Santa Maria,

Santa Maria,
...donna del primo sguardo, donaci la grazia dello stupore.

giovedì 31 ottobre 2013

perché non è possibile che un profeta muoia fuori di Gerusalemme.


Il Papa che bussa per aprire il cuore


Chi stenta ad accettare Papa Francesco forse stenta ad accettare la Chiesa, così come il Signore l'ha fondata e il Papa ci aiuta a comprendere.


Takamatsu, 26 Ottobre 2013 (Zenit.org) Don Antonello Iapicca


Ascolti Papa Francesco e ti appare chiaro e compiuto il Vangelo. Ci stupisce, semina sgomento, in fondo abbiamo sempre pensato alla Chiesa come la nostra casa. Calda, accogliente, le cose in ordine, sempre allo stesso posto, e, soprattutto sicura. Allarme, cani e inferriate a presidiare quello che abbiamo costruito... leggi tutto




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Giovedì della XXX settimana del Tempo Ordinario






Non è possibile che un profeta muoia fuori di Gerusalemme.
Questo si riferisce al testo che dice:
“Non è lecito per voi immolare la pasqua
fuori del luogo dove il Signore tuo Dio
ha scelto di far abitare il suo nome”.


S. Efrem



Lc 13, 31-35


In quel giorno si avvicinarono alcuni farisei a dirgli: «Parti e vattene via di qui, perché Erode ti vuole uccidere». 
Egli rispose: «Andate a dire a quella volpe: Ecco, io scaccio i demòni e compio guarigioni oggi e domani; e il terzo giorno avrò finito. Però è necessario che oggi, domani e il giorno seguente io vada per la mia strada, perché non è possibile che un profeta muoia fuori di Gerusalemme. 
Gerusalemme, Gerusalemme, che uccidi i profeti e lapidi coloro che sono mandati a te, quante volte ho voluto raccogliere i tuoi figli come una gallina la sua covata sotto le ali e voi non avete voluto! Ecco, la vostra casa vi viene lasciata deserta! Vi dico infatti che non mi vedrete più fino al tempo in cui direte: Benedetto colui che viene nel nome del Signore!».


IL COMMENTO



Gesù deve andare per la sua strada. Nulla e nessuno potrà fermarlo. La sua missione esige radicalità. La consapevolezza dell'opera da compiere lo rende forte e audace. Non saranno le minacce di morte che lo distoglieranno dal compiere il mandato ricevuto dal Padre. L'autenticità della profezia si rivela nella fermezza e nella parresia del profeta. La missione di Gesù è il compimento di quella affidata a Giosuè; in ebraico il nome “Giosuè” (yehosu‘a), infatti, è una forma antica del nome “Gesù” (yesu‘a). Giosuè doveva guidare il popolo alla conquista della terra promessa, combattendo gli abitanti di Canaan; Gesù dovrà scacciare i demoni per introdurre gli uomini nel Regno di Dio: "E' lui infatti che dopo la morte di Mosè ha assunto il comando, è lui che ha condotto l’esercito e ha combattuto contro Amalec; e ciò che era adombrato dalle braccia distese sul monte egli lo ha realizzato inchiodando alla croce i principi e le potenze sulle quali egli, in se stesso, trionfa" ((Origene, Omelie su Giosuè, I, 3). Il Signore invia Giosuè infondendogli coraggio: "Sii coraggioso e forte, poiché tu dovrai mettere questo popolo in possesso della terra che ho giurato ai loro padri di dare loro. Solo sii forte e molto coraggioso, cercando di agire secondo tutta la legge che ti ha prescritta Mosè, mio servo. Non deviare da essa né a destra né a sinistra, perché tu abbia successo in qualunque tua impresa. Non si allontani dalla tua bocca il libro di questa legge, ma mèditalo giorno e notte, perché tu cerchi di agire secondo quanto vi è scritto; poiché allora tu porterai a buon fine le tue imprese e avrai successo. Non ti ho io comandato: Sii forte e coraggioso? Non temere dunque e non spaventarti, perché è con te il Signore tuo Dio, dovunque tu vada... Allora Giosuè comandò agli scribi del popolo: «Passate in mezzo all'accampamento e comandate al popolo: Fatevi provviste di viveri, poiché fra tre giorni voi passerete questo Giordano, per andare ad occupare il paese che il Signore vostro Dio vi dà in possesso»" (Gs. 1, 3 ss.). 



Gesù fa sue le parole rivolte a Giosuè, e con coraggio si dirige a Gerusalemme: sa di non essere solo, il Padre è sempre con Lui perchè Egli compie sempre la sua volontà, non devia da essa né a destra né a sinistra; Gesù medita giorno e notte la Scrittura, dirige su di essa i suoi passi, la incarna e la compie in ogni istante, è sempre presente sulle sue labbra. Per questo non teme e non si spaventa: raccoglie i suoi discepoli, consegna se stesso come provvista, annunciandogli il mistero che lo attende, la morte e la risurrezione che avverrà dopo tre giorni; allora passeranno finalmente il Giordano della paura, per andare ad annunciare il Vangelo e occupare il paese soggiogato da satana che il Signore dà loro in possesso sino ai confini della terra. Gesù va per la sua strada: è la profezia che stana e scaccia i demoni. E' la verità che fa liberi. Il programma di Gesù è semplice: ha davanti a sé un tempo limitato, due giorni, che lo prepara al compimento dell'opera nel terzo giorno. La missione di Gesù è dunque riassunta nei tre giorni del suo mistero pasquale: è questo il tempo di Dio. Ogni missione profetica segue lo stesso schema: annuncio, processo, rifiuto, passione, croce, sepolcro e risurrezione. Questo significa che ogni profezia deve passare per il crogiuolo, per il sacrificio dell'agnello. Solo così essa potrà mostrare la sua autenticità, la verità capace di liberare davvero. Gesù lo sapeva e per questo non temeva di dirigersi a Gerusalemme, il luogo dove la Pasqua doveva essere celebrata, come non era possibile che un profeta morisse fuori da Gerusalemme. 



Ogni profezia infatti annuncia la Pasqua, rivelando, negli eventi della storia, la sapienza della Croce: essa distrugge ogni falsa sapienza, l'astuzia di Erode la volpe, l'ipocrisia dei farisei. Per questo, ogni criterio che induce a fuggire dalla croce è figlio di satana. Occorre coraggio per vivere ogni giorno il ministero profetico che ci è assegnato, senza scappare. Il coraggio che scaturisce dalla fede; dubitare è spegnere la profezia e sbiadire la vita. Dio ci ha chiamato per compiere la stessa opera di Giosuè e di Gesù: tre giorni per condurre questa generazione al di là del Giordano. Non siamo soli, Lui è con noi; unica condizione è meditare giorno e notte la Scrittura, essere uniti a Cristo, lasciare che sia Lui ad operare in noi. Ci attende Gerusalemme, il rifiuto e la morte: non è possibile che la storia di ogni giorno non ci conduca alla moglie, al marito, ai colleghi, al loro rifiuto; è così che, attraverso di noi, il Signore può raggiungerli e salvarli. Non è possibile morire fuori dalla storia, perchè l'autenticità della nostra vita sia provata, e divenga profezia di salvezza per coloro ai quali siamo inviati. 


Il rifiuto della profezia genera solitudine e morte, il destino della casa di Gerusalemme. Ma, misteriosamente, anche questo è necessario: per essere scacciato, satana deve venire alla luce. In Gerusalemme sono coagulati il disprezzo, il rifiuto, i peccati di ogni generazione. "La tradizione ebraica associava alla città santa la creazione di Adamo e al monte Moria il sacrificio di Isacco. Lì, il nuovo Adamo sarebbe stato anch'egli tentato, e, come Isacco, sarebbe stato legato. L'intera storia biblica doveva essere ricapitolata e ricuperata alla radice" (F. Manns, Ecce Homo). Gesù deve affrontare il rifiuto della "Gerusalemme di quaggiù, schiava insieme con i suoi figli", per dischiudere le porte della "Gerusalemme di lassù, libera che è la nostra madre" (Gal. 4,25-26). Scriveva S. Ireneo che le cose “non sono create per se stesse, ma per il frutto che cresce in esse”. E come per il frutto l’acino e il grano persistono mentre spariscono la resta e il graspo, così Gerusalemme, “che in sé portava il giogo della schiavitù”, viene soggiogata per lasciare posto alla Gerusalemme libera. Ad essa vengono condotti tutti quelli che, disseminati nel mondo intero, possono portare frutti" (S. Ireneo, Adv. Haer.). Il rifiuto del Messia inaugurerà l'era della nuova Gerusalemme, nella quale ogni profezia su di essa troverà compimento. Il rifiuto e la condanna trascineranno la carne del Signore nella tomba, e la stessa casa di Gerusalemme diverrà un sepolcro deserto. Ma proprio questo passaggio segnerà l'aurora gloriosa del Benedetto che viene nel nome del Signore; la sua vittoria sarà la pace. Secondo un’etimologia popolare Gerusalemme era interpretata come "visione della pace". Questa visione sarà compiuta quando i discepoli rivedranno il Maestro risorto al terzo giorno: "Pace a voi!". E' Gesù stesso, il Tempio ricostruito in tre giorni, la visione della pace, la nuova Gerusalemme i cui figli sono raccolti come una covata sotto le ali della chioccia.

Per questo è necessario che Gesù si diriga oggi alla nostra vita, per far luce e smascherare i nostri peccati. La sua strada siamo noi che, come Gerusalemme, rifiutiamo la profezia e il Profeta. I passi di Gesù ci cercano anche oggi in un desiderio ardente di far pasqua con noi, di amarci, di perdonarci. I suoi passi cercano i nostri peccati. S. Girolamo si converte e per far penitenza dei suoi peccati rimane a Betlemme per ben 35 anni, in una spelonca accanto alla grotta della Natività, pregando, studiando e traducendo in latino la Bibbia. In una notte di Natale gli appare Gesù Bambino che gli chiede: "Non hai niente da darmi nel giorno della mia Nascita? Il Santo gli risponde: Ti do il mio cuore! – Va bene, ma desidero ancora qualche altra cosa. – Ti do le mie preghiere! Va bene; ma voglio qualche cosa di più, insisteva Gesù. – Non ho più niente, che vuoi che ti dia? – Dammi i tuoi peccati, o Girolamo, rispose Gesù Bambino, perché io possa avere la gioia di perdonarli ancora". Troppe volte abbiamo visto la nostra casa deserta, la famiglia dispersa e incapace di perdonarsi. Troppe volte abbiamo rifiutato la profezia che ci avrebbe resi liberi, trattenendo e difendendo i nostri peccati. Oggi il Signore ci viene a prendere sotto le sue ali, per farci sperimentare il potere del suo amore. Oggi possiamo incontrarlo di nuovo, vittorioso su ogni nostro peccato, e accoglierlo abbandonandoci nell'umile fede di chi, dal fondo del suo deserto, riconosce in Gesù la benedizione inviata dal Padre.



Giuliana di Norwich (tra 1342-1430 cc), reclusa inglese 
Le Rivelazioni del Divino Amore, cap. 31


« Quante volte ho voluto raccogliere i tuoi figli »


La sete spirituale di Cristo finirà. Ecco la sete : il suo intenso desiderio di amore verso di noi che durerà fino a quando ne saremo testimoni al giudizio universale. Perché gli eletti, che saranno la gioia e la felicità di Gesù per l'eternità, sono ancora, in parte, qui giù e, dopo di noi, ce ne saranno altri fino all'ultimo giorno. La sua ardente sete è di averci tutti in Lui, per la sua più grande felicità - è quello che mi sembra, almeno...


In qualità di Dio, Egli è la beatitudine perfetta, felicità infinita che non potrebbe né aumentare né diminuire... Ma la fede c'insegna che, per la sua umanità, ha voluto subire la Passione, soffrire ogni tipo di dolore e morire per amore per noi e per la nostra felicità eterna... Come Egli è la nostra Testa, Cristo è glorificato e non può più soffrire; ma poiché è anche il Corpo che unisce tutti i suoi membri (Ef 1,23), non è ancora del tutto glorioso e impassibile. È per questa ragione che egli prova sempre questo desiderio e questa sete, che risentiva sulla croce (Gv 19,28), e che erano, mi sembra, in lui dall'eternità. Così è ora e così lo sarà fino a quando l'ultima anima salvata sarà entrata in questa beatitudine. 


Sì, come è vero che in Dio c'è la misericordia e la pietà, così c'è in lui anche la sete e questo desiderio. In virtù di questo desiderio che è in Cristo, anche noi lo desideriamo : diversamente nessuna anima andrebbe in Cielo. Questo desiderio e questa sete provengono, credo, dalla bontà infinita di Dio, come la sua misericordia...; e questa sete durerà in Lui, fino a quando saremo nel bisogno, attirandoci alla sua beatitudine.


Origene. La Gerusalemme terrena e la Gerusalemme celeste


"era dunque nei cieli una realtà (veritas) e sulla terra la sua ombra e la sua
imitazione (exemplar et umbram). E finché sulla terra esisteva quest’ombra
c’era una Gerusalemme terrena (Hierusalem terrestris)… Ma quando con la
venuta del Salvatore nostro Dio … vennero a cadere l’ombra e l’imitazione
(umbra et exemplaria ceciderunt). Gerusalemme è crollata (cecidit enim
Hierusalem)… sicché ormai il luogo in cui si deve adorare non è più sul monte
Garizim, né a Gerusalemme (segue citazione di Lc 4,21-23; necque in Hierosolymis sit locus)… Se dunque, giudeo, quando vieni a Gerusalemme, città
terrena (ad Hierusalem civitatem terrenam), e la troverai abbattuta, ridotta in
cenere e polvere, non piangere… ma al posto della città terrena cerca quella
celeste. Guarda in alto e vi troverai «la Gerusalemme celeste (Hi e rusal em
coelestem) che è madre di tutti» (cf. Gal 4,26). (Origene, In Jos. XVII,1)


Prof. R. J. Zwi Werblowsky GERUSALEMME


Geografia sacra


Una via attraverso la quale gli uomini hanno acquisito e, come forse sarebbe meglio dire, cristallizzato il loro senso del sacro è stata quella del loro rapporto con lo spazio (1). Ci sono delle terre sante, cioè delle terre che sono considerate sante in virtù del vincolo che unisce i gruppi umani alla terra su cui vivono. E' un vincolo di gratitudine e di amore che frequentemente, e a volte impercettibilmente, diviene venerazione. In un tempio di Benares, che alcuni di voi hanno forse visitato, l'oggetto di culto è una carta geografica della Madre India. Ci sono dei luoghi santi, distinti dalle terre sante, luoghi dove il divino si è manifestato, in un modo o in un altro, agli occhi di uomini e donne credenti, luoghi che sono amati e venerati come testimonianze concrete, tangibili, spazialmente definite, della realtà del divino, divenuto visibile attraverso esperienze o tradizioni di teofanie, attraverso rivelazioni, miracoli, o le vite di uomini santi. Ci sono delle città sante distinte dai luoghi santi: città che hanno acquisito la loro santità in seguito a circostanze o eventi storici, o città che sono sante perché sia in teoria sia in pratica sono state costruite in maniera tale da riflettere una realtà cosmica, e sono una specie di immagine spaziale microcosmica dell'universo e della sua struttura divina come è stata concepita e espressa mitologica (2). Ci sono città che sono sante perché custodiscono un oggetto sacro o una reliquia: La Mecca, Angkor, Benares, Lhasa, Roma e molte altre. Come esempio moderno si può citare la città di Tenri (vicino a Nara. in Giappone) che è una città santa non soltanto perchè non è stata costruita intorno all' "ombelico della terra", il sacro kanrodai, ma anche perché è stata edificata secondo un piano divino.


Una sola città è l'oggetto del nostro studio, ma una città alla quale tre grandi religioni, fra loro connesse, sono strettamente legate da vincoli di venerazione e di amore. Tenteremo di capire che cosa Gerusalemme ha rappresentato per gli ebrei, i cristiani e i musulmani, e che cosa rappresenta per loro oggi. Tenteremo di vedere e comprendere le differenze esistenti nella natura del legame, nelle origini del carattere sacro, e nell'essenza e nelle funzioni della santità implicita.


La tradizione ebraica: Sion e Israel


La tradizione ebraica è profondamente differente. Non è necessario qui entrare nella questione della preistoria di Gerusalemme, la "fondazione della divinità Shalem", e del suo ruolo come città santa, cioè come centro di culto nei tempi precedenti alla presenza degli israeliti, dei gebusei e anche delle popolazioni anteriori ai gebusei. Per il nostro scopo è sufficiente ricordarci del fatto che Gerusalemme non fa parte delle più antiche tradizioni ebraiche, quali appaiono nei corrispondenti strati del testo biblico. Gerusalemme non era il maggior centro di culto né all'epoca dei patriarchi né durante il periodo immediatamente successivo alla conquista ebraica. I centri di culto erano Shilo, Beth-El, Shechem e altri. L'episodio dell'incontro di Abramo con Melchisedek, il sacerdote-re di Shalem (Gen.14) riflette probabilmente un'ideologia più tarda, posteriore a David, tendente a rafforzare il legame della città santa con il progenitore della nazione. Gerusalemme è entrata nella storia ebraica e nella coscienza storico-religiosa degli ebrei all'epoca di David. La storia della conquista della città, così come le ragioni che indussero David a farne un centro simbolico--sia rituale sia politico--sono troppo note perché si debba ripeterle qui. E' sufficiente dire che David fece di Gerusalemme la pietra angolare dell'unificazione religiosa, cultuale e nazionale del popolo d'Israele. Come ha scritto il Prof. Shemaryahu Talmon (22). "Gerusalemme divenne così il simbolo e l'espressione più significativa del passaggio dalla 'condizione di popolo' alla formazione di una 'nazione' e di uno 'stato'. Ma la città non fu mai completamente subordinata a questo nuovo fenomeno sociale, né con esso identificata, e perciò, quando lo stato cessò di esistere, Gerusalemme non perse la sua importanza e il suo valore simbolico per il popolo ebraico. La città, che nell'antichità aveva subito una decisiva trasformazione del suo significato, poté facilmente adattarsi alle successive diverse situazioni storiche. Ed essa, in realtà, ha fatto così per molti secoli senza perdere il suo prestigio e il valore simbolico che le era stato conferito da David". Invero, l'aspetto sorprendente e cruciale della storia è la profondità e la tenacia con cui la "coscienza di Gerusalemme" (come vorrei chiamarla) ha messo radici nel sentimento, nella fede, nella teologia degli ebrei. Gerusalemme era la città che Dio aveva scelto, e la scelta di questa città era parte fondamentale del patto di Dio con il Suo popolo, come del Suo patto con David e la sua discendenza, ed era eterno come il Suo patto con la natura (cf. Geremia 31:34-39 e 33:14-26).


Il significato di Gerusalemme, che ha poi determinato l'autocomprensione e la coscienza storica ebraica, è compiutamente formulato nei Profeti e nel libro dei Salmi. Gerusalemme e Sion sono sinonimi, e sono giunti a significare non soltanto la città ma tutta la terra e il popolo ebraico (ossia quanto di esso rimaneva). Quando l'autore delle Lamentazioni piange sulla distruzione della "figlia di Gerusalemme" e sull'esilio dei "figli di Sion" si riferisce evidentemente al popolo; e quando il profeta noto come il Deutero-lsaia rapsodicamente esulta per la gioia di Sion quando i suoi figli ritorneranno a lei dalla dispersione, egli chiaramente si riferisce al popolo e al paese come entità storiche. La città, il paese e il popolo divengono un tutto unico in una grande fusione simbolica. Sion, cioè Gerusalemme, è la "Madre" anche nel linguaggio simbolico ebraico, e le stesse figure stilistiche che l'idioma cristiano usa in rapporto alla 'mater ecclesia', sono usate dagli antichi rabbini per la keneseth Yisrael, identificata con Sion e Gerusalemme in quanto 'madre'. Queste equazioni simboliche sono un tratto distintivo permanente dell'esperienza ebraica fin dall'epoca del Salmista. L'identificazione di Sion e Gerusalemme con la madre vedova, addolorata e in lutto, che un giorno esulterà e gioirà di nuovo quando i suoi figli si riuniranno in lei, è uno dei motivi fondamentali delle immagini tradizionali ebraiche fin da quando il modello fu stabilito dal Deutero-Isaia. I dottori del Talmud, nei loro numerosi commenti su questo tema, hanno formulato più esplicitamente ciò che era già implicito nei profeti e in molti salmi.


Il versetto del profeta (Isaia 49:14) "E Sion ha detto: il Signore mi ha abbandonata" è parafrasato nel Talmud (23). - come una cosa naturale - "l'adunanza d'Israele ha detto:...". L'espressione liturgica perfetta di questo simbolismo si trova nel rituale ebraico del matrimonio, in cui una delle benedizioni liturgiche dice così: "Possa colei che era sterile (cioè Sion) essere estremamente felice e esultare quando i suoi figli saranno riuniti in lei nella gioia. Benedetto sii Tu, o Signore, che rendi lieta Sion per mezzo dei suoi figli". Un'altra versione della stessa benedizione termina con le parole "...che rendi lieta Sion e ricostruisci Gerusalemme". In modo simile una delle benedizioni che si recitano ogni sabato dopo la lettura del brano profetico dice: "Abbi pietà di Sion che è a dimora della nostra vita... Benedetto sii tu, o Signore, che fai gioire Sion nei suoi figli".


Nella sfera di questo studio non è possibile esaminare, nemmeno in una rapida rassegna, il ruolo di Sion, o di Gerusalemme, nella liturgia quotidiana, nella benedizione di ringraziamento dopo ogni pasto, e nella poesia e negli scritti omiletici dell'ebraismo medievale. Il punto che io desidero sottolineare qui è la funzione semantica di un termine geografico per designare un'entità storica, ma in maniera tale che la storia rimane ancorata a un centro geografico concreto, sia che si tratti del luogo di origine (il patto della terra promessa e della città eletta) e della catastrofe e della sofferenza (l'esilio, la dispersione), sia che si tratti del luogo escatologico (della redenzione e del futuro ritorno). La tradizione rabbinica ha raccolto e sviluppato in un suo modo particolare a nozione di una Gerusalemme celeste che aveva cominciato a diffondersi e a evolversi nel periodo intertestamentario. Ma nella tradizione rabbinica la priorità è invertita rispetto alla tradizione cristiana, nella quale il simbolismo della Gerusalemme celeste tende a prevalere. La liturgia, la pietà popolare, il simbolismo religioso, e la speranza messianica--anche nelle sue forme laiche dei secoli XIX e XX--si riferiscono anzitutto e soprattutto alla Gerusalemme terrestre come ;simbolo della riunione del popolo nella sua terra promessa, su questa terra. Un detto rabbinico molto impressionante va al di là del modo abituale di invertire la cosmologia apocalittica, secondo la quale la Gerusalemme terrestre non è che un riflesso della Gerusalemme celeste. Secondo questo midrash(24). "voi trovate anche che c'è una Gerusalemme n alto, corrispondente alla Gerusalemme in basso. Per puro amore della Gerusalemme terrestre, Dio se ne è fatta una in alto". In altre parole, la Gerusalemme terrestre non riflette un archetipo celeste, nè trae il suo significato dal fatto che rispecchia una realtà celeste. Essa è un valore in se stessa, e come tale è l'archetipo della Gerusalemme celeste di Dio. Secondo questa tradizione, la pienezza spirituale non può essere raggiunta riducendo al minimo la sfera storica con le sue realtà materiali, sociali e politiche. La Gerusalemme ideale, restaurata, della visione di Geremia è una città, anzi un centro politico, pieno di attività, di vita e di popolo: "Poiché, se voi farete realmente queste cose, dei re assisi sul trono di David entreranno per le porte di questa casa (cioè questa città), montati su carri e su cavalli, essi, i loro servitori e il loro popolo" (Geremia 22:4). Si può notare incidentalmente il plurale "dei re assisi sul trono" nella visione di Geremia. La nozione escatologica del messia uno figlio di David non si era ancora sviluppata. Cito ancora una volta il prof. Shemaryahu Talmon: "Tuttavia, anche al culmine del suo sviluppo, l'idea della Gerusalemme celeste come è stata concepita nel pensiero ebraico e anche nell'immaginazione mistica, non ha mai perduto il contatto con la realtà terrestre. Un definito senso di questo legame con la terra... sembra permeare la religione normativa ebraica in tutte le sue ramificazioni" (25). Il più antico riferimento a una Gerusalemme celeste nella letteratura talmudica pone le seguenti, e alquanto sorprendenti, parole nella bocca di Dio stesso, che dice: "lo non entreró nella Gerusalemme celeste finchè non sarò entrato perima nella Gerusalemme terrestre (26).


Se è vero. come io ho suggerito che i termini sinonimi Gerusalemme e Sion hanno simbolizzato la realtà storica di un popolo e il suo legame a una terra, si può forse giungere a una migliore comprensione (benché non necessariamente a una affermazione) delle fasi moderne e laiche di questa realtà storica. Il movimento nazionale ebraico moderno non ha preso il suo nome né da quello di un paese o di un popolo, ma da quello di una città: Sionismo. L'inno del movimento sionistico, che nel 1948 è diventato l'inno nazionale d'Israele, parla dell'"occhio che guarda verso Sion" e della millenaria speranza di un ritorno alla "terre di Sion e Gerusalemme". L'inno, noto come ha-Tiqvah ("la speranza"), è invero poesia povera, goffa e sentimentale, ma nonostante ciò esprime l'essenziale consapevolezza del popolo ebraico che al centro della sua esistenza c'è un indissolubile legame con la terra, e che al centro di questo centro è Sion, la città di David. Gerusalemme e Sion sono nomi geografici che hanno un significato al di là della pura e semplice geografia, ma che non restano al di fuori della geografia: essi sono "il luogo, la dimora e il nome" di un'esistenza storica e della sua continuità --un'esistenza che per gli ebrei religiosi ha dimensioni religiose e per gli ebrei laici è suscettibile di una formulazione laica.


Gerusalemme nella tradizione cristiana


Ho menzionato ora la letteratura dei fadha'il al-Kuds e la sua notevole fioritura durante il periodo delle crociate, cioè quando la nostalgia dei ,cristiano per la Terra Santa e per la Gerusalemme terrestre, come anche altri impulsi meno lodevoli e meno cristiani, aveva raggiunto il suo acme. 'entusiasmo dei cristiani per la città santa celebrò il suo trionfo, in maniera molto poco cristiana, con la conquista di Gerusalemme da parte dei crociati nel 1099. L'entusiasmo musulmano trionfò a sua volta con la riconquista della città da parte di Saladino e con la rimozione della croce dorata dalla sommità del duomo dove era stata posta dai crociati. Ma 'atteggiamento dei cristiani verso la Terra Santa e la Città Santa è molto più complesso e non è stato sempre e inequivocabilmente uguale a quello dei crociati. Un incidente dei tempi della seconda crociata illustra questa ambiguità.


Intorno al 1129, un chierico inglese di nome Filippo, dalla diocesi di Lincoln partì in pellegrinaggio per la Terra Santa. Strada facendo egli si fermò a Clairvaux (Chiaravalle). Poco dopo il vescovo di Lincoln ricevette una lettera dall'abate di Clairvaux, che gli annunciava che -Filippo era arrivato sano e salvo e molto rapidamente alla sua destinazione, e che intendeva rimanere lì per sempre. "Egli è entrato nella Città Santa e ha scelto il suo retaggio... Egli non è più un uomo che ~a alla ricerca della sua via, ma un abitante pio e un cittadino stabile di Gerusalemme". Ma questa Gerusalemme, "se voi volete saperlo, è ,Clairvaux. Essa è la Gerusalemme unita a quella che è in cielo da una profonda pietà, dalla conformità della vita e da una certa affinità spirituale" (11)


a vera dimora del cristiano--secondo la concezione medievale--è la Gerusalemme celeste. Non che egli debba disprezzare la Gerusalemme terrestre, ma la vera Gerusalemme terrestre che è "unita a quella che è in :cielo" è dovunque si viva la vita cristiana perfetta. Si riconosce in questa lettera la voce dello stesso abate di Clairvaux che, nel 1131, rifiutò 'offerta fatta dal re crociato di Gerusalemme, Baldovino II, del sito di San ,Samuele (noto anche come Monte della Gioia o Mons Gaudii) a nord- ovest di Gerusalemme, e che incoraggiò i Premostratensi a stabilirvisi al ) posto dei Cistercensi. Eppure lo stesso San Bernardo predicò la seconda :crociata e favorì l'istituzione del nuovo ordine dei Templari. C'è qui, "in nuce", in essenza, la tarda versione medievale di una fondamentale ambiguità, o dialettica, cristiana.


invero, per molti secoli la cristianità si è dibattuta fra i due corni del dilemma della Gerusalemme celeste contrapposta alla Gerusalemme terrestre (12). Il Nuovo Testamento stesso manifesta una notevole tendenza verso ciò che si potrebbe chiamare una "deterritorializzazione" del ,concetto di santità, e una conseguente dissoluzione delle sue componenti spaziali. Il centro della santità non è il Tempio e il suo Sancta Sanctorum, ma Cristo; non la Città Santa o la Terra Santa costituiscono l"'area" della santità, ma la nuova comunità, il corpo di Cristo. (13). Tuttavia per le generazioni posteriori di cristiani, la terra in generale e Gerusalemme in particolare erano la scena sulla quale si erano svolti gli eventi più importanti della storia. Il mistero dell'incarnazione e della redenzione aveva avuto luogo lì. L'atto divino della salvazione, nonostante il suo significato universale--e cosmico, secondo alcuni dei primi Padri della Chiesa--aveva avuto lì la sua sede e la sua manifestazione incarnata. La Natività e gli eventi che l'avevano preceduta, l'infanzia e la maturità di Cristo, il suo ministero e la sua predicazione, il compimento del suo ministero nella sua passione, la sua resurrezione e la sua ascensione, la nascita della Chiesa nel giorno della Pentecoste e gli inizi della prima comunità cristiana, tutti questi fatti avvennero in questa particolare città e in questa terra, e non importa se i luoghi nei quali secondo la tradizione essi si svolsero siano storicamente "autentici" o no.


Nessuna meraviglia, perciò, che i cristiani abbiano sempre considerato e amato la Palestina come una "terra santa" e Gerusalemme come una "città santa", e che i pellegrini siano venuti in tutti i tempi a visitare questi luoghi collegati al mistero della salvazione e a permeare le loro anime delle benedizioni di questo mistero nel luogo stesso della sua manifestazione terrestre e storica. Tuttavia si affermava contempo- raneamente anche la già menzionata tendenza alla "deterritorializzazione", e molte delle grandi figure della storia della cristianità esprimevano dei dubbi su ciò che a loro sembrava, almeno potenzialmente, un modo rozzo, non spirituale, e perciò imperfetto, di avvicinarsi al mistero. Commentando le parole di Gesù "se qualcuno ha sete, lasciate che venga a me e che beva" (Giovanni 7:37), Sant'Agostino ha scritto:


Quando abbiamo sete, noi dobbiamo venire non con i nostri piedi ma con i nostri sentimenti, dobbiamo venire non con il nostro camminare ma con il nostro amore. in senso interiore amare e camminare. Una cosa e muoversi con il corpo, una tra cosa è muoversi con il cuore. Chi cammina con il corpo cambia di posto con il movimento del corpo, chi cammina con il cuore cambia i suoi sentimenti con ilmovimento del cuore(14).


Altre voci si levavano contro i pellegrinaggi, mettendo in dubbio il loro valore. San Gregorio di Nissa in una delle sue lettere scriveva (15):"Consigliate dunque ai fratelli di elevarsi dal corpo a Dio, piuttosto che dalla Cappadocia alla Palestina", ma egli stesso aveva fatto un pellegrinaggio a Gerusalemme. San Girolamo, sebbene avesse scelto di trascorrere la parte migliore della sua vita a Betlemme, dichiarava (16):"Il santuario celeste è aperto dalla Britannia non meno che da Gerusalemme, perché il Regno di Dio è dentro di voi", e molti scrittori mistici posteriori lasciavano intendere che i pellegrinaggi non erano sempre o necessariamente un mezzo di santificazione. Il protestantesimo a adottato questa tendenza della tradizione cristiana, esaltandola elaborandola, e non è necessario ricordare la beffa del poeta puritano sua descrizione del paradiso degli stolti (17): Qui vagano i pellegrini, che si spersero cosi lontano per cercare sul Golgota, morto, colui che vive in cielo.


Altri hanno sognato di una Gerusalemme terrestre ma onnipresente, una Gerusalemme che potrebbe essere costruita "nel verde e ameno paese l'Inghilterra". Ma, ancora una volta, come per spiegare la suddetta .ambivalenza cristiana su questo punto, sono stati gli studiosi protestanti che hanno dato il maggiore impulso ai moderni studi di archeologia e antichità bibliche (18).


La Gerusalemme celeste


In linea generale, tuttavia, la religiosità cristiana si è basata sul principio che il movimento del corpo e quello del cuore non sono incompatibili e che, al contrario, il primo può stimolare e favorire il secondo. Ma questa soltanto una parte--e forse la meno importante--della questione. Noi abbiamo già incontrato un leitmotiv fondamentale del pensiero cristiano ella lettera di San Bernardo al vescovo di Lincoln: l'idea della Gerusalemme celeste, che è la vera, l'essenziale, e di cui ogni possibile Gerusalemme terrestre non è che un pallido riflesso. Le origini di questa concezione di una Gerusalemme celeste si trovano nell'ebraismo dell'epoca del secondo Tempio; riparleremo fra breve di ciò, così come quella sviluppo di questa idea nel periodo posteriore alla distruzione del secondo Tempio, nell'ebraismo tannaitico e amoraico, cioè nell'ebraismo rabbinico (19) Il monte Sion e la città del Dio vivente sono esplicitamente identificati con la Gerusalemme celeste nell'Epistola agli ebrei 12:22, e non c'è nessun bisogno di citare per intero la visione apocalittica della gloriosa Gerusalemme celeste, brillante d'oro e adorna di zaffiri, come è descritta nel capitolo 21 dell'Apocalisse di San Giovanni. Questo capitolo a avuto una durevole influenza sul simbolismo cristiano, ma si potrebbe forse osare una generalizzazione e dire che questa influenza si è sentita soprattutto nel quadro della tendenza alla spiritualizzazione e alla deterritorializzazione", di cui si è già fatta menzione. Gerusalemme è essenzialmente la Gerusalemme celeste, e la Gerusalemme celeste è archetipo della Chiesa. Come ogni città che è una metropoli, cioè una città che nel senso letterale del termine e nel senso di archetipo è una madre per i suoi figli


L'esame dei canti di Sion nella poesia cristiana meriterebbe di essere l'oggetto di uno studio particolare. Chi non ha ascoltato con emozione e batticuore la struggente speranza di salvazione espressa in più di un 'Negro spiritual' sul tema di Gerusalemme? Chi non ha sentito un'esaltazione spirituale nell'ascoltare il canto corale tedesco Jerusalem, Du hochgebauie Stadt, così ricco di tensioni? Quanto a 'Gerusalemme d'oro', strettamente collegata per la maggior parte degli israeliani alla bellissima canzone di Naomi Shemer, che dal 1967 è divenuta un'espressione del sentimento popolare israeliano ancor più genuina dell'inno nazionale, pochi di essi sanno, io sospetto, che nella raccolta degli inni della chiesa anglicana si trova un poema recante lo stesso titolo, il quale, a sua volta, trae origine da un più antico inno medievale. Nel rito latino, ogni volta che viene consacrata una nuova chiesa-- poiché ogni chiesa riflette la chiesa celeste in cui tutti i figli di Dio sono riuniti si canta il seguente bellissimo inno:


Urbs Jerusalem beata
Dicta pacis visio
auae construi ur in coelis
Vivis ex lapidibus
Plateae et muri ejus
Ex auro purissimo


così anche la Gerusalemme celeste," la gerusalemme che è in alto", è, secondo l'apostolo paolo (galati 4:26), "la madre di tutti noi". infatti, la città come madre, cioè la gerusalemme celeste che è la madre di tutti noi, si identifica pienamente con la mater ecclesia l'eliminazione, a tutti i fini pratici, dell'escatologia storica concreta nei secoli che intercorrono fra l'apocalisse e sant'agostino, ha prodotto una immagine cristiana della gerusalemme celeste che è puramente spirituale. questa entità celeste e spirituale, di cui la chiesa in questo mondo è un riflesso terrestre, è la dimora di dio che risiede in mezzo al suo popolo fedele e santificato. questa visione spirituale dell'umanità unita a dio, largamente espressa nella formulazione di immagini allegoriche e omiletiche, è stata soltanto in parte controbilanciata dalle tradizioni della religiosità popolare, dai pellegrinaggi, e dalle esplosioni di entusiasmo come quelle di cui dà testimonianza il periodo delle crociate.


Ma forse la composizione più bella e commovente di tutta la poesia cristiana su questo tema è un canto scritto da Abelardo, non in onore di Eloisa, ma in onore di quel giorno perfetto che è Sabato eterno e eterna gioia. Nella scia del simbolismo tradizionale, Abelardo identificava questo eterno Sabato con la Gerusalemme celeste, I'uno simbolo cosmico-temporale, l'altra simbolo cosmico-spaziale di eterna benedizione e perfezione:


O quanta qualia
Sunt illa sabbata
auae semper celebrat
Superna curia
Quae fessis requies
auae merces fortibus
Cum erit omnia
Deus in omnibus
Vera Jerusalem
Est illa civitas
Cujus pax iugis est
Summa iucunditas.


Non so che cosa avrebbe detto Abelardo se avesse saputo che questa combinazione del simbolismo di Gerusalemme e del Sabato, giunta a lui dal tesoro delle figurazioni allegoriche cristiane, avrebbe prodotto più tardi alcuni fenomeni molto strani nell'ambito delle sette. Il grande risveglio religioso di molte tribù antu nell'Africa del sud (e sul quale il vescovo Bengt Sundkler ha scritto un pregevolissimo libro2') ha dato vita a centinaia di chiese e sette, di cui alcune hanno la parola Sion nella loro denominazione, altre usano anche la stella di David a sei punte come simbolo; alcune di esse hanno nomi strani come 'IThe Apostolic Jerusalem Church in Sabbath in Zion". Questo aspetto della que_ ._.._ esula dalla sfera del presente studio.


L'innologia cristiana è quasi esclusivamente celeste. Come dice il poeta mediovale, Gerusalemme è la


Urbs Sion unica, mansio mystica, condita coelo.


Quanto al fatto che Gerusalemme ha anche una dimensione terrestre, geografica, come città santa, la sua importanza consiste soprattutto nella sua qualità di testimonianza di avvenimenti sacri accaduti in alcuni luoghi che essa contiene--i "luoghi santi".



Note


1. Cf. Mircea Eliade, The Sacred and the Profane (1959), cap. I "Sacred Space and Making the World Sacred".


2. Cf. Werner Muller, Die heilige Stadt (1961). Lo studio erudito di Muller è interessante da molti punti di vista, ma molte delle sue affermazioni sulle teorie sulla questione del Monte Sion, Der Berg Zion und der Schopfungsfelsen (179 e sgg.), sono insostenibili e assolutamente erronee.


3. Questa tesi è stata avanzata da I. Horovitz in molti lavori, come anche nel suo articolo Mi'radj nella prima edizione della Encyclopaedia of Islam. La letteratura sul ruolo di Gerusalemme nell'Islam è amplissima. Bibliografie più o meno complete si trovano nelle enciclopedie pertinenti (e specialmente nella Encyclopaedia of Islam) alle voci al-Kuds, Isra, e Miradj, come anche negli articoli citati più avanti, alle note 6, 8 e 10. A questi si deve aggiungere lo studio erudito e estremamente chiarificatore di M. J. Kister "You shall set out for three Mosques" -- A Study of an Early Tradition", in Le Muséon 82 (1969), 173-196. Affinché non si pensi che il pubblico ebraico in Israelle sia poco informato su questo argomento, desidero segnalare qui--fra le più recenti pubblicazioni - due eccellenti articoli (in ebraico): H.Z. Hirschberg, "The Temple Mount in the Arab period (638-1099) in Jewish and Muslim Traditions, and in Historical Reality", in Jerusalem through the Ages (Atti del 250 Congresso d'archeologia della Società israeliana d'esplorazione (Gerusalemme 1068), 109-119. H. Lazarus Yaffeh, "The Sanctity of Jerusalem in Muslim Tradition" in Molad, N.S. 4, no. 21 (Agosto--Settembre 1971), 219-227.


4. Chiamare una cosa "ebraica" era nel medioevo uno dei metodi più pratici per screditarla; cf. l'abitudine degli scrittori cristiani ortodossi di denunciare le tendenze millenariste come una riprovevole "giudaizzazione".


5. Goldziher, Muhammedanische Studien, II (1890), 35 e sg.


6. S.D. Goitein, "The Sanctity of Jerusalem and Palestine in Early Islam", in Studies in Islamic History and Institutions (Leiden, 1966), 135-148; questo studio riassume molte ricerche e pubblicazioni dell'autore sull'argomento (generalmente in ebraico).


7. Questo aspetto della questione merita forse di essere esaminato con una cura maggiore di quella che abitualmente gli si dedica. Il ruolo di Gerusalemme nella fede e nel sentimento dei musulmani non è esaurientemente spiegato dal solo riferimento a certi eventi miracolosi della vita del Profeta. Gerusalemme è anche il luogo dello scioglimento finale della storia di questo mondo, è il luogo sul quale si concentrano tutte le credenze e le idee escatologiche, che non sono forse meno importanti-- per il fedele musulmano--dei riferimenti "storici" del ministero del Profeta.


8. Cf. E. Sivan, "Le caractère sacré de Jerusalem dans l'lslam aux Xlle-Xllle siècles", in Studia Islamica27 (1967),149-182, in particolare pp. 152 e sg.


9. A.L. Tibawi, "Jerusalem: its place in Islam and Arab History" in The Islamic quarterly12 (1968),185-218. La citazione è da p. 196.


10. Il prof. M. Kister ha scoperto in una moschea di San Giovanni d'Acri un manoscritto di ciò che potrebbe ben essere la più antica composizione di questo genere. Il testo (la cui esistenza era già nota, poiché è menzionato da al-Maqdisi, autore del XIV secolo) è stato composto a Gerusalemme non più tardi del 410 H/1019-1020. Il testo di al-Wasiti è in corso di pubblicazione (come tesi di M.A. per l'Università Ebraica di Gerusalemme) da parte di Y. Hason. Cf. anche E. Sivan, "The beginnings of the Fada'il Al-auds Literature" in Israel Oriental Studies 1 (1971 ), 263-271.


11. Lettera 64 dell'edizione benedettina (P.L. vol. 182, coll. 169-70); La traduzione inglese si trova in Bruno Scott James, The Letters of St. Bernard of ClairvauJ, 1953, 90-92.


12. Cf. L'articolo di J. Prawer (in ebraico) "Christianity between the Heavenly and the Earthly Jerusalem" nel volume Jerusalem through the Ages (vedi sopra, nota 4), 179-192


13. Su questo argomento cf. W.D. Davies, "Jerusalem and the Land: the Christian Tradition" in M.M. Tanenbaum and R.J.Z. Werbwlowsky (edd.), The Jerusalem Colloquium on Peligion, Peoplehood, Nation and Land (Jerusalem, 1972),115-154; cf. anche il contributo di Canon M. Warren nello stesso volume, 187 e sgg.


14. In loannis Evangelium, Tract XXXII (P.L. vol. 35, col. 1642).


15. P.G. vol. 46, col. 1013.


16. Epistle 58 (P.L. vol. 22, col. 581).


17. John Milton, ParadiseLostiii, 476-7.


18. J. Prawer, nell'articolo citato sopra, nota 12.


19. Cf. il mio articolo "Jerusalem --Metropolis of all the Lands" nel volume Jerusalem through the Ages (vedi sopra, nota 4), 172-178, e E.E. Urbach, "The Heavenly and the Earhly Jerusalem in Rabbinic Thought", ibid., 156171. L'ultimo articolo offre una bibliografia completa.


20. Cf. Lewis Mumford, The City in History (1961), 8-10 e 12-13, in particolare p. 13: "House and village, eventually the town itself, are woman writ large...


'house' or 'town' may stand as symbols for 'mother'."


21. B. Sundkler, Bantu Prophets in South Africa, 1948 (2nd, augmented ed.Oxford, 1961).


22. S. Talmon, "Die Bedeutung Jerusalem in der Bibel"

mercoledì 30 ottobre 2013

«Signore, sono pochi quelli che si salvano?». Rispose: «Sforzatevi di entrare per la porta stretta...


Il Papa che bussa per aprire il cuore


Chi stenta ad accettare Papa Francesco forse stenta ad accettare la Chiesa, così come il Signore l'ha fondata e il Papa ci aiuta a comprendere.


Takamatsu, 26 Ottobre 2013 (Zenit.org) Don Antonello Iapicca


Ascolti Papa Francesco e ti appare chiaro e compiuto il Vangelo. Ci stupisce, semina sgomento, in fondo abbiamo sempre pensato alla Chiesa come la nostra casa. Calda, accogliente, le cose in ordine, sempre allo stesso posto, e, soprattutto sicura. Allarme, cani e inferriate a presidiare quello che abbiamo costruito...
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Mercoledì della XXX settimana del Tempo Ordinario






La Porta Santa evoca il passaggio
che ogni cristiano è chiamato a compiere dal peccato alla grazia.
Gesù ha detto: «Io sono la porta»,
per indicare che nessuno può avere accesso al Padre
se non per mezzo suo.
C'è un solo accesso che spalanca l'ingresso nella vita di comunione con Dio:
questo accesso è Gesù, unica e assoluta via di salvezza.
Solo a lui si può applicare con piena verità la parola del Salmista:
«E' questa la porta del Signore, per essa entrano i giusti».
Giovanni Paolo II, Incarnationis Mysterium


Dal Vangelo secondo Luca 13,22-30.
Passava per città e villaggi, insegnando, mentre camminava verso Gerusalemme.
Un tale gli chiese: «Signore, sono pochi quelli che si salvano?». Rispose: «Sforzatevi di entrare per la porta stretta, perché molti, vi dico, cercheranno di entrarvi, ma non ci riusciranno. Quando il padrone di casa si alzerà e chiuderà la porta, rimasti fuori, comincerete a bussare alla porta, dicendo: Signore, aprici. Ma egli vi risponderà: Non vi conosco, non so di dove siete. Allora comincerete a dire: Abbiamo mangiato e bevuto in tua presenza e tu hai insegnato nelle nostre piazze. Ma egli dichiarerà: Vi dico che non so di dove siete. Allontanatevi da me voi tutti operatori d'iniquità! Là ci sarà pianto e stridore di denti quando vedrete Abramo, Isacco e Giacobbe e tutti i profeti nel regno di Dio e voi cacciati fuori. Verranno da oriente e da occidente, da settentrione e da mezzogiorno e siederanno a mensa nel regno di Dio. Ed ecco, ci sono alcuni tra gli ultimi che saranno primi e alcuni tra i primi che saranno ultimi».
Il commento
Una «porta stretta» ci separa dalla felicità. Anticamente all’interno della porta grande ve ne era una di servizio, più piccola, che veniva chiusa per ultima. Era quella che attendeva il Servo di Dio a «Gerusalemme», e ogni suo discepolo nella propria «città». Essa è un appello di Gesù alla nostra libertà: Egli «passa», e «insegnando» la dischiude dinanzi a noi chiamandoci a seguirlo sul cammino della salvezza. Viviamo in un tempo di Grazia per convertirci, perché un giorno la porta sarà «chiusa». Il «tale» del Vangelo però sembra non lasciarsi coinvolgere. Anonimo e indifferente sulla soglia della questione fondamentale dell’esistenza, è immagine di ciascuno di noi di fronte all’urgenza della chiamata di Gesù. Come quell’uomo e i rabbini del tempo, ci interessiamo della «salvezza» accademicamente, forse scandalizzati della possibilità che i pagani - la «casta» che ruba o il collega che ci fa le scarpe - si salvino con noi che crediamo di essere già «in salvo», lontani dalla loro corruzione e malvagità. Ma non siamo salvi affatto, l’indifferenza verso il drammatico appello di Gesù nasconde la paura che ci impietrisce dinanzi alla «porta stretta» dove passare per donarci ai fratelli. «Cerchiamo» di «entrare» nella comunione e nella pace con loro ma «non ci riusciamo». Il peccato ci ha fatto sperimentare la morte e, come i progenitori «scacciati» «fuori» dalla casa del «Padrone», «non abbiamo forza» di «lottare» (sforzarci) per amare.
Allora ci affrettiamo a «bussare», pregando e chiedendo consigli, ma non è la conversione. È il tentativo di giustificarci accusando Dio subdolamente opponendogli le nostre «opere». Certo Gesù ha «insegnato» nelle nostre chiese, è stato «presente» quando «abbiamo mangiato e bevuto» nelle liturgie, ma nel fondo non lo abbiamo mai accolto. Dinanzi alla «porta stretta» infatti cadono tutte le maschere e appare l’autentica matrice delle nostre «opere»: la superbia nella quale viviamo per noi stessi servendoci «iniquamente» dei fratelli. Sono opere così diverse da quelle del Figlio da renderci «irriconoscibili» al Padre; non può aprirci perché «non sa da dove veniamo», la lingua delle nostre preghiere infatti è radicalmente diversa da quella del suo Regno. Ma è ancora giorno, i fratelli sono accanto a noi e la «porta» è tenuta aperta dalla pazienza di Dio. Possiamo convertirci perché il «pianto» di oggi non ci accompagni domani e per l’eternità. La salvezza è dischiusa dinanzi a noi oltre la «porta stretta» del sepolcro del Signore. La forza dirompente della sua risurrezione ha rotolato via la pietra che ci impauriva. Il suo amore ci attira dietro a Lui nella «lotta» quotidiana per uscire dal peccato ed entrare nel Regno di Dio e sederci a «mensa» in compagnia dei Patriarchi e di tutti i peccatori salvati prima di noi. Lasciamo che il Signore tagli via quanto in noi è troppo grande e ci impedisce di passare, per scendere dai «primi» posti della superbia che ci aveva condannato, all’«ultimo» dell’umiltà dove il Signore ci aspetta per salvarci.




QUI IL COMMENTO APPROFONDITO

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martedì 29 ottobre 2013

"A che cosa è simile il regno di Dio, e a che cosa lo rassomiglierò? È simile a un granellino di senapa...


Il Papa che bussa per aprire il cuore


Chi stenta ad accettare Papa Francesco forse stenta ad accettare la Chiesa, così come il Signore l'ha fondata e il Papa ci aiuta a comprendere.


Takamatsu, 26 Ottobre 2013 (Zenit.org) Don Antonello Iapicca


Ascolti Papa Francesco e ti appare chiaro e compiuto il Vangelo. Ci stupisce, semina sgomento, in fondo abbiamo sempre pensato alla Chiesa come la nostra casa. Calda, accogliente, le cose in ordine, sempre allo stesso posto, e, soprattutto sicura. Allarme, cani e inferriate a presidiare quello che abbiamo costruito... leggi tutto

Martedì della XXX settimana del Tempo O.




Nagasaki, 17 marzo 1865. Padre Petitjean "scopre" i cristiani nascosti giapponesi.
Dopo trecento anni avevano conservato la fede.


La fede ci dà già ora qualcosa della realtà attesa,
e questa realtà presente costituisce per noi
una «prova» delle cose che ancora non si vedono.
Essa attira dentro il presente il futuro.
Il fatto che questo futuro esista, cambia il presente;
il presente viene toccato dalla realtà futura,
e così le cose future si riversano in quelle presenti
e le presenti in quelle future.
Il suo regno non è un aldilà immaginario,
posto in un futuro che non arriva mai;
il suo regno è presente là dove Egli è amato
e dove il suo amore ci raggiunge.
Benedetto XVI, Spes salvi




Lc 13,18-21

In quel tempo, Gesù diceva: "A che cosa è simile il regno di Dio, e a che cosa lo rassomiglierò? È simile a un granellino di senapa, che un uomo ha preso e gettato nell'orto; poi è cresciuto e diventato un arbusto, e gli uccelli del cielo si sono posati tra i suoi rami". E ancora: A che cosa rassomiglierò il regno di Dio? È simile al lievito che una donna ha preso e nascosto in tre staia di farina, finché sia tutta fermentata".

Il commento

La pienezza della vita è nascosta nell'insignificanza, quella da cui tutti scappiamo con terrore. Ma è proprio in ciò che scivola via invisibile che appare il Regno di Dio, come in un «seme gettato» in un campo o nel «lievito nascosto» nell’impasto è presente qualcosa di vivo e fecondo. Come è accaduto nel sepolcro dove è disceso il Signore: al di fuori era solo morte e dolore, ma al di qua della pietra risplendevano vita e gioia. Era un granello quando viene sepolto in terra, ma è un albero quando si eleva al cielo (S. Ambrogio). Gli strumenti umani, tarati sul successo, il prestigio e la visibilità, non possono rilevare le coordinate del Regno di Dio; esse infatti coincidono con il punto esatto della nostra vita dove, umiliati, fraintesi, traditi, diveniamo invisibili alla vista del radar mondano. Solo la fede sa discernere nella Croce il trono regale di Dio, sul limite oltre il quale ci attendono la disperazione, l'esaurimento, la resa riconoscere Gesù che si dona a noi. 
L'umana insignificanza definisce l'autenticità del nostro essere: come «il granellino di senapa» e il «lievito» nel buio di terra e farina diventano fecondi, così anche noi siamo spogliati di tutto per rivestirci di Cristo e vivere nell’amore per il quale siamo stati creati. «Gettati» nell’«orto» di Dio e «cresciuti» nella fede della Chiesa, siamo chiamati a distendere le nostre braccia sui «rami» della Croce per accogliere «gli uccelli del cielo», immagine biblica dei popoli pagani. La fede infatti triturata dalle avversità, diffonde il suo vigore (S. Ambrogio). «Nascosti» nell’impasto quotidiano di famiglia, scuola, ufficio, mercato, siamo inviati a «fermentare» di luce i fallimenti che prima o poi aggrediscono ogni uomo. Attraverso la nostra insignificanza redenta, nel martirio silenzioso e nascosto che ogni giorno ci attende, il Signore rinnova il suo amore per questa generazione, mostrando in noi il paradosso del Regno di Dio che la può salvare.


I martiri e i cristiani nascosti in Giappone, seme e lievito di salvezza
In Giappone la Chiesa vanta decine di migliaia di martiri. Essa ha conosciuto quasi trecento anni di solitudine, stretta da una persecuzione feroce. Nulla che lasciasse presagire un cambiamento. Non fu una settimana, un mese, un anno. Furono migliaia di giorni, e generazioni che sorgevano e tramontavano nella cappa asfissiante di una vita nascosta, nel timore delle delazioni, ogni preghiera sussurrata, le feste celebrate con gli abiti di ogni giorno: niente sacerdoti, niente sacramenti dopo il battesimo, niente chiese. Solo la propria vita dentro un'interminabile e buia catacomba. Ma il Regno di Dio era lì, nascosto, invisibile, disciolto come lievito nella storia comune di ogni giorno. Insignificanti, i kakure kiristan (cristiani nascosti) hanno vissuto aggrappati alla promessa dei missionari: “torneremo un giorno...”. La fede è stata l'unica roccia cui aggrappare la loro vita. La larghissima maggioranza di loro non hanno visto quel giorno con gli occhi della carne. Ma il regno di Dio non si è mai allontanato dal Giappone: in mezzo alle persecuzioni, nell'insignificanza e nel disprezzo, nel dissolversi quotidiano di ogni speranza umana, esso ha fecondato quella terra, ha fermentato quel popolo. In quei giorni intrisi di fede Dio era presente in loro, nascosto con loro. Nessuno poteva sapere o immaginare. Anche a Roma erano convinti che non vi fossero più cristiani in Giappone. Invece, un giorno di marzo del 1865, a Nagasaki dove aveva costruito una cappella per i commercianti stranieri, ancora vigente l'editto di persecuzione, un missionario francese è raggiunto da una notizia sconvolgente: "abbiamo lo stesso cuore!". Erano un pugno di uomini e donne, un granello di senapa, un po' di lievito. Erano i discendenti dei martiri, nascosti nella terra, nella farina, nella solitudine di ogni giorno. Ed ora erano lì, pronti a stendere ancora le braccia, ad offrire la propria vita, con lo stesso cuore di Cristo. L'insignificanza aveva partorito il senso autentico e profondo celato in essa. Molti di essi morirono martiri poco tempo dopo, testimoniando l'amore di Dio sino alla fine. Questa è la comunità cristiana, la Chiesa di Cristo: braccia distese sulla Croce della misericordia, distese verso ogni uomo, il peggiore, il più peccatore, il più perduto.


APPROFONDIMENTI







lunedì 28 ottobre 2013

lectio 1 Corinzi

Famiglie della Visitazione

S. Paolo

lectio 1 Corinzi

Lunedì 28 ottobre 20131Cor 7,8-11

 8 Ai non sposati e alle vedove dico: è cosa buona per loro rimanere come sono io; 9 ma se non sanno dominarsi, si sposino: è meglio sposarsi che bruciare.10 Agli sposati ordino, non io, ma il Signore: la moglie non si separi dal marito – 11 e qualora si separi, rimanga senza sposarsi o si riconcili con il marito – e il marito non ripudi la moglie.

COMMENTO DI GIOVANNI 

E’ bene ricordare che per il credente l’amore e la comunione d’amore tra noi è segno e celebrazione dell’amore di Dio e della nostra comunione con Lui. Da qui nascono le norme di tali legami d’amore. E qui Paolo precisa e distingue quello che viene da Dio stesso, e quella che è la sua personale esperienza spirituale.

I vers.8-9 sono appunto comunicazione e invito che egli rivolge a partire dalla sua personale vicenda di una vita consacrata all’amore e al servizio del Signore. Ed essendo l’indicazione frutto della sua esperienza interiore egli la comunica come tale, e vi unisce, al ver.9, una precisazione necessaria per non perdere, in ogni modo, il riferimento essenziale al comandamento dell’amore di Dio. E’ l’amore di Dio a guidare e a condizionare tutta la vita e l’esperienza del credente.

I vers.10-11 sono invece norma che viene dal comandamento divino: “ordino, non io, ma il Signore”. Il non separarsi anche nella difficoltà della relazione celebra in modo grande e profondo la “fedeltà” stessa di Dio, che non spezza la sua relazione d’amore con noi, anche nelle difficoltà che noi stessi arrechiamo alla relazione stessa con i nostri comportamenti, i pensieri, le devianze… Ma Paolo esamina anche l’eventualità che la difficoltà della relazione porti alla separazione. In tal caso la separazione non spezza la sostanza della relazione, che permane malgrado la separazione e resta aperta alla riconciliazione. Per questo Paolo afferma che, nell’orizzonte della presenza e del dono del Figlio di Dio, è proibito il ripudio. Ci domandiamo come e perché venga abrogata un’eventualità prevista dalla Legge divina. Per questo è utile e opportuno riprendere il testo di Matteo 19,3-12, dove si cita la prescrizione di Deuteronomio 24,1 a proposito del ripudio, e dove Gesù annuncia che ora Egli stesso ha donato ai suoi discepoli la pienezza della comunione con Dio, dono che si compie con il sacrificio d’amore della sua Pasqua, dono che celebra l’amore di Dio nella Croce di Gesù, e dunque eleva il matrimonio a celebrazione di quel sacrificio d’amore. I discepoli reagiscono dicendo che “se questa è la situazione dell’uomo riguardo alla donna, non conviene sposarsi”, e Gesù risponde che infatti “non tutti capiscono questa parola, ma solo coloro ai quali è stato concesso”. Dove non c’è tale pienezza della fede, non c’è neppure tale norma suprema di fedeltà fino alla Croce. Non si possono imporre pesi che non sia possibile portare. E che non possano essere vissuti come dono e privilegio d’amore. Persino, malgrado tutto, con speranza e con gioia.

Dio ti benedica. E tu benedicimi. Tuo. Giovanni.

Apostoli: Simone, che chiamò anche Pietro, Andrea suo fratello, Giacomo, Giovanni, Filippo, Bartolomeo, Matteo, Tommaso, Giacomo d'Alfeo, Simone soprannominato Zelota, Giuda di Giacomo e Giuda Iscariota...




Chi stenta ad accettare Papa Francesco forse stenta ad accettare la Chiesa, così come il Signore l'ha fondata e il Papa ci aiuta a comprendere.


Takamatsu, 26 Ottobre 2013 (Zenit.org) Don Antonello Iapicca


Ascolti Papa Francesco e ti appare chiaro e compiuto il Vangelo. Ci stupisce, semina sgomento, in fondo abbiamo sempre pensato alla Chiesa come la nostra casa. Calda, accogliente, le cose in ordine, sempre allo stesso posto, e, soprattutto sicura. Allarme, cani e inferriate a presidiare quello che abbiamo costruito... leggi tutto








E la cosa bella è che nel gruppo dei suoi seguaci, 
tutti, benché diversi, coesistevano insieme, 
superando le immaginabili difficoltà: 
era Gesù stesso, infatti, il motivo di coesione, 
nel quale tutti si ritrovavano uniti. 
Questo costituisce chiaramente una lezione per noi, 
spesso inclini a sottolineare le differenze 
e magari le contrapposizioni, 
dimenticando che in Gesù Cristo 
ci è data la forza per comporre le nostre conflittualità.
Il gruppo dei Dodici è la prefigurazione della Chiesa, 
nella quale devono avere spazio tutti i carismi, 
i popoli, le razze, tutte le qualità umane, 
che trovano la loro composizione e la loro unità nella comunione con Gesù.


Benedetto XVI, 11 ottobre 2006




Dal Vangelo secondo Luca 6,12-16

Avvenne che in quei giorni Gesù se ne andò sulla montagna a pregare e passò la notte in orazione.
Quando fu giorno, chiamò a sé i suoi discepoli e ne scelse dodici, ai quali diede il nome di apostoli: Simone, che chiamò anche Pietro, Andrea suo fratello, Giacomo, Giovanni, Filippo, Bartolomeo, Matteo, Tommaso, Giacomo d'Alfeo, Simone soprannominato Zelota, Giuda di Giacomo e Giuda Iscariota, che fu il traditore.


Il commento

La nostra chiamata sorge dall'aurora di Pasqua. Gesù infatti chiama i Dodici al termine di una lunga notte di preghiera, e li costituisce "apostoli". Apostoli deriva dal greco "apostello", che significa "persone inviate appositamente da un Altro". In ambiente ebraico vi era lo "schaliah", l'inviato, il procuratore nel quale era considerato presente colui che lo inviava; tutto quello che l'inviato faceva era considerato come fatto da colui che lo aveva inviato. Nel Talmud si legge: " Lo schaliah di una persona è un altro se stesso".

Gesù è l'Apostolo del Padre, l'incarnazione viva e reale, qui ed oggi, dell'amore infinito di Dio. Gesù è uscito dal segreto del Padre per entrare nella notte dei nostri peccati e della nostra morte. Nell'agone definitivo ha vinto il nostro egoismo. Il monte dove Gesù è salito a pregare è "il luogo della sua solitudine, in cui si rivolge al Padre. E' l'espressione dell'interiore ascesa al di sopra degli invischiamenti nelle cose di tutti i giorni. La vocazione dei discepoli nasce nel colloquio di Gesù con il Padre. Se vogliamo scoprire la nostra vocazione, accoglierla e portarla a maturazione, dobbiamo scoprire il monte di Gesù: la liberazione dalle cose di tutti i giorni, il contatto con il Dio vivente, dove si ascolta la voce di Gesù" (J. Ratzinger, Servitori della vostra gioia, p. 89).

Gesù nella preghiera ha ascoltato il grido sofferente dell'umanità. La notte sul monte è stato l'immergersi nella notte che ha inghiottito l'uomo di ogni generazione sopraffatto dall'inganno del demonio. Gesù, come Mosè "dentro [la tenda] rapito in alto mediante la contemplazione, si lascia fuori [della tenda] incalzare dal peso dei sofferenti" (Gregorio Magno, Regola pastorale, SCh 381, 198) sul monte che già prefigurava la Croce, si è lasciato incalzare dal dolore di ogni uomo; il peccato lo ha crocifisso e spinto nella notte della morte dalla quale è però uscito vittorioso nell'alba della risurrezione. La nostra chiamata nasce da questo mistero d'amore. I nostri nomi sono risuonati nel cuore di Cristo accanto al grido di dolore dell'umanità. Per questo il Signore ci ha raggiunti e amati così, schiavi di essere sempre e solo apostoli di noi stessi. Nella nostra notte, quella che forse stiamo vivendo ora, la Sua preghiera ci ha liberati e all'alba della risurrezione ci ha chiamati ad essere Lui per questa generazione. Famiglia, lavoro, studio, gioie e dolori, ogni momento è uno sguardo d'amore di Cristo impresso nel nostro stesso sguardo, la Sua vittoria che scaturisce dalla nostra vita per la salvezza del mondo. Il nostro nome nel Suo Nome. Noi in Lui. Apostoli di Cristo, figli del suo amore. Il nostro nome chiamato è segno di una vita consegnata al dolore dell'umanità. Tutto di noi è a servizio di questa generazione; nulla della nostra esistenza è estraneo al dolore e ai bisogni di chi ci è posto accanto, di coloro ai quali siamo inviati. Nel nostro nome risuona la voce di Gesù, e con essa ci incalza il peso dei sofferenti. Dietro ogni evento della nostra vita si nascondono i volti dei poveri, dei peccatori, degli schiavi. A loro siamo inviati, ogni istante, in ogni luogo.

"Ma dov’è Dio? Lo conosciamo e possiamo mostrarLo nuovamente all’umanità per fondare una vera pace?" (Benedetto XVI, Discorso ad Assisi, 27 ottobre 2011). Ciascuno di noi, misteriosamente, annuncia la risposta di Dio al grido di dolore del mondo, perchè la risposta è stata, è e sarà Cristo morto e risorto. In Lui non solo annunciamo, ma siamo noi stessi la risposta. Dirà Gesù di fronte alla fame delle folle: "Dategli voi stessi da mangiare". La risposta alla fame è tutta in quel "voi stessi". La sua Parola chiama all'esistenza, moltiplica e distribuisce; la sua chiamata ci ha tratti dalla morte alla vita, ha dato senso e pienezza alla nostra esistenza, e così ne ha fatto un dono per l'umanità. Possiamo dare noi stessi da mangiare perché Lui è in noi e noi ormai siamo Lui. Per questo è necessario che Dio parli lo stesso linguaggio dell'uomo, di quello concreto a cui siamo inviati. Ciò significa che, per essere una risposta autentica, credibile e comprensibile Dio ci conduce nella medesima vita, nelle medesime sofferenze dell'umanità. L'apostolo è la voce stessa di Dio, ed è sintonizzata sul dolore; ciò significa che lo condivide, che lo sperimenta in tutto, come ogni altro uomo. Per essere la risposta di Dio occorre dunque parlare la stessa lingua di chi soffre: ammalarsi, essere traditi, abbandonati, sperimentare la solitudine e l'ingiustizia, perché in tutto brilli la speranza dell'amore che ha vinto il peccato e la morte. Se moltissimi nel mondo non riescono a trovare Dio "dipende anche dai credenti con la loro immagine ridotta o anche travisata di Dio. Così la loro lotta interiore e il loro interrogarsi è anche un richiamo a noi credenti, a tutti i credenti a purificare la propria fede, affinché Dio – il vero Dio – diventi accessibile" (Benedetto XVI,Discorso ad Assisi, 27 ottobre 2011). E' questo il cammino dell'incarnazione, che depone un seme di vita eterna nella carne soggetta alla corruzione. 

Non siamo apostoli per la nostra volontà, per un desiderio, per quanto nobile sia. E' Gesù che costituì, che fece i Dodici. E' opera sua, come la nostra stessa vita è una sua opera che scaturisce dalla sua intimità con il Padre. Mette i brividi pensare al grande mistero della profonda intimità con Gesù alla quale e per la quale siamo stati chiamati. Essa giunge al punto di far di noi degli alter Christus, degli altri Cristo, condividendo con Lui vita e missione. Gesù è sceso in missione sulla terra uscendo dall'intimità con il Padre per cercare e salvare la pecora perduta. Si è consumato nell'amore che lo ha gettato all'ultimo posto, il posto più lontano dal Padre, scavalcando in una corsa a ritroso, il peccatore più grande della storia. L'ultimo posto di Gesù perché nessuno resti escluso dalla salvezza. Nell'ultimo posto di Gesù vi è il nostro ultimo posto, quello dell'apostolo, quello che ci è riservato ogni giorno. E' esattamente dove i fatti della nostra vita ci conducono che siamo inviati in missione. E' nella difficoltà sul lavoro, in famiglia, dove e con chi sia, che siamo mandati ad essere Cristo stesso, a portare la salvezza, a caricarsi dei peccati del mondo, o meglio a lasciare che Cristo li carichi sulle sue spalle che ha preso in prestito da noi. E' questa la missione, la chiamata che ci ha raggiunti, l'amore che consuma il male consumando la nostra vita, perché il mondo riceva la vita, quella vera che ci è data e che sovrabbonda in noi.

"Dodici è il numero delle tribù di Israele, ma è anche il numero delle costellazioni che scandiscono il ritmo dell'anno. Questo nuovo popolo è così votato alla conformità tra cielo e terra: sia fatta la tua volontà come in Cielo così in terra. Il cammino che qui si intraprende, decide per il cielo e per la terra e li rende conformi. I dodici, che qui sono stati chiamati, diventano per così dire le nuove costellazioni della storia, che ci indicano il cammino attraverso i secoli" (J. Ratzinger, Servitori della vostra gioia, p. 91) . Così, se la Chiesa, la comunità della quale siamo parte è la costellazione della storia che indica la salvezza e la via a Dio, la nostra esistenza è una stella, che si consuma brillando, luce purissima che brucia peccati e debolezze, il fuoco dell'amore infinito di Dio riversato in noi perchè tutto di noi sia un segno sicuro e autentico del Cielo.









domenica 27 ottobre 2013

«Due uomini salirono al tempio a pregare:...“O Dio, abbi pietà di me peccatore”


Chi stenta ad accettare Papa Francesco forse stenta ad accettare la Chiesa, così come il Signore l'ha fondata e il Papa ci aiuta a comprendere.

Takamatsu, 26 Ottobre 2013 (Zenit.org) Don Antonello Iapicca


Ascolti Papa Francesco e ti appare chiaro e compiuto il Vangelo. Ci stupisce, semina sgomento, in fondo abbiamo sempre pensato alla Chiesa come la nostra casa. Calda, accogliente, le cose in ordine, sempre allo stesso posto, e, soprattutto sicura. Allarme, cani e inferriate a presidiare quello che abbiamo costruito...leggi tutto


Basilica di S. Apolllinare. Il fariseo e il pubblicano. Mosaico

Che cosa il Fariseo abbia domandato a Dio, cercalo nelle sue parole: 
non troverai nulla. 
Salì' per pregare; non volle domandare a Dio, ma lodare se stesso. 
E’ poco non doman­dare a Dio e lodare se stesso: 
per dippiu', anche insultava chi doman­dava. 
Il pubblicano stava lontano, egli tuttavia s'avvicinava a Dio... 
poco che stesse lontano: 
neppure alzava gli occhi al cielo... 
C'e' dippiu', si batteva. il petto... 
dicendo: “Signore sii propizio a me peccatore!”. 
Ecco colui che domanda.


Sant'Agostino

Dal Vangelo secondo Luca 18, 9-14

In quel tempo, Gesù disse ancora questa parabola per alcuni che avevano l’intima presunzione di essere giusti e disprezzavano gli altri: 
«Due uomini salirono al tempio a pregare: uno era fariseo e l’altro pubblicano. 
Il fariseo, stando in piedi, pregava così tra sé: “O Dio, ti ringrazio perché non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adùlteri, e neppure come questo pubblicano. Digiuno due volte alla settimana e pago le decime di tutto quello che possiedo”. 
Il pubblicano invece, fermatosi a distanza, non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto dicendo: “O Dio, abbi pietà di me peccatore”. 
Io vi dico: questi, a differenza dell’altro, tornò a casa sua giustificato, perché chiunque si esalta sarà umiliato, chi invece si umilia sarà esaltato».


Il commento


Andare in Chiesa, frequentarla assiduamente, lustrarla e farci catechismo, anche pregarci tutti i giorni, può non voler dire nulla. Vi si può uscire esattamente come vi si è entrati. E’ quello che accade a “chi presume di essere giusto e disprezza gli altri”. Come noi che, prigionieri di un Io sconfinato che si crede “diverso”, consideriamo gli altri solo dei poveri scarti di noi stessi.


Non a caso questa società edonistica e carnale idolatra il diverso a tutti i costi, al punto che la normalità diventa l’eccezione da nascondere. Come nel Vangelo, dove il diverso, ovvero il fariseo, è in prima fila e il normale, ovvero il peccatore, se ne resta giù in fondo.
Chi si sente “diverso” si arroga sempre più diritti degli altri. Niente di nuovo, succede nelle famiglie, succede nella società con le nuove lobby “di genere”, è successo quel giorno nel Tempio. Ne è l’immagine il fariseo, di fronte a Dio come davanti a uno specchio nel quale non vedeva che se stesso travestito da dio: "stando in piedi, pregava rivolto verso se stesso", secondo il senso del greco originale. Non prega, dialoga con se stesso…
Per Sant'Agostino, il fariseo "viene biasimato come superbo e tronfio, ma non perché rendeva grazie a Dio, bensì perché desiderava - per così dire - di non ricevere da Dio nient'altro oltre a quel ch'egli era". Non desiderava nulla, non aveva nostalgia del Cielo perché lo aveva rimpicciolito confinandolo nella sua meschinità. Nel suo orgoglio sterile in cui si credeva a posto, aveva spento ogni santo desiderio. Il demonio gli aveva venduto un paradiso contraffatto e al cui centro aveva messo lui, il suo ego gonfiato. E se la misura della felicità era lui e la sua carne, anche i desideri ne venivano compressi e mutilati. Se, invece, al centro vi è Dio allora tutto ha la sua misura: si desidera un amore infinito, quello per cui siamo stati creati; un matrimonio che non finisca e dove regni la misericordia di Dio. E così per tutto.
E non avviene a noi lo stesso quando scambiamo la promessa di Dio con quello che la concupiscenza del momento reclama? Quando ci accontentiamo di noi stessi, non perché ci sentiamo amati così come siamo, ma perché ci crediamo in diritto di essere amati per quello che siamo e facciamo. E' l'inganno subdolo che ci spinge a idolatrare quello che siamo e abbiamo o vorremmo avere. Comunque finiamo con il desiderare una vita senza problemi che sazi la nostra carne affamata: un buon lavoro, qualche giorno di ferie, una bella famigliola, un paio di marmocchi e un cane da infilare nella macchina che ci piace. Un televisore al plasma e qualche gadget elettronico di ultima generazione. O un fidanzato che dia senso ai nostri giorni. 
E così, purtroppo, proprio il Tempio dove Dio ha dato convegno al suo Popolo, diviene la passerella dell'ipocrisia. Come le nostre Chiese, le comunità, e poi ovunque Dio ci ha dato appuntamento, a casa, al lavoro, a scuola. A causa dell’inganno del demonio la nostra vita diviene un’autocelebrazione no-stop, un Grande Fratello dove esibire ipocrite vanità, per colorare di virtù anche i peccati.
Il pubblicano, invece, “non osa neanche ad alzare lo sguardo”, posato sulla terra che definisce la verità su se stesso. Il testo greco suggerisce che egli non si sentiva semplicemente un peccatore, ma il peccatore. Per questo tende la mano a percuotersi il cuore dal quale sa che sgorga ogni malvagità, per spezzettarlo e farne un cuore contrito ed umiliato. 
In lui rinveniamo le sembianze del Signore Gesù: Lui non è mai rivolto verso se stesso, ma perennemente rivolto verso il seno del Padre (cfr. Gv 1,18). Sulla Croce Gesù ha gridato implorando a Lui perdono per tutti noi; è sceso all'ultimo posto, "a distanza" - e che distanza... - sino a sentire l'abbandono del Padre. Gesù si è fatto pubblicano tra i pubblicani, disprezzato da tutti, perché i superbi, tu ed io, potessimo scendere i gradini che conducono alla verità.
Lui è già nel fonte battesimale che ci attende oggi, nel buio di cui abbiamo paura, nella verità che ci può far liberi.Lo troveremo sempre là dietro, dove non te lo aspetti e non lo cercheresti: in chiesa, all’ultimo posto… hai presente l’angolo oscuro accanto alla bacheca con le riviste della buona stampa? Proprio dove si fermano quelli dell’ultima ora nell’arrivare a messa e della prima ad uscire…
E’ lì che si prega, perché è solo all’ultimo posto, l’unico che ci fa autentici, che si sperimenta la paternità di Dio. Presumere di se stessi e credersi migliori, infatti, non fa parte del DNA dei figli di Dio. Tutto il contrario. Per questo non si diventa figli senza una lunga gestazione nelle viscere materne della Chiesa che ci rigenerano a immagine di Cristo.
Nell'attitudine del pubblicano Gesù rivela il cuore del cristiano. Egli è colui che, dopo un catecumenato che lo ha aiutato a conoscersi, è giunto nell’abisso del suo nulla dove ha incontrato Cristo. Ha dato morte all’uomo vecchio illuso e superbo, per rivestire il nuovo, sino ad assumere la stessa confidenza filiale di Gesù.
Ben venga allora la Croce che pota l’arroganza e ci “umilia” dinanzi a Dio e agli uomini. Abbiamo paura vero? Non vorremmo che fossero svelate le nostre debolezze… Davanti al marito o alla moglie, qualcosa sì, che vuoi dopo tanti anni, ma proprio questa schiavitù no... Che ne sarebbe della nostra relazione? Che farebbe mia moglie se sapesse che, a cinquant’anni suonati, ancora cado attratto dalla pornografia?
Davanti ai figli, beh questo proprio no. Loro devono avere modelli sani, non genitori scassati…. E un prete, un vescovo, un papa, la prudenza invita a occultare difetti e peccati… Che stolti siamo, ancora schiavi del mondo e dei suoi criteri. Certo, nella penombra non ci si avvede che, se Cristo si è fatto peccato e ora è lì in fondo alla Chiesa, la stessa struttura del Tempio è ormai capovolta.
Il Santo dei Santi non si trova più laddove il fariseo si era inoltrato a presentare la propria pretesa giustizia, ma è disceso a “giustificare”, a perdonare e a fare giustizia del cuore contrito del pubblicano. Nella Chiesa si viene per scendere e non per salire, per sperimentare tutti a favore di tutti la stessa “giustificazione”…
E’ quello che aveva sperimentato San Paolo caduto dalla propria superbia di fariseo: “Nella debolezza si manifesta pienamente la potenza di Dio”. La preghiera di un cristiano formato è il linguaggio filiale che esprime una fede adulta: stima chiunque superiore a sé stesso. E’ il frutto del discernimento che ha su stesso e sulla storia: è la domanda di Grazia di un condannato a morte.


La Chiesa è l’ufficio del Governatore o del Presidente, di colui che, solo, può concedere la Grazia. Per ottenerla basta il pentimento sincero, un cuore che si è arreso all’evidenza. Lo abbiamo oggi? O continuiamo a venire in Chiesa per sentirci importanti e impegnati, e sciacquare le macchie in un po’ di attivismo e di preghiere ben fatte… Eh no, la Chiesa è un’altra cosa… In essa ci si converte, ovvero si rinasce a vita nuova, si entra ingiustificabili e si torna giustificati.


Come può “disprezzare gli altri” chi è rimasto con solo poche parole sulle labbra - "abbi pietà di me che sono un peccatore, merito tutto questo", come il ladrone crocifisso accanto a Gesù - prima di sedersi sulla sedia elettrica? Non può perché la sua realtà ha fatto giustizia della sua superbia. Oggi, non siamo per caso sotto la lama di una ghigliottina? Basta pochissimo perché i peccati colmino la misura e addio figli, addio matrimonio, addio lavoro. “Sono un peccatore”, e chi lo dice più? Il Papa, e si scandalizzano… 


Oggi, ora sono un peccatore, sto tradendo mia moglie, con amante o senza amante; ho ucciso mio cognato, con pensieri e lingua; ho rubato denaro con l’avarizia, affetto con le menzogne, stima con l’ipocrisia. Oggi può crollare tutto o posso tornare a casa, cioè in famiglia, nelle cose mie familiari, “giustificato”. Oggi il demonio può averla vinta o la “giustizia” della Croce può sanare e salvare. Sta a me: o mi precipito sul trono di un io inesistente, o accetto me stesso così come sono, consegnandomi all’Unico che può graziarmi.



Un grande monaco della Chiesa Orientale, Silvano del Monte Athos lo aveva compreso bene: "Tieni il tuo spirito agli inferi, e non disperare!". Il cristiano sa di camminare ogni giorno su un filo, con lo strapiombo a destra e a sinistra; non presume di se stesso e non nasconde a nessuno la propria debolezza, meno che meno a Dio. Si abbandona alla sua “pietà”, nella certezza che, istante dopo istante, laddove potrebbe abbondare il peccato e condannarsi, sovrabbonderà di certo la Grazia che lo giustificherà.