Lunedì della XXVI settimana del Tempo Ordinario
Discesa agli inferi e risurrezione. Icona del XVIII secolo
E sono rimasta li’, sul marciapiede del quartiere povero di Calcutta,
e ho visto che quella non era l’unica donna che vi giaceva,
e che veniva mangiata dai topi.
Ho visto anche che era Cristo stesso a soffrire su quel marciapiede.
Mi sono voltata e sono tornata indietro da quella donna,
ho cacciato via i topi, l’ho sollevata e,
siccome non volevano accoglierla in nessun luogo,
io stessa l’ho curata.
Da quel giorno la mia vita e’ cambiata.
Da quel giorno il mio progetto e’ stato chiaro:
avrei dovuto vivere per e con il piu’ povero dei poveri su questa terra,
dovunque lo avessi trovato.
Madre Teresa di Calcutta
Dal Vangelo secondo Luca 9,46-50.
In quel tempo, nacque una discussione tra i discepoli, chi di loro fosse più grande.
Allora Gesù, conoscendo il pensiero del loro cuore, prese un bambino, se lo mise vicino e disse loro: «Chi accoglierà questo bambino nel mio nome, accoglie me; e chi accoglie me, accoglie colui che mi ha mandato. Chi infatti è il più piccolo fra tutti voi, questi è grande».
Giovanni prese la parola dicendo: «Maestro, abbiamo visto uno che scacciava demòni nel tuo nome e glielo abbiamo impedito, perché non ti segue insieme con noi». Ma Gesù gli rispose: «Non lo impedite, perché chi non è contro di voi, è per voi».
Il commento
Vi è una piccolezza che è l'unica e autentica grandezza. Un mistero, un arcano che rimane velato ai discepoli perch non si tratta di un insegnamento da recepire intellettualmente, di una legge morale, di una meta da raggiungere, di un impegno da prendere. E' la piccolezza rivelata sulla Croce. E' lì che Gesù sarà apostolo perfetto del Padre; sulla Croce tutto sarà compiuto. All'udire l'annuncio di questo compimento - il passaggio doloroso del Messia nel rifiuto, nell'umiliazione e nella morte di croce - i discepoli restano come indifferenti, rimuovono la questione in modo del tutto naturale, secondo la carne, e, in tutta risposta, cominciano a discutere su chi, tra loro, fosse il più grande.
Probabilmente, secondo il significato originale del termine dialogismos che appare nel testo, si tratta di una riflessione interiore e non di una vera e propria discussione tra i discepoli. Ciascuno dialoga con se stesso, ed è la trappola più subdola: l'orizzonte celeste è chiuso, si guarda solo a se stessi, non si riconosce un Altro cui sottoporre i propri pensieri; non si ascolta, è pura solitudine e soliloquio, profezia di una morte incipiente. Dialogando con se stessi ci si consola, ci si vizia, ci si compatisce; o, al contrario, ci si disprezza, ci si giudica senza misericordia. Su tutto campeggia un idolo che si fa sempre più grande, il proprio ego, inizio e fine di ogni pensiero, desiderio, progetto. Sono evidenti le tracce del diavolo, di colui che, attraverso il dialogo, ha diviso il cuore dell'uomo, spezzando il filo di abbandono, dipendenza e obbedienza fiduciosa che lo legava al suo Creatore. Dialogando con se stessi su chi fosse il più grande, i discepoli, senza rendersene conto, dialogavano con il demonio, perché in ogni dialogo chiuso e ripiegato nel proprio ego, si nasconde l'interlocutore più perverso e subdolo, pronto ad ingannare e a gettare in schiavitù.
Colpisce infatti come proprio all'annuncio della Verità - l'umiliazione della Croce che attendeva il Messia - i discepoli cadano preda dell'esaltazione del proprio ego: è il rantolo di satana di fronte alla Croce, lo stesso che aveva colto Pietro dinanzi allo stesso annuncio: "questo non ti accadrà mai", che è come dire, "Tu sei il più grande, e noi con te! La sofferenza, il rifiuto, il disprezzo, la sofferenza, la morte, non si addicono né a Te nè a noi. E' roba dei piccoli, dei falliti, degli ignoranti, di chi, in questo mondo, vive come un bambino". L'uomo dei dolori, il servo sofferente, il Messia umiliato, restano figure incomprensibili, inaccettabili. I criteri che guidano i pensieri dei discepoli sono irrimediabilmente mondani, perché schiavi dell'inganno satanico. Il potere, il prestigio, la grandezza umana non sono che la griffe del demonio, logo inconfondibile del nemico della Croce e di ogni uomo.
E' la nostra esperienza di fronte alla via crucis che ci attende allo schiudersi di un nuovo giorno, le relazioni familiari difficili con marito, moglie, figli, genitori, parenti; la precarietà dei nostri progetti spesso ribaltati dalle contingenze; il lavoro, la scuola, gli amici, il denaro, la sessualità, tutto ciò che coinvolge la nostra vita è deposto sulla via che conduce al Calvario. In ogni esperienza è impresso il sigillo della Croce, cui si oppone, ferocemente, il demonio. E ci troviamo a dialogare con noi stessi, cercando di scoprire la nostra grandezza, il peso nella famiglia, tra gli amici, nel matrimonio, con il fidanzato, a scuola e al lavoro. Cerchiamo una grandezza che ci rassicuri, che scacci timori e precarietà, che ci strappi all'insignificanza, che dia sostanza al nostro stare al mondo. Ma non ci rendiamo conto che il panorama della nostra storia è stato pervertito, e che, dialogando con noi stessi, ci stiamo abbeverando delle menzogne del nemico. Ogni pensiero chiuso in noi stessi è un dialogo con il demonio, ed è, senza appello, nemico di Cristo e della sua Croce, e, di conseguenza, nemico di ciascuno di noi.
Per questo sorgono le gelosie di chi, senza appartenere alla ristretta cerchia degli affetti, o degli schemi ideologici e legalistici che spesso infettano la Chiesa, e che portano a chiusure inopinate al soffio dello Spirito Santo. La propria grandezza, veleno demoniaco, il prestigio ed il potere, camuffati dal "non sono dei nostri, non ti seguono insieme con noi", erigono un muro intorno a Gesù, e alla sua stessa missione. I discepoli, mossi dalla carne, non comprendono di essere essi stessi chiamati per pura Grazia e senza alcun merito. Il seguire Gesù non conferisce alcun diritto di grandezza, è opera della forza intrinseca della Parola che chiama. Quante volte ci imbattiamo nelle pastoie di queste gelosie, nella Chiesa e fuori, arrogandoci diritti che non ci appartengono, usando simoniacamente del ministero che ci è affidato, della missione che ci ha raggiunto per condurre a Cristo, e non a noi stessi, gli uomini... Quante difficoltà hanno incontrato ed incontrano i carismi donati da Dio alla Chiesa, scontrandosi, nella loro effervescenza e nel loro zelo, con la durezza di chi, spesso affetto da clericalismo cronico, ritiene di essere l'unico depositario del Nome di Gesù....
Ma è proprio quel Nome che si fa dono (carisma) anche nei tempi e luoghi e alle persone più imprevedibili, perché ovunque sia annunciato e conduca alla salvezza le generazioni. Gesù stesso in fondo è stato un carisma incompreso, uno che, secondo il Sinedrio e i potenti di Israele, aveva usato in modo improprio del Nome di Dio, sino a morire per aver bestemmiato ed essersi fatto Dio, ovvero apostolo del Padre. Ma Gesù impedisce che sia impedito l'annuncio, educando così i suoi discepoli a quello che, di lì a poco, anche loro sperimenteranno: il rifiuto da parte della comunità ebraica, la proibizione esplicita di parlare nel Nome di Gesù, sino al martirio. Gesù spezza il laccio della gelosia svelando la verità, che nessuno è contro chi annuncia il Vangelo, non vi può essere rivalità tra chi è stato raggiunto dalla stessa Grazia, dallo stesso amore gratuito: tutti sono quello che sono perché è Cristo in ciascuno a dare autenticità e forza, autorità e pienezza all'annuncio. Sarà poi Pietro, agli albori della Chiesa e durante i secoli, a confermare i carismi, come ha confermato Paolo e i vari iniziatori di Ordini Religiosi e Movimenti.
Non si tratta infatti di dialogare, ma di ascoltare - "mettetevi bene nelle orecchie" - e di obbedire. Piccolo è chi ascolta, e obbedisce alla volontà di un altro. Piccolo è chi non reclama alcun diritto, l'ultimo della terra consegnato alla storia, così come essa si manifesta. I bambini, nella società di duemila anni fa, erano nulla, erano non persone, miserabili, pitocchi, secondo la traduzione dell'originale termine greco del Vangelo. Al bambino era negato anche il diritto alla vita. Nel caso suo padre non lo avesse accettato in famiglia, il bambino poteva essere gettato fuori, buttato giù da una rupe, lasciato per strada a morire, o essere ceduto come schiavo. Di questa piccolezza parla il Signore, e non di qualche presunta caratteristica morale dei fanciulli. Gesù parla di se stesso, e con quel prendere vicino a sé un fanciullo ha voluto presentare la sua carta di identità, svelare il mistero della sua autentica grandezza, quella del Messia crocifisso. Al fianco di Gesù quel bambino appare come la profezia del Figlio, dell'autentico apostolo del Padre. Infatti, "Non è il potere che redime, ma l’amore! Questo è il segno di Dio: Egli stesso è amore... Il Dio, che è divenuto agnello, ci dice che il mondo viene salvato dal Crocifisso e non dai crocifissori" (Benedetto XVI, Omelia di inizio pontificato).
Secondo la sua etimologia, la parola apostolo deriva dal verbo inviare. La grandezza di un apostolo non risiede in se stesso, neanche i quello che fa o dice, ma nella grandezza di colui che lo ha inviato. Nell'ambiente ebraico del Nuovo Testamento esisteva lo schaliah, l'inviato, un procuratore nel quale era considerato presente colui che lo ha inviato. Tutto quello che lo schaliah faceva era considerato come opera di colui che egli rappresentava. Nel Talmud si ripete più di venti volte che "Lo schailiah di una persona è un altro se stesso". Con Cristo, questa finzione giuridica diviene realtà: in Lui è presente il Padre, come nei suoi inviati è presente Egli stesso e, di conseguenza, Colui che lo ha inviato. "La missione della chiesa non è soltanto analoga alla missione del Figlio e dello Spirito santo: è in diretta continuità con essa, e non può essere concepita che in diretta continuità con essa" (L. Bouyer, Il senso della missione sacerdotale).
Per questo Gesù non nega la possibilità di una grandezza ai suoi discepoli, semplicemente la illumina con il suo significato autentico. E' la grandezza di un bambino, di un pitocco. E' la grandezza dell'estrema piccolezza, del rifiuto, dell'ultimo posto, della Croce. E' la grandezza dell'amore di Dio che salva ogni uomo, della missione dell'Inviato che realizza l'opera stessa del Padre, scendere sino all'ultimo gradino della storia per raccogliere anche l'ultimo peccatore, l'uomo più lontano, più disprezzato, il più piccolo tra i piccoli, il più povero tra i poveri, quelli per i quali ha speso la sua vita Madre Teresa di Calcutta. Per questo Gesù prende quel bambino, probabilmente, secondo quanto indicherebbe la grammatica de testo, lo stesso che aveva appena liberato dal potere del demonio, e lo pone accanto a sé, al posto d'onore, proprio quello, che in un passo parallelo, i discepoli reclamavano per loro. Non si tratta di sentimentalismo, ma di un segno inequivocabile: quel bambino è immagine di Gesù stesso, il Messia che si inginocchia a lavare i piedi, il Servo che scenderà all'ultimo posto della storia, dietro l'ultimo e più incallito peccatore, più giù di ogni disprezzato, perseguitato, sofferente della terra. E, come il Padre lo ha risollevato dalla tomba per sederlo accanto a sé nella Gloria eterna, così anche ogni uomo sarà strappato dalle fauci del demonio e del peccato, dal male e dall'ingiustizia, per essere innalzato alla destra di Dio. Come nell'icona della Discesa agli inferi e Risurrezione, il riscatto di Adamo ed Eva è il riscatto di ogni uomo:
Chi è pari al Signore nostro Dio che siede nell'alto
e si china a guardare nei cieli e sulla terra?
Solleva l'indigente dalla polvere,
dall'immondizia rialza il povero,
per farlo sedere tra i principi,
tra i principi del suo popolo.
Salmo 112
E' anche la sorte promessa agli Apostoli, dei quali quel bambino è immagine: hanno lasciato tutto, nessuna parte ormai in questa terra: ultimi e spazzatura del mondo, rifiutati, insultati, perseguitati, uccisi, sono, attraverso le generazioni, spettacolo per gli angeli e per gli uomini. Piccoli, i più piccoli perchè apostoli del Più Piccolo, la missione di Gesù è la loro stessa missione. In loro Gesù è, come scriveva Pascal, "in agonia sino alla fine del mondo". Negli apostoli Gesù non solo dona al mondo ciò che ha, ma dona se stesso. Chi incontra ed accoglie un apostolo che è come un bambino, l'ultimo e il più debole, accoglie Cristo, e chi accoglie Cristo accoglie il Padre, e gli sono così dischiuse le porte del Regno dei Cieli.
E' questa una Parola per ciascuno di noi. La storia che ci attende anche oggi, la Croce preparata per noi è il luogo dove Dio ha pensato manifestare il suo amore, in noi, per noi e per il mondo. All'alba di ogni giorno, come all'aurora della nostra vita, vi è una Parola da ascoltare, accogliere e custodire: l'elezione ad essere apostoli di Cristo, crocifissi con Lui perché Egli viva in noi; e l'invio in missione nelle trame delle nostre esistenze, nelle quali tutto ci fa piccoli, ultimi, bambini perché attraverso ogni istante il Signore possa chiamarci accanto a sé e mostrare al mondo la Verità che salva, la sua vittoria sul peccato e la morte. Smettiamo allora di dialogare con noi stessi, rinneghiamo la voce subdola che ci inchioda alla menzogna, solleviamo lo sguardo e apriamo le nostre orecchie alla sua Parola che ci chiama, ci libera, ci illumina e ci invia in una missione meravigliosa, vivere nel mondo la vita di Cristo crocifisso e risorto, la grandezza autentica, il valore inestimabile della nostra vita, che nulla e nessuno potrà cancellare, su questa terra e nell'eternità.
Il Signore ci ama e viene ogni giorno per strapparci a un'esistenza distesa tra vizi e lussi anestetizzanti. Non servono chissà quanti soldi per vivere come l’ “uomo ricco”. Bastano anche i desideri, quelli indotti dalle pubblicità suadenti di prodotti che sembrano regalati; e non possiamo più vivere senza essere connessi non-stop e senza i film in HD, mentre le concupiscenze inesauste ci sbiadiscono i sentimenti.
“Banchettare lautamente” significa mangiare ovunque e senza freni per diventare poi obesi di effimero; “vestirsi di porpora e bisso” significa indossare ipocritamente l’onore, il rispetto, il prestigio e il successo per i quali si è sacrificato tutto, soprattutto la propria anima. I mille compromessi, le menzogne, le invidie, le gelosie e l’avarizia, sono le portate del crasso menu di cui ci satolliamo ogni giorno. E’ la nostra vita, spesa tra banchetti per saziare una fame insaziabile, e vestiti per coprire una nudità che non si può dimenticare, l’indigenza mortale dove ci ha sospinto il demonio.
Per questo la salvezza appare sulla soglia della nostra vita con gli abiti lisi di un mendicante affamato: "Il vero protagonista della storia è il mendicante: Cristo mendicante del cuore dell'uomo e il cuore dell'uomo mendicante di Cristo" (don Giussani). Anche oggi, infatti, è come quell'oggi del ladrone crocifisso accanto a Gesù: proprio in quel momento l'infinita misericordia lo visitava con la carne lacerata di Cristo crocifisso giunta a un passo da lui. Dio era lì come l’ultimo peccatore della terra e mendicava da lui una parola capace di mendicare il suo perdono.
Come oggi è a un soffio da te e da me, “coperto di piaghe” - una per peccato, i nostri - “bramoso di sfamarsi di quello che cade dalla nostra mensa”, mendicando cioè un frammento della nostra vita sfregiata dal peccato. Gesù “brama” solo una briciola insanguinata, quella di cui neanche ci avvediamo: quel giudizio avventato e scivolato sulle labbra, e uccidevamo un fratello; quell’ironia gratuita che ha umiliato la moglie o il figlio, e noi continuando a vedere la televisione come niente fosse… Il Signore desidera tutti i momenti nei quali non abbiamo saputo e potuto amare, briciole capaci di sfamare e, invece, buttate via.
Tutti quei momenti che, ripensandoli, ci fanno dire: “se avessi fatto o detto in quest’altro modo…”; che ciechi siamo, quel “se” è assurdo perché in quei frangenti ci siamo comportati come potevamo, e non c’era alternativa, perché siamo peccatori, punto. Non esisteva un altro me stesso, buono e santo… E’ illusorio e fuorviante pensare che le cose sarebbero potute andare diversamente, perché solo una completa rigenerazione del cuore può cambiare parole e gesti. Per questo Gesù ci chiede di dargli i nostri vestiti pieni di strappi e scuciture, perché possa darci la veste bianca del perdono e dell’amore, per entrare con Lui nel Paradiso.
E’ per il Cielo, infatti, che siamo nati. Una volta varcata la soglia della tomba il “ricco” apre gli occhi sulla verità. La vita non si giocava tutta sulla terra perché oltre la morte esistono davvero Paradiso e inferno. Come possiamo accorgercene anche noi, tutte le volte che precipitiamo negli inferi a causa dei nostri peccati. Hai disprezzato tua moglie e ora non ti parla da un mese e ti si nega per vendetta? Hai tradito la fiducia di chi ti è accanto, lo hai usato per saziarti, e ora ti trovi solo, crocifisso nell’impotenza? Guarda bene, apri gli occhi e capirai che nulla è senza conseguenze, e queste sono, già qui, anticipo e profezia di ciò che vi sarà oltre la morte.
Come non credere all’eternità se ogni giorno sperimentiamo il gusto dolce o amaro delle decisioni? E come mai l’amaro ci vien voglia di sputarlo? Perché non siamo fatti per l’inferno e i suoi “tormenti”, ma per il paradiso e le sue “consolazioni”, quelle che pregustiamo quando amiamo davvero. Allora, come pensare che non vi sia nulla oltre la morte se c’è qualcosa oltre anche ogni nostra parola? La vita è seria, eccome, e tutto ha un valore immenso, anche le “briciole”, perché perfino ogni sguardo ha il suo riverbero oltre la morte, per il Cielo o per l’inferno.
Anche noi, proprio come il “ricco”, possiamo oggi “alzare lo sguardo” e contemplare Abramo e i santi nel Cielo. Tra “i tormenti” di un rancore possiamo sperare lo stesso destino di Lazzaro, il fratello che ha saputo amare in mezzo ai “suoi mali”. Non siamo morti, c’è ancora un oggi per convertirci: proprio ora Cristo è accanto a te, e, come Lazzaro, mendica la tua attenzione. Il fratello che oggi busserà e chiederà amore, è l’occasione che Di ci dona per aprire gli occhi:la povertà di Lazzaro infatti, è l'immagine che il ricco non vuole guardare, è la propria realtà cancellata e dimenticata.
Per raggiungerci, Gesù ha assunto la nostra natura di poveri Lazzaro: è Lui che, oggi, giace alla nostra porta, sulla soglia della nostra vita mondana, orgogliosa e arrogante. Gesù si è fatto Lazzaro perché potessimo riconoscere la nostra realtà; ha bussato al nostro cuore vestito della stessa nostra debolezza per svegliarci dall’inganno della superbia e della superficialità. Ci chiede le briciole, per dirci che anch’esse sono importanti e decisive. Lazzaro le voleva, gli bastavano, come a tuo figlio, o a tua sorella…
Convertirsi è riconoscere di essere come i pagani, poveri “cani” scacciati da tutti, secondo l’immagine forte che li descriveva. Ma proprio per questo erano gli unici ad accorgersi del suo dolore innamorato: ne erano mendicanti, pronti a curare le “piaghe” che li salvavano, tra l’indifferenza e il rifiuto dei farisei, che non avevano bisogno di nulla.
Convertirsi è scoprire di non avere nessuno che “bagni la punta del dito per bagnarci la lingua” e ridonarci parola e comunione. Senza un amore che superi le barriere della carne, infatti, siamo chiusi a tutti, ed è l’inferno: “un grande abisso” tra i coniugi, tra genitori e figli, tra colleghi e fidanzati. E non si può fare nulla, perché così è “stabilito” dalle nostre scelte. Ma Cristo è risuscitato, ha vinto peccato e morte; e ora, in Cielo, intercede per noi, e ci aiuta a “rientrare in noi stessi”, come il figlio prodigo; e accettare di essere, in questa terra, dei poveri mendicanti che possono solo tendere la mano alla misericordia di Dio.
Così un matrimonio sarà vero e autentico nella misura in cui entrambi i coniugi vivranno nella verità della mendicanza. La moglie che non ci parla sarà allora trasfigurata e riconosceremo in lei il povero Lazzaro: non più un nemico da combattere e sul quale prevalere, ma la nostra stessa povertà che bussa al nostro cuore: nell’esperienza di essere stati amati così come siamo potremo accogliere e amare Cristo crocifisso in chi, invece, vorremmo cancellare, e così entrare insieme nel Paradiso di un matrimonio rigenerato.
Ma per giungere a questa umiltà, occorre un cammino lungo quanto tutta la vita, perché nulla si improvvisa. Per questo, anche se ora apparisse Cristo risorto davanti a noi, non cambierebbe nulla. Non crederemmo, perché ancora chiusi nell’orgoglio. Abbiamo bisogno di “ascoltare Mosè e i Profeti”, per accogliere la fede che ci apra all’annuncio che illumina e salva la nostra vita; occorre imparare a camminare ascoltando, per aprire gli occhi e accogliere Cristo che, anche ora, bussa al nostro cuore in modo inaspettato, nel povero più povero, nel peccatore rifiutato, nell’ultimo di questa generazione.
Occorre una iniziazione cristiana seria e approfondita perché non ci chiudiamo nel nostro lusso spirituale egoista che ci corrompe dentro: sì, perché anche l'amore infinito di Dio, i doni immensi ricevuti possono trasformarsi in un'autostrada per l'inferno. A Lucifero è successo, e non è una possibilità remota neanche per noi... Occorre vigilare, ed essere aiutati per non distruggere l'opera di Dio, per non accumulare la manna che ci sfama ogni giorno. Vi è una sola possibilità: non trattenere per sé l'abbondanza, i lauti banchetti di Parola e sacramenti, comunione e Grazia, ma aprirci a tutti quelli che bussano per annunciare loro il Vangelo e donarci senza riserve:" Dove c’è vera vita in Cristo, c’è apertura all’altro, c’è uscita da sé per andare incontro all’altro nel nome di Cristo. Sono le due cose: io mi unisco a Gesù ed esco all’incontro con gli altri. Se manca uno di questi due movimenti non batte più, non può vivere. Riceve in dono il kerigma, e a sua volta lo offre in dono. Questa parolina: dono. Il catechista è cosciente che ha ricevuto un dono, il dono della fede e lo dà in dono agli altri. E questo è bello. E non se ne prende per sé la percentuale! Tutto quello che riceve lo dà! Questo non è un affare!... Quando rimaniamo chiusi e ci succede quello che accade a tutto quello che è chiuso; quando una stanza è chiusa incomincia l’odore dell’umidità. E se una persona è chiusa in quella stanza, si ammala!
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