"LA TRISTE LEZIONE DEGLI ANNI DEL CONCILIO"
E’ possibile che Benedetto XVI tema l’interferenza dei mass media sul prossimo Conclave? Vuol mettere in guardia la Chiesa e specialmente i cardinali dal rischio che siano questi pervasivi strumenti a influenzarli nelle scelte decisive che devono fare?
La domanda sorge considerando gli straordinari interventi che in queste ore sta ci regala Benedetto XVI quasi a voler preparare spiritualmente i porporati alla scelta migliore.
Mi riferisco in particolare alla sorprendente conversazione di giovedì scorso con i parroci romani, durante la quale ha denunciato, pur col suo stile mite, gli effetti devastanti che i media hanno prodotto al tempo del Concilio sulla Chiesa.
IL PRECEDENTE
Rileggiamo le sue parole:
“Vorrei adesso aggiungere ancora un terzo punto: c’era il Concilio dei Padri – il vero Concilio –, ma c’era anche il Concilio dei media. Era quasi un Concilio a sé, e il mondo ha percepito il Concilio tramite questi, tramite i media. Quindi il Concilio immediatamente efficiente arrivato al popolo, è stato quello dei media, non quello dei Padri.
E mentre il Concilio dei Padri si realizzava all’interno della fede, era un Concilio della fede che cerca l’intellectus, (…) il Concilio dei giornalisti non si è realizzato, naturalmente, all’interno della fede, ma all’interno delle categorie dei media di oggi, cioè fuori dalla fede, con un’ermeneutica diversa.
Era un’ermeneutica politica: per i media, il Concilio era una lotta politica, una lotta di potere tra diverse correnti nella Chiesa. Era ovvio che i media prendessero posizione per quella parte che a loro appariva quella più confacente con il loro mondo”.
Il Papa ha pure ricordato quali erano (e sono) i caposaldi ideologici dei media:
“C’erano quelli che cercavano la decentralizzazione della Chiesa, il potere per i Vescovi e poi, tramite la parola ‘Popolo di Dio’, il potere del popolo, dei laici (…). Naturalmente, per loro era questa la parte da approvare, da promulgare, da favorire.
E così anche per la liturgia: non interessava la liturgia come atto della fede, ma come una cosa dove si fanno cose comprensibili, una cosa di attività della comunità, una cosa profana (…).
Sacralità quindi da terminare, profanità anche del culto: il culto non è culto, ma un atto dell’insieme, della partecipazione comune, e così anche partecipazione come attività. Queste traduzioni, banalizzazioni dell’idea del Concilio”, ha aggiunto il Pontefice “sono state virulente nella prassi dell’applicazione della Riforma liturgica; esse erano nate in una visione del Concilio al di fuori della sua propria chiave, della fede.
E così, anche nella questione della Scrittura: la Scrittura è un libro, storico, da trattare storicamente e nient’altro, e così via”.
Ed ecco il bilancio tragico che il Papa ha tirato:
“Sappiamo come questo Concilio dei media fosse accessibile a tutti. Quindi, questo era quello dominante, più efficiente, ed ha creato tante calamità, tanti problemi, realmente tante miserie: seminari chiusi, conventi chiusi, liturgia banalizzata … e il vero Concilio ha avuto difficoltà a concretizzarsi, a realizzarsi; il Concilio virtuale era più forte del Concilio reale”.
Naturalmente il Pontefice ha concluso proclamando il fallimento del “Concilio dei media” e ha sottolineato che “la vera forza” e il “vero rinnovamento della Chiesa” si trovano nei testi del Concilio autentico. Perciò ha incitato a non scoraggiarsi: “insieme andiamo avanti con il Signore, nella certezza: Vince il Signore!”
Tuttavia fa impressione quella diagnosi (“tante calamità, tanti problemi, realmente tante miserie: seminari chiusi, conventi chiusi, liturgia banalizzata”).
MAGISTERO PARALLELO
Il discorso del Papa ricorda precedenti analisi di grandi personalità cattoliche, come il cardinale De Lubac che parlava di “magistero parallelo”, a proposito di certi teologi e intellettuali.
O la famosa pagina di monsignor Luigi Maria Carli, secondo il quale al Concilio si è poi accompagnata “l’attività del cosiddetto ‘paraconcilio’, cioè di quell’ambiente di persone e di idee che, dopo aver cercato di influire sul Concilio mentre esso si svolgeva, è rimasto in piedi anche a Concilio finito, ingrandendosi e direi quasi istituzionalizzandosi.
Questo paraconcilio, con le sue vittorie e le sue sconfitte, con le sue soddisfazioni e le sue insoddisfazioni, con i suoi propositi e i suoi spropositi” concludeva Carli “è quello che anima la crisi attuale e contrappone la sua opera alla serena fruttificazione delle idee seminate dal Concilio. Il paraconcilio, pretendendo di essere l’autentica vestale dello spirito del Concilio, deve necessariamente abusare dei testi conciliari. Ma di quali mai santissime cose l’uomo non è capace di abusare?”.
E’ facile riconoscere in questo identikit l’intellettualismo progressista che imperversa sui media. Ma rispetto alle denunce di De Lubac e Carli, il discorso di Benedetto XVI, giovedì scorso, ha sottolineato soprattutto l’azione perniciosa dei media, gli stessi che potrebbero interferire nelle scelte del prossimo Conclave.
CHI ELEGGE IL PAPA?
Benedetto XVI dunque cerca di difendere la Chiesa Cattolica dalla “chiesa catodica”. Ma come si può temere una simile “interferenza”, obietterà qualcuno, se i credenti sostengono che è lo Spirito Santo a eleggere i Successori di Pietro?
Diversamente da quanto molti pensano (e scrivono) a eleggere il Papa, per la dottrina della Chiesa, non è affatto (automaticamente) lo Spirito Santo, ma sono gli uomini, vestiti di porpora, che si trovano riuniti nella Cappella Sistina.
Papa Benedetto lo sa bene: lo Spirito Santo, che viene invocato in Conclave, dà la sua ispirazione, ma poi i prelati sono liberi di ascoltarlo o invece di far prevalere altri loro interessi. Per questo San Vincenzo di Lérins diceva che “Dio alcuni papi li dona, altri li tollera, altri ancora li infligge”.
Poi, una volta eletto regolarmente, qualunque Papa, per la dottrina cattolica, riceve l’assistenza straordinaria dello Spirito Santo. Dio saprà scrivere diritto anche su righe storte.
Ma gli errori degli uomini di Chiesa e le resistenze all’ispirazione divina, anche nella scelta dei pontefici, provocano comunque guai immensi, tragedie e sofferenze, per la Chiesa e per il mondo.
Come appare chiaro dalla storia della Chiesa stessa e da alcuni pontificati che ben difficilmente si possono considerare “decisi” dallo Spirito Santo.
Non a caso un grande principe della Chiesa (e valentissimo teologo) come il cardinale Siri, proprio nell’omelia dei novendiali per la morte di Paolo VI, nel 1978, rivolgendosi ai cardinali elettori, che presto si sarebbero riuniti in Conclave, disse: “mi pare doveroso che io mi rivolga ai Venerati Confratelli del Sacro Collegio e ricordi loro come il compito al quale ci accingiamo non sarebbe decorosamente accolto dicendo: ‘ci pensa lo Spirito Santo!’. Ed abbandonandoci senza lavoro e senza sofferenza al primo impulso, alla irragionevole suggestione”.
Come le facili suggestioni mediatiche. Colpisce e commuove rileggere adesso quella straordinaria omelia del cardinal Ratzinger alla Messa “Pro eligendo romano pontefice” del 18 aprile 2005, la stessa in cui denunciò la “dittatura del relativismo” che è il grande dramma di oggi e che suscitò il dissenso di tanti media.
Il suo pontificato sta in queste parole:
“l’amore, l’amicizia di Dio” disse Ratzinger “ci è stata data perché arrivi anche agli altri. E dobbiamo portare un frutto che rimanga. Tutti gli uomini vogliono lasciare una traccia che rimanga. Ma che cosa rimane? Il denaro no. Anche gli edifici non rimangono; i libri nemmeno.
L’unica cosa, che rimane in eterno, è l’anima umana, l’uomo creato da Dio per l’eternità. Il frutto che rimane è perciò quanto abbiamo seminato nelle anime umane – l’amore, la conoscenza; il gesto capace di toccare il cuore; la parola che apre l’anima alla gioia del Signore.
Allora andiamo e preghiamo il Signore, perché ci aiuti a portare frutto, un frutto che rimane. Solo così la terra viene cambiata da valle di lacrime in giardino di Dio”.
Da “Libero”, 16 febbraio 2013
Vedi Facebook: “Antonio Socci pagina ufficiale”
La rinuncia del Pontefice alla luce della sua teologia
Pubblichiamo un articolo interessante di Fabrizio Mandreoli apparso sulle pagine di Avvenire – Bologna7 il 17 febbraio 2013 a proposito delle dimissioni del Papa Benedetto XVI.
Le parole dell’ 11 febbraio pronunciate in latino da Benedetto XVI con le quali ha annunciato la decisione di «rinunciare al ministero di vescovo di Roma» possono essere prese come una sorta di singolare e coraggiosa attuazione di quella teologia che egli ha pensato, pregato e vissuto nella sua carriera accademica e nel suo svolgere vari ministeri nella chiesa di cui ultimo è stato, appunto, quello petrino.
La riflessione di Ratzinger è molto vasta per interessi, ampia per le attenzioni storiche – a partire dai sui penetranti studi su Agostino e Bonaventura – e precisa per puntualizzazioni: la sua rinuncia è un prisma utile con cui rileggerla sinteticamente in almeno tre aspetti principali.
In primo luogo emerge la consapevolezza dell’importanza del ministero di Pietro inteso come vescovo di Roma e colui che presiede il collegio dei vescovi. Una presidenza che agli occhi del Ratzinger teologo ha una sua funzione specifica all’interno del fondamentale ruolo della collegialità episcopale. La remissione del mandato e la possibilità che il conclave elegga un altro vescovo di Roma è un segno eloquente di questa fondamentale realtà: il Papa, come vescovo di Roma, viene scelto ed eletto attraverso una scelta collegiale. La collegialità è davvero una funzione e una caratteristica fondamentale della chiesa.
In secondo luogo si tratta di un ministero. Il gesto delle dimissioni, le parole utilizzate indicano chiaramente che lo stesso papato, come ogni compito nella chiesa, è essenzialmente un ministero. Ministero ossia servizio e diaconia «che tende al bene di tutto il corpo» ecclesiale. Egli compie affermazioni forti: «le mie forze, per l’età avanzata, non sono più adatte per esercitare in modo adeguato il ministero petrino», oppure egli sente di «dover riconoscere la mia incapacità di amministrare bene il ministero a me affidato». Queste parole mostrano che chi ha un qualche compito ministeriale nella chiesa svolge essenzialmente un servizio per il bene della chiesa, per il bene dei fedeli e che non può quindi usare il ministero in maniera egoistica, superficiale o irresponsabile. Il ministero del governo della chiesa e dell’annuncio del Vangelo, come lui afferma, è quindi un «peso» non un trono di gloria, un aurea sacrale o un onore mondano.
Un terzo aspetto può essere rinvenuto nelle parole in cui afferma di essere consapevole che «questo ministero, per la sua essenza spirituale, deve essere compiuto non solo con le opere e con le parole, ma non meno soffrendo e pregando», ma aggiunge: «tuttavia nel mondo di oggi soggetto a rapidi mutamenti e agitato da questioni di grande rilevanza per la vita della fede è necessario anche il vigore sia del corpo che dall’animo». In quel «tuttavia» credo vi sia molto. Vi è infatti la consapevolezza dei tempi, il senso dei cambiamenti, della storia, delle domande aperte nella vita della chiesa, delle questioni urgenti interne ed esterne al corpo ecclesiale. Egli ha mostrato bene che il modo di leggere l’ultimo Concilio è quello di un grande evento della tradizione cristiana che ha mostrato le vie e i modi per una autentica ed evangelica riforma della chiesa. Egli usa una parola «riforma» che raramente in epoca moderna è stata utilizzata dai pontefici, almeno fino concilio. Nella sua riflessione sul modo di leggere il concilio egli sceglie proprio questo come termine chiave per dire la necessità della continuità della tradizione e nello stesso tempo della vitalità di una tradizione che per vivere suppone cambiamenti interiori ed esteriori. Nella riflessione del teologo Ratzinger – Benedetto XVI il Concilio rimane così una guida e una luce per le scelte di riforma che stanno davanti alla vita della nostra chiesa e di cui le sue dimissioni costituiscono un segno, spiritualmente ed ecclesialmente eloquentissimo, di incoraggiamento profondo ed autorevole.
Fabrizio Mandreoli (Fter) – Avvenire Bo7 17 febbraio 2013
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