Santa Maria,

Santa Maria,
...donna del primo sguardo, donaci la grazia dello stupore.

sabato 31 gennaio 2015

Telegramma del Santo Padre Francesco - Mattarella eletto Presidente della Repubblica italiana

  Mattarella eletto al Quirinale con 665 voti. 
"Pensiero a difficoltà e speranze dei cittadini"










Pubblichiamo di seguito il testo del telegramma che il Santo Padre Francesco ha inviato al neo-eletto Presidente della Repubblica Italiana, On. Sergio Mattarella: 
Telegramma del Santo Padre 
A SUA ECCELLENZA
ON. SERGIO MATTARELLA
PRESIDENTE ELETTO DELLA REPUBBLICA ITALIANA PALAZZO DEL QUIRINALE  ROMA
MI È GRADITO RIVOLGERLE DEFERENTI ESPRESSIONI AUGURALI PER LA SUA ELEZIONE ALLA SUPREMA MAGISTRATURA DELLO STATO ITALIANO E, MENTRE AUSPICO CHE ELLA POSSA ESERCITARE IL SUO ALTO COMPITO SPECIALMENTE AL SERVIZIO DELL’UNITÀ E DELLA CONCORDIA DEL PAESE, INVOCO SULLA SUA PERSONA LA COSTANTE ASSISTENZA DIVINA PER UNA ILLUMINATA AZIONE DI PROMOZIONE DEL BENE COMUNE NEL SOLCO DEGLI AUTENTICI VALORI UMANI E SPIRITUALI DEL POPOLO ITALIANO. CON QUESTI VOTI INVIO A LEI E ALL’INTERA NAZIONE LA BENEDIZIONE APOSTOLICA.
*
FRANCISCUS PP. 

Sergio Mattarella è stato eletto Presidente della Repubblica Italiana. Un lungo applauso è scattato a Montecitorio quando è stato superato il quorum richiesto di 505 voti nel corso della quarta votazione. Il Parlamento a camere riunite lo ha votato il successore di Giorgio Napolitano a conclusione di un dibattito non privo di tensione all'interno della maggioranza. Sergio Mattarella è il 12° presidente della storia repubblicana italiana. Nato a Palermo, il 23 luglio 1941, è stato deputato dal 1983 al 2008, prima per la Democrazia Cristiana e poi per il Partito Popolare Italiano e la Margherita. Più volte ha ricoperto l'incarico di ministro, mentre dal 2011 era giudice costituzionale di nomina parlamentare. E' fratello minore di Piersanti, che nel 1980 fu assassinato da Cosa Nostra mentre era presidente della Regione Siciliana.
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Fonte:www.quotidiano.net

Sulla barca con Gesù

Sabato della III settimana del Tempo Ordinario






L'ANNUNCIO
In quel medesimo giorno, verso sera, disse loro: «Passiamo all'altra riva». E lasciata la folla, lo presero con sé, così com'era, nella barca. C'erano anche altre barche con lui. Nel frattempo si sollevò una gran tempesta di vento e gettava le onde nella barca, tanto che ormai era piena. Egli se ne stava a poppa, sul cuscino, e dormiva. Allora lo svegliarono e gli dissero: «Maestro, non t'importa che moriamo?». Destatosi, sgridò il vento e disse al mare: «Taci, calmati!». Il vento cessò e vi fu grande bonaccia. Poi disse loro: «Perché siete così paurosi? Non avete ancora fede?». E furono presi da grande timore e si dicevano l'un l'altro: «Chi è dunque costui, al quale anche il vento e il mare obbediscono?».  
 (Dal Vangelo secondo Marco 4,35-41)
 




Sulla barca con Gesù


Tutto si fonda sulla Parola di Gesù"Passiamo all'altra riva!": una parola che chiama e sorge la Chiesa. E' Parola di Dio, creatrice, che realizza quello che dice. Ma i discepoli devono imparare a conoscere il Signore. Infatti avevano preso Gesù così com'era, ma non sapevano "chi" egli fosse, come appare nella domanda che si pongono a chiusura del brano. E' Dio, e non lo sanno. Per questo Gesù intima ai discepoli di passare all'altra riva, perché proprio attraverso il compimento di una parola che sembra diventare assurda e irrealizzabile, imparino a conoscerlo. In quel mare in tempesta i discepoli fanno l'esperienza del caos primordiale, e non comprendono d'essere dentro l'opera di Dio, la più grande, quella che crea la vita laddove regna la morte. Non comprendono che quella tempesta fa parte dell'opera divina, non è un incidente a cui porre rimedio. Le onde nella Scrittura sono sempre segno di morte entrata nel mondo per invidia del demonio e ne fanno esperienza coloro che gli appartengono. Ma Dio, che ha creato tutto per l'esistenza e senza veleno di morte, non ha abbandonato il mondo in preda al maligno. La storia della salvezza è la storia della fedeltà alla sua promessa di riscatto e vita eterna. Su quella barca è salito il Popolo della nuova ed eterna Alleanza; i discepoli sono stati spinti ad entrare nella promessa di Dio, ma è come se l'avessero dimenticata. Per questo sono immagine di tutti noi che abbiamo sperato e creduto alla Parola di Gesù, ma di fronte alla storia che sembra smentirla, abbiamo finito con il dar credito all'inganno del demonio: a Dio "non importa di noi!"; è indifferente alla nostra sofferenza, non si accorge che stiamo "morendo". Proprio come è accaduto nella barca: Gesù è con i discepoli, ma dormeLui c'è ma non fa nullaSe è davvero il Figlio di Dio, se davvero ha il potere che dice di avere, se è stato Lui a moltiplicare pani e pesci e a guarire infermi e a scacciare i demoni, se può far miracoli e dorme, allora significa che non gli importa nulla di noiEcco, questo è il pensiero di chi non conosce il Signore. Gli occhi del cuore e della mente sono accecati dalla menzogna del demonio, e non possono comprendere che proprio quel sonno è la loro salvezza, la loro assicurazione sulla vitaFinché Lui dorme la morte non può raggiungerli, perché si è infranta proprio nel sonno della morte del Signore.  Ma ora i discepoli non comprendono, e svegliano Gesù. E lo rimproverano, e desiderano credere che Lui possa fare qualcosa. Quante volte sorge in noi la stessa domanda, che diventa la preghiera di chi non conosce veramente il Signore. Nei templi pagani davanti all'immagine della divinità vi è una grande campana. I fedeli che desiderano pregare si avvicinano e cominciano a scuoterla, per svegliare il loro dio, per attirarne l'attenzione. E' la religiosità naturale, quella che tutti portiamo dentro. Quando le onde riempiono la barca e ormai si affonda e sembra che Dio non intervenga, che dorma, allora moltiplichiamo preghiere, sacrifici, offerte, perché Egli si svegli e si accorga di noi, e cambi il corso della storia secondo i nostri progetti. E, sorprendentemente, il Signore si sveglia e comanda ai flutti, e ritorna la bonaccia. Ha avuto misericordia dei suoi discepoli andando incontro alla loro poca fede, come tante volte fa anche con noi. L'amore di Dio si piega alla nostra volontà, e così ci aiuta a sperimentare la nostra debolezza e incredulità, per accendere la domanda decisiva: "chi è costui?". Se anche la natura gli obbedisce, se mio figlio è stato guarito, se ho conservato il lavoro, se ho trovato casa significa che è Dio. Ma rimane l'incertezza di quello che è solo un abbozzo di fede, comune a tutte le religioni. La fede adulta è ben altro. E' conoscenza, e confidenza. E' addormentarsi con Lui anche nella tempesta, anche quando la nostra vita sembra affondare. E' reclinare il capo e riposare sul legno della Croce che segna le nostre esistenze, come bimbi divezzati in braccio alla propria madre. Tutti noi, dobbiamo imparare la fede: per questo dobbiamo salire nella barca e passare all'altra riva attraverso le mille tempeste dei progetti naufragati, dei criteri sommersi dalle onde, con la morte che si avvicina nell'insulto e nella calunnia di chi ci è accanto. La fede, infatti, è un cammino che ci fa entrare con Cristo nel sonno della morte per svegliarci nella risurrezione, è l'esperienza che i peccati sono stati perdonati gratuitamente. E questo avviene solo quando si posano i piedi sull'altra riva, quando cioè i pensieri e i gesti testimoniano che siamo diventati una creatura nuova. Quando camminiamo sulla terra del Regno di Dio e risplende in noi l'immagine del Creatore. Per questo, gli eventi che ci incalzano e che sembra ci facciano affondare, non sono il segno dell'abbandono di Dio. Nella barca possiamo scoprire e sperimentare che sono invece il luogo dove conoscere più intimamente il Signore. Il cristianesimo non è una religione naturale ma è Cristo stesso che è salito sul legno della croce per attraversare il mare della morte addormentandosi in essa per vincerla definitivamente. Per questo siamo chiamati ogni giorno ad entrare con Lui nel mare in tempesta, addormentati, senza resistere al male, abbandonati nella volontà di Dio, certi del fatto che essa è sempre per il bene di ciascuno di noi, della Chiesa, dell'evangelizzazione, e del mondo. Perché è proprio lì che Dio farà risplendere il perdono e la vita che non muore, come un segno per ogni uomo.
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venerdì 30 gennaio 2015

Prepararsi alla Domenica (IV T.O.)

Originally posted on COMBONIANI IN FORMAZIONE PERMANENTE:


4ª Domenica del Tempo Ordinario (B)

Mc 1,21-28

Pietro Paolo Rubens Cristo al banchetto, 1618-20, Hermitage San Pietroburgo.

Parole dette dall’autorità o parole che hanno dentro un’autorità?

Commento di don Angelo Casati.
È il primo dei segni di Gesù nel vangelo di Marco, il primo dei segni che noi siamo soliti chiamare “miracoli”. Ed è un segno, un miracolo, senza gesti: basta una parola, una sola parola: “Taci, esci”. “Dì una sola parola, una sola parola, Signore, e io sarò salvato”. Non so se sbaglio, ma ho come l’impressione che al centro di questo racconto del vangelo di Marco ci sia la parola: e tutti nella sinagoga affascinati, sorpresi e anche imbrividiti da quella parola nuova, la parola di Gesù.
All’inizio del brano: “…ed erano stupiti del suo insegnamento”. E alla fine: “…tutti furono presi da timore, tanto che si chiedevano a vicenda: “Che è mai questo? Una dottrina nuova insegnata con autorità”. Mi incuriosiva, leggendo il testo, il connubio, o il divorzio, di questi due termini: “parola” e “autorità”. Mi incuriosiva perché il nostro mondo si segnala per un eccesso di parole, un’invasione di parole: ma ti fanno sussultare come davanti a qualcosa di nuovo? Hanno dentro -le parole- un’autorità? E quando le parole hanno dentro un’autorità?
Pensate quante persone erano entrate, durante gli anni, di sabato, nella sinagoga di Cafarnao. Ogni sabato qualcuno si alzava, prendeva il rotolo, lo apriva, leggeva, insegnava. Ma quel sabato nella sinagoga fu una cosa diversa: “erano stupiti perché insegnava loro come uno che ha autorità e non come gli scribi”. Eppure gli scribi erano un’autorità. Avevano il “ruolo” dell’autorità, ma il loro insegnamento non stupiva nessuno. Erano fermi alle leggi, all’interpretazione delle leggi, all’enunciazione delle leggi. Erano parole vecchie, logore, che non mettevano in moto nessuno: un diluvio di parole da cui salvarsi.
Parole da cui salvarsi o parole che ci salvano? Questo è il problema. Enorme la differenza. Parole dette dall’autorità o parole che hanno dentro un’autorità? Autorità nel senso di “augere”, di “aumentare”, di espandere, di promuovere, di aprire inizi nuovi, di suscitare energie nuove, possibilità nuove.
Pensate come spesso abbiamo appiattito l’immagine dell’autorità nell’immagine del contenere, del frenare, del mettere i paletti, del dire il codice, le cose di sempre. Parole stanche, dilavate, senza sussulti. E come si potrebbe fremere o stupirsi? Parole senza brividi di profezia. Elenchi di cose. Parole da cui salvarsi e non parole che salvano.
Nelle parole di Gesù c’era il brivido della profezia, la passione del profeta. Parlare come i profeti. I profeti non sono aridi e lontani elencatori di norme. Sono dentro il cammino di un popolo, dentro la storia degli uomini e delle donne del loro tempo. Le parole che i profeti dicono non sono parole che battono l’aria, sono parole accompagnate da un cammino.
Per questo il libro del Deuteronomio chiama Mosè profeta: Mosè non era solo parole, era cammino. I suoi occhi non erano pallidi come quelli di coloro che sdottorano da lontano, erano occhi rossi di sabbia e di fatica. Parole con autorità e cioè parole che aprivano piste nuove, suscitavano energie, sostenevano un cammino, parole che liberavano.
Così Gesù. La meraviglia della gente – e anche il brivido – era per quella sua parola, una semplice parola, una sola: “Taci, esci da quell’uomo”, che era accaduta. Era accaduta! La gente, quella gente, aveva passato anni a sentire parole dopo le quali non accadeva mai niente, ed ecco la sorpresa del Rabbì di Nazaret e di quelle sue parole che accadono: “comanda agli spiriti immondi e gli ubbidiscono”. Parole che non si perdono nell’aria, ma accadono.
E accade la liberazione. Quando la parola è profezia, è parola di Dio, accade la liberazione. Liberazione da tutto ciò che reprime dentro gli umani. E non sempre è il demonio che soffoca la nostra umanità. Spesso sono cose più vicine: la sete di potere, di denaro, di successo. A volte è il nodo delle nostre depressioni, delle nostre paure.
A volte è il tumulto delle parole di coloro che hanno un intento preciso, quello di portarti nel gregge. E gridano e gridano e gesticolano, come il demonio del vangelo. E Gesù zittisce: “Taci”. Zittisce quelli che ti gridano intorno. E nel silenzio, nel silenzio del tuo cuore, ti restituisce nella tua dignità, ti ridona un cuore di uomo e donna liberi.

La giornata di Cafarnao
Commento al Vangelo di Enzo Bianchi
Dopo il racconto della vocazione dei primi quattro discepoli (cf. Mc 1,16-20), Marco sottolinea che Gesù non è più solo. Ormai c’è una piccola comunità alla sequela di questo rabbi venuto in Galilea dalle rive del Mar Morto in seguito all’arresto del suo maestro e profeta Giovanni il Battista, e questa piccola comunità crescerà e accompagnerà Gesù, coinvolta nella sua vita fino alla fine.
L’evangelista ci presenta dunque una giornata-tipo vissuta da Gesù e dai suoi discepoli: la “giornata di Cafarnao” (cf. Mc 1,21-34), una città situata a nord del mare di Galilea, luogo di passaggio tra Palestina, Libano e Assiria, città con gente composita, scelta da Gesù come “residenza”, come luogo in cui egli e la sua comunità avevano una casa (cf. Mc 1,29.35, ecc.) dove sostavano di tanto in tanto, nelle pause dei loro itinerari in Galilea e in Giudea. Com’era vissuta da Gesù una giornata? Egli predicava e insegnava, incontrava delle persone liberandole dal male e curandole, pregava. Vi erano poi certamente un tempo e uno spazio per mangiare con i suoi, per stare con la sua comunità e per insegnare a essa come occorreva vivere per accogliere il regno di Dio veniente.
Ecco allora che il vangelo ci narra questa giornata di Gesù. È un sabato, il giorno del Signore, in cui l’ebreo vive il comandamento di santificare il settimo giorno (cf. Es 20,8-11; Dt 5,12-15) e va alla sinagoga per il culto. Anche Gesù e i suoi discepoli si recano alla sinagoga di Cafarnao dove, dopo la lettura di un brano della Torà di Mosè (parashà) e di una pericope dei Profeti (haftarà), un uomo adulto poteva prendere la parola e commentare quanto era stato proclamato. Gesù è un semplice credente del popolo di Israele, è un laico, non un sacerdote, ed esercita questo diritto. Va all’ambone e fa un’omelia, di cui però Marco non ci dice il contenuto, a differenza di quanto fa Luca riguardo all’omelia tenuta da Gesù nella sinagoga di Nazaret (cf. Lc 4,16-21).
Accade allora quello che qualche volta succede anche a noi: chi tiene l’omelia ha la capacità di tenerci svegli e in ascolto di lui, ha una parola che ci raggiunge nelle nostre profondità, accompagna le domande che ciascuno di noi sente emergere dal proprio cuore, fa intravedere una risposta vera. Insomma, Gesù mostra di avere un’”autorevolezza” (exousía) inedita, rara. La sua non è una parola come quella dei professionisti religiosi, dei molti scribi incaricati di studiare e spiegare le sante Scritture. Che cosa c’è di diverso nel suo predicare? Possiamo almeno dire che c’è una parola che viene dalle sue profondità, una parola che sembra nascere da un silenzio vissuto, una parola detta con convinzione e passione, una parola detta da uno che non solo crede a quello che dice, ma lo vive. È soprattutto la coerenza vissuta da Gesù tra pensare, dire e vivere a conferirgli questa autorevolezza che si impone ed è performativa. Attenzione: Gesù non è uno che seduce con la sua parola elegante, erudita, letterariamente cesellata, ricca di citazioni culturali; non appartiene alla schiera dei predicatori che seducono tutti senza mai convertire nessuno. Egli invece sa andare al cuore di ciascuno dei suoi ascoltatori, i quali sono spinti a pensare che il suo è “un insegnamento nuovo”, sapienziale e profetico insieme, che scuote, “ferisce”, convince.
Lo sappiamo bene: tutti noi desideriamo un tale predicatore nelle nostre liturgie domenicali, ma a volte rimaniamo delusi. D’altronde chi predica nelle nostre assemblee non è il Figlio di Dio fattosi uomo, a volte e stanco e anche frustrato nella propria vocazione, a volte è talmente costretto a ripetere riti e parole che non gli sono più possibili né convinzione né passione. Eppure io credo che, anche in questa situazione di povertà, se uno ha il cuore aperto e desideroso di ascoltare la parola di Dio, qualche suo frammento lo raggiunge sempre…
L’autorevolezza di Gesù si mostra subito dopo in un atto di liberazione. Nella sinagoga c’è un uomo tormentato da uno spirito impuro, un uomo in cui il demonio è all’opera. Non soffermiamo la nostra attenzione sulla violenza e sul frastuono con cui quest’uomo si esprime, secondo la descrizione tipica dello stile orientale, immaginifico. Andiamo alla sostanza: c’è un uomo in cui il demonio opera in modo particolare, in cui la forza che si oppone a quella di Dio ha preso un grande spazio; in questa persona c’è uno spirito impuro che si oppone allo Spirito santo di Dio. La presenza di Gesù nella sinagoga è una minaccia per questa forza demoniaca, ed ecco allora che la verità viene gridata: “Che c’è tra noi e te, Gesù Nazareno? Sei venuto a rovinarci? Io so chi tu sei: il Santo di Dio!”. Ma Gesù innanzitutto gli intima di tacere, poi libera l’uomo da quella presenza. Il segno della liberazione avvenuta è un grande urlo: “lo spirito impuro, straziandolo e gridando forte, uscì da lui”.
Si noti l’imposizione del silenzio da parte di Gesù: il grido dell’indemoniato è ortodosso, perché egli è il Santo di Dio, ma questa identità non può essere proclamata troppo facilmente. Lungo tutto il vangelo secondo Marco è testimoniata questa preoccupazione di Gesù circa la manifestazione della propria identità: non si deve divinizzare Gesù troppo velocemente, non si deve farlo perché incantati dai prodigi da lui compiuti, né si deve farlo perché ci si entusiasma di lui. Lo si potrà fare solo quando lo si vedrà appeso alla croce. Solo allora – attesta il vangelo – la confessione del lettore può essere vera, fatta con intelligenza e conoscenza profonde, insieme al centurione che, vedendo Gesù appeso al legno, proclama: “Davvero quest’uomo era Figlio di Dio!” (Mc 15,39). Il miglior commento è una parola di un monaco del XII secolo, Guigo I il Certosino: “Nuda e appesa alla croce deve essere adorata la verità”.

Quel Dio che s’immerge nelle nostre ferite.
Ermes Ronchi.
Ed erano stupiti del suo insegnamento. Lo stupore, quella esperienza felice che ci sorprende e scardina gli schemi, che si inserisce come una lama di libertà in tutto ciò che ci saturava: rumori, parole, schemi mentali, abitudini, che ci fa entrare nella dimensione della passione, quella che smuove anche le montagne.
Salviamo lo stupore, la capacità di incantarci ogni volta che incontriamo qualcuno che ha parole che trasmettono la sapienza del vivere, che toccano il centro della vita perché nate dal silenzio, dal dolore, dal profondo, dalla vicinanza al Roveto di fuoco.
La nostra capacità di provare gioia è direttamente proporzionale alla nostra capacità di meravigliarci. Gesù insegnava come uno che ha autorità. Autorevoli sono soltanto le parole che nutrono la vita e la fanno fiorire; Gesù ha autorità perché non è mai contro l’uomo ma sempre in favore dell’uomo, e qualcosa dentro chi lo ascolta lo sa. Autorevoli e vere sono soltanto le parole diventate carne e sangue, come in Gesù: la sua persona è il messaggio, l’intera sua persona.
Come emerge dal seguito del brano: C’era là un uomo posseduto da uno spirito impuro. Il primo sguardo di Gesù si posa sempre sulle fragilità dell’uomo e la prima di tutte le povertà è l’assenza di libertà, come per un uomo «posseduto», prigioniero di uno più forte di lui. E vediamo come Gesù interviene: non fa discorsi su Dio, non cerca spiegazioni sul male, Gesù mostra Dio che si immerge nelle ferite dell’uomo; è Lui stesso il Dio che si immerge, come guarigione, nella vita ferita, e mostra che «il Vangelo non è un sistema di pensiero, non è una morale, ma una sconvolgente liberazione» (G. Vannucci).
Lui è il Dio il cui nome è libertà e che si oppone a tutto ciò che imprigiona l’uomo. I demoni se ne accorgono: che c’è fra noi e te Gesù di Nazaret? Sei venuto a rovinarci? Sì, Gesù è venuto a rovinare tutto ciò che rovina l’uomo, a demolire prigioni; a portare spada e fuoco per tagliare e bruciare tutto ciò che non è amore. A rovinare il regno dei desideri sbagliati che si impossessano e divorano l’uomo: denaro, successo, potere, egoismi.
A essi, padroni del cuore, Gesù dice due sole parole: taci, esci da lui. Tace e se ne va questo mondo sbagliato. Va in rovina, come aveva sognato Isaia, vanno in rovina le spade e diventano falci, si spezza la conchiglia e appare la perla. Perla della creazione è l’uomo libero e amante. Posso diventarlo anch’io, se il Vangelo diventa per me passione e incanto. Patimento e parto. Allora scopro «Cristo, mia dolce rovina» (Turoldo), che rovina in me tutto ciò che non è amore, che libera le mie braccia da tutte le cose vuote, e che dilata gli orizzonti che respiro.
Il Vangelo, a cura di Ermes Ronchi.
Avvenire 29/01/2015

GENOVA 8 FEBBRAIO IL VI° CONVEGNO NAZIONALE DELLE MILLE AVE MARIA

Logo Apostoli della Pace
http://www.milleavemaria.it/home/en/


VI° CONVEGNO NAZIONALE 

DELLE MILLE AVE MARIA 


GENOVA 8
 FEBBRAIO 2015



Ore 8.30 - 18.00


 

Presso l’hotel Tower Genova aeroporto (ex hotel Sheraton)

Via Pionieri e Aviatori d'Italia, 44

Genova Sestri Aeroporto 

 
 
VI° CONVEGNO NAZIONALE DELLE MILLE AVE MARIA 
                                     milleavemaria.it


L’incontro sarà guidato da Padre Silvano Alfieri


Programma:

ore  08.30       Inizio preghiera delle Ave Maria

ore 09.30        Via Crucis

ore 10.30        Pausa 

ore 11.00        Cenacolo

ore 12.00         Condivisione sui cenacoli a piccoli gruppi: 

che cosa ti ha dato, quale ricchezza contiene questo modo di pregare

ore 13.00       Pranzo insieme (al sacco). Per chi lo desidera, nella sala del convegno la preghiera proseguirà con l’esposizione del Santissimo per l’Adorazione personale e silenziosa

Ore 14.50  Benedizione Eucaristica

ore 15.00  Coroncina della Divina Misericordia,  testimonianze

ore 17.00   S. Messa


Ingresso libero

 

Info

Alessandra 3492327031 

Gina 3385931073 

milleavemaria@progettoeleonora.it

Facebook Mille Ave Maria Pagina Ufficiale

 

Evento organizzato da: Associazione Apostoli della pace 

in collaborazione con Associazione Medugorje Liguria



 DEVOZIONE DELLE MILLE AVE MARIA ALLA MADONNA
preghiereagesuemaria.it
La devozione delle Ave Maria risale a S. Caterina da Bologna. La Santa era solita recitare mille Ave Maria la notte del Natale.
Nella notte del 25 dicembre 1445 era assorta nella contemplazione dell'ineffabile mistero e nella sua pia pratica. Quando le apparve la Vergine SS., che le porse il Bambino Gesù, Caterina lo intrattenne fra le sue purissi­me braccia - come lei stessa si esprime - per lo spazio di una quinta parte di un'ora...
A ricordo del prodigio, le figlie della Santa nel Monastero del Corpus Domini, ogni anno, nella notte santa, ripetono le mille Ave Maria, devozio­ne entrata ben presto nella pietà dei fedeli.
A rendere più facile il pio esercizio, le mille Ave Maria vengono recitate - quaranta ogni giorno - nei 25 giorni che precedo­no il Santo Natale, dal 29 novembre al 23 dicembre.
Il ripetersi del saluto angelico alla Vergine SS. con la meditazione del mistero riuscirà, per le ani­me devote, preparazione efficace al Santo Natale. 
Nel nome del Padre, e del Figlio, e dello Spirito Santo. Amen.




COMMENTO AL VANGELO di don Marco Pozza - SULLASTRADADIEMMAUS.IT

Il Fulminato di Galilea. A toccarlo, ci si fulmina. 
30/01/2015 - don Marco Pozza -  
Il Vangelo della DomenicaLo definirono “Il Carismatico”, come per dire: “Vedete, ha delle qualità superiori alla media”. Nulla di più sbagliato per l'Uomo di Nazareth, dopo trent'anni in cammino alla conquista della storia...

Il Maestro non aveva nè casa, nè cattedra. Tutto gli serviva: il pendio di un monte, la barca di Pietro, i portici del Tempio, le sinagoghe di Nazareth e di Cafarnao. E predicava dappertutto, come il Seminatore della parabola; lungo la strada, sulla pietra e tra le spine. Perchè tutti devono udire la Parola.
E come non era legato a dun luogo, così no nera legato a nessuna persona e anessun argomento. Ogni cosa gli serve di pretesto: i gigli del campo, gli uccelli dell'aria, i lupi, le pecore. E ognuno lo poteva interrogare e porgli domande, per cui il Vangelo è piuttosto un dialogo, ove il Signore risponde anche a quelli che non osavano interrogarlo, cosa che capita spesso, quando l'avvilimento del costume politico o civile ci ha preso la spina dorsale.
Perchè non lo interrogate anche voi? Perchè non gli dite il vostro dubbio e il vostro tormento? Parlategli senza timore e senza riguardi. Non vi minaccia, nè vi denuncia, nè fa lo scandalizzato. Il suo Vangelo no nve lo posso leggere e voi non lo potete capire che attraverso un dialogo, senza convenienze, con Lui.
(P. Mazzolari, Il compagno Cristo. Il Vangelo del reduce)

COMMENTO AL VANGELO

sullastradadiemmaus.it/don-marco/don-marco-pozza   

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Come semi nascosti nella terra

Venerdì della III settimana del Tempo Ordinario


L'ANNUNCIO
Diceva: «Il regno di Dio è come un uomo che getta il seme nella terra; dorma o vegli, di notte o di giorno, il seme germoglia e cresce; come, egli stesso non lo sa. Poiché la terra produce spontaneamente, prima lo stelo, poi la spiga, poi il chicco pieno nella spiga. Quando il frutto è pronto, subito si mette mano alla falce, perché è venuta la mietitura». Diceva: «A che cosa possiamo paragonare il regno di Dio o con quale parabola possiamo descriverlo? Esso è come un granellino di senapa che, quando viene seminato per terra, è il più piccolo di tutti semi che sono sulla terra; ma appena seminato cresce e diviene più grande di tutti gli ortaggi e fa rami tanto grandi che gli uccelli del cielo possono ripararsi alla sua ombra». Con molte parabole di questo genere annunziava loro la parola secondo quello che potevano intendere. Senza parabole non parlava loro; ma in privato, ai suoi discepoli, spiegava ogni cosa.  (Dal Vangelo secondo Marco 4, 26-34)
 




Come semi nascosti nella terra

La Scrittura ci trascina in un violento testacoda. E' il Regno di Dio descritto nelle parabole del Vangelo di oggi. Si tratta del cuore delle confidenze di Gesù ai suoi amici. Nel Vangelo, infatti, a proposito della mietitura, laddove leggiamo "porre mano alla falce", l'originale greco ha "apostellei" che significa inviare, da cui deriva la parola apostolo. Lo "schaliah", tradotto con "apostello", in ebraico rappresenta un procuratore nel quale è considerato presente colui che lo ha inviato. Il Talmud ripete più di venti volte che "lo schaliah di una persona è un altro se stesso". Per lo Spirito Santo, Cristo dimora negli Apostoli: essi non solo lo rappresentano giuridicamente, ma divengono essi stessi la sua presenza. L'Apostolo di Cristo è Cristo stesso, il suo potere si esprime attraverso di lui. Questa profonda intimità è la chiave delle Parabole del Vangelo di oggi. L'apostolo ha lo stesso sentire di Colui che lo ha inviato, ha il suo pensiero dirà San Paolo; in lui si compirà lo stesso mistero del seme caduto in terra e cresciuto sino a diventare un albero. Lo stesso mistero pasquale di Cristo. Perché se c'è una perfetta identità tra l'apostolo e Gesù, vi è anche tra il Signore ed il Regno dei Cieli. E' Lui stesso il Regno della parabola, "l'uomo" che getta il seme che cade in terra, muore e risorge. Attraverso l'annuncio del Mistero Pasquale, il Regno di Dio è seminato irrevocabilmente nella storia, in ogni generazione. E' la Grazia che lo feconda, che ne protegge gli inizi, che lo porta a maturazione. Per questo Gesù dice che la terra produce "spontaneamente", letteralmente "senza una causa spiegabile" - come è stato per Lui stesso nel grembo di Maria prima e nel sepolcro poi - "stelo, spiga e chicco pieno". "Il Regno è come un uomo che getta il seme...", e quell'uomo è Cristo. Il Regno di Dio è tutta la parabola, non soltanto l'albero cresciuto a raccogliere tra le sue fronde "gli uccelli del cielo", immagine biblica che descrive i popoli pagani. Il Regno è l'uomo, è il seme, è la terra, è il processo di crescita, e, finalmente, l'albero compiuto. Gli apostoli sono inviati a raccogliere, attraverso la predicazione, il grano ormai pronto. Nel Vangelo di Giovanni Gesù invita i discepoli a "guardare i campi che già biondeggiano per la mietitura", proprio nel momento in cui annuncia che "deve mangiare un pane" diverso, sconosciuto sino ad allora, l'opera di Colui che lo ha inviato, la volontà del Padre che si definisce nella Croce che lo consegna in riscatto per ogni uomo. Gesù vede profeticamente il suo mistero di Pasqua come un frutto maturo, ed invita i suoi discepoli ad alzare lo sguardo e ad avere il suo stesso pensiero, gli stessi occhi profetici sul mondo e sugli uomini; su chi ci è accanto oggi, ora, e magari ci sta facendo del male. Quando in una persona è stato seminato il Vangelo, stiamone certi, darà frutto. Forse tra vent'anni, perché il seme dovrà disfacersi nella terra, e lo stelo dovrà farsi strada in una terra spesso arida e indurita; forse tra peccati e sofferenze inenarrabili. Eppure, senza che noi possiamo comprenderne lo sviluppo, il Vangelo darà frutto in nostro figlio... L'annuncio del Vangelo è già la mietitura! E' questo il testacoda delle parabole odierne. E' un cambio radicale di prospettiva. Non vi sono misure e parametri umani per il successo dell'evangelizzazione, come per qualunque aspetto, opera o parola della nostra vita. C'è un mistero che supera le conoscenze umane, le previsioni di tempi e dimensioni; nel Regno di Dio vige una legge che ci sfugge; si compie "sia che dormiamo sia che vegliamo", trascende i nostri sforzi e progetti, qualunque criterio. Ma possiamo sperarne con infinita confidenza il compimento, e così potremo "dormire e vegliare" con libertà e senza pretendere nulla, rispettando l'opera di Dio in ciascuno. Alla Chiesa, come a ciascuno di noi, è necessario un solo atteggiamento interiore: accettare di non sapere "come" Dio opera nella storia. Se non capisco come Dio sta operando in mio figlio, non significa che Egli non lo stia conducendo alla salvezza. Accettare di non capire e non sapere è la più grande professione di fede, perché la pazienza nelle tribolazioni e la perseveranza nelle tentazioni provano l'elezione dell'apostolo. Ma la fede è un cammino, la certezza non è frutto di alchimie. Occorre sperimentare, a poco a poco, nella propria vita, la presenza di Cristo, e così lasciare il mondo e i suoi criteri per approdare al pensiero, al sentire di Cristo. Per un apostolo è ragionevole quello che per il mondo è irragionevole, anche la sua stessa vita, gettata come un seme su terra arida è la follia più sapiente. La vita nascosta con Cristo in Dio, il pensiero fisso nel Cielo, per ricondurvi ogni figlio disperso nel buio della solitudine. Così vive ogni istante la Chiesa, seme invisibile, calpestato, ma con dentro la forza e l'onnipotenza di Dio.