Santa Maria,

Santa Maria,
...donna del primo sguardo, donaci la grazia dello stupore.

lunedì 30 aprile 2012

Lunedì della IV^ settimana di Pasqua


Leggere gli eventi per discernere



Da Il Vangelo del giorno



Pascimi, o Signore, e pasci tu con me gli altri,
perché il mio cuore non mi pieghi né a destra né a sinistra,
ma il tuo Spirito buono mi indizzi sulla retta via
perché le mie azioni siano secondo la tua volontà
e lo siano veramente fino all'ultimo.

San Giovanni Damasceno



Dal Vangelo secondo Giovanni 10,11-18.

Io sono il buon pastore. Il buon pastore offre la vita per le pecore. Il mercenario invece, che non è pastore e al quale le pecore non appartengono, vede venire il lupo, abbandona le pecore e fugge e il lupo le rapisce e le disperde; egli è un mercenario e non gli importa delle pecore. Io sono il buon pastore, conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me, come il Padre conosce me e io conosco il Padre; e offro la vita per le pecore. E ho altre pecore che non sono di quest'ovile; anche queste io devo condurre; ascolteranno la mia voce e diventeranno un solo gregge e un solo pastore. Per questo il Padre mi ama: perché io offro la mia vita, per poi riprenderla di nuovo. Nessuno me la toglie, ma la offro da me stesso, poiché ho il potere di offrirla e il potere di riprenderla di nuovo. Questo comando ho ricevuto dal Padre mio».

IL COMMENTO


Apparteniamo a Cristo, e a Lui soltanto. Ma viviamo come ostaggi di mercenari, ed è questa la radice di tante nostre sofferenze. Siamo stati creati in Lui, per questo nel nostro cuore risuona come adeguata, perfettamente rispondente all'aspirazione profonda e autentica, solo la voce di Cristo. Non conosciamo nessun altro, eppure viviamo consegnati a degli estranei. Per questo spesso le relazioni si fanno difficili, non ci ritroviamo, perchè ci diamo alle persone e le afferriamo in relazioni esclusive, che pretendono esaurire i nostri desideri. Ma sperimentiamo che, quando le cose si fanno difficili, nei momenti in cui ci prendono le tensioni e i nervi, quando la stanchezza e le disillusioni ci sottraggono allegria ed entusiasmo, quando siamo a terra, non riconosciamo chi ci è intorno, soprattutto coloro ai quali abbiamo consegnato la nostra vita e la nostra speranza. 

Spesso anche il marito, l'amico, il confidente si trasformano in mercenari. Spesso noi stessi ci convertiamo in mercenari per gli altri. Rubiamo, ci appropriamo, leghiamo le persone sperando ed esigendo guadagni affettivi, compensi per l'esserci donati. E le relazioni appaiono per quello che purtroppo sono, mercimoni di affetti, mercati dove non esiste gratuità. Il mercenario scappa davanti al lupo, al male, alla sofferenza, ai peccati. Quando il prodotto si rivela diverso da quello pubblicizzato si rispedisce al negozio; quando la moglie, il fidanzato, l'amico si rivelano diversi da quello che avevano lasciato intuire di essere, quando appaiono i lati oscuri del carattere, quando emergono i limiti, le debolezze, i peccati, quelli che proprio non si adeguano alle nostre capacità di accoglienza e accettazione, rifiutamo e scappiamo. Merce avarita venduta da mercenari, questo è, spesso, l'amore. E il lupo, il demonio che muove le fila delle nostre relazioni, rapisce e disperde; è la nostra esperienza quotidiana: quante volte assistiamo al naufragio di un fidanzamento, di un'amicizia, di un matrimonio, inciampati tutti nella debolezza e nei peccati! Ogni giorno sperimentiamo la precarietà dei nostri rapporti, cerchiamo di blindarli con una serie di compromessi, ma alla fine, all'apparire della verità, scopriamo quanto effimeri siano i nostri maldestri tentativi di rabberciare le cose. E tutto si disperde, come si disperde il seme quando usiamo della sessualità chiudendoci alla vita, sia con la masturbazione, sia con i rapporti prematrimoniali, sia con i rapporti matrimoniali ingabbiati nei metodi anticoncezionali; come quando si disperdono le parole, le azioni, i progetti faticosamente legati insieme da un laccio carnale, che è sempre egoistico, il laccio del mercenario.

Il lupo è sempre in agguato, per questo occorre riconoscere a chi apparteniamo, e a chi appartiene chi ci è vicino, le persone che ci sono care. Siamo di Cristo, perchè Lui è l'unico che ci ama sino in fondo, che conoscendo perfettamente tutto di noi ci ama senza riserve, senza esigere nulla, senza aspettarsi cambiamenti, non cerca neppure la nostra gratitudine.E noi apparteniamo a questo amore, per esso siamo nati, per esserne saziati ci siamo svegliati oggi. In fondo, a noi non importa di nessuno. Quando le cose si mettono davvero male, quando appare l'assoluta incompatibilità, abbandoniamo anche colui per il quale abbiamo fatto di tutto, persino follie mascherate d'amore. Cristo no. Lui ama e non abbandona mai. Lui ci conosce e non si scandalizza, mai. Lui offre la sua vita per noi, esattamente così come siamo.

Solo riconoscendo la sua voce, sperimentando la nostra appartenenza a Lui possiamo conoscere l'amore autentico, e con esso la libertà e la gioia. Appartenendo a Lui possiamo appartenere alla moglie, al marito, ai figli, al fidanzato, all'amico. Ogni appartenenza umana è inscritta in un'appartenenza più grande, che non si esaurisce, che non scappa e sfilaccia di fronte alla prova. Perchè anche le persone più intime prima di appartenerci appartengono a Cristo, ed ogni rapporto vive solo in questa comune appartenenza a Cristo. Dimenticare questo è trasformarsi in mercenari, non si scappa.

In Cristo possiamo però svestire i panni del mercenario, che sviliscono e deturpano la nostra vita, distruggendo ogni relazione. In Cristo possiamo imparare a donarci senza riserve, ad amare davvero. In Lui possiamo essere deboli, incapaci, peccatori, e non vedere le speranze infrante, le amicizie dissolversi, i matrimoni spezzarsi. In Lui impariamo la pazienza, a non esigere nulla da nessuno, a non esaltare ed assolutizzare nessuna relazione. In Cristo possiamo ritrovare e riconoscere sempre l'altro, anche quando la ragione, il sentimento, e l'esperienza ci spingono a chiuderci e a lasciar perdere. Perchè nell'altro vive Cristo, perchè l'altro è sua proprietà acquistata con il suo sangue, per Lui è santo, da Lui è amato, e nulla si può disprezzare. Perchè l'altro è un dono da Lui ricevuto, non un oggetto che abbiamo comprato con i nostri sforzi e le nostre astuzie, e non abbiamo alcun diritto e alcun credito. Nel Signore possiamo rialzarci e ricominciare sempre, perchè Lui ha offerto la sua vita, è morto per amore, ma è risorto, ha ripreso la sua vita e ce la dona gratuitamente. In Lui possiamo amare perchè possiamo donare la nostra vita, senza posa, senza timore di perdere irrimediabilmente l'altro, liberi e autentici. In Cristo abbiamo il potere di donare tutto perchè tutto è già, per l'eternità, nel forziere del Cielo, il cuore misericordioso di Dio.


San Giovanni Damasceno (circa 675-749), monaco, teologo, dottore della Chiesa Dalla « Dichiarazione di fede », cap. I (trad. dal breviario)



Preghiera di un pastore al Buon Pastore

O Cristo mio Dio, tu hai umiliato te stesso per prendere sulle tue spalle me, pecorella smarrita (Lc 15,5), e farmi pascolare in pascolo verdeggiante e nutrirmi con le acque della retta dottrina (Sal 22,2) per mezzo dei tuoi pastori, i quali, nutriti da te, han poi potuto pascere il tuo gregge... Ora, Signore, tu mi hai chiamato... a servire i tuoi discepoli. No so con quale disegno tu abbia fatto questo; tu solo lo sai. Tuttavia, Signore, alleggerisci il pesante fardello dei miei peccati, con i quali ho gravemente mancato; monda la mia mente e il mio cuore; guidami per la retta via (Sal 22,3) come una lampada luminosa; dammi una parola franca quando apro la bocca; donami una lingua chiara e spedita per mezzo della lingua di fuoco del tuo Spirito(At 2,3) e la tua presenza sempre mi assista. Pascimi, o Signore, e pasci tu con me gli altri, perché il mio cuore non mi pieghi né a destra né a sinistra, ma il tuo Spirito buono mi indizzi sulla retta via perché le mie azioni siano secondo la tua volontà e lo siano veramente fino all'ultimo.


Benedetto XVI. Io sono il Buon Pastore
Omelia del 29 aprile 2012

Il brano evangelico è quello centrale del capitolo 10 di Giovanni e inizia proprio con l’affermazione di Gesù: «Io sono il buon pastore», a cui subito segue la prima caratteristica fondamentale: «Il buon pastore dà la propria vita per le pecore» (Gv 10,11). Ecco: qui noi siamo immediatamente condotti al centro, al culmine della rivelazione di Dio come pastore del suo popolo; questo centro e culmine è Gesù, precisamente Gesù che muore sulla croce e risorge dal sepolcro il terzo giorno, risorge con tutta la sua umanità, e in questo modo coinvolge noi, ogni uomo, nel suo passaggio dalla morte alla vita. Questo avvenimento – la Pasqua di Cristo – in cui si realizza pienamente e definitivamente l’opera pastorale di Dio, è un avvenimento sacrificale: perciò il Buon Pastore e il Sommo Sacerdote coincidono nella persona di Gesù che ha dato la vita per noi.... «Il buon pastore dà la propria vita per le pecore» (Gv 10,11). Gesù insiste su questa caratteristica essenziale del vero pastore che è Lui stesso: quella del «dare la propria vita». Lo ripete tre volte, e alla fine conclude dicendo: «Per questo il Padre mi ama: perché io do la mia vita, per poi riprenderla di nuovo. Nessuno me la toglie: io la do da me stesso. Ho il potere di darla e il potere di riprenderla di nuovo. Questo è il comando che ho ricevuto dal Padre mio» (Gv 10,17-18). E’ questo chiaramente il tratto qualificante del pastore così come Gesù lo interpreta in prima persona, secondo la volontà del Padre che lo ha mandato. La figura biblica del re-pastore, che comprende principalmente il compito di reggere il popolo di Dio, di tenerlo unito e guidarlo, tutta questa funzione regale si realizza pienamente in Gesù Cristo nella dimensione sacrificale, nell’offerta della vita. Si realizza, in una parola, nel mistero della Croce, cioè nel supremo atto di umiltà e di amore oblativo. Dice l’abate Teodoro Studita: «Per mezzo della croce noi, pecorelle di Cristo, siamo stati radunati in un unico ovile e siamo destinati alle eterne dimore» (Discorso sull’adorazione della croce: PG 99, 699).


In questa prospettiva orientano le formule del Rito dell’Ordinazione dei Presbiteri, che stiamo celebrando. Ad esempio, tra le domande che riguardano gli «impegni degli eletti», l’ultima, che ha un carattere culminante e in qualche modo sintetico, dice così: «Volete essere sempre più strettamente uniti a Cristo sommo sacerdote, che come vittima pura si è offerto al Padre per noi, consacrando voi stessi a Dio insieme con lui per la salvezza di tutti gli uomini?». Il sacerdote è infatti colui che viene inserito in un modo singolare nel mistero del Sacrificio di Cristo, con una unione personale a Lui, per prolungare la sua missione salvifica. Questa unione, che avviene grazie al Sacramento dell’Ordine, chiede di diventare “sempre più stretta” per la generosa corrispondenza del sacerdote stesso. Per questo, cari Ordinandi, tra poco voi risponderete a questa domanda dicendo: «Sì, con l’aiuto di Dio, lo voglio». Successivamente, nei Riti esplicativi, al momento dell’unzione crismale, il celebrante dice: «Il Signore Gesù Cristo, che il Padre ha consacrato in Spirito Santo e potenza, ti custodisca per la santificazione del suo popolo e per l’offerta del sacrificio». E poi, alla consegna del pane e del vino: «Ricevi le offerte del popolo santo per il sacrificio eucaristico. Renditi conto di ciò che farai, imita ciò che celebrerai, conforma la tua vita al mistero della croce di Cristo Signore». Risalta con forza che, per il sacerdote, celebrare ogni giorno la Santa Messa non significa svolgere una funzione rituale, ma compiere una missione che coinvolge interamente e profondamente l’esistenza, in comunione con Cristo risorto che, nella sua Chiesa, continua ad attuare il Sacrificio redentore.

Questa dimensione eucaristica-sacrificale è inseparabile da quella pastorale e ne costituisce il nucleo di verità e di forza salvifica, da cui dipende l’efficacia di ogni attività. Naturalmente non parliamo della efficacia soltanto sul piano psicologico o sociale, ma della fecondità vitale della presenza di Dio al livello umano profondo. La stessa predicazione, le opere, i gesti di vario genere che la Chiesa compie con le sue molteplici iniziative, perderebbero la loro fecondità salvifica se venisse meno la celebrazione del Sacrificio di Cristo. E questa è affidata ai sacerdoti ordinati. In effetti, il presbitero è chiamato a vivere in se stesso ciò che ha sperimentato Gesù in prima persona, cioè a darsi pienamente alla predicazione e alla guarigione dell’uomo da ogni male del corpo e dello spirito, e poi, alla fine, riassumere tutto nel gesto supremo del «dare la vita» per gli uomini, gesto che trova la sua espressione sacramentale nell’Eucaristia, memoriale perpetuo della Pasqua di Gesù. E’ solo attraverso questa «porta» del Sacrificio pasquale che gli uomini e le donne di tutti i tempi e luoghi possono entrare nella vita eterna; è attraverso questa «via santa» che possono compiere l’esodo che li conduce alla «terra promessa» della vera libertà, ai «pascoli erbosi» della pace e della gioia senza fine (cfr Gv 10,7.9; Sal 77,14.20-21; Sal 23,2).

sabato 28 aprile 2012

Sabato della III settimana del Tempo di Pasqua


Il Vangelo del Giorno



Si chiama "fede" l'intelligenza umana quando, 
rimanendo nella povertà della sua natura originale, 
è tutta riempita da altro, poiché in sé è vuota, 
come braccia spalancate 
che hanno ancora da afferrare la persona che attendono. 
Non mi posso concepire se non immerso nel Tuo grande Mistero: 
la pietra scartata dai costruttori di questo mondo, 
o da ogni uomo che immagina e progetta la sua vita, 
si è fatta pietra d'angolo su cui solo si possa costruire.

Mons. Luigi Giussani



Dal Vangelo secondo Giovanni 6,60-69.

Molti dei suoi discepoli, dopo aver ascoltato, dissero: «Questo linguaggio è duro; chi può intenderlo?». Gesù, conoscendo dentro di sé che i suoi discepoli proprio di questo mormoravano, disse loro: «Questo vi scandalizza? E se vedeste il Figlio dell'uomo salire là dov'era prima? E' lo Spirito che dà la vita, la carne non giova a nulla; le parole che vi ho dette sono spirito e vita. Ma vi sono alcuni tra voi che non credono». Gesù infatti sapeva fin da principio chi erano quelli che non credevano e chi era colui che lo avrebbe tradito. E continuò: «Per questo vi ho detto che nessuno può venire a me, se non gli è concesso dal Padre mio». Da allora molti dei suoi discepoli si tirarono indietro e non andavano più con lui. Disse allora Gesù ai Dodici: «Forse anche voi volete andarvene?». Gli rispose Simon Pietro: «Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna; noi abbiamo creduto e conosciuto che tu sei il Santo di Dio». 




IL COMMENTO


"Volete andarvene anche voi?". La domanda di Gesù ci interroga oggi con tenerezza e fermezza. Gesù conosceva il destino di solitudine che lo attendeva. Sarebbe rimasto solo nella passione e sulla Croce; solo sarebbe stato deposto nel sepolcro. Ma proprio quell'estrema solitudine lo ha costituito primogenito di una moltitudine immensa. Dalla sua solitudine è sorta la Chiesa, frutto primaticcio della sua risurrezione. Sì, Gesù è morto solo per risorgere insieme ad ogni uomo, perchè "se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto." (Gv 12,24). E' la solitudine della Croce che genera la comunione; il dono totale di sé suppone l'essere abbandonati, rifiutati, lasciati soli, perchè esso avviene sempre quando le strategie umane segnano il passo, quando ogni relazione risulta compromessa. Ci si dona veramente solo quando l'altro non ha più nulla da dare, quando tradisce, quando rifiuta. L'amore si rivela autentico e fecondo, gratuito, proprio quando non ha nulla da sperare dall'altro, quando questi sembra perduto. Per questo Gesù risorto dirà alla Maddalena di andare ad annunciare ai suoi fratelliche Egli sarebbe salito al "Padre suo e Padre loroDio suo e Dio loro": il passaggio solitario nella morte aveva misteriosamente condotto quanti lo avevano tradito e lasciato solo nella comunione ormai senza limiti dei figli dello stesso Padre. Come Giuseppe, proprio perchè venduto e abbandonato dai fratelli, ha potuto provvedere alla loro indigenza, stringendosi con essi in una comunione rinnovata, capace di superare i peccati. 

La domanda di Gesù scaturisce dalla consapevolezza del suo destino di solitudine. Gesù vi andava incontro senza indugio, e scruta i cuori dei suoi discepoli; non chiede loro di rimanere con Lui, sapeva che non l'avrebbero fatto. Illumina il loro cuore per liberarlo dalla menzogna e dall'inganno. Li prepara per lo stesso suo destino. Seguire il Signore infatti è partecipare della sua solitudine. Ogni apostolo è chiamato ad offrire la propria vita con Lui, proprio quando il linguaggio della predicazione e della testimonianza si farà duro, impossibile da comprendere. La missione della Chiesa infatti è quella di essere in ogni generazione sacramento di salvezza, come un'ostia offerta per ogni uomo. La Chiesa è il corpo di Cristo abbandonato e tradito, lasciato solo nella morte perchè il mondo riceva la vita. 

"Volete andarvene anche voi?", volete anche voi rifiutare la durezza salutare del linguaggio della Croce, l'unico capace di distruggere la durezza del peccato? Le parole con le quali Gesù ha annunciato la sua missione di Pane celeste, di unico e vero alimento che risuscita e dà la vita, sono parole dure, difficili da comprendere perchè è duro il giogo del peccato che imprigiona la carne. I discepoli mormorano e non capiscono perchè la carne soggetta al peccato occulta l'estrema serietà e tragicità di un'esistenza lontana da Dio. E' necessario lo Spirito Santo che illumini e liberi la carne; sono necessarie le parole di Gesù che infondono Spirito e Vita. Restare con Gesù, seguirlo e dimorare con Lui significa dunque accogliere le sue parole che generano la fede, perchè si compiano nella propria vita."Quest’inquietante provocazione ci risuona nel cuore ed attende da ciascuno una risposta personale. Gesù infatti non si accontenta di un’appartenenza superficiale e formale, non gli è sufficiente una prima ed entusiastica adesione; occorre, al contrario, prendere parte per tutta la vita "al suo pensare e al suo volere". SeguirLo riempie il cuore di gioia e dà senso pieno alla nostra esistenza, ma comporta difficoltà e rinunce perché molto spesso si deve andare controcorrente" (Benedetto XVI, Angelus  del 23 agosto 2009).

Fede e conoscenza dunque, bastioni su cui la noia, le alienazioni, la disperazione si infrangono senza recar danno. Dove andare se davvero abbiamo incontrato Cristo? Per quali sentieri sciogliere la mente se una Parola ci ha donato la vita eterna? Il mondo sbuccia la vita come un carciofo, cerca, ricerca, e non trova nulla. Noi invece, per pura Grazia, abbiamo incontrato una Parola, quella che nessuno ha mai pronunciato, la Parola di Gesù. A volte può sembrar dura, spesso lo è davvero, specie quando ci smaschera e ci chiude nell'angolo della verità. Ma è sempre una Parola di libertà, la misericordia che ci ha colto quando non meritavamo nulla, se non una condanna esemplare, forse oggi, forse ora. Un amore senza limiti capace di ricreare quanto in noi il peccato ha distrutto. Una Parola di vita eterna.

Non un articolo, non un'opinione, non un proclama. Una semplice Parola capace di incastrarsi nel nostro cuore e farne un prodigio, trasformarlo nel cuore di Cristo. Dove andare, cosa ancora cercare, quali speranza ancora inseguire, se davvero abbiamo ascoltato la Sua Parola, se in essa abbiamo conosciuto Cristo, l'unico che ci ama davvero? La vita è molto meno complicata di quel che crediamo, la vita si risolve in un incontro. La Chiesa è qui, oggi e sino alla fine del mondo, perchè ogni uomo possa fare questo incontro. La nostra stessa vita ci è donata per incontrare il Signore. Quando ciò accade, le nostre ore, tutto di noi diviene l'occasione offerta da Dio ad ogni uomo per incontrare Cristo. Accettando la solitudine in famiglia, al lavoro, nella scuola, la solitudine profonda che ci afferra quando il marito non ci comprende, quando il fidanzato vorrebbe quello che proprio non possiamo e non dobbiamo dare, quando un figlio si intestardisce e non ascolta più; accettare la solitudine provocata da una parola dura annunciata al prossimo, parola di verità rifiutata e calpestata: accettare ed entrare in questa solitudine per riscattare proprio chi ci rifiuta e ci abbandona, per riconsegnarlo al Padre. Non vi è altra missione per noi, essere la carne e il sangue di Cristo per chiunque si affacci alla nostra vita: "noi abbiamo creduto e conosciuto che tu sei il Santo di Dio", per questo abbiamo in noi la vita che non muore, e con essa possiamo scendere nella solitudine del sepolcro dove giace chi ci è accanto, per risvegliarlo e riscattarlo, perchè possa riconoscere, con noi, in Dio suo Padre.  




Benedetto XVI. "VOLETE ANDARVENE ANCHE VOI"?
Angelus 23 agosto 2009

Cari fratelli e sorelle!

Da alcune domeniche la liturgia propone alla nostra riflessione il capitolo VI del Vangelo di Giovanni, nel quale Gesù si presenta come il "pane della vita disceso dal cielo" ed aggiunge: "se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che darò è la mia carne per la vita del mondo" (Gv. 6,51). Ai giudei che discutono aspramente tra loro chiedendosi: "Come può costui darci la sua carne da mangiare?" (v. 52), Gesù ribadisce "se non mangiate la carne del Figlio dell’uomo e non bevete il suo sangue, non avete in voi la vita" (v. 53). Oggi, XXI domenica del tempo ordinario, meditiamo la parte conclusiva di questo capitolo, in cui il quarto Evangelista riferisce la reazione della gente e degli stessi discepoli, scandalizzati dalle parole del Signore, al punto che tanti, dopo averlo seguito sino ad allora, esclamano: "Questa parola è dura! Chi può ascoltarla?" (v. 60). E da quel momento "molti dei suoi discepoli tornarono indietro e non andavano più con Lui" (v. 66). Gesù però non attenua le sue affermazioni, anzi si rivolge direttamente ai Dodici dicendo: "Volete andarvene anche voi?" (v. 67).
Questa provocatoria domanda non è diretta soltanto agli ascoltatori di allora, ma raggiunge i credenti e gli uomini di ogni epoca. Anche oggi, non pochi restano "scandalizzati" davanti al paradosso della fede cristiana. L’insegnamento di Gesù sembra "duro", troppo difficile da accogliere e da mettere in pratica. C’è allora chi lo rifiuta e abbandona Cristo; c’è chi cerca di "adattarne" la parola alle mode dei tempi snaturandone il senso e il valore. "Volete andarvene anche voi?". 
Quest’inquietante provocazione ci risuona nel cuore ed attende da ciascuno una risposta personale. Gesù infatti non si accontenta di un’appartenenza superficiale e formale, non gli è sufficiente una prima ed entusiastica adesione; occorre, al contrario, prendere parte per tutta la vita "al suo pensare e al suo volere". SeguirLo riempie il cuore di gioia e dà senso pieno alla nostra esistenza, ma comporta difficoltà e rinunce perché molto spesso si deve andare controcorrente.
"Volete andarvene anche voi?". Alla domanda di Gesù, Pietro risponde a nome degli Apostoli: "Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna e noi abbiamo creduto e conosciuto che tu sei il Santo di Dio" (vv. 68-69). 
Cari fratelli e sorelle, anche noi possiamo ripetere la risposta di Pietro, consapevoli certo della nostra umana fragilità, ma fiduciosi nella potenza dello Spirito Santo, che si esprime e si manifesta nella comunione con Gesù. La fede è dono di Dio all’uomo ed é, al tempo stesso, libero e totale affidamento dell’uomo a Dio; la fede è docile ascolto della parola del Signore, che è "lampada" per i nostri passi e "luce" sul nostro cammino (cfr Salmo 119, 105). Se apriamo con fiducia il cuore a Cristo, se ci lasciamo conquistare da Lui, possiamo sperimentare anche noi, insieme al santo Curato d’Ars, che "la nostra sola felicità su questa terra è amare Dio e sapere che Lui ci ama".
Chiediamo alla Vergine Maria di tenere sempre desta in noi questa fede impregnata di amore, che ha resa Lei, umile fanciulla di Nazaret, Madre di Dio e madre e modello di tutti i credenti.


San Bernardo (1091-1153), monaco cistercense e dottore della Chiesa
Disorsi su vari argomenti °5, su Ha ; PL 183,556

« Forse anche voi volete andarvene ? »

Leggiamo nel Vangelo che, mentre il Signore predicava e invitava i suoi discepoli a partecipare alla sua passione nel sacramento conviviale del suo corpo, alcuni dissero: “Questo linguaggio è duro”, e da quel momento non andarono più con lui. Gli apostoli, interrogati se avessero voluto andarsene anche loro, risposero: “Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna” (Gv 6,68).
Così vi dico, fratelli: fino a oggi ci sono persone per le quali è chiaro che le parole di Gesù sono “spirito e vita” perciò lo seguono. Ad altri invece paiono dure e cercano altrove ben magre consolazioni. “La Sapienza fa sentire la sua voce sulle piazze” (Pr 1,20), vale a dire ammonisce quelli che camminano “per la via larga e spaziosa che conduce alla morte” (Mt 7,13), per richiamare indietro quanti vi camminano. Essa grida: “Per quarant’anni mi disgustai di quella generazione e dissi: sono un popolo dal cuore traviato” (Sal 94,10). In un altro salmo trovi: “Il Signore ha parlato una sola volta” (Sal 61,12). Certo, una sola volta, perché parla sempre. Infatti unico e non interrotto ma continuo e senza fine è il suo parlare. Invita i peccatori a rientrare in sé, perché ivi egli abita e ivi parla... Se oggi udiamo la sua voce, non induriamo i nostri cuori sono press’a poco le medesime parole che si leggono nel Vangelo... “Le mie pecore ascoltano la mia voce” (Gv 10,27)... Siete il popolo del suo pascolo e il gregge che egli conduce, se oggi ascoltate la sua voce (Sal 94,8).



San Girolamo (347-420), sacerdote, traduttore della Bibbia, dottore della Chiesa
Lettera 53 a Paolino

« Le parole che vi ho dette sono spirito e vita »

Leggiamo le Sante Scritture : secondo me, il Vangelo è il corpo di Gesù, le Sante Scritture sono la sua dottrina. Certamente, la parola « Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue » trova tutta la sua attuazione nel mistero eucaristico ; ma il vero corpo di Cristo e il suo vero sangue sono anche la parola delle Scritture, la dottrina divina. Quando ci avviciniamo ai santi misteri, se un frammento viene a cadere per terra, siamo inquieti. Quando ascoltiamo la parola di Dio, se pensiamo a qualcos'altro mentre essa entra nei nostri orecchi, quanta responsabilità ne abbiamo !
La carne del Signore essendo vero cibo e il suo sangue vera bevanda, il nostro unico bene è mangiare la sua carne e bere il suo sangue, non soltanto nel mistero eucaristico, ma anche nella lettura della Scrittura.

venerdì 27 aprile 2012

Venerdì della III settimana di Pasqua



Leggere gli eventi per discernere

di Don Antonello Iapicca


Il Vangelo del Giorno




La divinità si nascose sotto l’umanità e si avvicinò alla morte, 
la quale uccise e a sua volta fu uccisa. 
La morte uccise la vita naturale, 
ma venne uccisa dalla vita soprannaturale. 
Siccome la morte non poteva inghiottire il Verbo senza il corpo
né gli inferi accoglierlo senza la carne
egli nacque dalla Vergine, 
per poter scendere mediante il corpo al regno dei morti. 
Ma una volta giunto colà col corpo che aveva assunto, 
distrusse e disperse tutte le ricchezze e tutti i tesori infernali.
Gloria a te che ti sei rivestito del corpo dell’uomo mortale 
e lo hai trasformato in sorgente di vita per tutti i mortali.
        Tu ora certo vivi. 
Coloro che ti hanno ucciso hanno agito verso la tua vita come gli agricoltori. 
La seminarono come frumento nel solco profondo. 
Ma di là rifiorì e fece risorgere con sé tutti.

S. Efrem, Discorso sul Signore, 3-4. 9



Dal Vangelo secondo Giovanni 6,52-59.

Allora i Giudei si misero a discutere tra di loro: «Come può costui darci la sua carne da mangiare?». 
Gesù disse: «In verità, in verità vi dico: se non mangiate la carne del Figlio dell'uomo e non bevete il suo sangue, non avrete in voi la vita. 
Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell'ultimo giorno. 
Perché la mia carne è vero cibo e il mio sangue vera bevanda. 
Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue dimora in me e io in lui. 
Come il Padre, che ha la vita, ha mandato me e io vivo per il Padre, così anche colui che mangia di me vivrà per me. 
Questo è il pane disceso dal cielo, non come quello che mangiarono i padri vostri e morirono. Chi mangia questo pane vivrà in eterno». 
Queste cose disse Gesù, insegnando nella sinagoga a Cafarnao. 

IL COMMENTO

Ci troviamo all'epilogo del grande discorso di Gesù nella Sinagoga di Cafarnao. Alle parole di Gesù i Giudei cominciano a litigare tra di loro. E' questo il senso della parola greca, molto più forte di "discutere". Quell'uomo che si definisce l'unico pane di vita, e indica nella sua stessa carne la vita eterna, suscita uno scuotimento interno, e, soprattutto, obbliga a prendere posizione.

La sua parola divide. E' la spada che penetra sino alle giunture più profonde e mostra quello che vi è di nascosto, le vere intenzioni dei cuori. La verità all'emergere provoca sempre contrasti. Siamo noi che crediamo, avvolti nei nostri moralismi, che la parola di Gesù debba automaticamente provocare consensi, pace, tranquillità. E invece no, perchè essa urta inevitabilmente con la durezza dei cuori, con l'ostinazione delle menti, con le difese della carne. Ed è un urto violento, una saetta che fa luce, che spazza via l'ipocrisa, che denuda, che polverizza le consuetudini borghesi, le alienazioni, le idolatrie, le false certezze dove l'uomo tenta, goffamente, di installarsi. Appare come in filigrana il rifiuto patito dal Signore in quel di Betlemme, dove non v'era posto per lui e per i suoi genitori in nessun albergo: "i suoi non hanno accolto" una carne che s'era fatta albergo della divinità. 

La carne schiava del peccato non può accogliere il Signore. Per questo i Giudei si mettono a litigare, è una forma di difesa, di cercare giustificazioni, un po' come è accaduto ai progenitori. Il frutto della disobbedienza è stato infatti il taglio della relazione con Dio e, conseguentemente, di quella tra Adamo ed Eva. Alla domanda con la quale Dio lo aveva cercato e scoperto, Adamo oppone un'accusa ad Eva, condita da quella diretta direttamente a Dio: "La donna che mi hai messo accanto mi ha dato il frutto da mangiare". E' la stessa situazione che incontriamo nel Vangelo di oggi, la medesima che troveremo nel deserto quando, dopo aver mormorato per la carne, il popolo comincia a litigare e ad accusare Mosè reclamando acqua per non morire di sete. Sappiamo bene che prendendosela con il loro capo in realtà stanno dirigendo i loro strali a Dio. Così nel Vangelo. Litigano tra di loro ma in fondo è la resistenza che oppongono alle parole di Gesù, e, in esse, a Gesù stesso. Esiste per i Giudei una barriera invalicabile, ed è proprio la carne di Gesù. Credono di conoscerlo, lo hanno visto crescere, sanno tutto della sua famiglia, Lui ha una storia esattamente uguale alla loro, non può salvarli, quella carne è carne come la loro, non può dare la vita. I loro occhi, i loro pensieri, i loro cuori si fermano sull'uscio della casa, non possono entrarvi. Restano alla superficie delle cose, come Eva che fu ingannata proprio dagli occhi che si fissarono sull'apparenza, come il Popolo d'Israele che, sulla soglia della Terra Promessa, cede alla paura dei popoli che l'abitavano, incapaci di riconoscere nei prodigi operati da Dio sino ad allora, la sua fedeltà e il suo potere. 

Anche noi ci fermiamo spesso alla buccia degli eventi e delle persone. Vi è un passo del Profeta Geremia che ci aiuta a comprendere che cosa è accaduto ai Giudei nella Sinagoga di Cafarnao e quello che accade a tutti noi. "Maledetto l'uomo che confida nell'uomo, che pone nella carne il suo sostegno e dal Signore allontana il suo cuore. Egli sarà come un tamerisco nella steppa; quando viene il bene non lo vede. Dimorerà in luoghi aridi nel deserto, in una terra di salsedine dove nessuno può vivere" (Ger. 17, 5-6). Esiste una maledizione che grava su quanti confidano nella carne, ed essa consiste proprio nel non vedere il bene quando arriva. La dimora di chi vive appoggiato alla carne è una terra dove tutto brucia, è seccato dal sale, dove non si può vivere.

Ora comprendiamo perchè Gesù risponde ai Giudei affermando che chi non mangia la sua carne e non beve il suo sangue non può avere in sé la vita. Chi resta ancorato ai propri schemi, chi si chiude ostinatamente alla grazia non può vedere il bene quando viene, non si accorge di quello che è celato sotto le apparenze, non vede e non coglie i segni. Dirà Gesù in un altro momento: "Come potete credere, voi che prendete gloria gli uni dagli altri?" La Gloria è, nel linguaggio biblico, la presenza e la consistenza delle cose. I Giudei sono così l'immagine di chiunque cerca la consistenza, il valore della propria vita dalla carne di altri uomini. I vana-gloriosi non possono credere, sono prigionieri delle catene carnali, ogni giudizio, ogni pensiero, ogni progetto, ogni relazione, tutto è avvelenato dalla carne. Essa richiama la corruzione, il transitorio, la morte. "Ogni carne è come l'erba... ma la Parola di Dio rimane in eterno" (Is. 40,6). Per questo Gesù dirà che i padri hanno mangiato sì la manna ma sono morti. Essa era solo una profezia di quanto sarebbe accaduto, un segno che Dio, nella precarietà, avrebbe provveduto in modo definitivo, compiendo quanto quel frumento sceso dal Cielo stava annunciando. 

Nel cammino della vita, nella totale precarietà dell'esistenza Dio avrebbe deposto una rugiada di vita eterna. Nella carne Dio avrebbe deposto la vita che non muore. Dio avrebbe visitato di nuovo il mondo, avrebbe compiuto la Pasqua definitiva, la liberazione di ogni uomo dalla schiavitù del peccato. Sì, Dio avrebbe liberato i suoi figli dalla prigione della carne, avrebbe aperto i loro occhi sulla verità, il suo amore infinito celato in ogni istante della storia. E lo avrebbe fatto nel suo stesso Figlio, inviandolo ad ogni uomo quale apostolo della sua stessa vita. E' questo il senso profondo delle parole di Gesù. Il Padre, fonte della vita che non muore, lo ha inviato a donare quella stessa vita, l'unica capace di saziare i desideri dell'uomo. Gesù stesso ha vissuto, nella sua carne, "per mezzo" della vita del Padre. La sua carne l'ha custodita sin sulla Croce, sin dentro alla tomba, per lasciarla esplodere vittoriosa sulla morte: "La divinità si nascose sotto l’umanità e si avvicinò alla morte, la quale uccise e a sua volta fu uccisa. La morte uccise la vita naturale, ma venne uccisa dalla vita soprannaturale" (S. Efrem).

Nella carne di Cristo si è compiuta la vera e definitiva liberazione. Ad essa ogni figlio di Adamo può attingere per non vedersi più morire. In Lui si realizza l'esodo definitivo, quello che dall'Egitto che tutti sperimentiamo, la schiavitù della carne che ci obbliga a fabbricare mattoni per piramidi di morte, ci conduce alla terra della libertà, dove scorrono il latte e il miele dell'amore e della comunione, dell'intimità con Dio e della gratuità. La carne di Gesù è la carne dell'agnello offerto in riscatto per i peccati. Il sangue di Gesù è quello dell'agnello che ha protetto i figli di Israele dall'angelo della morte. Per questo la carne e il sangue di Gesù sono alimento e bevanda veri, degni di fede. Nella carne e nel sangue di Gesù Cristo crocifisso, morto e risorto, ogni uomo può vedere di nuovo il Cielo, il bene che l'inganno del demonio gli ha occultato. Per questo è necessario mangiare della sua carne e bere del suo sangue. E' necessario che Cristo rompa in ciascuno di noi le barriere della morte, che cancelli ogni peccato, che deponga la vita dove ci ha preso la morte. "La vita con Dio, la vita eterna nella vita temporale, è possibile per questo, perché esiste la vita di Dio con noi: Cristo è Dio che viene a stare con noi. In lui Dio ha tempo per noi, lui è il tempo di Dio per noi e quindi, allo stesso tempo, l'apertura del tempo sull'eternità" (J. Ratzinger, Il Dio vicino).

Tutto questo è dimorare in Gesù, e, con Lui, dimorare in Dio. Gli occhi aperti sul volto di Dio, e la sua misericordia capace di saziare e purificare ogni moto del nostro cuore. La vita pacificata perchè nella precarietà della carne ha preso dimora l'incorruttibilità della vita divina. La pace di un abbandono confidente perchè sazio della carne e del sangue del Signore, del cibo che comunica il tutto di Dio. Mangiare di Gesù allora è aprirsi, giorno per giorno, ad una nuova vita, dove le stesse persone e gli stessi eventi acquistano una luce nuova, la luce che emana la vita celeste scesa sino alle profondità delle nostre storie. Esse, in Cristo, non sono lanciate verso il nulla, ma in cammino verso la pienezza di quella vita che già, oggi, possiamo pregustare. Mangiare la carne e bere il sangue del Signore è accogliere la nostra stessa vita trasformata dalla potenza della sua Vita: è Lui che ogni giorno si fa nostro prossimo, viandante con noi come sulla strada di Emmaus. Mangiare di Lui è implorarlo di non passare oltre e di fermarsi esattamente dove ci troviamo, perchè quell'evento che ci spaventa, quella relazione difficile che ci blocca, non ci incuta più il timore che ha indurito il cuore del Popolo d'Israele facendolo ritornare sui propri passi e impedendogli di entrare nel riposo promesso. Gesù è mandato oggi perchè possiamo vivere per Lui, come Lui ha vissuto per il Padre: Ciò significa vivere nella storia concreta che ci si dipana dinanzi a noi come Gesù ha vissuto il cammino alla Croce che lo attendeva. Lui vedeva la vittoria oltre il Golgota, la vita al di là della propria morte. Con Lui anche noi possiamo sperimentare proprio in ciò che ci impaurisce, nei fallimenti e nelle situazioni difficili, la vita eterna, il riposo promesso, l'amore infinito che ha distrutto la morte. La carne di Cristo nella nostra carne, il suo sangue nel nostro sangue, per vivere la sua vita, eterna, infinita, che supera le mura dell'orgoglio e della paura, per entrare ogni giorno nella storia e scoprirvi i frutti di pienezza in essa piantati: "Ogni dolore accolto, ancora così nascosto, ogni silenziosa sopportazione del male, ogni superamento interiore di se stessi, ogni inizio di amore, ogni rinuncia e ogni silenzioso atto di affidamento a Dio: tutto ciò diventa ora operante nel tutto; niente di buono accade invano. Alla potenza del male, che con i suoi tentacoli minaccia di attaccare tutta la struttura della nostra società e di soffocarla in un abbraccio mortale, si oppone questo silenzioso circuito della vera vita... nel quale si realizza il regno di Dio, poiché la volontà di Dio accade sulla terra come in cielo" (J. Ratzinger, Il Dio vicino).

L'eucarestia è in fondo questo grande mistero, imparare a dimorare, istante dopo istante, nel cuore di Dio. Dire amen nell'amen di Cristo, nutrirci della volontà di Dio, il cibo del Figlio, che la carne non può conoscere. Dire amen alla storia, alimentarci del Pane Vivo disceso dal Cielo nella nostra vita, così come si presenta: amen alla malattia della nipote, amen al carattere del marito, amen al licenziamento, amen alla ribellione del figlio, amen a ogni frammento di vita perchè ciascuno, anche il più piccolo, è un frammento del corpo benedetto di Cristo che ha assunto tutta la nostra vita. Riservare alla nostra vita la stessa attenzione devota e piena di unzione con la quale non si perde neanche il più piccolo frammento dell'ostia consacrata nella patena, perchè nella patenza della nostra carne è vivo Cristo... Imparare a vivere, giorno dopo giorno, nell'amore infinito del Padre, nell'intimità feconda, libera, pacificante, gioiosa con Cristo suo Figlio. Come Giovanni, reclinato sul petto di Gesù: “Questi è colui che giacque sopra ‘l petto del nostro Pellicano, e Questi fue di su la croce al grande officio eletto” (Dante, Paradiso, XXV, 112-114).


Cristo come-il-pelliccano L’immagine del pellicano che nutre i propri figli con il sangue che sgorga dal suo cuore.



 La simbologia cristologica del pellicano trae origine, in particolare, dall’Adoro te Devote, antico canto eucaristico attribuito a San Tommaso d’Aquino, che recita:
«Pie pellicane, Iesu Domine, me immundum munda tuo sanguine;
cuius una stilla salvum facere totum mundum quit ab omni scelere».
Le parole di questo canto hanno fatto del pellicano uno dei simboli eucaristici per eccellenza. L’iconografia cristiana, a partire dal Medioevo, ha usato l’immagine del pellicano come allegoria di Cristo che sulla Croce viene trafitto al costato perdendo sangue e acqua fonte di vita per gli uomini. Con questo simbolo, dunque, viene evidenziato il sacrificio di Cristo, la sua totale abnegazione, la sua morte in croce e l’amore del Padre che invia il proprio Figlio a versare il suo sangue per la nostra salvezza. Il Pellicano diventa, perciò, figura della Redenzione operata da Cristo, icona dell’amore, del dono totale di sé, simbolo dell’amore paterno di Dio.
Dante nella Divina Commedia accosta la scena dell’Ultima Cena, dove l’apostolo Giovanni china il capo sul petto del Maestro, con la figura del pellicano: «Questi è colui che giacque sopra’l petto del nostro Pellicano, e Questi fue di su la croce al grande officio eletto». (Divina Commedia, Paradiso Canto XXV, 112-114).
In questo stemma il pellicano è rappresentato in argento, “smalto” simbolo della trasparenza, della Verità, sottolineando il messaggio di salvezza che il Signore proclama nel rispondere a Tommaso: «Io sono la via, la verità e la vita» (Gv 14, 6).



Beata Teresa di Calcutta (1910-1997), fondatrice delle Suore Missionarie della Carità 
Jesus, the Word to Be Spoken, 6


«Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue dimora in me e io in lui»


Con quanta tenerezza Gesù ci parla quando si offre ai suoi nella santa comunione: «La mia carne è vero cibo e il mio sangue vera bevanda. Chi mangia la mia carne e beve il mo sangue dimora in me ed io in lui». Che cosa potrebbe darmi come cibo, il mio Gesù, di più della sua carne? No, Dio non potrebbe far di più, né mostrarmi un amore più grande.
La santa comunione, come dice la parola stessa, è l'unione intima di Gesù con la nostra anima e il nostro corpo. Se vogliamo avere la vita e possederla in modo più grande ancora, dobbiamo vivere della carne di nostro Signore. I santi l'hanno così ben capito che potevano passare ore in preparazione ed ancor più in rendimento di grazie. Chi potrebbe spiegarlo? «Quale profondità di ricchezza nella sapienza e scienza di Dio! Quanto sono imperscrutabili i suoi giudizi, esclamava Paolo, e inaccessibili le sue vie, poiché chi mai ha potuto conoscere il pensiero del Signore?» (Rm 11,33-34).
Quando accogliete Cristo nel vostro cuore dopo aver condiviso il Pane Vivo, pensate a quanto la Madonna debba aver provato allorché lo Spirito Santo la coprì della sua ombra ed ella, piena di grazia, ricevette il corpo di Cristo (Lc 1,26s). Lo Spirito era così forte in lei che subito «ella si alzò in fretta» (v.39) per andare e servire.




J. Ratzinger. La vita divina nella nostra vita.
Da "Il Dio vicino"



"La vita con Dio, la vita eterna nella vita temporale, è possibile per questo, perché esiste la vita di Dio con noi: Cristo è Dio che viene a stare con noi. In lui Dio ha tempo per noi, lui è il tempo di Dio per noi e quindi, allo stesso tempo, l'apertura del tempo sull'eternità.
Dio non è più il Dio lontano, indeterminato, a cui non arriva alcun ponte, ma è il Dio vicino: il corpo del Figlio è il ponte delle nostre anime. Per mezzo di lui il rapporto con Dio di ciascuno di noi si è fuso nell'unicità della sua relazione con Dio, così che guardare a Dio non è più distogliere lo sguardo dagli altri e dal mondo, ma fusione del nostro sguardo e del nostro essere con lo sguardo unico e l'essere unico del Figlio. Poiché lui è disceso nelle profondità della terra (Ef 4,9s), Dio non è più solo un Dio che sta in alto, ma ci circonda e ci abbraccia, dall'alto, dal basso e dal profondo di noi stessi: Egli è tutto in tutto, e per questo a noi appartiene tutto in tutto: «Tutto quello che è mio, è tuo». Il «Dio tutto in tutto» ha avuto inizio con l'autoesproprìazione di Cristo in croce. Si compirà quando il Figlio consegnerà definitivamente al Padre il regno, cioè l'umanità radunata e la creazione tutta, insieme con essa (1Cor 15,28). Per questo non c'è più il puro privato dell'io isolato, ma «tutto ciò che è mio è tuo». Questa splendida parola del padre al figlio perduto (Lc 15,31), con cui poi Gesù ha descritto la sua esclusiva relazione con il Padre nella preghiera sacerdotale (Gv 17,10), nel corpo di Cristo vale anche per noi tutti tra di noi.
Ogni dolore accolto, ancora così nascosto, ogni silenziosa sopportazione del male, ogni superamento interiore di se stessi, ogni inizio di amore, ogni rinuncia e ogni silenzioso atto di affidamento a Dio: tutto ciò diventa ora operante nel tutto; niente di buono accade invano. Alla potenza del male, che con i suoi tentacoli minaccia di attaccare tutta la struttura della nostra società e di soffocarla in un abbraccio mortale, si oppone questo silenzioso circuito della vera vita, come la potenza liberante, in cui il regno di Dio, senza attirare l'attenzione, come dice il Signore, è già in mezzo a noi (Lc 17,21). In questo circuito si realizza il regno di Dio, poiché la volontà di Dio accade sulla terra come in cielo" (J. Ratzinger, Il Dio vicino, pagg. 154-155).






Sant’Efrem, diacono. La carne crocifissa ponte che ci conduce al cielo.
Disc. sul Signore, 3-4. 9

Il nostro Signore fu schiacciato dalla morte, ma a sua volta egli la calpestò come una strada battuta. Si sottomise spontaneamente alla morte, accettò volontariamente la morte, per distruggere quella morte, che non voleva morire. Nostro Signore infatti uscì reggendo la croce perché così volle la morte. Ma sulla croce col suo grido trasse i morti fuori dagli inferi, nonostante che la morte cercasse di opporsi.
La morte lo ha ucciso nel corpo, che egli aveva assunto. Ma con le stesse armi egli trionfò sulla morte. La divinità si nascose sotto l’umanità e si avvicinò alla morte, la quale uccise e a sua volta fu uccisa. La morte uccise la vita naturale, ma venne uccisa dalla vita soprannaturale. Siccome la morte non poteva inghiottire il Verbo senza il corpo, né gli inferi accoglierlo senza la carne, egli nacque dalla Vergine, per poter scendere mediante il corpo al regno dei morti. Ma una volta giunto colà col corpo che aveva assunto, distrusse e disperse tutte le ricchezze e tutti i tesori infernali.
Cristo venne da Eva, genitrice di tutti i viventi. Ella è la vigna, la cui siepe fu aperta proprio dalla morte per le mani di quella stessa Eva che doveva, per questo, gustare i frutti della morte. Eva, madre di tutti i viventi, divenne anche causa di morte per tutti i viventi.
Fiorì poi Maria, nuova vite rispetto all’antica Eva, e in lei prese dimora la nuova vita, Cristo. Avvenne allora che la morte si avvicinasse a lui per divorarlo con la sua abituale sicurezza e ineluttabilità. Non si accorse, però, che nel frutto mortale, che mangiava, era nascosta la Vita. Fu questa che causò la fine della inconsapevole e incauta divoratrice. La morte lo inghiottì senza alcun timore ed egli liberò la vita e con essa la moltitudine degli uomini.
Fu ben potente il figlio del falegname, che portò la sua croce sopra gli inferi che ingoiavano tutto e trasferì il genere umano nella casa della vita. Siccome poi a causa del legno il genere umano era sprofondato in questi luoghi sotterranei, sopra un legno entrò nell’abitazione della vita. Perciò in quel legno in cui era stato innestato il ramoscello amaro, venne innestato un ramoscello dolce, perché riconosciamo colui al quale nessuna creatura è in grado di resistere. Gloria a te che della tua croce hai fatto un ponte sulla morte. Attraverso questo ponte le anime si possono trasferire dalla regione della morte a quella della vita.
Gloria a te che ti sei rivestito del corpo dell’uomo mortale e lo hai trasformato in sorgente di vita per tutti i mortali.
Tu ora certo vivi. Coloro che ti hanno ucciso hanno agito verso la tua vita come gli agricoltori. La seminarono come frumento nel solco profondo. Ma di là rifiorì e fece risorgere con sé tutti.
Venite, offriamo il nostro amore come sacrificio grande e universale, eleviamo cantici solenni e rivolgiamo preghiere a colui che offrì la sua croce in sacrificio a Dio, per rendere ricchi tutti noi del suo inestimabile tesoro.

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