Santa Maria,

Santa Maria,
...donna del primo sguardo, donaci la grazia dello stupore.

martedì 22 ottobre 2013

ULTIMI COMMENTI ALLA LITURGIA della 30° DOMENICA DEL T.O. anno C- Resurrexit IN ITALIANO KIKO

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“O Dio, abbi pietà di me peccatore”. 




Resurrexit IN ITALIANO KIKO ARGUELLO 2013 14 @by@fiore


da Catechista 2.0
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Commento di don Fabio ROSINI al vangelo della 30° Dom. del T.O.  C 

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Casati - 27 ottobre 2013 XXX Tempo Ordinario





Sir 35,12-14.16-18
2 Tm 4,6-8.16-18
Lc 18,9-14

Parabola del fariseo e del pubblicano. Una parabola risaputa, quasi scontata. E quasi scontato sembra da che parte stiamo, dove siamo schierati: dalla parte del pubblicano, e non dalla parte del fariseo, pensiamo.
Ma è poi così vero? È così vero che in qualche misura non assomigliamo al fariseo? O non sarà vero che un po' del pubblicano e un po' del fariseo convivono dentro di noi? Diventa allora importante, per cogliere l'insegnamento della parabola, sottolineare il contesto in cui nasce e quindi dove va a parare la parabola. Il contesto è esplicito. È scritto: "Ora disse anche questa parabola per alcuni che erano persuasi di essere giusti e disprezzavano gli altri". Se il contesto è questo -la presunzione di essere giusti e il sentirsi superiori agli altri- il dubbio può essere legittimo, dico il dubbio che la parabola in qualche misura non ci riguardi, e che, di conseguenza, sia una grazia che Gesù oggi la racconti a noi. A noi che oggi siamo venuti al tempio a pregare: "Due uomini salirono al tempio a pregare". L'insegnamento della parabola, se stiamo al contesto, non è immediatamente un insegnamento sulla preghiera, ma su un atteggiamento dello spirito che innerva sì la preghiera, ma, ancor prima, innerva la vita. Scrive un biblista: "Ciò che va raddrizzato non è innanzitutto la preghiera (essa è il frutto di qualcosa che la precede), bensì il modo di concepire Dio e la salvezza, se stessi e il prossimo" (B. Maggioni, Le parabole evangeliche, pag. 241). La parabola sembra dunque insegnare che esiste una stretta, strettissima connessione, più di quanto normalmente pensiamo, tra preghiera e vita: da un modo sbagliato di concepire la vita nasce una preghiera sbagliata. Di qui la domanda: come concepisco il mio rapporto con Dio: presumo di essere giusto? Come concepisco il mio rapporto con gli altri: mi sento superiore agli altri? Da come concepisci il rapporto nasce una preghiera giusta o sbagliata. Certo, se tu stai alla fisicità delle parole, non puoi dire che le parole del fariseo, le parole della sua preghiera, o di tante nostre preghiere, siano false. Sono parole vere, dicono il vero: è vero che il fariseo è un osservante, è vero che le cose che dice le ha fatte, è vero che ha fatto anche più dello strettamente comandato: digiuna due volte, e paga la decima addirittura di tutto! Ma com'è il suo cuore nei confronti di Dio? È come se la salvezza uscisse dalle sue mani per andare a Dio: da lui a Dio. Ne è prova l'atteggiamento del corpo: "…stando ritto, pregava fra sé", come se si parlasse addosso, qualcuno traduce "rivolto a se stesso". Dice "Dio", ma è lui al centro. Un po' come facciamo noi, quando diciamo: "cosa credi, mi sono fatto con le mie mani". Se la preghiera è rimandare a Dio le nostre opere buone, è una preghiera sporca, che non ci giustifica. Al contrario il pubblicano attende dall'alto, quasi non c'è fisicamente, non attenua la sua lontananza. Il cielo lo sente così immeritato, così sproporzionato, che neanche con gli occhi osa sfiorarne il mistero. E si batte il petto, lui peccatore, e lo è, dicendo: "O Dio, sii benigno con me peccatore". E Dio fu benigno. Uscì dalla preghiera giustificato. Non presumeva della sua giustizia. E non aveva lo sguardo duro sugli altri. Ecco, potremmo dire -badate bene, è un criterio che raramente viene proposto come discernimento della preghiera- potremmo dire: dal tuo sguardo sugli altri puoi dedurre se la tua è una preghiera sporca, sprecata, che non giustifica. Se il nostro sguardo è di superiorità -"non sono come gli altri e nemmeno come questo pubblicano"-, se ci sentiamo superiori e giudici, giudici spietati, la nostra non è preghiera, anche se le celebrazioni fossero coloratissime, anche se i riti si prolungassero all'infinito. Se l'immagine che diamo come chiesa è quella di chi sta ritto come il fariseo e guarda dall'alto in basso, non c'è preghiera, non c'è giustificazione. Il criterio è: con quale tenerezza guardiamo gli altri, con quanta passione parliamo delle cose terrene. Mi ha colpito una frase di Simone Weil, folgorante per la sua profondità. Scrive: "Non è tanto da come uno parla di Dio che io riconosco se la sua anima è passata attraverso il fuoco dell'amore di Dio, quanto, piuttosto, da come egli parla della cose terrene". Non da come parliamo di Dio, ma da come parliamo e da come guardiamo le cose terrene. Le guardiamo come il fariseo o come il pubblicano? 
Fonte:sullasoglia



Manicardi 27 ottobre 2013 XXX T.O. C

 Fonte: monasterodibose
domenica 27 ottobre 2013
Anno C
Ger 38,4-6.8-10Sal 39Eb 12,1-4Lc 12,49-57


La vocazione profetica porta Geremia a incontrare opposizioni fino a essere consegnato in mano di altri uomini: il suo destino è nelle mani di altri; la sua vita o la sua morte dipendono da altri: quella verità così essenziale per cui la nostra vita è legata inscindibilmente ad altri e viviamo grazie agli altri, trova in Geremia gettato in prigione e da lì fatto risalire una attestazione drammatica e dolorosa (I lettura).
Il cammino di Gesù di obbedienza al Padre è anche cammino di salita verso Gerusalemme, verso l’immersione (“battesimo”) che lo attende e che egli riceverà quando sarà consegnato nelle mani dei peccatori che lo maltratteranno e le metteranno a morte. Gesù vive l’abbandono nelle mani di Dio conoscendo il tragico destino di chi cade in balia degli uomini e della loro malvagità (vangelo).

Annunciato dal Battista come colui che “battezzerà in Spirito santo e fuoco” (Lc 3,16), Gesù, nei giorni della sua vita terrena, sperimenta l’incompiutezza della sua missione e il caro prezzo che essa comporta. Lo Spirito che scenderà a Pentecoste immergerà i discepoli nel fuoco dello Spirito, ma questo avverrà solo dopo la sua morte e resurrezione; inoltre Gesù stesso riconosce di dover passare attraverso il fuoco dell’immersione nella morte cruenta. Perché l’incendio del Regno divampi occorre prima che egli stesso sia bruciato e consumato da tale fuoco. Venuto per narrare il Dio che è “fuoco divorante” (Dt 4,24), per suscitare la passione per il Regno, per sconvolgere le vite con il soffio impetuoso dello Spirito, per far ardere i cuori con la sua parola bruciante, Gesù incontra coloro che sanno “spegnere lo Spirito”, far tacere la profezia, mortificare la follia per il Signore.

Non c’è altra via, per lui, che ardere e consumarsi egli stesso al fuoco della sua passione per Dio e del suo desiderio di dare comunione e vita agli uomini. Egli stesso diviene fuoco: “Chi è vicino a me è vicino al fuoco, chi è lontano da me è lontano del Regno”, recita un detto di Gesù tramandato da Origene. Il fuoco dona calore e luce ma, nel mentre, consuma e divora. Da quella morte, nasce la nostra vita. Il fuoco che Gesù è venuto a portare e gettare sulla terra è passione di amore e passione di sofferenza. Del resto, chi può conoscere il segreto del fuoco se non chi se ne lascia consumare?

Per quanto enigmatiche, le parole di Gesù sul fuoco che egli è venuto a portare ricordano alla nostra stanca cristianità e alle nostre vecchie chiese che il cristianesimo è vita e fuoco, passione e desiderio, avventura e bellezza. Ha scritto il patriarca di Costantinopoli Atenagora: “Il cristianesimo è la vita in Cristo. E il Cristo non si ferma mai alla negazione, al rifiuto. Siamo noi che abbiamo caricato l’uomo di tanti fardelli! Gesù non dice mai: ‘Non fare, non si deve fare’. Il cristianesimo non è fatto di proibizioni: è vita, fuoco, creazione, illuminazione”.

La venuta di Gesù è anche giudiziale: la sua presenza sollecita una presa di posizione e una scelta e così essa può provocare divisioni: Gesù, infatti, è “segno di contraddizione” (Lc 2,34). La famiglia stessa non sarà esente da tale intervento giudiziale e dalle separazioni che esso opera (cf. Lc 12,51-53). L’urgenza del Regno porta a relativizzare anche l’istituto famigliare che viene traversato e lacerato, come da spada, dalla parola di Gesù che chiede di avere per lui un amore prioritario e di mettere al primo posto le esigenze del Regno (Lc 14,25-26).

E l’oggi storico deve essere giudicato a partire dalla novità escatologica introdotta da Gesù: il Regno di Dio si è fatto vicino. Prima ancora di riconoscere “i segni dei tempi” si tratta di riconoscere il segno del tempo, il segno che il tempo stesso è diventato da quando ha accolto l’evento dell’incarnazione. Esso è occasione di conversione, appello a conversione. Segnato dall’irruzione del Regno, ormai il tempo della storia e dell’esistenza personale di ciascuno è kairòs, momento propizio per la conversione (cf. Lc 13,1-5). È luogo di incontro possibile con il Signore che viene.

LUCIANO MANICARDI





Ronchi 27 ottobre 2013 XXX Tempo Ordinario


Il pubblicano e quel «tu» che salva




(...) «Il fariseo, stando in piedi, pregava così tra sé: “O Dio, ti ringrazio perché non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adùlteri, e neppure come questo pubblicano. Digiuno due volte alla settimana e pago le decime di tutto quello che possiedo”. Il pubblicano invece, fermatosi a distanza, non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo» (...).
Gesù, rivolgendosi a chi si sente a posto e disprezza gli altri, mostra che non si può pregare e disprezzare, adorare Dio e umiliare i suoi figli, come fa il fariseo. Pregare può diventare in questo caso perfino pericoloso: puoi tornare a casa tua con un peccato in più. Eppure il fariseo inizia la preghiera con le parole giuste: O Dio, ti ringrazio. Ma tutto ciò che segue è sbagliato: ti ringrazio di non essere come gli altri, ladri, ingiusti, adulteri. La sua preghiera non è un cuore a cuore con Dio, è un confronto e un giudizio sugli altri, tutti disonesti e immorali. L'unico che si salva è lui stesso. Come deve stare male il fariseo in un mondo così malato, dove è il male che trionfa dappertutto! Il fariseo: un buon esecutore di precetti, onesto ma infelice. Io digiuno, io pago le decime, io non sono... Il fariseo è irretito da una parola che non cessa di ripetere: io, io, io. È un Narciso allo specchio, per il quale Dio non serve a niente se non a registrare le sue performances, è solo una muta superficie su cui far rimbalzare la sua soddisfazione. Il fariseo non ha più nulla da ricevere, nulla da imparare: conosce il bene e il male e il male sono gli altri. Ha dimenticato la parola più importante del mondo: tu. Il pubblicano invece dal fondo del tempio non osava neppure alzare gli occhi, si batteva il petto e diceva: Abbi pietà di me peccatore. Due parole cambiano tutto nella sua preghiera, rendendola autentica. La prima parola è tu: Tu abbi pietà. Mentre il fariseo costruisce la sua religione attorno a quello che lui fa, il pubblicano la fonda su quello che Dio fa. L'insegnamento della parabola è chiaro: la relazione con Dio non segue logiche diverse dalle relazioni umane. Le regole sono semplici e valgono per tutti. Se metti al centro l'io, nessuna relazione funziona. Non nella coppia, non con gli amici, non con Dio. Vita e preghiera percorrono la stessa strada: la ricerca mai arresa di un tu, uomo o Dio, in cui riconoscersi, amati e amabili, capaci di incontro vero, quello che fa fiorire il nostro essere. La seconda parola è: peccatore. In essa è riassunto un intero discorso: “sono un poco di buono, è vero, ma così non sto bene, non sono contento; vorrei tanto essere diverso, ci provo, ma ancora non ce la faccio; e allora tu perdona e aiuta”. Il pubblicano tornò a casa sua giustificato, non perché più umile del fariseo (Dio non si merita, neppure con l'umiltà), ma perché si apre – come una porta che si socchiude al sole, come una vela che si inarca al vento – a un Altro più grande del suo peccato, che viene e trasforma. Si apre alla misericordia, a questa straordinaria debolezza di Dio che è la sua sola onnipotenza.
(Letture: Siracide 35,15-17.20-22Salmo 33; 2 Timoteo 4,6-8.16-18; Luca 18,9-14).

Fonte: avvenire


Bianchi 27 ottobre 2013 XXX Tempo Ordinario


XXX domenica del tempo Ordinario
27 ottobre 2013

Dal Vangelo secondo Luca (Lc 12,49-57)

Commento di Enzo Bianchi


Omelie dell XXX Domenica T.O. 27 ottobre 2013


vedova-e-giudice-disonestoMettiamo in rete le omelie delle ns. Parrocchie,
della  XXX Domenica del Tempo Ordinario -  Anno  C   -  27 ottobre 2013,
di don Giovanni Nicolini
omelia (file audio mp3 – 18′)
alla Parrocchia Dozza-Calamosco
e di don Francesco Scimè
omelia (file audio mp3 –  20′ )
alla Parrocchia Sammartini, Ronchi-Bolognina, Caselle.








1 commento:

  1. Il fariseo era rigido nel corpo e nello spirito, il pubblicano flesso nella postura corporale e nell'anima.
    Il fariseo parlava a se, il pubblicano a Dio.
    Il Dio del fariseo era interno, quello del pubblicano esterno.
    Il fariseo pensava di possedere Dio, il pubblicano no.
    Il criterio di giudizio del fariseo era se stesso, quello del pubblicano era Dio.
    Il fariseo giudicava gli altri in generale e nel particolare il pubblicano, il pubblicano esaminava se stesso.
    Il fariseo stava nei primi posti, il pubblicano negli ultimi.
    Il fariseo elencava meriti inesistenti, il pubblicano si riconosceva peccatore.
    Il fariseo si esaltava, il pubblicano si umiliava.
    Il fariseo non tornò giustificato, il pubblicano sì.
    Entrambi tornarono a casa con convinzioni errate: il fariseo di essere a posto, il pubblicano di non aver ottenuto il perdono.
    Ambedue ottengono quello che chiedono: il fariseo è confermato nella diversità rispetto al pubblicano, (qui risiede l’aspetto ricorsivo), l’esattore delle tasse è perdonato delle proprie colpe.
    Cfr. ebook. di Ravecca Massimo. Tre uomini un volto: Gesù, Leonardo e Michelangelo. Grazie.

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