Santa Maria,

Santa Maria,
...donna del primo sguardo, donaci la grazia dello stupore.

venerdì 31 ottobre 2014

THE SUN: “RIDIAMO “LUCE” A OGNISSANTI

“È successo che abbiamo incontrato Dio”.


                                 La strada del Sole


L’ultimo concerto prima di immergersi nel biblico silenzio del deserto del Negev: ritiro e oblio dopo 
quasi duecento notti rock. Una in fila all’altra, per portare in giro per il mondo il loro ultimo 
lavoroLuce. E Luce sarà ancora nella tetra e gotica notte delle zucche vuote di Halloween. La 
band The Sun ha infatti scelto la sera del 31 ottobre per sostituire alla domanda «dolcetto o 
scherzetto?» una diversa domanda di senso. «Suoneremo la sera prima di Ognissanti – racconta 
il cantante e leader del gruppo, Francesco Lorenzi – per lanciare un segnale provocatorio. Luce al 
posto del buio profondo in cui è sprofondata la festa di Tutti i Santi. Troppi giovani, e anche tanti 
adulti, ignorano il grande valore di questa ricorrenza. Che è religiosa in quanto profondamente 
umana. Noi ci saremo, con il nostro pubblico che cerca verità e senso».
L’appuntamento sarà venerdì sera al palazzetto dello sport di Funo di Argelato, vicino a Bologna 
prenotazioni: 
Ci sarà il pubblico da sempre fedele ai 
The Sun e ci saranno i neofiti che da anni vanno via via infoltendo le fila dei fans di questa band 
che suonava punk rock (dieci anni fa venne premiata al Meeting delle etichette indipendenti come 
Migliore punk band italiana) e che oggi è considerata simbolo della cosiddettachristian music. 
«Halloween ha una simbologia che non ci piace – dice Lorenzi –. È negativa e tenebrosa. Ha 
preso piede in modo inquietante. Per i bambini è quasi un carnevale, ma per gli adolescenti e i 
giovani è diventata pericolosa. Noi vogliamo suonare in questa notte per onorare i santi. Il 
concerto porterà il messaggio che chi ci ha preceduto è il tramite tra Cielo e terra. Suoneremo per 
ringraziare i nostri nonni, i nostri genitori e chi non c’è più ma ha testimoniato con la vita una 
quotidiana santità, fatta di lavoro, di sacrifici e di onestà. Questa è verità, profonda e reale. Le 
nostre origini sono la nostra identità. E la dimenticanza, che da anni c’è per esempio per 
Ognissanti, è forse oggi l’origine del male di vivere di tante persone, giovani in testa».
Anche i The Sun hanno avuto le loro tenebre, la loro Halloween, prima di trovare, dietro una curva 
a gomito, la strada per riprendere il cammino. Lo racconta bene Lorenzi nel suo libro La strada del 
Pubblicato da Rizzoli e presentato quest’anno al Salone del Libro di Torino, il volume, giunto alla 
quarta ristampa e in uscita in Spagna, Sudamerica, Repubblica Ceca e Croazia, racconta (con la 
prefazione del cardinale Gianfranco Ravasi) la conversione della band sulla via di Damasco del 
rock. «Eravamo in un momento in cui tutto girava alla grande – racconta Francesco –. Allora ci 
chiamavamo ancora Sun Eats Hours, il nome originale del 1997, anno di nascita. Avevamo dai 23 
ai 25 anni, i nostri concerti erano pieni ed eravamo sempre in tournée. Sognavamo di sfondare nel 
rock alternativo. Ma come spesso capita, nel pieno della carriera abbiamo incontrato il vuoto. Lì è 
cominciata la crisi. Realizzavamo i nostri sogni eppure ci stavamo incagliando. Perché? E poi 
l’ambiente della musica, con le sue tentazioni e devianze... Eravamo a un passo dallo 
E cosa è successo a Francesco, al chitarrista Gianluca Menegozzo, al bassista Matteo Reghelin e 
al batterista Riccardo Rossi, i quattro vicentini di Thiene diventati un fenomeno mondiale della 
«È successo che abbiamo incontrato Dio. Io, in particolare – racconta il leader e cantante –, mi 
sono accorto che, assorbito dal successo, mi ero dimenticato della fede di un tempo. Quella crisi 
mi ha portato a riscoprirla, a ritrovare la mia innata sensibilità spirituale. Ecco perché è importante 
trasmettere la fede ai bambini e ai giovani. Così, se anche un giorno si allontaneranno, potranno 
sempre sapere qual è la strada per tornare a casa, alle radici, ai sani princìpi delle origini. Io ce 
l’ho fatta, anche grazie alle poche parole, ma ai profondi sguardi, dei miei genitori. Insomma, 
grazie alla famiglia, alla sua unità».
Sì, ma i compagni di rock di Francesco come l’hanno presa questa conversione? «Devo dire che 
non è stato facile portarli sulla mia strada. Dopo la mia riscoperta di Dio e della fede, loro mi 
vedevano più sereno e più felice, ma all’inizio facevano resistenza. Ha fatto tutto l’amicizia. Sono 
entrato nelle loro solitudini e personali dipendenze. C’è stata empatia e compassione. Ora ognuno 
di noi ha il proprio padre spirituale. E, soprattutto, da allora è cambiato anche lo stile: il nostro rock 
è diventato più solare e spirituale. Io ho poi cominciato a scrivere i testi in italiano. Non avevo più 
bisogno di nascondermi dietro a una lingua straniera come l’inglese. Potevo finalmente essere 
diretto perché sapevo cosa volevo dire, di cosa volevo parlare». 
Tra il 2008, anno della svolta (ben raccontata nella canzone Non ho paura), e il 2010 i ribattezzati 
The Sun realizzano una trentina di brani in cui prevale un’attenzione particolare al mondo 
giovanile. Di loro s’invaghisce il direttore artistico della Sony, Roberto Rossi, che decide di 
investire sulla band pubblicando il cd Spiriti del Sole che entra subito nella top ten degli album più 
venduti in digitale. Nell’estate 2010 la band si esibisce di fronte ad oltre duecentocinquantamila 
persone e il 1° marzo 2011 suona a Betlemme per chiedere l’abbattimento del muro che divide 
Quindi nuove tournée in mezza Europa e persino in Giappone, prima dell’album Luce in cui 
Francesco & C. affrontano temi impegnativi come la sessualità vissuta con amore, il coraggio, 
l’aldilà, la gratitudine, la famiglia, la fede e la ricerca della felicità. 
Ora li aspetta una settimana di ritiro spirituale nel deserto del Negev, in Israele. «È il posto giusto 
e necessario per meditare e ritrovare lo spirito per realizzare il nuovo album – rivela Lorenzi –. Ci 
andremo accompagnati da due sacerdoti che erano già stati con noi in Terra Santa. I pezzi ci 
sono già, dobbiamo solo chiuderci in sala d’incisione e registrarli. Il disco uscirà nel 2015. 
Assieme a un film-documentario che inizieremo a girare proprio nel Negev. Ripartire dal deserto ci 
renderà migliori. Abbiamo un patto con il nostro pubblico, che non vogliamo tradire».

The Sun - Outsider

giovedì 30 ottobre 2014

Gesù disse: “È lecito o no curare di sabato?”. Ma essi tacquero. Egli lo prese per mano, lo guarì e lo congedò.



SINTESI
Gesù ci fissa oggi diritto negli occhi, e punta al nostro cuore:
"è lecito amare?". Quale trappola abbiamo escogitato per non amare, per non fare del bene? In quale casella delle nostre alchimie legalistiche abbiamo relegato la suocera, il marito, il collega, con l'unico scopo di silenziare la coscienza e auto-giustificarci, per non umiliarci, chiedere perdono e avere misericordia? Nel parallelo di Matteo la domanda di Gesù è più articolata: "E' lecito di sabato fare il bene o il male, salvare una vita o toglierla?". E' evidente il paradosso: fare il male e togliere una vita non è mai lecito. Invece, è sempre lecito e doveroso amare, è sempre illecito fare il male e uccidere. Eppure compiamo l'illecito senza curaci della Legge e del Sabato, anzi; ingannati dal demonio ci convinciamo che il male sia bene, e non amare sia "lecito". La stessa ipocrisia dei farisei li condurrà a volere la morte di Gesù, a deciderla nel loro cuore, e proprio in giorno di sabato! Gesù parla oggi al nostro cuore, laddove il suo amore vuol scendere per sanare. Se nel nostro cuore - e in giorno di sabato - siamo capaci e riteniamo lecito decidere di peccare, di uccidere con i giudizi, con le concupiscenze, con le passioni, come non potrebbe essere lecito amare, perdonare, sanare, salvare? Le parole di Gesù possono oggi farci finalmente tacere, perché è il silenzio che apre le porte alla libertà. Solo quando ci renderemo conto di non avere risposta perché presi in flagrante, Gesù potrà prenderci per mano, guarirci e inviarci in missione nella vita. Vibra oggi nel cuore, per liberarlo, la domanda di Gesù: "E' lecito?...." E' lecito mangiare i pani dell'offerta riservati ai sacerdoti? E' lecito prendere su di sé il peccato di una moglie adultera? E' lecito essere liberi al punto di non difendersi e offrirsi completamente al prossimo? E' lecito amare il peccatore, perdonare settanta volte sette, morire per amore di un nemico? Nel Signore crocifisso è stato lecito, perché potessimo essere liberati, sciolti dalle catene dell'orgoglio per amare oltre la legge e la morte. Gesù amando e colmando di misericordia la legge fatta di prescrizioni si è attirato lo sguardo torvo di chi ha paura della verità. Amando oltre ogni legge si è giocato la vita, perché ciascuno di noi, fuori legge per natura, fosse riaccolto dall'Autore della legge.




L'ANNUNCIO

Un sabato Gesù era entrato in casa di uno dei capi dei farisei per pranzare e la gente stava ad osservarlo. Davanti a lui stava un idropico.
Rivolgendosi ai dottori della legge e ai farisei, Gesù disse: “È lecito o no curare di sabato?”. Ma essi tacquero. Egli lo prese per mano, lo guarì e lo congedò.
Poi disse: “Chi di voi, se un asino o un bue gli cade nel pozzo, non lo tirerà subito fuori in giorno di sabato?”. E non potevano rispondere nulla a queste parole.
  (Dal Vangelo secondo Luca 14, 1-6)

 



La misericordia, unica risposta ai mali dell'uomo, squarcia ogni velo d'ipocrisia e lascia senza parole. Quante volte ci ritroviamo così, come i farisei dinanzi al Signore e al suo amore, ammutoliti, schiacciati dai nostri ipocriti moralismi che ci tagliano la lingua.
Gesù ci fissa oggi diritto negli occhi, e punta al nostro cuore con una domanda che è un dardo infuocato: "è lecito amare?". Quale trappola abbiamo escogitato per non amare, per non fare del bene? In quale casella delle nostre alchimie legalistiche abbiamo relegato la suocera, il marito, il collega, con l'unico scopo di silenziare la coscienza e auto-giustificarci, per non umiliarci, chiedere perdono e avere misericordia? 
La radice del problema è sempre nel cuore, per questo il pubblicano salito al Tempio a pregare si percuote il petto, riconoscendo che è lì l'origine dei suoi peccati e delle sue sofferenze. Nel parallelo di Matteo la domanda di Gesù è più articolata: "E' lecito di sabato fare il bene o il male, salvare una vita o toglierla?". E' evidente il paradosso: fare il male e togliere una vita non è mai lecito. 
Ma Gesù, indignato e rattristato per la durezza del cuore dei farisei, vuole togliere il velo di menzogna che ha chiuso i loro occhi. E la stessa domanda giunge oggi al nostro cuore: perché è lì dove si decide di fare il bene o il male, se dare la vita oppure toglierla. E' nel cuore, nel segreto del nostro intimo che amiamo o disprezziamo, ci doniamo o ci chiudiamo; è nel cuore che violiamo il sabato, senza che nessuno possa vederci
E' sempre lecito e doveroso amare, è sempre illecito fare il male e uccidereEppure compiamo l'illecito senza curaci della Legge e del Sabato, anzi; ingannati dal demonio ci convinciamo che il male sia bene, e non amare sia "lecito". Il cuore è lontano da Dio, il sabato è solo un pretesto per vivere nell'ipocrisia di una vita falsa e doppia, purtroppo accecata dall'illusione della pretesa giustizia esteriore derivante dal rispetto di codici e leggi, nel cui nome dimentichiamo la misericordia. L'ipocrisia dei farisei li condurrà a volere la morte di Gesù, a deciderla nel loro cuore, e proprio in giorno di sabato!
Gesù parla oggi al nostro cuore, laddove il suo amore vuol scendere per sanare. Se nel nostro cuore - e in giorno di sabato - siamo capaci e riteniamo lecito decidere di peccare, di uccidere con i giudizi, con le concupiscenze, con le passioni, come non potrebbe essere lecito amare, perdonare, sanare, salvare? Il paradosso con il quale oggi il Signore viene a visitarci per trarci fuori dalla trappola della menzogna e dell'ipocrisia che stringe il nostro cuore, ci indica dove dobbiamo guardare, dove inizia la vera conversione. 
L'autentico compimento della Legge si realizza attraverso la circoncisione del cuore: i segni visibili nella carne, come le opere esibite per essere ammirati, possono costituire, sovente, l'alimento che rinforza e fa crescere l'uomo vecchio, incapace di ereditare la Vita Eterna e, peggio, di sbarrarne l'accesso ai più piccoli e ai più deboli.
La libertà è un dono inestimabile, che scaturisce da un cuore "graziato". Chi non ha conosciuto la folle misericordia di Dio, la sua testarda tenerezza, è ancora schiavo della propria pretesa giustizia, altrimenti chiamata orgoglio; il suo cuore è indurito e si illude di compiere la volontà di Dio mettendo insieme un povero puzzle di regolette appena rispettate. 
Gesù ci parla per farci finalmente tacere, perché è il silenzio che apre le porte alla libertà. Solo quando ci renderemo conto di non avere risposta perché presi in flagrante, Gesù potrà prenderci per mano, guarirci e inviarci in missione nella vita. Vibra oggi nel cuore, per liberarlo, la domanda di Gesù: "E' lecito?...." E' lecito mangiare i pani dell'offerta riservati ai sacerdoti? E' lecito prendere su di sé il peccato di una moglie adultera? E' lecito essere liberi al punto di non difendersi e offrirsi completamente al prossimo? E' lecito amare il peccatore, perdonare settanta volte sette, morire per amore di un nemico? 
Nel Signore crocifisso è stato lecito, perché potessimo essere liberati, sciolti dalle catene dell'orgoglio per amare oltre la legge e la morte. Gesù amando e colmando di misericordia la legge fatta di prescrizioni si è attirato lo sguardo torvo di chi ha paura della verità. Amando oltre ogni legge si è giocato la vita, perché ciascuno di noi, fuori legge per natura, fosse riaccolto dall'Autore della legge: "Quando Gesù nelle sue parabole parla del pastore che va dietro alla pecorella smarrita, della donna che cerca la dracma, del padre che va incontro al figliol prodigo e lo abbraccia, queste non sono soltanto parole, ma costituiscono la spiegazione del suo stesso essere ed operare. Nella sua morte in croce si compie quel volgersi di Dio contro se stesso nel quale Egli si dona per rialzare l'uomo e salvarlo — amore, questo, nella sua forma più radicale" (Benedetto XVI, Deus Charitas Est, 12). 


 αποφθεγμα Apoftegma




Ci sono sempre motivi per non fare qualcosa: 
la questione è solo se bisogna farla nonostante ciò.

D. Bonhoeffer, 8 giugno 1944

mercoledì 29 ottobre 2014

Vi dico infatti che non mi vedrete più fino al tempo in cui direte: Benedetto colui che viene nel nome del Signore!».

Giovedì della XXX settimana del Tempo Ordinario

Chagall. Giosuè e l'angelo del Signore


SINTESI


La missione di Gesù esige radicalità. La consapevolezza dell'opera da compiere lo rende forte e audace. L'autenticità della profezia si rivela nella fermezza e nella parresia del profeta. La missione di Gesù è il compimento di quella affidata a Giosuè; in ebraico il nome “Giosuè” (yehosu‘a) è una forma antica del nome “Gesù” (yesu‘a). Giosuè doveva guidare il popolo alla conquista della terra promessa, combattendo gli abitanti di Canaan; Gesù dovrà scacciare i demoni per introdurre gli uomini nel Regno di Dio. Il suo programma è semplice: deve andare per la sua strada sino a Gerusalemme. Ha davanti a sé un tempo limitato, due giorni, che lo prepara al compimento dell'opera nel terzo giorno. E' questo il tempo di Dio, tre giorni, il Mistero Pasquale. Ogni missione profetica segue lo stesso schema: annuncio, processo, rifiuto, passione, croce, sepolcro e risurrezione. Questo significa che ogni profezia deve passare per il crogiuolo, per il sacrificio dell'agnello. Solo così essa potrà mostrare la sua autenticità, la verità capace di liberare davvero. Gesù lo sapeva e per questo non temeva di dirigersi a Gerusalemme, il luogo dove la Pasqua doveva essere celebrata, come non era possibile che un profeta morisse fuori da Gerusalemme. Ogni profezia, infatti, annuncia il mistero della Pasqua, rivelando, negli eventi della storia, la sapienza della Croce: essa distrugge ogni falsa sapienza, l'astuzia di Erode la volpe, l'ipocrisia dei farisei. Per questo, ogni criterio che induce a fuggire dalla croce è figlio di satana. Occorre coraggio per vivere ogni giorno il ministero profetico che ci è assegnato, senza scappare. Il coraggio che scaturisce dalla fede; dubitare è spegnere la profezia e sbiadire la vita. Dio ci ha chiamato per compiere la stessa opera di Giosuè e di Gesù: tre giorni per condurre questa generazione al di là del Giordano. Unica condizione è fare quello che il Signore ha indicato a Giosuè: meditare giorno e notte la Scrittura e nutrirsi delle provviste capaci di far entrare nel passaggio attraverso la morte, profezia della vita spirituale di una comunità cristiana, perché sia Cristo ad operare in noiCi attende Gerusalemme, il rifiuto e la morte: non è possibile che la storia di ogni giorno non ci conduca alla moglie, al marito, ai colleghi, come ad un sepolcro. E' la verità, perché esiste il peccato che insidia la Grazia. Per questo l'amore autentico appare quando si ergono i nemici contro di noi. Non è possibile morire fuori dalla storia, perché l'autenticità della nostra vita cristiana sia provata, e divenga profezia di salvezza per coloro ai quali siamo inviati. Certo, il rifiuto della profezia genera solitudine e morte, il destino della casa di Gerusalemme. Ma, misteriosamente, anche questo è necessario: per essere scacciato, satana deve venire alla luce. In Gerusalemme sono coagulati i peccati di ogni generazione. Il rifiuto e la condanna trascineranno la carne del Signore nella tomba, e la stessa casa di Gerusalemme diverrà un sepolcro deserto. Ma proprio questo passaggio segnerà l'aurora gloriosa del Benedetto che viene nel nome del Signore; la sua vittoria sarà la pace. Secondo un’etimologia popolare Gerusalemme era interpretata come "visione della pace". Questa visione sarà compiuta quando i discepoli rivedranno il Maestro risorto al terzo giorno: "Pace a voi!". E' Gesù stesso, il Tempio ricostruito in tre giorni, la visione della pace, la nuova Gerusalemme i cui figli sono raccolti come una covata sotto le ali della chioccia. E' necessario che Gesù si diriga oggi alla nostra vita, per far luce e smascherare i nostri peccati. La sua strada siamo noi che, come Gerusalemme, rifiutiamo la profezia e il Profeta. I passi di Gesù ci cercano anche oggi in un desiderio ardente di far pasqua con noi, di amarci, di perdonarci. I suoi passi cercano i nostri peccatiTroppe volte abbiamo visto la nostra casa deserta, la famiglia dispersa e incapace di perdonarsi. Troppe volte abbiamo rifiutato la profezia che ci avrebbe resi liberi, trattenendo e difendendo i nostri peccati. Occorre imparare a darglieli, come San Girolamo. Oggi il Signore ci viene a prendere sotto le sue ali, per farci sperimentare il potere del suo amore. Oggi possiamo incontrarlo di nuovo, vittorioso su ogni nostro peccato, e accoglierlo abbandonandoci nell'umile fede di chi, dal fondo del suo deserto, riconosce in Gesù la benedizione inviata dal Padre.

L'ANNUNCIO
In quel giorno si avvicinarono alcuni farisei a dirgli: «Parti e vattene via di qui, perché Erode ti vuole uccidere». 
Egli rispose: «Andate a dire a quella volpe: Ecco, io scaccio i demòni e compio guarigioni oggi e domani; e il terzo giorno avrò finito. Però è necessario che oggi, domani e il giorno seguente io vada per la mia strada, perché non è possibile che un profeta muoia fuori di Gerusalemme. 
Gerusalemme, Gerusalemme, che uccidi i profeti e lapidi coloro che sono mandati a te, quante volte ho voluto raccogliere i tuoi figli come una gallina la sua covata sotto le ali e voi non avete voluto! Ecco, la vostra casa vi viene lasciata deserta! Vi dico infatti che non mi vedrete più fino al tempo in cui direte: Benedetto colui che viene nel nome del Signore!». (Dal Vangelo secondo Lc 13, 31-35)

Gesù deve andare per la sua strada. Nulla e nessuno potrà fermarlo. La sua missione esige radicalità. La consapevolezza dell'opera da compiere lo rende forte e audace. Non saranno le minacce di morte che lo distoglieranno dal compiere il mandato ricevuto dal Padre. L'autenticità della profezia si rivela nella fermezza e nella parresia del profeta. La missione di Gesù è il compimento di quella affidata a Giosuè; in ebraico il nome “Giosuè” (yehosu‘a), infatti, è una forma antica del nome “Gesù” (yesu‘a). Giosuè doveva guidare il popolo alla conquista della terra promessa, combattendo gli abitanti di Canaan; Gesù dovrà scacciare i demoni per introdurre gli uomini nel Regno di Dio: "E' lui infatti che dopo la morte di Mosè ha assunto il comando, è lui che ha condotto l’esercito e ha combattuto contro Amalec; e ciò che era adombrato dalle braccia distese sul monte egli lo ha realizzato inchiodando alla croce i principi e le potenze sulle quali egli, in se stesso, trionfa" ((Origene, Omelie su Giosuè, I, 3). 
Il Signore invia Giosuè infondendogli coraggio: "Sii coraggioso e forte, poiché tu dovrai mettere questo popolo in possesso della terra che ho giurato ai loro padri di dare loro. Solo sii forte e molto coraggioso, cercando di agire secondo tutta la legge che ti ha prescritta Mosè, mio servo. Non deviare da essa né a destra né a sinistra, perché tu abbia successo in qualunque tua impresa. Non si allontani dalla tua bocca il libro di questa legge, ma mèditalo giorno e notte, perché tu cerchi di agire secondo quanto vi è scritto; poiché allora tu porterai a buon fine le tue imprese e avrai successo. Non ti ho io comandato: Sii forte e coraggioso? Non temere dunque e non spaventarti, perché è con te il Signore tuo Dio, dovunque tu vada... Allora Giosuè comandò agli scribi del popolo: «Passate in mezzo all'accampamento e comandate al popolo: Fatevi provviste di viveri, poiché fra tre giorni voi passerete questo Giordano, per andare ad occupare il paese che il Signore vostro Dio vi dà in possesso»" (Gs. 1,3 ss.). 

Gesù fa sue le parole rivolte a Giosuè, e con coraggio si dirige a Gerusalemme: sa di non essere solo, il Padre è sempre con Lui perché Egli compie sempre la sua volontà, non devia da essa né a destra né a sinistra; Gesù medita giorno e notte la Scrittura, dirige su di essa i suoi passi, la incarna e la compie in ogni istante, è sempre presente sulle sue labbra. Per questo non teme e non si spaventa: raccoglie i suoi discepoli, consegna se stesso come provvista, annunciandogli il mistero che lo attende, la morte e la risurrezione che avverrà dopo tre giorni; allora passeranno finalmente il Giordano della paura, per andare ad annunciare il Vangelo e occupare il paese soggiogato da satana che il Signore dà loro in possesso sino ai confini della terra. 
Gesù va per la sua strada: è la profezia che stana e scaccia i demoni. E' la verità che fa liberi. Il programma di Gesù è semplice: ha davanti a sé un tempo limitato, due giorni, che lo prepara al compimento dell'opera nel terzo giorno. La missione di Gesù è riassunta nei tre giorni del suo mistero pasquale: è questo il tempo di Dio. Ogni missione profetica segue lo stesso schema: annuncio, processo, rifiuto, passione, croce, sepolcro e risurrezione. Questo significa che ogni profezia deve passare per il crogiuolo, per il sacrificio dell'agnello. Solo così essa potrà mostrare la sua autenticità, la verità capace di liberare davvero. Gesù lo sapeva e per questo non temeva di dirigersi a Gerusalemme, il luogo dove la Pasqua doveva essere celebrata, come non era possibile che un profeta morisse fuori da Gerusalemme. 

Vista di Gerusalemme con scene della Passione
Ogni profezia annuncia la Pasqua, rivelando, negli eventi della storia, la sapienza della Croce: essa distrugge ogni falsa sapienza, l'astuzia di Erode la volpe, l'ipocrisia dei farisei. Per questo, ogni criterio che induce a fuggire dalla croce è figlio di satana. Occorre coraggio per vivere ogni giorno il ministero profetico che ci è assegnato, senza scappare. Il coraggio che scaturisce dalla fede; dubitare è spegnere la profezia e sbiadire la vita. Dio ci ha chiamato per compiere la stessa opera di Giosuè e di Gesù: tre giorni per condurre questa generazione al di là del Giordano. Non siamo soli, Lui è con noi; unica condizione è meditare giorno e notte la Scrittura, essere uniti a Cristo, lasciare che sia Lui ad operare in noi
Ci attende Gerusalemme, il rifiuto e la morte: non è possibile che la storia di ogni giorno non ci conduca alla moglie, al marito, ai colleghi, come ad un sepolcro. E' la verità, perché esiste il peccato che insidia la Grazia. Per questo l'amore autentico appare quando si ergono i nemici contro di noi. Quando si è in una pace frutto del compromesso l'amore è ancora molto sentimento. E i sentimentali non sopportano l'idea che di lì a un minuto il coniuge possa convertirsi in un nemico. Ma proprio nei momenti in cui siamo rifiutati, attraverso di noi, il Signore può raggiungere e salvare chi ci è accanto. Non è possibile morire fuori dalla storia, perché l'autenticità della nostra vita sia provata, e divenga profezia di salvezza per coloro ai quali siamo inviati
Gerusalemme celeste
Il rifiuto della profezia genera solitudine e morte, il destino della casa di Gerusalemme. Ma, misteriosamente, anche questo è necessario: per essere scacciato, satana deve venire alla luce. In Gerusalemme sono coagulati il disprezzo, il rifiuto, i peccati di ogni generazione. "La tradizione ebraica associava alla città santa la creazione di Adamo e al monte Moria il sacrificio di Isacco. Lì, il nuovo Adamo sarebbe stato anch'egli tentato, e, come Isacco, sarebbe stato legato. L'intera storia biblica doveva essere ricapitolata e ricuperata alla radice" (F. Manns, Ecce Homo). Gesù deve affrontare il rifiuto della "Gerusalemme di quaggiù, schiava insieme con i suoi figli", per dischiudere le porte della "Gerusalemme di lassù, libera che è la nostra madre" (Gal. 4,25-26). Scriveva S. Ireneo che le cose "non sono create per se stesse, ma per il frutto che cresce in esse. E come per il frutto l’acino e il grano persistono mentre spariscono la resta e il graspo, così Gerusalemme, che in sé portava il giogo della schiavitù, viene soggiogata per lasciare posto alla Gerusalemme libera. Ad essa vengono condotti tutti quelli che, disseminati nel mondo intero, possono portare frutti"  (S. Ireneo, Adv. Haer.). 
Il rifiuto del Messia inaugurerà l'era della nuova Gerusalemme, nella quale ogni profezia su di essa troverà compimento. Il rifiuto e la condanna trascineranno la carne del Signore nella tomba, e la stessa casa di Gerusalemme diverrà un sepolcro deserto. Ma proprio questo passaggio segnerà l'aurora gloriosa del Benedetto che viene nel nome del Signore; la sua vittoria sarà la pace. Secondo un’etimologia popolare Gerusalemme era interpretata come "visione della pace". Questa visione sarà compiuta quando i discepoli rivedranno il Maestro risorto al terzo giorno: "Pace a voi!". E' Gesù stesso, il Tempio ricostruito in tre giorni, la visione della pace, la nuova Gerusalemme i cui figli sono raccolti come una covata sotto le ali della chioccia.

Per questo è necessario che Gesù si diriga oggi alla nostra vita, per far luce e smascherare i nostri peccati. La sua strada siamo noi che, come Gerusalemme, rifiutiamo la profezia e il Profeta. I passi di Gesù ci cercano anche oggi in un desiderio ardente di far pasqua con noi, di amarci, di perdonarci. I suoi passi cercano i nostri peccati. S. Girolamo si converte e per far penitenza dei suoi peccati rimane a Betlemme per ben 35 anni, in una spelonca accanto alla grotta della Natività, pregando, studiando e traducendo in latino la Bibbia. In una notte di Natale gli appare Gesù Bambino che gli chiede: "Non hai niente da darmi nel giorno della mia Nascita? Il Santo gli risponde: Ti do il mio cuore! – Va bene, ma desidero ancora qualche altra cosa. – Ti do le mie preghiere! Va bene; ma voglio qualche cosa di più, insisteva Gesù. – Non ho più niente, che vuoi che ti dia? – Dammi i tuoi peccati, o Girolamo, rispose Gesù Bambino, perché io possa avere la gioia di perdonarli ancora". Troppe volte abbiamo visto la nostra casa deserta, la famiglia dispersa e incapace di perdonarsi. Troppe volte abbiamo rifiutato la profezia che ci avrebbe resi liberi, trattenendo e difendendo i nostri peccati. Oggi il Signore ci viene a prendere sotto le sue ali, per farci sperimentare il potere del suo amore. Oggi possiamo incontrarlo di nuovo, vittorioso su ogni nostro peccato, e accoglierlo abbandonandoci nell'umile fede di chi, dal fondo del suo deserto, riconosce in Gesù la benedizione inviata dal Padre.




 αποφθεγμα Apoftegma




Non è possibile che un profeta muoia fuori di Gerusalemme. 
Questo si riferisce al testo che dice: 
“Non è lecito per voi immolare la pasqua 
fuori del luogo dove il Signore tuo Dio 
ha scelto di far abitare il suo nome”.

S. Efrem

"La conversione del cristiano e della chiesa"


L'utopia possibile della comunità

La relazionalità del cristiano, che si converte e si forma nella vita di fede, si innesta nella comunità come proprio ambiente naturale. La comunità è il luogo della fraternità, di un “essere tra”, come dice Martin Buber, che non ha finalità utilitaristiche od organizzative. È perciò ben altra cosa di un’istituzione religiosa finalizzata a se stessa, alla propria preservazione e affermazione. La fraternità va oltre l’individuo, ma non annulla e non assorbe la persona. È un vivere insieme che è bello e dolce come olio profumato e prezioso (cfr. Sal 133), perché ci si ama gli uni gli altri come Gesù ha amato i suoi (cfr. Gv 13,34-35).
I cosiddetti “sommari” che scolpiscono in poche battute la fisionomia ideale delle prime comunità cristiane fanno capire bene che cosa s’intende (cfr. At 2,42-47; 4,32-35): lo stare insieme nel quotidiano, nella preghiera, nei pasti, nella condivisione dei beni affinché nessuno sia nel bisogno. Avevano un cuor solo e un’anima sola: non lo si può dire meglio di così!
Non è la descrizione di una realtà idilliaca. Il Nuovo Testamento ci tramanda tracce di discordie, umane debolezze e miserie che ci mostrano i primi cristiani come molto vicini alle ombre dei nostri luoghi della convivenza. È piuttosto la descrizione di una tensione, di una proiezione verso uno stile di vita intuito nella fede. È l’espressione di un desiderio e dell’impegno per un’umanità giusta e fraterna, cioè quel regno di Dio annunciato da Gesù.
Da sempre l’umanità si prefigura una vita sociale che sia diversa, un “altro mondo”, rispetto a una storia in cui città, regni e stati sono luoghi di disuguaglianza, ingiustizia, oppressione… La Repubblica di Platone, l’Utopia di Tommaso Moro, la Città del Sole di Campanella sono nomi d’idee e sogni. Le rivoluzioni, le leggi, le costituzioni sono tentativi che hanno catalizzato speranze; le stesse speranze che hanno spinto innumerevoli uomini e donne verso il  socialismo e il comunismo, ma anche ad abbandonarsi ai regimi. È una vicenda antica e sempre nuova, fatta di slanci, delusioni e sconfitte.
La comunità cristiana si presente come un’utopia possibile, una possibilità di vita buona in relazioni plasmate dalla fraternità in cui il regno è anticipato qui e ora. Però, anch’essa richiede una continua conversione, per non ridursi a realtà ripiegata su se stessa, immobile e stagnante. Non esiste la comunità perfetta. Le miserie umane sono presenti ovunque e in ciascuno di noi. Va sempre ricordato per evitare derive totalitarie e settarie nelle quali una realtà particolare si pone come separata e superiore rispetto all’insieme del corpo della chiesa.
Diversamente dall’atteggiamento proselitista delle sette, è la testimonianza di una comunità che si pone in cammino di conversione all’amore reciproco a evangelizzare per attrazione. Ecco, allora, che la comunità è il luogo del perdono, poiché non è uno stare insieme tra perfetti, e della festa, poiché insieme si rende grazie per i doni di Dio e per il primo dono che è l’altro accanto a sé.

La conversione del cristiano e della chiesa

Il cristiano deve convertire gli altri, oppure se stesso? E' in rete il mio nuovo e-book, "La conversione del cristiano e della chiesa", di cui riporto l'introduzione.
L’identità è sapere chi sono io e che cosa mi distingue dagli altri. Lo ripeteva sempre Alberto Melucci, uno dei massimi sociologi italiani, di cui sono stato allievo negli anni dell’università, autore di studi sull’identità tradotti in tutto il mondo.
Quando è incerta o quando si misura con l’altro, l’identità diviene domanda, interrogativo su di sé e sulle proprie origini. Nella Bibbia accade a Mosè, cresciuto in tutto e per tutto come un nobile egiziano. Arrivato all’età di quarant’anni, la scoperta dell’oppressione subita dal suo popolo diventa occasione di svolta e di ripensamento di tutta la sua vita (cfr. Es 2,11; At 7,23). La sua gente non viveva come lui, ma come minoranza oppressa. Questa presa di coscienza lo ha portato a interrogarsi su ciò che era veramente importante, sul suo posto nel mondo.
Oggi ci si chiede a ragion veduta chi è il cristiano. Nella nostra epoca, questa domanda si apre simbolicamente con il libro di Hans Urs von Balthasar, che la adotta come titolo, pubblicato nel 1965, a pochi anni dalla chiusura del concilio Vaticano II. Rispetto a quando la società era interamente cristiana, il mondo era cambiato e anche la chiesa cattolica stava cambiando.
Essere cristiani in questo tempo significa sempre di più convivere con altri, che non si riconoscono nella stessa fede religiosa o non ne professano alcuna. Di qui l’interrogativo sull’identità che è anche interrogativo sulla chiesa. Per rispondere, più che costruire delle immagini ideali e in ultima analisi astratte, vale la pena di soffermarsi su alcuni tratti propri dell’esperienza cristiana emergenti dalla parola biblica, che io riassumerei con la categoria del dinamismo.
La vita del cristiano e della chiesa è sempre movimento, cammino, così come Gesù è l’uomo che cammina e non ha dove posare il capo (cfr. Mt 18,20).
«Uomo, dove sei?», domanda Dio ad Adamo (Gn 3,29), cioè a noi. In altre parole: a che punto sei? Dove stai andando? È una domanda universale, per tutti e in tutti i tempi A questa domanda segue idealmente la chiamata di Abramo a uscire dalla propria terra. E l’invio in missione degli apostoli, che è prosecuzione dell’andare di Gesù nei villaggi della Galilea. I cristiani sono chiamati ad andare, ma verso dove? Verso gli altri, i non cristiani, con l’obiettivo di testimoniare, predicare, convertire, verrebbe da dire. In realtà, questo essere in movimento ha una duplice valenza che va esplicitata.
Non a caso la chiesa terrestre è detta dalla tradizione cristiana chiesa peregrinante, cioè chiesa in cammino, perché siamo ancora in esilio lontani dal Signore (2 Cor 5,6), come ci ricorda anche il Vaticano II (cfr. Lumen Gentium, 48). Il cristiano deve andare verso gli altri? Prima di tutto deve andare verso Dio! C’è pertanto una connessione stretta fra l’andare in missione e il ritornare a Dio, cioè il convertirsi: l’uno non sta senza l’altro.
In ogni tempo, i cristiani sono tenuti a chiedersi dove stanno andando e dove va la chiesa. Tutto ciò rinvia all’urgenza della conversione, la quale sempre caratterizza l’esistenza cristiana come un incessante nuovo inizio. L’invito di papa Francesco a lasciarsi incontrare dal Signore e a rinnovare l’incontro con lui, che apre l’esortazione Evangelii gaudium in cui ha esposto il suo programma per la chiesa cattolica, si comprende in questa chiave (cfr. EG 3). Questo papa ha lanciato un forte richiamo alla conversione di tutta la chiesa come condizione per l’annuncio del Vangelo. Se questa è la prospettiva cristiana, nella chiesa non può esserci spazio per la presunzione di essere migliori e tanto meno per atteggiamenti improntati al giudizio e alla condanna. La perdita di autorità e centralità del cristianesimo nel mondo contemporaneo non è allora una sconfitta, ma l’opportunità di un ritorno al Vangelo, alcuni tratti del quale sono divenuti opachi nella testimonianza della chiesa cattolica. La trasmissione della fede è perciò affidata alla bellezza, bontà e verità delle vite che suscita.
«Solo vivendo in prima persona la conversione la chiesa può anche porsi come testimone credibile dell’Evangelo nella storia, tra gli uomini, e dunque evangelizzare. Solo concrete vite di uomini e donne cambiati dall’Evangelo, che mostrano la conversione agli uomini vivendola, potranno anche richiederla agli altri»[1].
L’Evangelii Gaudium è un documento sorprendente e inatteso per gli orizzonti che ha aperto: essa costituisce una nuova tappa nell’attuazione dell’aggiornamento conciliare e un invito a chiederci a che punto siamo nella nostra conversione e ci offre dei criteri per verificare e discernere i passi da fare dentro questo momento della nostra storia personale e di chiesa.
«Il concilio Vaticano II ha presentato la conversione ecclesiale come l’apertura a una permanente riforma di sé per fedeltà a Gesù Cristo: “Ogni rinnovamento della Chiesa consiste essenzialmente in un’accresciuta fedeltà alla sua vocazione […] La Chiesa peregrinante verso la meta è chiamata da Cristo a questa continua riforma, di cui essa, in quanto istituzione umana e terrena, ha sempre bisogno” (Unitatis redintegratio, 6)» (EG 26).
La mia riflessione è una revisione di vita e pastorale alla luce dell’esortazione, per ri-leggerci a partire dal dinamismo umano ed ecclesiale dei tre momenti che la scandiscono: la gioia del Vangelo, l’uscire-da-sé in missione, il rinnovamento. L’ho articolata in tre momenti distinti nella scrittura, ma intimamente correlati: il cristiano, la comunità, la compagnia degli uomini, dove la corretta modalità di lettura è il cristiano nella comunità e la comunità cristiana, intesa quale soggetto dell’educazione alla fede, nella compagnia degli uomini.
È il cristiano, la persona che prima di tutto incontra la gioia del Vangelo, la sperimenta interiormente, e rilegge la propria vita alla luce della Parola e del volto di Cristo. Allora, esce da sé, va verso gli altri: «La gioia del Vangelo che riempie la vita della comunità dei discepoli è una gioia missionaria» (EG 21). E, nell’adesione allo stile di Gesù, il cristiano innesca la conversione della chiesa intera, della sua pastorale e delle sue strutture, in un rinnovamento che è improrogabile per far parlare il Vangelo oggi (cfr. EG 25-27).
In queste considerazioni ho cercato di condensare tratti di un’esperienza umana ed ecclesiale per ancorarle alla realtà. La partecipazione alle vicende della comunità e della diocesi a cui appartengo e soprattutto le vicende della vita senza aggettivi: il matrimonio, i figli, la malattia, l’amicizia, il lavoro nella scuola e non solo.
Prima di entrare nel vivo del discorso, mi sembra opportuno richiamare brevemente il significato biblico della conversione, per evitare fraintendimenti. Con l’andare del tempo, infatti, nella comprensione di questo concetto ha prevalso il significato dell’aderire a una confessione religiosa a cui prima non si apparteneva; un significato identitario, potremmo dire. La conversione, vista così, costituirebbe il momento del passaggio che segna l’ingresso nella fede cristiana e nella chiesa. Ai cristiani, soprattutto a partire dalle missioni spagnole e portoghesi del XVI secolo nel Nuovo Mondo e con la stagione delle grandi missioni ad gentes iniziate nel XIX secolo, spetterebbe perciò adoperarsi per la conversione di coloro che cristiani non sono.
Guardando alle Scritture, però, il senso della conversione appare ben più ampio di così. Nell’ebraico biblico la conversione è detta teshuvà, che può essere tradotta con “ritorno”, ma anche con “risposta”.
Così dice il Signore degli eserciti: tronate a me e io tornerò da voi (Zc 1,3; cfr. Ml 3,7).
Chi si converte ritorna a Dio, si rivolge verso di lui, orienta tutto il proprio essere, a cominciare dai comportamenti, nella sua direzione. Questo volgersi è allo stesso tempo anche una risposta a Dio, alla sua Parola, alla sua azione.
Un midrash racconta che il mondo è stato creato con la lettera “he” (ה), somigliante a una cornice con due aperture. Secondo la sapienza rabbinica, il mondo viene creato con questa lettera perché dalla cornice che Dio ha stabilito si può uscire (c’è libertà di scelta), ma c’è una seconda apertura perché si può ritornare e fare teshuvà. Come mai due aperture, si chiede il Talmud, se si può uscire e rientrare dallo stesso punto? Rabbi Chaim Shmuelevitz dice che per poter rientrare e fare teshuvà bisogna fare un’altra strada, è necessario mettere in discussione le proprie idee e i propri atteggiamenti.
L’ascolto della Parola di Dio, l’incontro con lui, può suscitare, nella libertà umana di rispondere, un cambiamento radicale di tutta l’esistenza. La Bibbia non lo presenta come l’atto di un momento, ma come un processo ininterrotto. Continuamente, attraverso i profeti, Dio chiama Israele alla conversione. Un invito rinnovato da Giovanni Battista:
«Convertitevi, perché il regno dei cieli è vicino» (Mt 3,2)
e ripreso tale e quale da Gesù (cfr. Mt 4,17). Nel greco del Nuovo Testamento il vocabolo è metánoia, che sta a indicare un cambiamento di pensiero e di mentalità, ma anche un atteggiamento penitenziale (cfr. Mt 3,8). Nella liturgia latina, l’invito alla conversione viene rinnovato ogni anno al principio della Quaresima, segno che è esigenza di tutta la vita cristiana, come avevano intuito padri della chiesa quali Origene e Gregorio di Nissa. La nascita dell’uomo nuovo secondo il Vangelo, è una gestazione che prosegue fino a quando dura il nostro pellegrinaggio ed è sul significato che la conversione ha per noi oggi che ho voluto meditare.
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Questo testo rielabora una relazione che ho tenuto il 6 maggio 2014 al clero della diocesi di Crema, su invito del vescovo Oscar Cantoni a cui va il mio ringraziamento.


[1] Enzo Bianchi, «Conversione», in Lessico della vita interiore. Le parole della spiritualità, Rizzoli, Milano 2004², p. 78.

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Approfondimenti.

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