Santa Maria,

Santa Maria,
...donna del primo sguardo, donaci la grazia dello stupore.

giovedì 28 febbraio 2013


Giovedì della II settimana del Tempo di Quaresima





Il Signore ci vuole condurre da un’intelligenza stolta alla vera sapienza,
ci vuole insegnare a riconoscere il vero bene.
E così, anche se ciò non si trova nel testo,
possiamo in base ai Salmi dire che il ricco epulone
già in questo mondo era un uomo dal cuore vuoto,
che nei suoi stravizi
voleva solo soffocare il vuoto che era in lui:
nell’aldilà viene solo alla luce
la verità che era ormai presente anche nell’aldiqua.


Benedetto XVI








Dal Vangelo secondo Luca 16,19-31

In quel tempo, Gesù disse ai farisei: "C'era un uomo ricco, che vestiva di porpora e di bisso e tutti i giorni banchettava lautamente. Un mendicante, di nome Lazzaro, giaceva alla sua porta, coperto di piaghe, bramoso di sfamarsi di quello che cadeva dalla mensa del ricco. Perfino i cani venivano a leccare le sue piaghe. Un giorno il povero morì e fu portato dagli angeli nel seno di Abramo. Morì anche il ricco e fu sepolto. Stando nell'inferno tra i tormenti, levò gli occhi e vide di lontano Abramo e Lazzaro accanto a lui. Allora gridando disse: Padre Abramo, abbi pietà di me e manda Lazzaro a intingere nell'acqua la punta del dito e bagnarmi la lingua, perché questa fiamma mi tortura. Ma Abramo rispose: Figlio, ricordati che hai ricevuto i tuoi beni durante la vita e Lazzaro parimenti i suoi mali; ora invece lui è consolato e tu sei in mezzo ai tormenti.
Per di più, tra noi e voi è stabilito un grande abisso: coloro che di qui vogliono passare da voi non possono, né di costì si può attraversare fino a noi. E quegli replicò: Allora, padre, ti prego di mandarlo a casa di mio padre, perché ho cinque fratelli. Li ammonisca, perché non vengano anch'essi in questo luogo di tormento. Ma Abramo rispose: Hanno Mosè e i Profeti; ascoltino loro. E lui: No, padre Abramo, ma se qualcuno dai morti andrà da loro, si ravvederanno. Abramo rispose: Se non ascoltano Mosè e i Profeti, neanche se uno risuscitasse dai morti sarebbero persuasi".


Il commento


Tutto annuncia il Signore. Ogni Parola rivela l'unico evento capace di strappare l'uomo ad un'esistenza distesa tra vizi e lussi anestetizzanti, prigioniera dell'avere e del possedere in questa vita, perché un'altra non ce n'è. Tutti i giorni uguali, per non accorgersi della morte che incombe, sicura. Come sicuri sono paradiso e inferno, occultati "novissimi" in una società spiaccicata sul parabrezza di un mondo lanciato a tutta velocità nel vuoto del non senso. Mentre appare un mendicante sulle soglie dei bagliori vuoti e transitori della vana-storia aggrappata alla vana-gloria: "Il mistero della misericordia sfonda ogni immagine umana di tranquillità o di disperazione.... Questo l'abbraccio ultimo del Mistero, contro cui l'uomo, anche il più lontano e il più perverso o il più oscurato, il più tenebroso, non può opporre niente, non può opporre obiezione: può disertarlo, ma disertando se stesso e il proprio bene. Il Mistero come misericordia resta l'ultima parola anche su tutte le brutte possibilità della storia. Per cui l'esistenza si esprime, come ultimo ideale, nella mendicanza. Il vero protagonista della storia è il mendicante: Cristo mendicante del cuore dell'uomo e il cuore dell'uomo mendicante di Cristo" (don Luigi Giussani, Testimonianza durante l'incontro del Santo Padre Giovanni Paolo II con i movimenti ecclesiali e le nuove comunità. Roma, 30 maggio 1998). Mendicare dalle proprie piaghe - le ferite del peccato, della vita e della debolezza - perché le piaghe di Cristo ci guariscano. Solo nel Vangelo, l'annuncio profetizzato da "Mosè e dai Profeti", vi sono la Vita e la salvezza; ascoltare e credere alla Buona Notizia dell'amore di Dio, piagato della passione infinita è l'unica possibilità che ci è offerta per accedere al Paradiso. Ma, purtroppo, anche se in questo istante apparisse Cristo risorto, nel mondo, e forse anche in noi, non cambierebbe nulla. Emozione, sussulti, ma il cuore rimarrebbe incapace di credere, e l'avvenimento della risurrezione resterebbe velato, e non ne saremmo persuasi. Perchè è l'ascolto della predicazione la porta che dischiude sulla fede, sulla conversione. E' il cammino di una vita, nulla si improvvisa. Il Paradiso inizia in questa terra, esattamente come l'inferno. La Pasqua eterna, come rivela l'intera Scrittura, non è un evento circoscritto ad un istante: annunciata e preparata, essa si realizza lungo l'intero arco della Storia della salvezza, sino alla pienezza dei tempi, quando il Signore, entrando nella morte, ve ne esce vittorioso. Così è anche per ciascuno di noi. La storia che ci è data è l'annuncio e la preparazione alla Pasqua ultima, attraverso la quale ci saranno dischiuse le porte del Paradiso. La stessa Quaresima è un segno che ci aiuta a comprendere con saggezza la nostra vita: esistono inferno e paradiso, li possiamo sperimentare nei quaranta giorni di questo tempo penitenziale, immagine dei quarant'anni passati da Israele nel deserto, il tempo della vita di un uomo, di ciascuno di noi in questa terra dove si presentano ogni giorno dinanzi ai nostri occhi la vita e la morte; la predicazione del Vangelo anticipa il giudizio finale offrendoci la possibilità di accogliere la Grazia nella quale scegliere la vita e procedere sicuri verso il Paradiso, prendendo su di noi la Croce che, come una chiave, ce ne dischiuderà le porte. Nel deserto della nostra esistenza il Signore ci invita ogni giorno ad ascoltare la sua voce e a non indurire il cuore; oggi, infatti, è come quell'oggi del ladrone crocifisso accanto a Gesù: dall'inferno che lo stava ghermendo, ha fissato il Signore, ha mendicato il suo perdono. Peccatore tra i peggiori, inchiodato alle conseguenze atroci dei suoi crimini, gli si era dischiusa dinanzi, ancora una volta, la via della vita e quella della morte, definitive entrambe stavolta. Proprio in quel momento drammatico nel quale si giocava il suo destino eterno, la Grazia della fede che, nonostante i suoi peccati, aveva di sicuro conservato, magari goffamente e maldestramente, per l'infinita misericordia del Padre si ravviva e gli si offre come l'estrema ancora di salvezza: aggrappandosi ad essa i suoi occhi tumefatti si schiudono nella sua luce celeste, e vedono Gesù già vittorioso nel suo Regno, ancor prima di Pietro e degli apostoli che dovranno aspettare la sera di Pasqua; così, con il fiato rimasto per esalare l'ultimo respiro, professa la sua fede riconoscendo il Signore, il Messia inviato da Dio, in quel condannato ingiustamente alla sua stessa pena, supplicandone la memoria - "ricordati di me" - di quel suo povero fratello "giustamente" giustiziato. Crocifissi dalle nostre ingiustizie, dall'inferno che stiamo assaporando oggi, siamo ancora in tempo per guardare al Signore, per indurlo a ricordarsi di noi. Il cammino al Paradiso passa per quest'oggi, e domani e ogni giorno: non v'è altro atteggiamento adeguato alla speranza del perdono e della vita eterna che quello di posare lo sguardo del cuore su Cristo crocifisso per i nostri peccati, appoggiati sulla fede nel suo amore che allarga gli orizzonti, sino ad intercettare il Cielo tra le pieghe del dolore: e mendicare, gridare, pregare, cercare il Paradiso perduto, perché "nell’aldilà viene solo alla luce la verità che era ormai presente anche nell’aldiqua" (Benedetto XVI). Fermarsi nell'inferno, mormorare e ribellarsi alle presunte ingiustizie, continuare a gonfiarsi di "porpore e bisso", i beni del mondo, nell'illusione che siano essi a riscattarci, significherebbe chiudersi orgogliosamente la porta del Paradiso. 



La povertà di Lazzaro infatti, è l'immagine che il ricco non vuole guardare, è la propria realtà cancellata e dimenticata. La pancia piena di alienazioni impedisce uno sguardo stupito e bisognoso. Bastare a se stessi, ecco l'inganno che ci impedisce d'essere felici e di gustare la beatitudine riservata ai poveri, ai Lazzaro che non hanno nulla su questa terra ma che possiedono già le primizie del "seno di Abramo". La parabola disegna le due facce della nostra vita, e le mette nel loro giusto ambito. Ciascuno di noi è, al contempo, il povero Lazzaro e il ricco epulone. Quello che nel mondo è degno di onore, la "qualità della vita" idolatrata al punto di sopprimere ogni vita "non degna di essere vissuta" come quella del povero Lazzaro, i "beni" ricevuti dal ricco sono, agli occhi di Dio, l'anticipo dell'inferno. Quello che nel mondo è disprezzato, ignobile, indegno, è, per la Sapienza della Croce, il giardino che circonda il Paradiso, primizia della vita celeste. La povertà, la debolezza, i "mali ricevuti" costituiscono la via che ci è data per entrare nel Regno dei Cieli; i "beni" invece, spengono ogni nostalgia di verità e amore, chiudono il cuore e divengono, quando idolatrati e fatti scopo della vita, un inferno che uccide senza farcene accorgere. La parola povero, nel vangelo di oggi come in quello delle beatitudini, traduce l’autodefinizione dei monaci di Qumram: «anawim ruah», i «poveri di cuore», «quelli dal cuore ferito e dallo spirito affranto» (Sal 34,19), dei quali Dio si prende cura. I poveri di Yahwé. Il termine usato da Matteo è pitokoi, da cui deriva pitocco, miserabile. A loro Gesù è inviato come Messia e Salvatore, ma non come un semplice ambasciatore latore di un messaggio; Dio ha, invece, voluto incarnare se stesso nell'estrema povertà di un Figlio crocifisso. Per raggiungerci dove siamo realmente ha assunto la nostra natura di poveri Lazzaro: è Lui che, oggi, giace alla nostra porta, sulla soglia della nostra vita mondana, orgogliosa e arrogante, ingannata e dispersa rincorrendo i beni di questo mondo. E' Gesù piagato dalle frustate che "brama di sfamarsi delle briciole che cadono dalla nostra mensa", che desidera ardentemente mangiare con noi la Pasqua raccogliendo i frammenti nei quali abbiamo lacerato la nostra vita, donataci come cibo da spezzare e donare agli altri sulla mensa della storia, e, invece, buttata via banchettando lautamente per saziare ogni concupiscenza. Gesù si è fatto Lazzaro perché potessimo riconoscere la nostra realtà, e per poter bussare al nostro cuore vestito della stessa nostra debolezza e svegliarci così dal torpore di una vita consegnata al denaro, al potere, agli affetti malati, agli idoli di questo mondo, adorati dai governi e dai condomini, dalla grande finanza come da ciascuno di noi, avari e avidi. Fuggendo dal luogo che ci appartiene, l'estrema povertà e l'infinito bisogno della creatura, ci chiudiamo irrimediabilmente alla Grazia. Convertirsi è, dunque, in questa Quaresima, prendere di peso la nostra vita, non tralasciare nessuna debolezza, nessuna fame, nessuna sete. Guardarci dentro, sino in fondo, e scoprire che è lo stesso bisogno che muove il ricco e il povero Lazzaro. La via che conduce alla morte è quella dove affannarsi per prendere tutto dalla vita, frugando tra mondo, carne e demonio, per saziarsi di fumo e precipitare nel vuoto eterno che è l'inferno. La via che conduce alla Vita invece è quella tracciata dalla fede che fissa il Cielo e il Signore risorto, accettando di essere, in questa terra, un povero mendicante che può solo tendere la mano alla misericordia di Dio. E' questo l'unico atteggiamento realistico e ragionevole per camminare nella storia alla luce della fede adulta che illumina il Paradiso nelle "piaghe" di ogni giorno: "Sazia pure dei tuoi beni il loro ventre, se ne sazino anche i figli ... Ma io per la giustizia contemplerò il tuo volto, al risveglio mi sazierò della tua presenza (Sal 17,14s). Qui si contrappongono due generi di sazietà: la sazietà dei beni materiali e il saziarsi «della tua presenza», la sazietà del cuore mediante l’incontro con l’amore infinito. «Al risveglio», ciò rimanda, in definitiva, al risveglio alla vita nuova, eterna, ma si riferisce anche a un «risveglio» più profondo già in questo mondo: il destarsi alla verità, che già fin d’ora dona all’uomo una nuova sazietà" (J. Ratzinger-Benedetto XVI, Gesù di Nazaret, Vol.I). Siamo chiamati a vivere come la donna siro-fenicia che, dal fondo dell'inferno in cui viveva per l'impossibilità di curare sua figlia, si "risveglia" alla presenza di Gesù, la Verità che illumina di speranza la sua realtà, mendica una briciola del suo amore, senza vergognarsi della sua indegnità. Così un matrimonio sarà vero e autentico nella misura in cui entrambi i coniugi vivranno nella verità della mendicanza che fa liberi, non si vergogna della propria fragilità che spinge senza posa al soddisfacimento delle concupiscenze, ma la consegna con audacia, fede e speranza alla Carità infinita di Dio. Così ogni relazione, così il lavoro e lo studio, ogni vicenda vissuta come Lazzaro, mendicando l'amore che perdona, sana e innalza alla destra del Padre: 






APPROFONDIMENTI




Joseph Ratzinger-Benedetto XVI. La parabola del ricco epulone e del povero Lazzaro. Da "Gesù di Nazaret"

Mons. Caffarra. Omelia sulla parabola del ricco epulone e il povero Lazzaro

S. Agostino sulla Parabola del ricco epulone e del povero Lazzaro

Catechismo Maggiore Parte quinta Dei Novissimi e di altri mezzi principali per evitare il peccato

I Novissimi. Somma Teologica

Gregorio Magno, Omelia per la III domenica di Quaresima

mercoledì 27 febbraio 2013








Ricordiamoci spesso di Gesù Cristo,
perché il cristianesimo è l’annuncio che Dio si è fatto uomo
e soltanto vivendo il più possibile i nostri rapporti con Cristo
noi “rischiamo” di fare come Lui.


Don Giussani


Dal Vangelo secondo Matteo 20,17-28

In quel tempo, mentre saliva a Gerusalemme, Gesù prese in disparte i Dodici e lungo la via disse loro: “Ecco, noi stiamo salendo a Gerusalemme e il Figlio dell’uomo sarà consegnato ai sommi sacerdoti e agli scribi, che lo condanneranno a morte e lo consegneranno ai pagani perché sia schernito e flagellato e crocifisso; ma il terzo giorno risusciterà”.
Allora gli si avvicinò la madre dei figli di Zebedeo con i suoi figli, e si prostrò per chiedergli qualcosa. Egli le disse: “Che cosa vuoi?”. Gli rispose: “Di’ che questi miei figli siedano uno alla tua destra e uno alla tua sinistra nel tuo regno”. Rispose Gesù: “Voi non sapete quello che chiedete. Potete bere il calice che io sto per bere?”.
Gli dicono: “Lo possiamo”. Ed egli soggiunse: “Il mio calice lo berrete; però non sta a me concedere che vi sediate alla mia destra o alla mia sinistra, ma è per coloro per i quali è stato preparato dal Padre mio”.
Gli altri dieci, udito questo, si sdegnarono con i due fratelli; ma Gesù, chiamatili a sé, disse: “I capi delle nazioni, voi lo sapete, dominano su di esse e i grandi esercitano su di esse il potere. Non così dovrà essere tra voi; ma colui che vorrà diventare grande tra voi, si farà vostro servo, e colui che vorrà essere il primo tra voi, si farà vostro schiavo; appunto come il Figlio dell’uomo, che non è venuto per essere servito, ma per servire e dare la sua vita in riscatto per molti”.



Il commento



“C’è però una ferita nel cuore, per cui nell’uomo qualcosa si distorce ed egli non riesce con le sue sole forze a permanere nel vero, ma fissa l’attenzione in cose particolari e limitate. Il disegno originario, ciò per cui l’uomo è creato, è stato alterato dall’uso arbitrario della libertà; gli uomini tendono così ad un particolare che, sganciato dal tutto, viene identificato con lo scopo della vita… Uscire da questa parzialità non è nelle nostre mani: nessuno di noi riesce da solo a riportarsi ad uno sguardo vero sul reale” (L. Giussani, Generare tracce). Chiamati a libertà sperimentiamo d’essere schiavi di noi stessi, come "obbligati" alla parzialità delle nostre idee, dei nostri giudizi, dei nostri pensieri, dei nostri progetti, delle ore, dei minuti, delle parole, delle “nostre” cose, come stretti dalle catene della carne soggiogata alla morte. Siamo schiavi del peccato, la “ferita” che ci obbliga a fissare lo sguardo sull’angusto orizzonte che a malapena riescono ad abbracciare due poveri occhi spenti. In noi è vergato un disegno originario, di amore e donazione, ma non possiamo realizzarlo. Sbattiamo contro un muro e, alla fine, i limiti che ci racchiudono si trasformano in regole di giustizia, confini ben limitati del dovuto e del buono. Andare oltre? Impossibile. La carne rende impotente ogni tentativo di varcare il limite, al di là del quale vi “è” l’altro; oltre il perimetro di sicurezza del nostro egoismo c’è il baratro, la buia morte, ed essa è inaccettabile. Viviamo imprigionati in un desiderio strozzato che si fa sentire, pungente, nell’ansia di primeggiare, d’essere sempre in prima fila, e far breccia nei cuori altrui, e potere, e prestigio, e denaro. Così, ad esempio, anche la sessualità, tra adolescenti, tra fidanzati, tra chi è sposato, è usata per soddisfare se stessi; nessun sacrificio, nessuna rinuncia. E' impossibile, le membra e le menti sono come annegate nel fiume dell'autorealizzazione. Siamo tutti così: ogni giorno, come una risacca, riemerge in noi il medesimo desiderio, la solita concupiscenza: alla destra e alla sinistra del potere, finalmente strappati alla precarietà d’una vita grigia spesa a eternizzare la morte della routine. Mentre però la vita ogni giorno ci porta "a Gerusalemme", e la storia ci presenta un "calice" attraverso le difficoltà, i problemi e i fallimenti. Bere a quel calice è la via alla realizzazione del destino segnato in ciascuna nostra cellula. Uscire dalla parzialità d’una vita inginocchiata davanti agli idoli del mondo non è nelle nostre mani. Per questo ci viene porto un calice, quello di Gesù, il segno della sua passione d’amore inchiodata al legno della Croce con cui si dona a noi per unirci a Lui; in ogni eucarestia, in ogni evento della nostra vita, il suo sangue versato per noi, la sua vita offerta per il nostro riscatto ci raggiunge proprio attraverso quanto ci umilia e ci strappa dall'alienazione dell'egoismo e della superbia. Bere il suo calice significa, infatti, partecipare della Nuova Alleanza, attingere alla Coppa che chiude, come un sigillo, il Seder della notte di pasqua, per uscire risorti dalla morte e donarsi all'altro; bere al calice di Cristo per gustare, misteriosamente, proprio al culmine del dolore che costituisce l'amore, la libertà che si fa pienezza, anticipo della terra, gioia e felicità, pace e dolcezza che la carne, pur riuscendo per ipotesi a realizzare ogni suo desiderio, non è capace di raggiungere e sperimentare. Il suo calice è ripieno di Vino buono, quello che scaturisce miracolosamente dall'acqua della nostra debolezza, il migliore, quello del Regno, della Vita Nuova, dell’eterno amore che vince la morte. Sì, nel calice della croce è celata la vita, la nostra libertà, l'unguento capace di guarire le nostre ferite. Berne è la salvezza, che ci fa liberi dal peccato e dalla morte che segnano il limite di ogni nostra esistenza. 

Liberi in Lui siamo così riconsegnati al nostro vero destino, che è amare e dare la vita. Servi e schiavi, senza difendere nulla perché tutto ci è donato. "Graziati", senza alcun merito, per il puro amore di Cristo riversato in noi per amare. Lavoro, amici, fidanzati, genitori, figli, studio, sport, diverimenti, riposo, sessualità, tutto è così trasfigurato in una luce d'amore, di dono, di pace. Assaporiamo allora la vera beatitudine, essere servi e schiavi. E lì, all'ultimo posto che la storia ci dona, dietro a tutti, alla moglie, al marito, ai fratelli, al figlio, al collega, l'orizzonte si allarga non più rinchiuso nella parzialità del particolare, quella di chi fa di se stesso il centro dell'universo, e diveniamo "i primi", coloro cioè che, come "primizie"gustano le delizie del Cielo, per annunciarle e testimoniarle a ogni uomo schiavo della carne e della terra. L'ultimo posto, infatti, è l'unico che compie il naturale desiderio di essere i primi: primi come il Primogenito, guardando tutto dal basso verso l'alto, capovolgendo criteri e gerarchie, nella follia di un conteggio che fa saltare la matematica dell'orgoglio. E' il paradosso divino al quale siamo chiamati: il Padre "celeste" guarda tutto dall'alto abbracciando il senso pieno di ogni esistenza, dal concepimento alla morte, dove ogni particolare è incastonato nel suo progetto totale, proprio perché, nel suo Figlio, ha deposto lo sguardo sull'ultimo posto della terra, il più distante dal Cielo. In esso, infatti, si comincia a contare dall'ultimo posto, quello del suo Re e Signore: così "tra di voi" nella Chiesa, nelle famiglie cristiane, ovunque vi sia un fratello del Primo tra i risorti dalla morte. La carne nostra madre naturale ci spinge a primeggiare secondo i suoi criteri, quelli meschini e parziali della terra: come "la madre dei figli di Zebedeo", che cerca per loro i primi posti nel Regno di Gesù, incapace di comprendere che esso si realizza attraverso il rifiuto e la Passione del suo Re. Per questo, figli concepiti da nostra madre nel peccato originale e da questo feriti, siamo spesso sintonizzati su tutt'altro canale, e all'annuncio della Croce "non sappiamo cosa chiedere" e possiamo solo rispondere con le esigenze dettate dalla carne che rifiuta ogni sofferenza; crediamo di poter bere al calice di Gesù pregustando il suo trionfo, ma sorvoliamo sul cammino del Golgota che ad esso conduce. Ci "sdegniamo" delle pretese altrui, ma siamo schiavi della carne come loro, mossi dagli stessi appetiti di grandezza e potere, come accadde ai "due fratelli" (due fratelli come i figli di Zebedeo) che si presentarono a Gesù perchè giudicasse sulla questione della loro eredità, entrambi convinti che la vita dipenda dai beni, e preda della stessa cupidigia, l'uno per aver rubato al fratello e l'altro per averlo denunciato. Eppure, nonostante l'incipienza della carne, il Signore "ci chiama a sé" e ci annuncia che "berremo al suo calice", anche se non ci è rivelato "il posto" che ci sarà assegnato nel futuro celeste che ci attende: nel Regno dei Cieli la carne non saprà distinguere un posto da un altro, perché "Cristo sarà tutto in tutti", e tutti sazierà del suo amore incorruttibile. Per questo, sulla terra, l'ultimo posto, quello che ha preso il Signore, ci ammaestra e prepara a quello che occuperemo in Cielo: dove siamo con Cristo è già il Paradiso, i prati d'erba fresca dove non manchiamo di nulla e dove diveniamo i "più grandi"; è quanto domandiamo nel Padre Nostro implorando che sia fatta la volontà di Dio "come in Cielo così in terra": essa, infatti, è l'unico nostro autentico riposo, e si compie sempre occupando ovunque l'ultimo posto. Rinati nelle acque di misericordia del seno della Chiesa, nostra madre spirituale, siamo condotti, giorno dopo giorno, a seguire l'Ultimo tra gli ultimi, e i suoi passi che "si avviano a Gerusalemme": "Lo scaturire del sangue di Cristo è la sorgente della vita della Chiesa. San Giovanni vede nell’acqua e nel sangue che sgorgano dal corpo di nostro Signore la sorgente di quella vita divina che è donata dallo Spirito Santo e ci viene comunicata nei sacramenti" (Benedetto XVI). Per questo la Chiesa è la comunità che ci accompagna "lungo la via" e ci insegna a vivere secondo lo Spirito che ci fa discernere nel prossimo la Gerusalemme preparata per noi, il Golgota dove stendere le braccia in un amore senza confini: "Il dono totale di sé offerto da Cristo sulla croce sia per voi principio, stimolo e forza per una fede che opera nella carità. La vostra missione nella Chiesa e nel mondo sia sempre e solo «in Cristo», risponda alla sua logica e non a quella del mondo, sia illuminata dalla fede e animata dalla carità che provengono a noi dalla Croce gloriosa del Signore" (Benedetto XVI). Dietro, all'ultimo posto, crocifissi con Cristo, per afferrare le esigenze e i bisogni di tutti, diluendo il proprio io nei desideri altrui, non per compromesso o paura, come oggi il mondo ci induce a fare, evaporando personalità e unicità. Ultimi, invece, per amore, perché l'unica e autentica realizzazione della persona creata da Dio è vivere nell'altro, dimenticando se stessi. Riscattati, apparteniamo ormai a Cristo, per appartenere ad ogni uomo, amico o nemico. Niente dominio, niente potere, in Lui la nostra vita diviene una sinfonia d'amore inesausto, sino al Cielo.



APPROFONDIMENTI










martedì 26 febbraio 2013

Ultimo Messaggio da Medjugorje

Dato a Marija Pavlovic, il 25 Febbraio 2013
Messaggio del 25 Febbraio 2013
Foto di Salvo Ariano 

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Isacco benedice Giacobbe (Chagall)


Vorrei dire a tutte le anime quali sorgenti di forza, 
di pace e anche di felicità
troverebbero se provassero a vivere in questa intimità con Dio.

Beata Elisabetta della Trinità







Mt 23,1-12

In quel tempo, Gesù si rivolse alla folla e ai suoi discepoli dicendo: “Sulla cattedra di Mosè si sono seduti gli scribi e i farisei. Quanto vi dicono, fatelo e osservatelo, ma non fate secondo le loro opere, perché dicono e non fanno.
Legano infatti pesanti fardelli e li impongono sulle spalle della gente, ma loro non vogliono muoverli neppure con un dito. Tutte le loro opere le fanno per essere ammirati dagli uomini: allargano i loro filatteri e allungano le frange; amano posti d’onore nei conviti, i primi seggi nelle sinagoghe e i saluti nelle piazze, come anche sentirsi chiamare ‘‘rabbì’’ dalla gente. Ma voi non fatevi chiamare ‘‘rabbì’’, perché uno solo è il vostro maestro e voi siete tutti fratelli. E non chiamate nessuno ‘‘padre’’ sulla terra, perché uno solo è il Padre vostro, quello del cielo. E non fatevi chiamare ‘‘maestri’’, perché uno solo è il vostro Maestro, il Cristo. Il più grande tra voi sia vostro servo; chi invece si innalzerà sarà abbassato e chi si abbasserà sarà innalzato”.

Il commento

Viviamo dissipati tra mille rivoli, impegni, affetti, hobby, parole, oggetti, e non abbiamo tempo per l'intimità. Cerchiamo fuori di noi quello che potremmo trovare dentro. Ogni uomo è "fugitivus cordis sui", si allontana dal suo proprio cuore (S. Agostino, Enarratio in psalmum 57,1). Come Esaù, che ha perduto primogenitura e benedizione paterna, disprezzate scappando da se stesso e dalla sua realtà. "Uomo della campagna", girovagava fuori dalla tenda, smarrendo per via l'intimità con suo padre. Certo, lo rallegrava con la sua cacciagione, ma vi era qualcosa di più importante che correre dietro alle prede per soddisfare suo padre. Giacobbe "uomo tranquillo e semplice, che viveva nelle tende" (Gen. 25,27), lo aveva compreso e per questo avrà in eredità la benedizione e la primogenitura. Ohel, la tenda, è anche sinonimo di una Beth Midrash; questa è una sala di studio (letteralmente una "Casa di Interpretazione" o "Casa di Apprendimento"), è differente dalla sinagoga, anche se molte sinagoghe vengono usate anche come batei midrash o viceversa. Rashi (Rabbi Shlomo Yitzhaqi, uno dei più famosi commentatori della Scrittura del medioevo), commentando la vicenda di Giacobbe, spiega come egli stesse nelle "tende di Shem e Eber" nelle quali studiava la Torah. La tenda dell'intimità con la Parola, dove gustare la beatitudine annunciata dal Salmo 1: Beato l’uomo che non entra nel consiglio dei malvagi, non resta nella via dei peccatori e non siede in compagnia degli arroganti, Ma nella Torah del Signore trova la sua gioia, la sua Torah medita giorno e notte. È come albero piantato lungo corsi d’acqua, che dà frutto a suo tempo: le sue foglie non appassiscono e tutto quello che fa, riesce bene. La beatitudine dell'intimità con Dio si realizza attraverso la "ruminatio", la meditazione assidua della sua Parola. In ebraico, meditare - hagah significa "mormorare", sussurrare. E' il linguaggio dell'amore! Il ripetere, senza sosta, le parole che raccontano quello che il cuore sta vivendo; l'amore condensato in poche, essenziali, parole, o meglio, in una Parola, l'unica che salva. Il Nome dell'Amato che sgorga dal cuore come da una fonte limpida che tutto purifica e rende bello, e santo. Come la Vergine Maria, che meditava parole e avvenimenti serbandoli come un tesoro nel fondo del cuore. L'intimità che mancava agli scribi e ai farisei. Gesù li riproverò, ammonendoli sul fatto che erano intenti a pulire solo l'esterno del bicchiere, lasciando all'interno, nel cuore, furti e rapine. Allargavano i filatteri pervertendone la funzione a proprio uso e consumo; questi infatti erano "custodie" cubiche di cuoio contenenti piccoli rotoli di pergamena che recavano scritti alcuni passi della Torah, fissate con cinghie alla parte superiore del braccio e alla fronte, segno di amore per la Parola. Filatterio significa "luogo in cui si conserva": costituivano una sorta di piccola Beth Midrash, la tenda dove Giacobbe aveva appreso la Torah, il luogo dell'intimità che si faceva memoria incessante, il segno di una relazione speciale ed esclusiva, la fedeltà alla Parola "conservata", appresa, interpretata e meditata nel cuore. I farisei invece ne avevano fatto il tabernacolo della loro ipocrisia: dal servizio alla Parola alla Parola assunta a proprio servizio. Tutto compiuto per essere ammirati dagli uomini. Le preghiere, i filatteri, le frange del Tallid, ridotti ad oggetti esposti nella vetrine del proprio ego; e poi la ricerca dei saluti, e i primi posti, e l'usurpazione della Cattedra di Mosè, la cui autorità costituiva la matrice di ogni altra autorità sul Popolo. Scribi e farisei affermavano di parlare in nome di Mosè, colui che aveva ricevuto la Torah direttamente da Dio. I rabbini del dopo esilio avevano codificato la Toràh in una serie sconfinata di 613 precetti da osservare per essere un buon giudeo. Al tempo di Gesù l’osservanza di tutti i precetti della Torah erano considerati un giogo pesante da portare: i precetti erano suddivisi in due parti: 248 positivi corrispondenti al numero delle membra del corpo umano e 365 negativi, uno per ogni giorno dell’anno solare. La Toràh deve essere osservata con tutta la persona (248 ossa) e questo impegno deve durare tutto l’anno (365 giorni). Quando un non ebreo chiedeva di convertirsi all’ebraismo gli si spiegava come fosse duro portare il giogo della Toràh per scoraggiarlo (Talmud, Berakot 30b). La Parola di libertà, l'amore rivelato sul Sinai era diventato un fardello caricato sul Popolo e che, nonostante l'ostentata osservanza, i farisei e gli scribi neanche sfioravano. Perchè il loro cuore era lontano da Dio. Pretendevano per sé e per i loro precetti l'autorità di Mosè, ma non avevano che il moralismo cieco della propria carne. La loro religiosità era come le battute di caccia di Esaù, goffi tentativi di comprarsi la benevolenza di Dio. Amavano invece la gloria degli uomini, di essa si cibavano, non importava loro la Gloria di Dio, che abita in un cuore umiliato e affranto.

Come noi, pronti ad azzannare ogni Grazia, a convertire tutto in legge, ad usare tutto e tutti per soddisfare i nostri desideri, concupiscenze, bisogni ed esigenze. Quante preghiere ostentate, quanta affettata umiltà, disponibilità, mitezza per carpire benevolenza, stima, prestigio. Negli affari religiosi, come negli affari "profani". Seduti sulla cattedra di Mosè, pretendiamo di dare disposizioni a destra e a manca. Cerchiamo posti d'onore, ci piace farci chiamare con titoli altisonanti, anche le parvenze d'umiltà sono, spesso, simulacri dell'orgoglio che ci divora. Ma il Signore ci chiama oggi nella sua tenda, nella Beth Midrash della sua intimità. Ad inginocchiarci ai piedi dell'unico Maestro, come Maria, ed ascoltare e apprendere a vivere dell'unica cosa di cui abbiamo bisogno, la sua Parola di misericordia. A restare nella sua intimità ai piedi della Croce, l'autentica cattedra di Mosè sulla quale è seduto il Maestro crocifisso. A ruminare, istante dopo istante, la verità e la bellezza di questo suo amore trafitto, inchiodato ai passi della nostra storia: a contemplare, meditare, vivere, nell'intimità con Lui, il suo amore pronto ad offrirsi in noi per il marito, la moglie, i figli, i colleghi, persino ai nemici. Nella tenda, immagine della Chiesa, della comunità concreta nella quale la Provvidenza ci ha posti, possiamo sperimentare l'assurdo, l'illogico, lo scandalo di un Dio che si inginocchia dinanzi a me e a te per lavarci i piedi, per perdonarci e purificare ogni passo deposto sui sentieri del male. E' ora dinanzi a noi, è Dio ed è nostro servo. E' l'unico Maestro, il solo Rabbì proprio perchè mite e umile di cuore, dal quale imparare l'arte dell'amore, dell'autentico servizio, nascosto e semplice, come una nuova natura che assorbe e compie la natura incapace di donarsi. E' Maestro perchè ascolta il profondo del cuore di ciascun cuore, accogliendo e comprendendone i desideri più profondi, gli stessi deposti da suo Padre. Maestro capace di insegnare con l'autorità di chi conosce, e per questo ha misericordia, essendo stato provato in tutto come ciascun discepolo; Rabbì ai cui piedi sedersi nella certezza di essere esauditi, secondo la pienezza della volontà di Dio. In Lui ogni maestro sulla terra, ogni vescovo, presbitero, educatore, può attingere lo Spirito e i suoi sette doni, quello effuso dalla cattedra della Croce: solo in essa ogni insegnamento si fa autentico, purificato nel crogiuolo dell'amore, raffinato nel fuoco della gratuità. Nella Beth Midrash che è la Chiesa, lasciarsi afferrare dal suo sguardo che ci rivela l'unico Padre, dal quale ha origine ogni paternità sulla terra. Imparare ad abbandonarsi ad Abbà, all'unico Papà che ci fa padri nel Padre, perchè figli nel Figlio; padri come Abramo, annunciatori e fedeli trasmettitori della fede e per questo patriarchi di una moltitudine immensa. Imparare a non farsi padri per mezzo della carne ma dell'autentica paternità, quella della misericordia celeste, nella quale essere figli obbedienti per generare, nella fede, figli obbedienti alla stessa volontà di Dio. In Lui infatti nasce e da Lui scaturisce ogni autorità; come quella di Mosè, la cui cattedra era sempre rivolta alle parole del Padre, nell'intimità della montagna, la preghiera assidua dalla quale "discendere" per annunciare, con zelo e parresia, l'unica verità capace di generare figli liberi e pronti a donarsi. E' Gesù che ha compiuto la Torah con tutto il suo corpo, con tutta la sua mente, con tutto il suo cuore, ogni giorno della storia, ruminando giorno e notte la Parola del Padre. E' Lui che ci dona la Torah come un giogo leggero, la Parola da sussurrare in un dialogo d'amore che schiude ad una vita santa. E' Lui che, con la Croce, ha riaperto la porta dell'intimità con il Padre. Nell'intimità crocifissa con Lui nella storia di ogni giorno, uniti a Lui sull'albero che dà frutto a suo tempo e che non secca mai, possiamo vivere la beatitudine per la quale siamo nati, quella del Servo che ha consegnato la propria vita per amore, l'opera autentica e riuscita pronta ad incarnarsi e compiersi in ciascuno di noi.




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lunedì 25 febbraio 2013





Un Cristianesimo di carità senza verità 
può venire facilmente scambiato per una riserva di buoni sentimenti, 
utili per la convivenza sociale, ma marginali. 
In questo modo non ci sarebbe più 
un vero e proprio posto per Dio nel mondo. 
La carità eccede la giustizia, perché amare è donare, 
offrire del “mio” all'altro; 
la carità supera la giustizia e la completa nella logica del dono e del perdono. 


Benedetto XVI, Caritas in veritate



Dal Vangelo secondo Luca 6, 36-38 

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Siate misericordiosi, come è misericordioso il Padre vostro. Non giudicate e non sarete giudicati; non condannate e non sarete condannati; perdonate e vi sarà perdonato; date e vi sarà dato; una buona misura, pigiata, scossa e traboccante vi sarà versata nel grembo, perché con la misura con cui misurate, sarà misurato a voi in cambio».

Il commento

Non esiste unità di misura per l'amore di Dio. Mentre noi, invece, quante volte misuriamo il tempo speso per gli altri, il perdono offerto, la quantità di vita consegnata? Sì, perchè in fondo, quel che facciamo è prestare e mai donare. Per chi dona, infatti, le misure non contano. Il dono non conosce calcoli. Quando nel cuore si comincia a tenere una segreta contabilità, una partita di dare e avere, è segno che il Cielo è ormai chiuso, e la vita dei figli è divenuta vita di orfani. Come nella parabola del figliol prodigo, che esige dal padre di conteggiare la parte che gli spetta per spendersela in libertà e autonomia. E' proprio questo il primo passo verso la rovina: aver obbligato suo padre a misurare ciò che non ha misura; ed è esattamente quello che, malmostosamente, ha fatto anche il figlio maggiore, quando, preda della gelosia, si è messo a calcolare l'incalcolabile amore del padre. Entrambi non avevano compreso che il tranello antico, quello posto dal demonio ad Adamo ed Eva, era proprio quello di misurare l'eredità, che, da infinita, si trasforma così in qualcosa di finito, esauribile, invidiabile, oggetto di gelosie, avarizia e concupiscenza, di difesa strenua a costo di uccidere l'altro con giudizi e condanne: misurare l'amore del Padre conduce sempre a rinchiuderlo nello spazio angusto della carne, dell'umano, e farlo decadere dall'agape all'eros. E' questo, in definitiva, il frutto mortale del peccato, voler accaparrarsi della Grazia, del dono, e ritrovarsi così padroni del nulla, schiavi delle passioni, sempre a corto di pazienza e misericordia, privati di quell'eccedenza d'amore, di quell'amore smisurato che, solo, può dare compimento alla vita. Senza l'agape, i matrimoni restano senza vino, e fanno acqua, incapaci di sopportare l'urto della carne. Senza l'eccedere della carità, le amicizie evaporano, i fidanzamenti si piegano ai compromessi, le relazioni tra genitori e figli divengono campi di battaglia. Nell'episodio della moltiplicazione dei pani, di fronte alla folla affamata e stanca, chiedendo "quanti pani avessero", il Signore metteva alla prova il cuore dei discepoli, come oggi quello di ciascuno di noi. Una folla di persone che ci cercano per essere sfamate, la moglie o il marito al bordo della depressione, un figlio ribelle, una suocera che ha smarrito la pazienza, un collega geloso, un fidanzato in crisi, di fronte a quello che ci presenta la storia ferita dal peccato, possiamo davvero misurare quello che abbiamo tra le mani? "Che cos'è questo nulla per sfamare tanta gente, per vivere in pienezza e secondo la volontà d'amore del Padre?". Misuriamo, come i discepoli, e ci ritroviamo con cinque pani e due pesci, nulla di fronte all'eccezionalità della necessità. Perchè ogni situazione che siamo chiamati a vivere è eccezionale e necessita un amore smisurato, che, come il Nilo, tracimi dal letto abituale, quello dell'ordinaria amministrazione dei compromessi ipocriti e impauriti, per fecondare e donare la vita. Il peccato ha ferito la storia, per viverla da figli di Dio è necessario un amore che lo abbia vinto. Occorre un amore senza misura per custodire la castità nel fidanzamento, che superi la passione e il sentimento, per rispettare e custodire l'altro nella purezza di un figlio di Dio, attendendo con pazienza di vedere confermata la volontà di Dio nel matrimonio; è necessario un amore che trascenda ogni calcolo per aprirsi alla vita e vivere la sessualità coniugale abbandonati alla volontà di Dio; un amore più forte della vanità femminile e le nevrosi sulla linea del corpo, delle angosce per la precarietà economica, un amore che abbracci la vita consegnandola al suo Autore, affidandola a Colui che la rende eterna, superando i confini della carne; occorre un amore infinito per donarlo ai nemici che ci fanno mobbing sul lavoro, che ci imbrogliano al condomino, che sparlano di noi tra gli amici.

Il Vangelo di oggi ci chiama ad abbandonare ogni tentazione di misurare l'amore di Dio, a convertirci, a tornare nella casa del Padre per vivere delle sue cose, il suo "tutto" che è anche il nostro, attingendo senza timore alla fonte inesauribile del suo amore. Il Signore ci chiama a stringerci a Lui, che non ha contato i nostri peccati, e che, senza misura, ci ha amato di un amore incorruttibile. Gesù ci guarda oggi e ci chiede il nulla che abbiamo per trasformarlo in un folle e smisurato amore; il "Manikos eros", come diceva Casabilas, capace di eccedere e condurci in una vita nuova, quella dei figli, somiglianti al Padre, allevati nella sua misericordia per essere pura misericordia per ogni nostro prossimo. Chi vive nascosto nel seno del Padre e si nutre, istante dopo istante, del suo perdono, chi sperimenta, quotidianamente, il suo amore incalcolabile, ha smarrito il giudizio, il suo cuore è ormai intento a succhiare il latte della misericordia e non può preoccuparsi di condannare e pensar male degli altri; la sua vita scorre come quella di un bambino nel seno di sua madre (misericordia traduce il greco oiktirmon che a sua volta traduce l'ebraico rahamin, che indica il ventre, l'utero), immerso nel liquido amiotico senza il quale non si può essere gestati alla vita celeste, perché la misericordia di Dio è l'acqua della vita. I suoi occhi sono intrisi nello sguardo del Signore, non sanno guardare nessuno se non attraverso gli occhi di Dio. E non può amare che con il cuore di Dio, senza timore, perchè il proprio cuore è già nel Cielo e nessuno potrà mai trafugare ciò che non si si può misurare e non si esaurisce. Un amore donato nella carne delle proprie ore, spese gratuitamente, senza difendere nulla, senza invidia e gelosia perchè Dio è lo stesso e ama tutti con lo stesso cuore. Israele conosceva l'attenzione al forestiero perchè ne aveva fatta l'amara esperienza in Egitto e aveva visto e assaporato la vittoria del braccio di Yahwè disteso a liberarlo. Così l'uomo creato per amare e perdonare, straniero in una terra d'odio e rancore, liberato gratuitamente dalla tirannide dell'oppressore, conoscerà per esperienza l'angustia di chi è ancora straniero in una terra non sua, lontano dal Paradiso promesso. Saprà perdonare chi non sa perdonare. Non si tratta di sforzarsi di non giudicare, di non condannare, di allargare la misura del proprio cuore. E' opera impossibile all'uomo. Si tratta, invece, di conoscersi, di avere chiaro l'abisso del proprio cuore, e in esso incontrare l'infinita misericordia del Padre. Chi vive ai piedi dell'amore è trasformato a poco a poco in amore misericordioso, capace di giustificare, senza misura. Dal suo grembo, dalle sue viscere, nascerà solo misericordia, in misura traboccante, incalcolabile, la stessa nella quale è rinato, gratuitamente.

sabato 23 febbraio 2013

II Domenica del Tempo di Quaresima (Anno C)






Proprio nello spaventoso incontro con la gloria di Dio in Gesù
i tre apostoli devono imparare 
ciò che Paolo dice ai discepoli di tutti i tempi 
nella Prima Lettera ai Corinzi: 
«Noi predichiamo Cristo crocifisso, 
scandalo per i Giudei, stoltezza per i pagani; 
ma per coloro che sono chiamati, 
sia Giudei che Greci, 
predichiamo Cri­sto potenza di Dio [dinamis] e sapienza di Dio». 
Questa «potenza» del regno futuro 
appare loro nel Gesù trasfigurato 
che parla con i testi­moni dell' Antica Alleanza 
della «necessità» della sua passione come via verso la gloria. 


Joseph Ratzinger - Benedetto XVI






Dal Vangelo secondo Luca 9,28-36

In quel tempo, Gesù prese con sé Pietro, Giovanni e Giacomo e salì sul monte a pregare. Mentre pregava, il suo volto cambiò d’aspetto e la sua veste divenne candida e sfolgorante. Ed ecco, due uomini conversavano con lui: erano Mosè ed Elìa, apparsi nella gloria, e parlavano del suo esodo, che stava per compiersi a Gerusalemme.
Pietro e i suoi compagni erano oppressi dal sonno; ma, quando si svegliarono, videro la sua gloria e i due uomini che stavano con lui.
Mentre questi si separavano da lui, Pietro disse a Gesù: «Maestro, è bello per noi essere qui. Facciamo tre capanne, una per te, una per Mosè e una per Elìa». Egli non sapeva quello che diceva.
Mentre parlava così, venne una nube e li coprì con la sua ombra. All’entrare nella nube, ebbero paura. E dalla nube uscì una voce, che diceva: «Questi è il Figlio mio, l’eletto; ascoltatelo!».
Appena la voce cessò, restò Gesù solo. Essi tacquero e in quei giorni non riferirono a nessuno ciò che avevano visto.


Il commento

"Non sapeva quello che diceva": come i tre apostoli sul Monte Tabor all'entrare nella nube, anche noi restiamo sovente infilzati a uno stupore pieno di paura; essa ci attanaglia di fronte all'abisso della nostra debolezza, dell'assoluta inadeguatezza, quando la verità ci si spalanca dinanzi e ci lascia di sasso. Quando appare nitida la sproporzione tra quello che dovremmo essere e quello che realmente siamo. Madri, padri, preti, assolutamente impreparati, infarciti di debolezze e peccati. Incoerenti e pieni di contraddizioni. La paura che ha intontito i tre discepoli alla vista del loro Maestro trasfigurato. Una luce improvvisa, mai vista, lo sfolgorare d'una vita inattesa, proprio lì, da dentro la carne del loro amico. Uno squilibrio, un miracolo, s'era dato di nuovo il prodigio di quel giorno quando, sul Sinai, il Santo consegnò la Torah a Mosè. Il cielo era sceso sulla terra, avevano visto Dio, ed erano rimasti vivi. E allora, spontaneo, sorge in Pietro il desiderio di issare subito tre tende, per coagulare quel momento prodigioso e così bello nella precarietà della vita; proprio come nella festa di Succot, quando si preparano le capanne, le tende come segno della permanenza del popolo nel deserto. Dalla stessa "nube" che aveva guidato gli israeliti durante i quarant'anni dell'Esodo, la voce del Padre ripete agli Apostoli quello che aveva annunciato nel deserto: "Questi è il Figlio mio, l’eletto; ascoltatelo!". Tra una mormorazione e l'altra, tra le maglie di una debolezza infinita, ogni ebreo aveva fatto l'incomparabile esperienza di poter (e dover) vivere del solo cibo della Parola di Dio, capace di trasformare la roccia in acqua. E quel cibo ora risplendeva nella carne trasfigurata di Gesù. Pietro, attento ai segni come ogni buon ebreo, aveva saputo riconoscere in quell'evento il compimento dell'Esodo del suo Popolo; su quel Monte Dio aveva di nuovo parlato, ed era di una "bellezza" mai contemplata. Era "bello" quel momento, era "bello" starci dentro, era "bella" anche la precarietà, l'infinita distanza tra l'uomo e Dio, perché in Gesù essa era colmata, e benedetta: per questo Pietro non sapeva e non poteva dire altro che di fare tre tende per estendere a tutta l'esistenza la "bellezza" di quel momento;tre tende per entrare ogni giorno nella precarietà strappata al timore, nella debolezza circonfusa di luce, nella carne redenta dall'incoruttibilità. Sul Tabor era accaduto quello che appare nelle icone orientali, la cui luce si diffonde dal centro del dipinto, ti attira e ti mette immediatamente in comunione con il soggetto, facendoti suo interlocutore in virtù dello squarcio di luce che ti raggiunge. Non a caso il primo soggetto che devono dipingere gli iconografi è proprio la Trasfigurazione. "La contemplazione delle icone, e in genere dei capolavori dell'arte cristiana, c'introduce in un percorso interiore, che è la via del superamento, e in questa purificazione dello sguardo, che è purificazione del cuore, ci di svela la bellezza, o almeno qualche suo raggio. E la bellezza ci mette in relazione con la forza della verità" (Joseph Ratzinger, Ferito dal dardo della bellezza). Il percorso che siamo chiamati a compiere è dunque quello della contemplazione, che si dà nell'ascolto e nella visione, nell'esperienza. Sperimentare il perdono, la rconciliazione, la possibilità di ricominciare come una persona nuova, è questa la bellezza che rivela la forza della verità. la forza di Cristo, amore puro, amore infinito, amore bello.

Nell'episodio della Trasfigurazinone è svelato dunque, come una profezia, il miracolo più grande, immagine della vittoria sulla morte che di lì a poco Gesù avrebbe compiuto nell'esodo di cui discorreva con Mosè ed Elia. La Legge e i Profeti lo avevano annunziato in varie forme: la luce della Pasqua avrebbe brillato nelle tenebre del sepolcro. Lo splendore della vita immortale, la bellezza di Cristo crocifisso e risorto si svelava così, già sul monte Tabor, attraverso la Parola annucniata e ascoltata dai Tre protagonisti di quell'evento unico: Cristo trasfigurato appare sempre nella stoltezza dell'annuncio. Proprio il Vangelo, infatti, è la Trasfigurazione, la Buona notizia che ha messo in cammino Abramo verso una terra che non conosceva, qualcosa di assolutamente nuovo, un pezzo di paradiso, la terra promessa qui sulla terra delle lacrime. Il Vangelo è la luce purissima nella carne votata alla morte. Tutto di noi ci parla di fine, di ineluttabilità, di morte. Prima o poi scenderà la saracinesca sul lavoro, sulla famiglia, sulla nostra stessa vita. E' la realtà alla quale tentiamo di sfuggire e che si ripresenta ad ogni angolo della nostra esistenza. La vita di ogni uomo, infatti, è un andare a Gerusalemme. Le tende che Pietro, a nome di tutta la Chiesa, voleva costruire, erano la profezia della Croce che lo Spirito Santo gli aveva ispirato. Esse ricordano il cammino che la comunità dei redenti ha da percorrere: non è il Tabor la meta, ma Gerusalemme. Ma è proprio nel cammino che ci conduce alla Croce che l'annunzio del Vangelo apre il cielo della Verità: ogni giorno la "nube" della presenza - shekinà di Dio ci attira e ci "copre con la sua ombra", come si è adagiada sulla Vergine Maria generando in Lei il Figlio di Dio, Colui che avrebbe vinto la morte. Il Padre ci ha donato il seme della vita eterna, lo Spirito Santo effuso dal Signore risorto, la sua stessa vita che risplende nella Parola del Vangelo. Ogni giorno dalla nube che ci spaventa, il Padre ci indica "il suo Figlio eletto" e ci invita ad "ascoltarlo": "Shemà Israel, Ascolta Israele!". Ascoltare è amare l'unico Dio con tutta la mente, tutto il cuore e tutte le forze, l'unico cammino che conduce alla Vita eterna nella storia di ogni giorno, quando restiamo "soli con Gesù" come gli Apostoli al termine della Trasfigurazione. Ascoltare per vivere nell'amore che ci fa cittadini del Cielo mentre dimoriamo sulla terra. La nostra vita trasfigurata, infatti, è una vita evangelizzata, illuminata dalla Buona notizia. Il Vangelo annunciato nel paradosso delle nostre debolezze e inadeguatezze. Nel parallelo del Vangelo di Matteo, Gesù dice ai discepoli: "Alzatevi, non abbiate paura". Il suo amore brilla esattamente nella nostra più totale debolezza, la luce della vita immortale risplende in noi dalla ferita più infamante, il suo perdono dov'è abbondato il peccato. Alzatevi!, infatti, è lo stesso verbo usato a proposito della resurezione: ci si può rialzare solo se caduti, risuscitare solo se morti. La presenza di Gesù nella nostra vita, sottolinenado la nostra natura ferita e concupiscente, illuminando anche i peccati su cui vorremmo sorvolare, ci rivela che l'insoddisfazione, la paura e la frustrazione che sperimentiamo, sono accenni alla morte che incombe in noi come salario del peccato. Ma, proprio situandoci nella verità, simboleggiata nel "sonno" che "opprimeva" i tre apostoli, incapaci di sostenere nella carne l'infinito di Dio, Gesù ci tende la sua mano di misericordia per attirarci nella sua trasfigurazione. Non è fuggendo o sforzandoci per cambiare noi stessi e il mondo che gusteremo la felicità autentica; essa è, invece, un dono della Grazia di Dio. E' questa la notizia che aspetta ogni uomo, capace di trasfigurare in una luce di Pasqua anche l'esistenza più compromessa. La notizia che strappa dalla morte e trasfigura il volto e il cuore del peccatore più incallito. Oggi, e ogni giorno, il Vangelo è la salvezza, è la Vita, è la bellezza. "E' bello stare con il Signore", proprio come diceva Pietro, e noi, nell'esperienza della Pasqua, possiamo ripeterlo e annunciarlo, perchè stiamo imparando che la via alla Gloria deve passare per la Croce, dallo scorrere delle lacrime che purificano, perché di compunzione, di tenerezza e di stupore; le lacrime che sgorgano dalla "pietra" del cuore squarciata nell'incontro con un amore così grande, così bello, così infinito. Dice sant'Efrem: "Un volto lavato da tali lacrime è di una bellezza imperitura". E' bello davvero stare con Gesù, anche in questa tenda che è la nostra carne, con le sue debolezze, con le pesantezze di ogni giorno. E' bello stare con Lui, dimorare nel suo amore, pellegrini e stranieri su questa terra, cercando e desiderando la Patria celeste, il luogo che Lui ci ha preparato. Essa è la tenda eterna, non fatta da mano d'uomo, la vita che non muore, trasfigurata eternamente. Comprendiamo così quale sia il cammino che ci indica la liturgia di questa domenica: quello di un pellegrino che compie l'esodo che lo conduce alla Terra promessa, la Vita eterna con Cristo. Un cammino impregnato di nostalgia, costellato di precarietà e debolezza, ma colmo di speranza, quella di coloro che hanno il cuore ferito dall'amato: "...esseri umani che nutrono in sé un desiderio tanto possente che supera la loro natura, che bramano più di quanto all'uomo sia lecito attendersi, costoro sono stati feriti dallo Sposo, che ha colpito i loro occhi con un raggio della sua bellezza. L'ampiezza della ferita rivela quale sia lo strale, l'intensità del desiderio lascia intuire chi abbia scoccato il dardo» (Cabasilas). Questa intuizione è l'esperienza della Trasfigurazione, quella che ci attende ogni giorno. E' vero che seguire il Signore è essere con Lui crocifissi. E' vero che ad ogni passo le stigmate del dolore ci trapassano il cuore. E' vero il male, è vero il peccato, è vera la morte. Ma è vera anche la Trasfigurazione di tutto, è vera la bellezza che supera e dà senso ad ogni cosa: "Nella passione di Cristo... l'esperienza del bello riceve una nuova profondità, un nuovo realismo. Colui che è la "Bellezza in sé" si è lasciato percuotere sul volto, coprire di sputi, incoronare di spine: la sacra Sindone di Torino ci racconta tutto ciò in maniera toccante. Ma proprio in quel volto sfigurato appare l'autentica, estrema Bellezza dell' Amore che ama "sino alla fine", mostrandosi così più forte di ogni menzogna e violenza. Soltanto chi sa cogliere questa bellezza comprende che proprio la verità, e non la menzogna, è l'estrema "affermazione" del mondo... Ma ad una condizione: che assieme a Lui ci lasciamo ferire, fidandoci di quell' Amore che non esita a svestirsi della bellezza esteriore, per annunciare proprio in questo modo la Verità della Bellezza" (Joseph Ratzinger, Ferito dal dardo della bellezza). La bellezza crocifissa, la bellezza trasfigurata, la sua bellezza che è la nostra bellezza.



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