagini semplici, quotidiane, feriali in modo tale che nessuno possa dire che sono incomprensibili o astruse, difficili da capire per poi applicare. Parla di “odore del gregge”, di “ospedale da campo”, di “cristiani inamidati”, di “Dio spray”: ma si serve di tali immagini non tanto per spiazzare o far sorridere il mondo quanto per assicurare che il cristianesimo parla un linguaggio feriale, viaggia sulle strade dei quartieri, s'inabissa nel quotidiano della nostra storia. Di Francesco non vale il detto della rondine in primavera - “non basta una rondine a far primavera” -: la sua freschezza primaverile nasce dall'aver sperimentato che Dio ti cerca e ti trova sempre. Non te lo perdere, altrimenti sei perso. E' questa la prospettiva: lasciarsi guardare da Lui.

E' una lectio magistralis quella che qualche giorno fa ha intessuto dialogando con i catechisti* nell'ambito dell'Anno della Fede. Loro - figure preziosissime e immeritatamente poco considerate dentro la complessità di una parrocchia – tengono l'arduo compito di iniziare alla fede i piccoli, di immettere loro il sospetto che all'orizzonte ci sia un Dio che li cerca, li ama e propone loro un'avventura da condividere. Come quella volta lungo le sponde del lago: quei pescatori Gesù li aveva notati parecchie volte prima, sempre immersi nei loro lavori, nei loro pensieri, aggrappati a quello spazio d'acqua che assicurava loro il pane oltrechè i pesci. Li scopre abituati e getta loro un invito: “Andrea, perchè continuare a vivere in questo lago tutta la vita? Vuoi tentare l'avventura con me? Sarà un vivere difficile ma io sarò al tuo fianco. Ci stai?”. Quel giorno misero la prima pietra della prima Chiesa: Gesù fu per quel manipolo di pescatori un catechista della gioia. Non fece nessun discorso morale, non minacciò nessuna sentenza apocalittica, non barattò la sequela con promesse di tornaconto: offrì loro semplicemente una possibilità diversa di vivere la loro vita di tutti i giorni. Lo fece con gioia, però: quella stessa gioia che li conquistò.
Oggi la fatica in una parrocchia è quella di trasmettere la gioia e la passione a chi l'ha perduta già da tanto tempo. Troppi passaggi sono stati ripetuti ad oltranza, schemi e tattiche si sono usurati e logorati per il troppo uso, il “fare i catechisti” ha spodestato “l'essere catechisti”. Per papa Francesco è quest'ultima la vera missione: non tanto quella di chi, per scelta o per necessità, riveste tale ruolo in parrocchia ma di coloro che fanno della loro esistenza un racconto colorato e credibile della validità dell'annuncio di Cristo. Liberi di abitare le sfumature di Cristo, spinti e sospinti ad abitare i segreti percorsi dello Spirito, davvero capaci di fare spazio a Dio nel quotidiano della loro vita. Potranno anche sbagliare: ritenteranno ad oltranza perchè nella loro fede, magari piccola e gracile, hanno scoperto lo spazio e il tempo in cui si sono dati appuntamento l'Amore, l'Amato e l'Amante. 
All'interno di una Chiesa magari incidentata ma non di certo abituata.

(da Il Mattino di Padova, 29 settembre 2013)


Santa Messa per i catechisti. Omelia di Papa Francesco


Santa Messa per i catechisti. Omelia di Papa Francesco: “Il catechista è uomo della memoria di Dio se ha un costante, vitale rapporto con Lui e con il prossimo; se è uomo di fede, che si fida veramente di Dio e pone in Lui la sua sicurezza; se è uomo di carità, di amore, che vede tutti come fratelli"

Il segno (...) indica frasi aggiunte dal Santo Padre e pronunciate a braccio.
1. «Guai agli spensierati di Sion e a quelli che si considerano sicuri, … distesi su letti d’avorio» (Am 6,1.4), mangiano, bevono, cantano, si divertono e non si curano dei problemi degli altri.Parole dure quelle del profeta Amos, ma che ci mettono in guardia da un pericolo che tutti corriamo. Che cosa denuncia questo messaggero di Dio, che cosa mette davanti agli occhi dei suoi contemporanei e anche davanti ai nostri occhi oggi? Il rischio di adagiarsi, della comodità, della mondanità nella vita e nel cuore, di avere come centro il nostro benessere.
E’ la stessa esperienza del ricco del Vangelo, che indossava vestiti di lusso e ogni giorno si dava ad abbondanti banchetti; questo era importante per lui. E il povero che era alla sua porta e non aveva di che sfamarsi? Non era affare suo, non lo riguardava. Se le cose, il denaro, la mondanità diventano centro della vita ci afferrano, ci possiedono e noi perdiamo la nostra stessa identità di uomini: guardate bene ... il ricco del Vangelo non ha nome, è semplicemente “un ricco”. Le cose, ciò che possiede sono il suo volto, non ne ha altri.
Ma proviamo a domandarci: come mai succede questo? Come mai gli uomini, forse anche noi, cadiamo nel pericolo di chiuderci, di mettere la nostra sicurezza nelle cose, che alla fine ci rubano il volto, il nostro volto umano? Questo succede quando perdiamo la memoria di Dio. (...) Se manca la memoria di Dio, tutto si appiattisce sull’io, sul mio benessere. La vita, il mondo, gli altri, perdono di consistenza, non contano più nulla, tutto si riduce a una sola dimensione: l’avere. Se perdiamo la memoria di Dio, anche noi stessi perdiamo consistenza, anche noi ci svuotiamo, perdiamo il nostro volto come il ricco del Vangelo! Chi corre dietro al nulla diventa lui stesso nullità – dice un altro grande profeta, Geremia (cfr Ger 2,5). Noi siamo fatti a immagine e somiglianza di Dio, non delle cose, non degli idoli!
2. Allora, guardandovi, mi chiedo: chi è il catechista? E’ colui che custodisce e alimenta la memoria di Dio; la custodisce in se stesso e la sa risvegliare negli altri. E’ bello questo: fare memoria di Dio, come la Vergine Maria che, davanti all’azione meravigliosa di Dio nella sua vita, non pensa all’onore, al prestigio, alle ricchezze, non si chiude in se stessa. Al contrario, dopo aver accolto l’annuncio dell’Angelo e aver concepito il Figlio di Dio, che cosa fa? Parte, va dall’anziana parente Elisabetta, anch’essa incinta, per aiutarla; e nell’incontro con lei il suo primo atto è la memoria dell’agire di Dio, della fedeltà di Dio nella sua vita, nella storia del suo popolo, nella nostra storia: «L’anima mia magnifica il Signore … perché ha guardato l’umiltà della sua serva … di generazione in generazione la sua misericordia» (Lc 1,46.48.50). (...) In questo cantico di Maria c’è anche la memoria della sua storia personale, la storia di Dio con lei, la sua stessa esperienza di fede. Ed è così per ognuno di noi, per ogni cristiano: la fede contiene proprio memoria della storia di Dio con noi, la memoria dell’incontro con Dio che si muove per primo, che crea e salva, che ci trasforma; la fede è memoria della sua Parola che scalda il cuore, delle sue azioni di salvezza con cui ci dona vita, ci purifica, ci cura, ci nutre. Il catechista è proprio un cristiano che mette questa memoria al servizio dell’annuncio; non per farsi vedere, non per parlare di sé, ma per parlare di Dio, del suo amore, della sua fedeltà. (...) San Paolo raccomanda al suo discepolo e collaboratore Timoteo soprattutto una cosa: Ricordati di Gesù Cristo, risorto dai morti, che io annuncio e per il quale soffro (cfr 2 Tm 2,8-9). Ma l’Apostolo può dire questo perché lui per primo si è ricordato di Cristo, che lo ha chiamato quando era persecutore dei cristiani, lo ha toccato e trasformato con la sua Grazia.
Il catechista allora è un cristiano che porta in sé la memoria di Dio, si lascia guidare dalla memoria di Dio in tutta la sua vita, e la sa risvegliare nel cuore degli altri. E’ impegnativo questo! Impegna tutta la vita! Lo stesso Catechismo che cos’è se non memoria di Dio, memoria della sua azione nella storia, del suo essersi fatto vicino a noi in Cristo, presente nella sua Parola, nei Sacramenti, nella sua Chiesa, nel suo amore? Cari catechisti, vi domando: siamo noi memoria di Dio? Siamo veramente come sentinelle che risvegliano negli altri la memoria di Dio, che scalda il cuore?
3. «Guai agli spensierati di Sion», dice il profeta. Quale strada percorrere per non essere persone “spensierate”, che pongono la loro sicurezza in se stessi e nelle cose, ma uomini e donne della memoria di Dio? Nella seconda Lettura san Paolo, scrivendo sempre a Timoteo, dà alcune indicazioni che possono segnare anche il cammino del catechista, il nostro cammino: tendere alla giustizia, alla pietà, alla fede, alla carità, alla pazienza, alla mitezza (cfr 1 Tm 6,11). Il catechista è uomo della memoria di Dio se ha un costante, vitale rapporto con Lui e con il prossimo; se è uomo di fede, che si fida veramente di Dio e pone in Lui la sua sicurezza; se è uomo di carità, di amore, che vede tutti come fratelli; se è uomo di “hypomoné”, di pazienza e perseveranza, che sa affrontare le difficoltà, le prove, gli insuccessi, con serenità e speranza nel Signore; se è uomo mite, capace di comprensione e di misericordia.
Preghiamo il Signore perché siamo tutti uomini e donne che custodiscono e alimentano la memoria di Dio nella propria vita e la sanno risvegliare nel cuore degli altri. Amen.


AI PARTECIPANTI AL CONGRESSO INTERNAZIONALE SULLA CATECHESI
Aula Paolo VI

Venerdì, 27 settembre 2013

Cari catechisti, buonasera!
Mi piace che nell’Anno della fede ci sia questo incontro per voi: la catechesi è un pilastro per l’educazione della fede, e ci vogliono buoni catechisti! Grazie di questo servizio alla Chiesa e nella Chiesa. Anche se a volte può essere difficile, si lavora tanto, ci si impegna e non si vedono i risultati voluti, educare nella fede è bello! E’ forse la migliore eredità che noi possiamo dare: la fede! Educare nella fede, perché lei cresca. Aiutare i bambini, i ragazzi, i giovani, gli adulti a conoscere e ad amare sempre di più il Signore è una delle avventure educative più belle, si costruisce la Chiesa! “Essere” catechisti! Non lavorare da catechisti: questo non serve! Io lavoro da catechista perché mi piace insegnare… Ma se tu non sei catechista, non serve! Non sarai fecondo, non sarai feconda! Catechista è una vocazione: “essere catechista”, questa è la vocazione, non lavorare da catechista. Badate bene, non ho detto “fare” i catechisti, ma “esserlo”, perché coinvolge la vita. Si guida all’incontro con Gesù con le parole e con la vita, con la testimonianza. Ricordatevi quello che Benedetto XVI ci ha detto: “La Chiesa non cresce per proselitismo. Cresce per attrazione”. E quello che attrae è la testimonianza. Essere catechista significa dare testimonianza della fede; essere coerente nella propria vita. E questo non è facile.  Non è facile! Noi aiutiamo, noi guidiamo all’incontro con Gesù con le parole e con la vita, con la testimonianza. A me piace ricordare quello che san Francesco di Assisi diceva ai suoi frati: “Predicate sempre il Vangelo e, se fosse necessario, anche con le parole”. Le parole vengono… ma prima la testimonianza: che la gente veda nella nostra vita il Vangelo, possa leggere il Vangelo. Ed “essere” catechisti chiede amore, amore sempre più forte a Cristo, amore al suo popolo santo. E questo amore non si compra nei negozi, non si compra qui a Roma neppure. Questo amore viene da Cristo! E’ un regalo di Cristo! E’ un regalo di Cristo! E se viene da Cristo parte da Cristo e noi dobbiamo ripartire da Cristo, da questo amore che Lui ci dà, Che cosa significa questo ripartire da Cristoper un catechista, per voi, anche per me, perché anch’io sono catechista? Cosa significa?
Io parlerò di tre cose: uno, due e tre, come facevano i vecchi gesuiti… uno, due e tre!
1. Prima di tutto, ripartire da Cristo significa avere familiarità con Lui, avere questa familiarità con Gesù: Gesù lo raccomanda con insistenza ai discepoli nell’Ultima Cena, quando si avvia a vivere il dono più alto di amore, il sacrificio della Croce. Gesù utilizza l’immagine della vite e dei tralci e dice: rimanete nel mio amore, rimanete attaccati a me, come il tralcio è attaccato alla vite. Se siamo uniti a Lui possiamo portare frutto, e questa è la familiarità con Cristo. Rimanere in Gesù! E’ un rimanere attaccati a Lui, dentro di Lui, con Lui, parlando con Lui: rimanere in Gesù.
La prima cosa, per un discepolo, è stare con il Maestro, ascoltarlo, imparare da Lui. E questo vale sempre, è un cammino che dura tutta la vita. Ricordo, tante volte in diocesi, nell’altra diocesi che avevo prima, di aver visto alla fine dei corsi nel seminario catechistico, i catechisti che uscivano dicendo: “Ho il titolo di catechista!”. Quello non serve, non hai niente, hai fatto una piccola stradina! Chi ti aiuterà? Questo vale sempre! Non è un titolo, è un atteggiamento: stare con Lui; e dura tutta la vita! E’ uno stare alla presenza del Signore, lasciarsi guardare da Lui. Io vi domando: Come state alla presenza del Signore? Quando vai dal Signore, guardi il Tabernacolo, che cosa fate? Senza parole… Ma io dico, dico, penso, medito, sento… Molto bene! Ma tu ti lasci guardare dal Signore? Lasciarci guardare dal Signore. Lui ci guarda e questa è una maniera di pregare. Ti lasci guardare dal Signore? Ma come si fa? Guardi il Tabernacolo e ti lasci guardare… è semplice! E’ un po’ noioso, mi addormento... Addormentati, addormentati! Lui ti guarderà lo stesso, Lui ti guarderà lo stesso. Ma sei sicuro che Lui ti guarda! E questo è molto più importante del titolo di catechista: è parte dell’essere catechista. Questo scalda il cuore, tiene acceso il fuoco dell’amicizia col Signore, ti fa sentire che Lui veramente ti guarda, ti è vicino e ti vuole bene. In una delle uscite che ho fatto, qui a Roma, in una Messa, si è avvicinato un signore, relativamente giovane, e mi ha detto: “Padre, piacere di conoscerla, ma io non credo in niente! Non ho il dono della fede!”. Capiva che era un dono. “Non ho il dono della fede! Che cosa mi dice lei?”. “Non ti scoraggiare. Lui ti vuole bene. Lasciati guardare da Lui! Niente di più”. E questo lo dico a voi: lasciatevi guardare dal Signore! Capisco che per voi non è così semplice: specialmente per chi è sposato e ha figli, è difficile trovare un tempo lungo di calma. Ma, grazie a Dio, non è necessario fare tutti nello stesso modo; nella Chiesa c’è varietà di vocazioni e varietà di forme spirituali; l’importante è trovare il modo adatto per stare con il Signore; e questo si può, è possibile in ogni stato di vita. In questo momento ognuno può domandarsi: come vivo io questo “stare” con Gesù? Questa è una domanda che vi lascio: “Come vivo io questo stare con Gesù, questo rimanere in Gesù?”. Ho dei momenti in cui rimango alla sua presenza, in silenzio, mi lascio guardare da Lui? Lascio che il suo fuoco riscaldi il mio cuore? Se nel nostro cuore non c’è il calore di Dio, del suo amore, della sua tenerezza, come possiamo noi, poveri peccatori, riscaldare il cuore degli altri? Pensate a questo!
2. Il secondo elemento è questo. Secondo: ripartire da Cristo significa imitarlo nell’uscire da sé e andare incontro all’altro. Questa è un’esperienza bella, e un po’ paradossale. Perché? Perché chi mette al centro della propria vita Cristo, si decentra! Più ti unisci a Gesù e Lui diventa il centro della tua vita, più Lui ti fa uscire da te stesso, ti decentra e ti apre agli altri. Questo è il vero dinamismo dell’amore, questo è il movimento di Dio stesso! Dio è il centro, ma è sempre dono di sé, relazione, vita che si comunica… Così diventiamo anche noi se rimaniamo uniti a Cristo, Lui ci fa entrare in questo dinamismo dell’amore. Dove c’è vera vita in Cristo, c’è apertura all’altro, c’è uscita da sé per andare incontro all’altro nel nome di Cristo. E questo è il lavoro del catechista: uscire continuamente da sé per amore, per testimoniare Gesù e parlare di Gesù, predicare Gesù. Questo è importante perché lo fa il Signore: è proprio il Signore che ci spinge a uscire.
Il cuore del catechista vive sempre questo movimento di “sistole - diastole”: unione con Gesù - incontro con l’altro. Sono le due cose: io mi unisco a Gesù ed esco all’incontro con gli altri. Se manca uno di questi due movimenti non batte più, non può vivere. Riceve in dono il kerigma, e a sua volta lo offre in dono. Questa parolina: dono. Il catechista è cosciente che ha ricevuto un dono, il dono della fede e lo dà in dono agli altri. E questo è bello. E non se ne prende per sé la percentuale! Tutto quello che riceve lo dà! Questo non è un affare! Non è un affare! E’ puro dono: dono ricevuto e dono trasmesso. E il catechista è lì, in questo incrocio di dono. E’ così nella natura stessa del kerigma: è un dono che genera missione, che spinge sempre oltre se stessi. San Paolo diceva: «L’amore di Cristo ci spinge», ma quel “ci spinge” si può tradurre anche “ci possiede”. E’ così: l’amore ti attira e ti invia, ti prende e ti dona agli altri. In questa tensione si muove il cuore del cristiano, in particolare il cuore del catechista. Chiediamoci tutti: è così che batte il mio cuore di catechista: unione con Gesù e incontro con l’altro? Con questo movimento di “sistole e diastole”? Si alimenta nel rapporto con Lui, ma per portarlo agli altri e non per ritenerlo? Vi dico una cosa: non capisco come un catechista possa rimanere fermo, senza questo movimento. Non capisco!
3. E il terzo elemento – tre - sta sempre in questa linea: ripartire da Cristo significa non aver paura di andare con Lui nelle periferie. Qui mi viene in mente la storia di Giona, una figura davverointeressante, specialmente nei nostri tempi di cambiamenti e di incertezza. Giona è un uomo pio, con una vita tranquilla e ordinata; questo lo porta ad avere i suoi schemi ben chiari e a giudicare tutto e tutti con questi schemi, in modo rigido. Ha tutto chiaro, la verità è questa. E’ rigido! Perciò quando il Signore lo chiama e gli dice di andare a predicare a Ninive, la grande città pagana, Giona non se la sente. Andare là! Ma io ho tutta la verità qui!. Non se la sente…Ninive è al di fuori dei suoi schemi, è alla periferia del suo mondo. E allora scappa, se ne va in Spagna, fugge via, si imbarca su una nave che va da quelle parti. Andate a rileggere il Libro di Giona! E’ breve, ma è una parabola molto istruttiva, specialmente per noi che siamo nella Chiesa.
Che cosa ci insegna? Ci insegna a non aver paura di uscire dai nostri schemi per seguire Dio, perché Dio va sempre oltre. Ma sapete una cosa? Dio non ha paura! Sapevate questo voi? Non ha paura! E’ sempre oltre i nostri schemi!  Dio non ha paura delle periferie. Ma se voi andate alle periferie, lo troverete lì. Dio è sempre fedele, è creativo. Ma, per favore, non si capisce un catechista che non sia creativo. E la creatività è come la colonna dell’essere catechista. Dio è creativo, non è chiuso, e per questo non è mai rigido. Dio non è rigido! Ci accoglie, ci viene incontro, ci comprende. Per essere fedeli, per essere creativi, bisogna saper cambiare. Saper cambiare. E perché devo cambiare? E’ per adeguarmi alle circostanze nelle quali devo annunziare il Vangelo. Per rimanere con Dio bisogna saper uscire, non aver paura di uscire. Se un catechista si lascia prendere dalla paura, è un codardo; se un catechista se ne sta tranquillo, finisce per essere una statua da museo: e ne abbiamo tanti! Ne abbiamo tanti! Per favore, niente statue da museo! Se un catechista è rigido diventa incartapecorito e sterile. Vi domando: qualcuno di voi vuole essere codardo, statua da museo o sterile? Qualcuno ha questa voglia? [catechisti: No!] No? Sicuro? Va bene! Quello che dirò adesso lo ho detto tante volte, ma mi viene dal cuore di dirlo. Quando noi cristiani siamo chiusi nel nostro gruppo, nel nostro movimento, nella nostra parrocchia, nel nostro ambiente, rimaniamo chiusi e ci succede quello che accade a tutto quello che è chiuso; quando una stanza è chiusa incomincia l’odore dell’umidità. E se una persona è chiusa in quella stanza, si ammala! Quando un cristiano è chiuso nel suo gruppo, nella sua parrocchia, nel suo movimento, è chiuso, si ammala. Se un cristiano esce per le strade, nelle periferie, può succedergli quello che succede a qualche persona che va per la strada: un incidente. Tante volte abbiamo visto incidenti stradali. Ma io vi dico: preferisco mille volte una Chiesa incidentata, e non una Chiesa ammalata! Una Chiesa, un catechista che abbia il coraggio di correre il rischio per uscire, e non un catechista che studi, sappia tutto, ma chiuso sempre: questo è ammalato. E alle volte è ammalato dalla testa….
Ma attenzione! Gesù non dice: andate, arrangiatevi. No, non dice quello! Gesù dice: Andate, io sono con voi! Questa è la nostra bellezza e la nostra forza: se noi andiamo, se noi usciamo a portare il suo Vangelo con amore, con vero spirito apostolico, con parresia, Lui cammina con noi, ci precede, – lo dico in spagnolo – ci “primerea”. Il Signore sempre ci “primerea”! Ormai avete imparato il senso di questa parola. E questo lo dice la Bibbia, non lo dico io. La Bibbia dice, il Signore dice nella Bibbia: Io sono come il fior del mandorlo. Perché? Perché è il primo fiore che fiorisce nella primavera. Lui è sempre “primero”! Lui è primo! Questo è fondamentale per noi: Dio sempre ci precede! Quando noi pensiamo di andare lontano, in una estrema periferia, e forse abbiamo un po’ di timore, in realtà Lui è già là: Gesù ci aspetta nel cuore di quel fratello, nella sua carne ferita, nella sua vita oppressa, nella sua anima senza fede. Ma voi sapete una delle periferie che mi fa così tanto male che sento dolore - lo avevo visto nella diocesi che avevo prima? E’ quella dei bambini che non sanno farsi il Segno della Croce. A Buenos Aires ci sono tanti bambini che non sanno farsi il Segno della Croce. Questa è una periferia! Bisogna andare là! E Gesù è là, ti aspetta, per aiutare quel bambino a farsi il Segno della Croce. Lui sempre ci precede.
Cari catechisti, sono finiti i tre punti. Sempre ripartire da Cristo! Vi dico grazie per quello che fate, ma soprattutto perché ci siete nella Chiesa, nel Popolo di Dio in cammino, perché camminate con il Popolo di Dio. Rimaniamo con Cristo - rimanere in Cristo - cerchiamo di essere sempre più una cosa sola con Lui; seguiamolo, imitiamolo nel suo movimento d’amore, nel suo andare incontro all’uomo; e usciamo, apriamo le porte, abbiamo l’audacia di tracciare strade nuove per l’annuncio del Vangelo.
Che il Signore vi benedica e la Madonna vi accompagni. Grazie!
Maria è nostra Madre, 

Maria sempre ci porta a Gesù!
Facciamo una preghiera, uno per l’altro, alla Madonna.
[Ave Maria]
[Benedizione]

sabato 28 settembre 2013

Il Figlio dell’uomo sta per essere consegnato. Avevano timore di interrogarlo su questo argomento.

Takamatsu, 26 Settembre 2013 (Zenit.org) Don Antonello Iapicca


Tabernacolo di Taisten


Dio ha risposto a questo angoscioso interrogativo 
che si sprigiona dallo scandalo del male 
non con una spiegazione di principio, 
quasi a volersi giustificare, 
ma con il sacrificio del proprio Figlio sulla Croce. 
Nella morte di Gesù s'incontrano 
l'apparente trionfo del male e la vittoria definitiva del bene; 
il momento più buio della storia e la rivelazione della gloria divina; 
il punto di rottura e il centro di attrazione e di ricomposizione dell'universo. 
"Io quando sarò elevato da terra, attirerò tutti a me".


Giovanni Paolo II



Dal Vangelo secondo Luca 9,43-45.

E tutti furono stupiti per la grandezza di Dio. Mentre tutti erano sbalorditi per tutte le cose che faceva, disse ai suoi discepoli: «Mettetevi bene in mente queste parole: Il Figlio dell'uomo sta per esser consegnato in mano degli uomini». Ma essi non comprendevano questa frase; per loro restava così misteriosa che non ne comprendevano il senso e avevano paura a rivolgergli domande su tale argomento.


Il commento

Per "comprendere" il Vangelo di oggi occorre fare un salto indietro di alcuni versetti e ricordare perchè tutti furono "stupiti per la grandezza" di Dio e di quali "cose" erano "sbalorditi". Il Signore aveva appena "volto lo sguardo" sul figlio unico di un padre disperato: Gesù riesce laddove i suoi discepoli avevano fallito, con un esorcismo aveva liberato quel giovane da un demonio che ne straziava la vita. Lo stupore era dunque giustificato perchè davvero la grandezza di Dio era apparsa in quel lembo di mondo, scendendo sino al dolore di quel padre. Dio aveva guardato attentamente quel figlio unico, quell'unica speranza infranta, tanto attentamente da celare in quel miracolo la profezia del suo sguardo colmo di compassione che avrebbe raggiunto il dolore dell'uomo sino all'estremo, sin dentro la morte. In quell'esorcismo era annunciato il grande e decisivo Esorcismo, la Croce piantata come una spada nel cuore del demonio, la compassione del Padre che lo spinge a consegnare alle fauci della morte il suo unico Figlio per riscattare ogni suo unico figlio perduto tra gli inganni del demonio. Gesù ascolta il grido di quel padre che emerge dalla folla riconoscendo la voce di suo Padre, ne intercetta la tenerezza disciolta nella miseria di ogni padre. 

E' questa la grandezza di Dio che stupisce e sbalordisce, l'amore smisurato che cancella ogni distanza, che discende sino al profondo dello Sheol, che giunge a identificarsi con il dolore dell'umanità. Dio si incarna, senza riserve, al punto che il dolore umano diviene il suo dolore, e si fa grido e strazio, supplica e compassione. Il cuore di Gesù capisce, si fa carico di quel grido, e si consegna a quello strazio per distruggerne la causa. E' la grandezza più grande: amare sino a diventare una cosa sola con l'amato. Gli occhi di Abramo fissi su Isacco, i due uniti nella stessa Aquedà, legati nella stessa consegna, nello stesso sacrificio. Il Padre e Gesù, la stessa grandezza ridotta a carni trapassate, e sangue versato e corpo offerto, e morte, e sepolcro. 

I discepoli non avevano ancora quello sguardo, e quell'orecchio aperto sul dolore, e per questo non avevano potuto cacciare quel demonio. Il loro pensiero, come era apparso in Pietro all'annuncio della passione, non a caso un parallelo del brano di Luca che ci accompagna oggi, era un pensiero mondano, secondo gli uomini, avvelenato dall'inganno satanico. I discepoli non erano ancora pronti, non potevano comprendere la profezia celata in quell'esorcismo, la Trasfigurazione era stata archiviata come un enigma difficile da risolvere, i miracoli erano un linguaggio troppo duro. Le loro orecchie erano ancora chiuse alla Parola: chiamati per una missione che trascendeva le loro forze non erano ancora discepoli. 

Si comprende allora perchè Gesù dica loro: "Mettetevi bene in mente",
letteralmente, mettete queste parole nelle vostre orecchie. Il discepolo è colui che ha l'orecchio aperto: "Il Signore Dio mi ha dato una lingua da discepolo, Perché sappia essere curvo con chi è stanco, una parola risveglia, nel mattino, nel mattino risveglia il mio orecchio, perché ascolti, come ascoltano i discepoli. Il Signore Dio mi ha aperto l'orecchio e io non ho opposto resistenza, non mi sono tirato indietro. Ho presentato il mio dorso ai flagellatori, le mie guance a coloro che mi strappavano la barba; non ho sottratto la faccia agli insulti e agli sputi" (Is. 50, 4-6). Gesù è il Servo di Yahwè, con una lingua da discepolo, capace di curvarsi, come il Padre, con chi è stanco, e scendere sino al dolore seguendo il grido che si affaccia alle sue orecchie, offrendosi alla passione, alla Croce e alla morte. Gesù ha l'orecchio aperto, le parole del Padre giungono diritte al suo cuore: la compassione di Dio risveglia il suo orecchio ogni giorno e lo conduce, passo dopo passo, sino alla consegna nelle mani degli uomini. 

Gesù forma i suoi discepoli, come forma ciascuno di noi, mostrando la sua docilità, il suo ascolto pronto e obbediente. Gesù ci forma aprendo le nostre orecchie, le fora per imprimere in noi le sue parole, quelle che annunciano l'amore di Dio, la grandezza che stupisce e sbalordisce: "Per questo, entrando nel mondo, Cristo dice: Tu non hai voluto né sacrificio né offerta, un corpo invece mi hai preparato. Non hai gradito né olocausti né sacrifici per il peccato. Allora ho detto: "Ecco, io vengo - poiché di me sta scritto nel rotolo del libro - per fare, o Dio, la tua volontà" (Eb. 10, 5-7). Queste parole riprendono il salmo 40 applicandolo alla missione di Gesù. Nel salmo però, laddove la Lettera agli Ebrei recita "un corpo mi hai preparato", si legge: "gli orecchi mi hai scavato". Si tratta di un'allusione al segno della perforazione dell'orecchio che faceva il padrone allo schiavo, votandolo così al proprio servizio per sempre. Gesù è il servo consegnato al Padre, il suo orecchio è circonciso per compiere la volontà paterna. 

In ebraico ascoltare e obbedire si esprimono con lo stesso verbo. Per questo avere un orecchio forato, circonciso, significa essere obbediente senza condizioni, al punto che la volontà del Padre e quella del Figlio coincidono, al di là della carne, come appare evidente nell'agonia del Getsemani: "“Non la mia volontà, ma la tua sia realizzata”. Che cos'è questa mia volontà, che cos'è questa tua volontà, di cui parla il Signore? La mia volontà è “che non dovrebbe morire”, che gli sia risparmiato questo calice della sofferenza: è la volontà umana, della natura umana, e Cristo sente, con tutta la consapevolezza del suo essere, la vita, l'abisso della morte, il terrore del nulla, questa minaccia della sofferenza. E Lui più di noi, che abbiamo questa naturale avversione contro la morte, questa paura naturale della morte, ancora più di noi, sente l'abisso del male. Sente, con la morte, anche tutta la sofferenza dell'umanità. Sente che tutto questo è il calice che deve bere, deve far bere a se stesso, accettare il male del mondo, tutto ciò che è terribile, l’avversione contro Dio, tutto il peccato. E possiamo capire come Gesù, con la sua anima umana, sia terrorizzato davanti a questa realtà, che percepisce in tutta la sua crudeltà: la mia volontà sarebbe non bere il calice, ma la mia volontà è subordinata alla tua volontà, alla volontà di Dio, alla volontà del Padre, che è anche la vera volontà del Figlio. E così Gesù trasforma, in questa preghiera, l’avversione naturale, l’avversione contro il calice, contro la sua missione di morire per noi; trasforma questa sua volontà naturale in volontà di Dio, in un “sì” alla volontà di Dio" (Benedetto XVI, Catechesi sul Triduo Pasquale, 20 aprile 2011) .

Gesù, è il servo che ha l'orecchio forato, aperto all'obbedienza, in un sì senza condizioni, che lo fa compatire della stessa compassione del Padre. Gesù, il suo corpo forato dai chiodi sulla Croce, consegnato alle mani degli uomini, un amore fatto pane da mangiare, e sangue da bere, perdono e misericordia che rigenerano e guariscono. Gesù, il servo obbediente, ci viene oggi accanto per mettere bene ed imprimere in noi le su parole, le stesse del Padre, la sua vita consegnata perchè divenga in noi Parola viva nella nostra stessa vita. Gesù apre le nostre orecchie, ci forma alla scuola della sua obbedienza, perchè, con gli Apostoli formati nella sua intimità e nel sigillo dello Spirito Santo, possiamo anche noi compiere le sue opere, mostrare la grandezza di Dio a questa generazione: "Gesù tira la nostra volontà, che si oppone alla volontà di Dio, che cerca l'autonomia, tira questa nostra volontà in alto, verso la volontà di Dio. Questo è il dramma della nostra redenzione, che Gesù tira in alto la nostra volontà, tutta la nostra avversione contro la volontà di Dio e la nostra avversione contro la morte e il peccato, e la unisce con la volontà del Padre: “Non la mia volontà ma la tua”. In questa trasformazione del “no” in “sì”, in questo inserimento della volontà creaturale nella volontà del Padre, Egli trasforma l'umanità e ci redime. E ci invita a entrare in questo suo movimento: uscire dal nostro “no” ed entrare nel “sì” del Figlio. La mia volontà c'è, ma decisiva è la volontà del Padre, perché questa è la verità e l'amore" (Benedetto XVI, ibid).