Santa Maria,

Santa Maria,
...donna del primo sguardo, donaci la grazia dello stupore.

giovedì 31 gennaio 2013






vangelodelgiorno.blogspot.it/


Siate uomo, Pietro.
Siate degno della fiamma che vi consuma.
E se bisogna essere divorati,
sia ciò su un candelabro d'oro
come il Cero Pasquale in mezzo al coro
per la gloria di tutta la Chiesa


Paul Claudel, "L'Annuncio a Maria"












Dal Vangelo secondo Marco 4,21-25.

Diceva loro: «Si porta forse la lampada per metterla sotto il moggio o sotto il letto? O piuttosto per metterla sul lucerniere? Non c'è nulla infatti di nascosto che non debba essere manifestato e nulla di segreto che non debba essere messo in luce. Se uno ha orecchi per intendere, intenda!». Diceva loro: «Fate attenzione a quello che udite: Con la stessa misura con la quale misurate, sarete misurati anche voi; anzi vi sarà dato di più. Poiché a chi ha, sarà dato e a chi non ha, sarà tolto anche quello che ha». 



Il commento


Per amore Dio si è fatto carne, ha vinto la morte e il peccato, e ha scelto un manipolo di uomini per inviarli ad annunciare il Kerygma, la Notizia della loro liberazione. Ha chiamato gli Apostoli innanzi tutto perché stessero con Lui, gli amici intimi ai quali, come ad Abramo “confidare i misteri del regno di Dio”; la Scrittura, infatti, profetizzava già questa amicizia tra Dio e i suoi eletti: "Ma tu, Israele mio servo, tu Giacobbe, che ho scelto, discendente di Abramo mio amico" (Isaia 41,8). Gli Apostoli sono la discendenza di Abramo, chiamati come lui a dare origine ad una storia di salvezza per tutte le genti. Ma ora Dio ha carne e ossa, un volto, due occhi, una voce, è accanto a loro a parlare del Cielo, del Padre, dell'amore infinito che si compirà sul Golgota. E' Gesù che, giorno dopo giorno, con parole e segni, educa e forma nella fede i suoi Apostoli, la sua Chiesa. Esattamente come continua a fare da secoli, scegliendo dal mondo quelli che Egli vuole, per plasmarli nell'incontro profondo ed esistenziale con Lui, per conoscere intimamente il “tutto ciò” di cui essi sarannotestimoni (cfr Lc 24,48), la fiamma che arde nella “lampada”: "tutto ciò vuole dire innanzitutto la Croce e la Risurrezione; i discepoli hanno visto la crocifissione del Signore, vedono il Risorto e così cominciano a capire tutte le Scritture che parlano del mistero della Passione e del dono della Risurrezione.Tutto ciò è il mistero di Cristo, attraverso il quale – questo è il punto essenziale - conosciamo il volto di Dio". Ma "come possiamo noi essere testimoni di tutto ciò? Possiamo essere testimoni solo conoscendo Cristo, solo se lo conosciamo di prima mano e non solo da altri, dalla nostra propria vita, dal nostro incontro personale con Cristo. Incontrandolo realmente nella nostra vita di fede diventiamo testimoni e possiamo così contribuire alla novità del mondo, alla vita eterna" (Benedetto XVI). E’ Cristo dunque la lucerna portata, "che viene sul lucerniere”, secondo l'originale greco. E' Cristo che viene nei suoi Apostoli, risorto e vivo nella sua Chiesa: "Cristo è la luce delle genti, e questo sacro concilio, adunato nello Spirito Santo, ardentemente desidera che la luce di Cristo, riflessa sul volto della Chiesa, illumini tutti gli uomini" (Lumen Gentium). Il Vangelo odierno rivela il desiderio di Cristo per gli Apostoli di ogni tempo, anche per noi. Non siamo stati chiamati nella Chiesa per vedere risolti i problemi; Dio non ha moltiplicato segni e prodigi d'amore e misericordia perché li “nascondessimo sotto il moggio”. I talenti del suo Spirito, le opere che Lui ha compiuto e sta compiendo in noi e nella sua Chiesa, sono per essere poste sul candeliere, uno spettacolo per il mondo. “Nessun segreto sarà tenuto nascosto”, il nostro Dna è lo stesso di Cristo, ed una vita vissuta contro la sua natura diviene immediatamente uno scandalo: un cristiano che vive come un pagano è la caricatura più ridicola che il mondo abbia visto. Come i preti che si infilano giacca e cravatta per compromettersi col mondo, mentre tutto di loro ne svela inesorabilmente l'identità.


Non possiamo continuare a fuggire come Giona, perché sono le cellule che abbiamo ricevuto, la Grazia infinita di una vita salvata e riscattata, a testimoniare per noi. Certo, passiamo e passeremo per molte crisi, la paura e il richiamo del mondo sono forti. Così come "la stanchezza e il disincanto, la routine e il disinteresse, e, soprattutto, la mancanza di gioia e speranza" (Paolo VI). Come Giona siamo spesso perfino invidiosi dell'amore di Dio, perché esso contrasta con i nostri criteri carnali. Allora, come Giona, dovremo entrare mille volte nel ventre della balena, e restare in quel buio di angoscia, per sperimentare, sempre più profondamente, che la fuga, la tiepidezza e il compromesso spalancano sempre le fauci del fallimento e della solitudine. Scenderemo ancora fin sull'orlo del baratro per sperimentarvi la Grazia della misericordia, la risurrezione delle nostre esistenze che ci catapulteranno, più maturi e consapevoli, nell'ineludibilità della missione a cui siamo stati destinati. Per giungere alla certezza d'essere chiamati davvero ad essere il riflesso splendente della Luce di Cristo. Scriveva Sant'Ambrogio della Chiesa: “fulget Ecclesia non suo sed Christi lumine - splende non di propria luce, ma di quella di Cristo”. Per questo Gesù ci ammonisce a ben “guardare” la Parola che ascoltiamo, secondo l'originale greco tradotto con "fate bene attenzione". Ed è un verbo legato all’esperienza della risurrezione, usato nel Vangelo per definire l'esperienza visiva dei discepoli dinnanzi a Cristo risorto. Guardare Cristo, fissarlo, contemplarlo “senza misura”, per lasciarsi immergere nella sua luce vittoriosa. “Misurare” bene l'amore significa rendersi conto che non v'è misura per misurarlo, e sperimentare nella propria debolezza, come la luna, tra i crateri affettivi e le fasi dell'umore, la sorpresa di una Luce che non ha inizio né fine, e che aumenta e ci viene “data” sempre più: «La Chiesa prende il proprio splendore dal Sole di giustizia, così che può dire “non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me”. Davvero sei felice tu, o luna, che hai meritato un segno così grande!» (Sant'Ambrogio). Siamo dunque chiamati ad “avere” questo amore, ad essere ricolmi della sua Luce. Chi non ha Cristo, non ha nulla, e vedrà evaporare nel nulla anche ciò che crede di possedere. Sarebbe stolto, infatti, avere un tesoro e nasconderlo, essere avvolti dal buio e, possedendo una “lampada”, metterla sotto il moggio o sotto il letto. Eppure è una stoltezza diffusa. Nella parabola dei talenti Gesù definisce malvagio il servo che, per paura, ha nascosto il talento. Si tratta della malvagità pensata nel cuore, che scaturisce dall'ignoranza di Lui, del suo amore, della sua missione. E' la condizione del mondo, affogato nell'oscurità del suo Principe: non può comprendere le parabole, i misteri del Regno che in esse vi sono celati perché sia svelato il cuore di chi le ascolta. Quando è semplice e umiliato nella propria debolezza che fa urgente il bisogno di salvezza e libertà, esso riesce a intercettare l’amore che le parabole annunciano, riconoscendo in esse la profezia del Messia. Coloro, invece, che, orgogliosi e schiavi della propria presunta giustizia, “misurano” con avarizia l’amore di Dio, non possono accettare la sua gratuità, “guardano, ma non vedono, ascoltano, ma non intendono”, perché significherebbe accettare i propri limiti: si mettono “fuori” dal raggio della Grazia, e si vedono “tolti” il “perdono e la conversione” che, gratuitamente, “hanno” già ricevuto da Gesù. Così tutti quelli che ascoltano senza “guardare” intensamente Cristo per accogliere la sua vittoria sul peccato, sono “misurati con la stessa misura con la quale misurano”: non si tratta di durezza e severità, ma dell’estremo atto d’amore con il quale Dio cerca di scuoterli perché riconoscano la propria stolta durezza di cuore e si aprano alla sua misericordia. Ma noi siamo chiamati anche oggi a fissare Cristo per rimanere “dentro” il suo amore, a essere crocifissi con Lui ogni giorno sul “candelabro” della storia che ci attende; spesso sembra che gli eventi e le persone che ci crocifiggono ci assorbano al punto di toglierci la vita: è vero, per essi perdiamo la vita della carne, ma, come il roveto ardente dal quale Mosè ha ascoltato la Parola, la Croce ci brucia senza consumarci, e ci chiama inviandoci nella missione più urgente. Così ogni evento, difficoltà, sofferenza, angoscia che incontriamo nel fluire dei giorni, costituiscono la Croce benedetta dove vivere l'intimità con Cristo, il candelabro prezioso sul quale risplende il suo amore; in esso viviamo la vita di un Altro, per non essere "evangelizzatori tristi e scoraggiati, impazienti o ansiosi", bensì "ministri del Vangelo la cui vita irradii fervore e che abbiano per primi ricevuto in loro stessi la gioia di Cristo" (Paolo VI): la gioia di “guardare” con gli occhi della fede e scoprire che tutto è santo, e “ascoltare” l’infinita misura del suo amore nei sussurri della storia.








APPROFONDIMENTI


mercoledì 30 gennaio 2013







Ma, dirai, a che pro seminare tra le spine, fra i sassi o lungo la strada ?
Se si trattasse di un seme e una terra materiali, non avrebbe nessun senso;
ma poiché si tratta delle anime e della Parola, la cosa è degna di elogi.
A ragione si rimprovererebbe a un coltivatore di agire così;
il sasso non può diventare terra, la strada non può non essere una strada,
né le spine non essere delle spine.
Ma nella sfera spirituale, non è lo stesso:
il sasso può diventare una terra fertile,
la strada non essere più calpestata dai passanti e diventare un campo fecondo,
le spine essere sradicate e permettere al seme di dare frutto liberamente.
Se questo non fosse possibile, il seminatore non avrebbe sparso il seme come ha fatto.


San Giovanni Crisostomo, Discorsi 44 sul vangelo di Matteo, 3-4








Dal Vangelo secondo Marco 4,1-20.

Di nuovo si mise a insegnare lungo il mare. E si riunì attorno a lui una folla enorme, tanto che egli salì su una barca e là restò seduto, stando in mare, mentre la folla era a terra lungo la riva. Insegnava loro molte cose in parabole e diceva loro nel suo insegnamento: «Ascoltate. Ecco, uscì il seminatore a seminare. Mentre seminava, una parte cadde lungo la strada e vennero gli uccelli e la divorarono. Un'altra cadde fra i sassi, dove non c'era molta terra, e subito spuntò perché non c'era un terreno profondo; ma quando si levò il sole, restò bruciata e, non avendo radice, si seccò. Un'altra cadde tra le spine; le spine crebbero, la soffocarono e non diede frutto. E un'altra cadde sulla terra buona, diede frutto che venne su e crebbe, e rese ora il trenta, ora il sessanta e ora il cento per uno». E diceva: «Chi ha orecchi per intendere intenda!». Quando poi fu solo, i suoi insieme ai Dodici lo interrogavano sulle parabole. Ed egli disse loro: «A voi è stato confidato il mistero del regno di Dio; a quelli di fuori invece tutto viene esposto in parabole, perché: guardino, ma non vedano, ascoltino, ma non intendano, perché non si convertano e venga loro perdonato». Continuò dicendo loro: «Se non comprendete questa parabola, come potrete capire tutte le altre parabole? Il seminatore semina la parola. Quelli lungo la strada sono coloro nei quali viene seminata la parola; ma quando l'ascoltano, subito viene satana, e porta via la parola seminata in loro. Similmente quelli che ricevono il seme sulle pietre sono coloro che, quando ascoltano la parola, subito l'accolgono con gioia, ma non hanno radice in se stessi, sono incostanti e quindi, al sopraggiungere di qualche tribolazione o persecuzione a causa della parola, subito si abbattono. Altri sono quelli che ricevono il seme tra le spine: sono coloro che hanno ascoltato la parola, ma sopraggiungono le preoccupazioni del mondo e l'inganno della ricchezza e tutte le altre bramosie, soffocano la parola e questa rimane senza frutto. Quelli poi che ricevono il seme su un terreno buono, sono coloro che ascoltano la parola, l'accolgono e portano frutto nella misura chi del trenta, chi del sessanta, chi del cento per uno». 



Il commento

Una barca sul mare, e sulla terra “una folla enorme” di volti e cuori in attesa. Di che cosa hanno bisogno? Di una parabola, che li strappi ad uno ad uno dall’anonimato che stinge l’unicità di ciascuno nel grigio del sentimentalismo e dei desideri dettati dagli umori della carne. Tra le “molte cose” che Gesù insegnava, il Vangelo ne registra una, trasmessa attraverso una parabola con la quale illumina la Chiesa, il suo stare nel mondo come “terra bella” e feconda di frutti che sanno di vita eterna. Comprendere questa parabola è capire tutte le altre, perché in essa è celata la chiave con la quale aprire lo scrigno della Scrittura. Essa racconta di un Seminatore che, per salvare tutta la terra, anche quella dove vi sono solo spine e sassi e dove passa la strada, è “uscito a seminare” il suo seme più prezioso, come il Padre che, per salvare tutti i suoi figli ribelli e dispersi, ha sacrificato il suo Figlio prediletto. Il mondo che ha ingannato e rapito ogni uomo, infatti, è terra dura, ostile e inospitale. In essa la Parola incarnata vi è “caduta” sotto il peso della Croce, sulla strada del Calvario, tra spine e pietre. E' stata rifiutata, derisa, uccisa proprio da coloro ai quali era stata inviata. E il seme è morto, sepolto nella terra del maligno, ma dalla solitudine del sepolcro è scaturito il frutto della risurrezione, donato come una primizia a un pugno di uomini scelti per essere la “terra bella e buona”, come le Terra Promessa sposa della Parola che dà la Vita. Terra di Galilea, fatta di pescatori e peccatori, testardi e duri di cuore, incapaci di comprendere, come tutti gli altri, e per questo segno di un mistero che stupisce, dell'elezione irrevocabile come già fu quella che cadde sul Popolo di Israele. Gli apostoli, le primizie scelte per mostrare "il frutto" del puro amore ad ogni uomo, il destino eterno che tutti ci attende, "nella misura chi del trenta, chi del sessanta, chi del cento per uno". Ciascuno, infatti, ha una storia, una famiglia, un lavoro, luoghi e persone che Dio ha pensato di salvare attraverso di noi. Il frutto non dipende dagli sforzi e dalle capacità, ma dalla Grazia che ci è data in funzione della missione alla quale siamo chiamati. Niente campionati e classifiche, un unico obbiettivo per tutti, la salvezza di ogni uomo. 


Per opera della Grazia, in quel pugno di uomini la terra s'è fatta dolce e accogliente, come il seno benedetto di Maria. Dodici uomini fecondati dalla Parola che ritorna al Cielo dopo aver compiuto la missione per la quale era stata seminata: grazie ad essa, infatti, “il sasso può diventare una terra fertile, la strada non essere più calpestata dai passanti e diventare un campo fecondo, le spine essere sradicate e permettere al seme di dare frutto liberamente” (San Giovanni Crisostomo). Parola viva, la vita di Cristo nella vita di quegli uomini diventati Chiesa, Assemblea Santa nello Spirito Santo. La Chiesa Amica e Sposa di Cristo, depositaria dei suoi segreti più intimi, primizia del Regno che solca il mare della morte. Per questo la barca di Gesù che, “seduto”, annuncia il Vangelo e insegna la Verità come l'unico Maestro, è separata dalla terraferma, vittoriosa sul mare della morte. Così è la Chiesa, le nostre comunità sparse nel mondo senza appartenergli; così vivono gli Apostoli, e ciascuno di noi, separati dalla terra per mostrare la vittoria sul mare di morte che incombe su tutti. Su quella barca siamo chiamati a vivere il combattimento di ogni giorno, perché le scorie della vecchia terra sterile sono in agguato con le stesse tentazioni che hanno assalito il Popolo di Israele davanti al Mar Rosso e Gesù nel deserto e sulla Croce; tentazioni che ci scuotono per indurci a riprendere criteri e pensieri mondani, “affanni e preoccupazioni”, “ricchezze e bramosie”, “paure ed angosce di persecuzioni” e fallimenti. La via della Chiesa, infatti, non può che passare sul mare, seguendo le orme spesso invisibili del Signore che ci precede nell'esodo eterno. Come Mosè, la Chiesa è chiamata a trascinare il mondo nella Pasqua della salvezza, nel passaggio dalla schiavitù alla libertà, dall'Egitto, la terra ostile al seme della Parola, alla Gerusalemme celeste, la terra buona e promessa. Anche oggi il Signore ci chiama con sé nella Chiesa, per offrire un'arca d'amore e salvezza ad ogni uomo, d.




APPROFONDIMENTI

martedì 29 gennaio 2013







Bisogna ricreare un clima autenticamente catto­lico, 
ritrovare il senso della Chiesa come Chiesa del Signore, 
come spazio della reale presenza di Dio nel mondo. 
Quel mistero di cui parla il Vaticano II 
quan­do scrive quelle parole terribilmente impegnative 
e che pure corrispondono a tutta la tradizione cat­tolica: 
"La Chiesa, cioè il regno di Cristo già pre­sente in mistero".


Card. Joseph Ratzinger



Dal Vangelo secondo Marco 3,31-35


In quel tempo, giunsero la madre di Gesù e i suoi fratelli e, stando fuori, mandarono a chiamarlo. 
Attorno a lui era seduta una folla, e gli dissero: «Ecco, tua madre, i tuoi fratelli e le tue sorelle stanno fuori e ti cercano». 
Ma egli rispose loro: «Chi è mia madre e chi sono i miei fratelli?». Girando lo sguardo su quelli che erano seduti attorno a lui, disse: «Ecco mia madre e i miei fratelli! Perché chi fa la volontà di Dio, costui per me è fratello, sorella e madre».


Il commento

Il Signore fa nuove tutte le cose, é sceso dal Cielo per cercare e riscattare ogni uomo, e vi è asceso "conducendo prigionieri", perché "anche i ribelli abitino presso il Signore"; un anticipo della Gerusalemme celeste che attira il passato, lo trasfigura e lo rende un presente compiuto nel suo amore, dischiuso su un futuro che non avrà fine. La Madre di Gesù e i suoi fratelli, stando fuori, mandano a chiamare Gesù. Ma tra loro vi è come un diaframma, "la folla seduta attorno a Lui". «Attorno» e «seduta», e Gesù al centro: il Maestro e i suoi discepoli. Essi ascoltano e per questo obbediscono e fanno la volontà di Dio, divenendo così madre e fratelli di Gesù. Egli guarda quella folla che lo cinge come le mura della Gerusalemme di lassù, e ne attesta la familiarità nuova, il legame che supera carne e sangue, l'intimità che viene dal Cielo. I discepoli sono attorno a Lui come una corona che cinge il diadema, stretti a quello splendore che ha rapito i loro cuori e le loro anime. A quanti lo hanno accolto, «ha dato potere di diventare figli di Dio: a quelli che credono nel suo nome, i quali non da sangue, né da volere di carne, né da volere di uomo, ma da Dio sono stati generati» (Gv. 1, 12 ss). Essi hanno intuito che in quell'Uomo e nelle sue parole Dio stesso era con loro; Gesù tergeva nella misericordia le loro lacrime, le cose di prima, quelle che sino ad allora li avevano fatto soffrire, che sembravano pesare come un macigno, erano passate, trasfigurate nella profezia d'amore che traspariva dalle sue parole. Niente lutto, nè affanno, nè lamento, perchè quel Maestro aveva donato loro la speranza. Per questo, come cuccioli in attesa di cibo, hanno puntato orecchie e cuore per ascoltarlo, e ora erano lì, seduti attorno a Lui: in loro appare la Chiesa, Ecclesia, assemblea convocata per ascoltare, accogliere e obbedire. Gesù «li fissa girando tutto intorno lo sguardo» e ne svela l'identità nuova e sorprendente: per il fatto di essere lì attorno a Lui e ascoltare la sua Parola costituiscono il nuovo Israele convocato intorno al nuovo Sinai. Sono madre e fratelli di Gesù, generati in Dio e fecondi della sua stessa natura, dello stesso amore. La fede viene infatti dall'ascolto: è come per la terra assetata, arida e sterile, bagnata dall'acqua che feconda perché porti frutto. Ascoltare è aprirsi alla vita, per dare la vita.

Gesù non chiede nulla, non esige, non detta regole. Gesù ama e annuncia il suo amore. Gesù attira a sé per donare la nuova natura incorruttibile. «Fare la volontà di Dio» significa allora essere attorno a Gesù ascoltando la sua parola, cibandosi del suo amore fatto carne in Lui. Nel Vangelo non appare null'altro, inutile fantasticare e immaginare. Quegli uomini fissati dallo sguardo di Gesù ascoltano e per questo fanno: accolgono come Maria la Parola capace di generare in Lei Colui che è il Principio e il compimento della volontà del Padre. La Chiesa non è programmare e fare, la Chiesa è amore, perchè chi ascolta davvero accoglie, si dona, abbandona pesi e zavorre carnali, si lasca trasformare dalla novità dell'annuncio; chi ascolta ama e per questo compie la volontà di Dio. Come Gesù che nel Getsemani ha ascoltato e accolto e così si è consegnato a una volontà diversa da quella della sua carne. La via crucis, la morte, il sepolcro e la risurrezione sono stati il frutto benedetto di quell'ascolto drammatico fattosi obbedienza; da essa e in essa è sorta la Chiesa, il corpo del Signore risorto, la Gerusalemme di lassù, che oggi accoglie noi, la madre e maestra che ci annuncia la Parola di Dio. Nessun tempio costruito dagli sforzi umani. Nessun tentativo di richiamare il Signore perché esca «fuori» dalla volontà del Padre e si pieghi alla nostra carne. E' Lui che ci chiama, laddove ci troviamo, «fuori» dalla sua cerchia, schiavi dei nostri idoli, accampando diritti di parentela secondo la carne solo perché preghiamo o siamo andati a scuola dai preti, «chiamando» Gesù ed esigendo che lasci di essere Dio per assecondare i nostri capricci. Ancora una volta oggi è Gesù stesso che ci attira e accoglie nella sua famiglia, e ci chiama a percorrere il cammino che anche Maria ha dovuto fare: passare dalla conoscenza secondo la carne a quella nuova dello Spirito. Conoscere Cristo seguendo la lampada dell'Agnello che illumina le orme sui sentieri della storia. Stringerci a Lui nell'ascolto della sua Parola, cibandoci del suo amore, per vivere pienamente ogni istante come «madri e fratelli» di Gesù, segni autentici del suo amore per ogni uomo.

lunedì 28 gennaio 2013

Lunedì della III settimana del Tempo Ordinario



Chi rifiuta lo Spirito e il sangue rimane nelle “opere morte”, nel peccato.
E la bestemmia contro lo Spirito Santo consiste proprio 
nel rifiuto radicale di accettare questa remissione, 
di cui Egli è l'intimo dispensatore e che presuppone la reale conversione, 
da Lui operata nella coscienza.

Giovanni Paolo II
Dal Vangelo secondo Marco 3,22-30.
Ma gli scribi, che erano discesi da Gerusalemme, dicevano: «Costui è posseduto da Beelzebùl e scaccia i demòni per mezzo del principe dei demòni». Ma egli, chiamatili, diceva loro in parabole: «Come può satana scacciare satana? Se un regno è diviso in se stesso, quel regno non può reggersi; se una casa è divisa in se stessa, quella casa non può reggersi. Alla stessa maniera, se satana si ribella contro se stesso ed è diviso, non può resistere, ma sta per finire. Nessuno può entrare nella casa di un uomo forte e rapire le sue cose se prima non avrà legato l'uomo forte; allora ne saccheggerà la casa. In verità vi dico: tutti i peccati saranno perdonati ai figli degli uomini e anche tutte le bestemmie che diranno; ma chi avrà bestemmiato contro lo Spirito santo, non avrà perdono in eterno: sarà reo di colpa eterna». Poiché dicevano: «E' posseduto da uno spirito immondo».
Il commento
Il Cielo, quando appare sulla terra, getta sempre scompiglio. Fin dal Principio, lo Spirito Santo, il respiro di Dio, l'amore che alberga nel seno stesso della Trinità, ha realizzato, come un fedele operaio, la volontà e la Parola del Padre. "Pensi alla creazione?; essa fu operata nello Spirito Santo che consolidava e ornava i cieli. Pensi alla venuta di Cristo? Lo Spirito l'ha prepa­rata e poi, nella pienezza dei tempi, l'ha realizzata discen­dendo su Maria. Pensi alla formazione della Chiesa? Essa è opera dello Spirito Santo. Pensi alla parusia? Lo Spirito non sarà assente neppure allora, quando i morti sorgeranno dalla terra e si rivelerà dal cielo il nostro Salvatore" (san Basilio, De Spiritu Sancto, 16 e 19). Sin dalla creazione lo Spirito Santo aveva messo ordine, e l'amore aveva dato senso ad ogni cosa. Separando e distinguendo, ha fatto e rivelato la Verità; innanzi tutto che l'uomo è creatura e non è Dio. Poi, che ha bisogno di Dio, e senza di Lui non può far nulla; anche quello che sembra poter fare da solo, non è altro che fumo, vanità, opere morte pronte a corrompersi. Ma l’uomo, ricolmo dello Spirito santo, è anche immagine del suo Creatore, creato per dialogare con Lui in obbedienza e amore. Penetrando nell'uomo, lo Spirito vi ha deposto il dono più grande, terribile e dolce ad un tempo, la libertà. In essa l'uomo avrebbe potuto amare davvero, ma anche odiare, obbedire o disobbedire. E fu disobbedienza, e fu un'altra separazione, tragica e dolorosa, come quella del caos che regnava prima della creazione. La naturale distanza tra Creatore e creatura poteva essere colmata dall’accoglienza dell'amore obbediente, eppure la disobbedienza ha chiuso il cuore dell'uomo allo Spirito Santo. Ma Dio, che non è un uomo, non si è arreso: "L'amore appassionato di Dio per il suo popolo — per l'uomo — è nello stesso tempo un amore che perdona. Esso è talmente grande da rivolgere Dio contro se stesso, il suo amore contro la sua giustizia. Il cristiano vede, in questo, già profilarsi velatamente il mistero della Croce: Dio ama tanto l'uomo che, facendosi uomo Egli stesso, lo segue fin nella morte e in questo modo riconcilia giustizia e amore" (Benedetto XVI, Deus caritas est, n. 10). Dio ha tratto il suo Figlio dalla carne della Vergine Maria come in principio aveva tratto Adamo dalla terra vergine. Lo Spirito Santo è apparso ancora sull'uscio della nuova e definitiva creazione. Nel seno di Maria, come nel seno dell'umanità, ha riportato l'ordine e il senso perduti, per non abbandonare più Gesù, il nuovo e perfetto Adamo, lo consacra in potenza nelle acque del Giordano; lo "getta" nell'arena del deserto per combattere e vincere nella lotta con satana; lo colma di sè per annunciare la Buona Notizia; lo assiste nei miracoli che liberano i poveri, i piccoli, i peccatori; lo sostiene con grida e gemiti nell'ora della prova; lo accompagna sul ciglio della vita per essere effuso, nell'ultimo respiro, su ogni uomo, un soffio infinito di amore e misericordia a perdonare ogni peccato.

Questa è l'opera dello Spirito Santo in Gesù di Nazaret, duemila anni fa a Cafarnao come oggi nella nostra vita. Sospinto da un amore incontenibile entra oggi nel caos che distrugge le nostre esistenze, nel disordine affettivo, nella confusione idolatrica che ci getta in ginocchio in una stolta adorazione di idoli muti, quali il denaro, il potere, l’onore, il rispetto, e poi il lavoro, le vacanze, i diritti vecchi e nuovi, l’autonomia superba travestita da libertà. Entra Gesù, «l'uomo più forte» nella nostra casa, e «lega l'uomo forte». E' forte il demonio, molto più forte di noi, e ogni sua parola, ogni suo inganno, mirano a un unico obbiettivo: farci dubitare di Dio, disperare del suo amore, «bestemmiare contro lo Spirito Santo». Il demonio sa che in Cristo ogni peccato sarà perdonato, conosce il cammino dato all'uomo per salvarsi e che consiste nella conversione e nell'umiltà, nel riconoscere i propri peccati e lasciarsi ferire dall'amore di Dio e consegnarli ogni sudiciume. «Belzeebul» significa infatti "Baal del sudiciume", signore dell'impuro. Il demonio sa che, sbattuto dinanzi alla Croce, non può assolutamente nulla. Per questo induce l'uomo a sottrarsi alla Croce, all'umiltà, al riconoscersi debole nella consapevolezza che satana esiste ed è forte; per questo si nasconde, e scuote la ragione mostrando l'assurdo di un amore che "si rivolge contro se stesso". In fondo vi è caduto anche Mosè, quando ha dubitato che Dio avrebbe potuto avere ancora misericordia di un Popolo tanto ostinato, e per questo non è entrato nella Terra. Ha dubitato anche Pietro, ed era satana, di fronte all'annuncio della stoltezza e della follia della Croce. Dubitiamo anche noi e ci risvegliamo sulla soglia della bestemmia contro lo Spirito Santo. La parola «bestemmia» traduce il termine greco «blasphêmía», che deriva da «ingiuriare» e da «reputazione», che in latino denota letteralmente la «diffamazione». Ci troviamo soggiogati da un aguzzino feroce, in situazioni inestricabili, il marito violento, il lavoro insopportabile, un'amicizia tradita, un figlio schiavo della droga, i debiti, la Croce,  e non vediamo nessuna via d'uscita ragionevole. Quando tutto ci sembra cospirare contro, anche i miracoli, le opere d'amore compiute da Dio in nostro favore, si rivestono di una tenebra sinistra, e cediamo al veleno del dubbio, «che non sia tutto un caso, un inganno?». E cominciamo ad insultare, a «diffamare» Dio. La storia della salvezza, la Croce gloriosa di Cristo che ci ha sottratti al caos, diviene ai nostri occhi un tragico scherzo del destino, coincidenze che ci hanno tratto in inganno. Mia moglie non cambierà mai, questo cancro distruggerà in un sol colpo ogni speranza, i soldi non mi basteranno, non troverò lavoro, tantomeno un fidanzato, non cambierò mai, gli stessi peccati mi inchioderanno alla dannazione. Così, come ha scritto Romano Guardini, “il no, il male, il nulla si fanno momenti gravidi di contenuto, ‘valori antivalenti’, potenze del mondo... Il no viene considerato come appartenente al sì, il nulla come appartenente all’essere, il male come appartenente al bene: in ultima analisi, ed in maniera espressa, l’elemento satanico come appartenente a Dio, il che, secondo Matteo è il peccato in assoluto, la bestemmia contro lo Spirito Santo" (R. Guardini, Senso della teoria degli opposti). Diveniamo stolti come gli «scribi scesi da Gerusalemme», incapaci di ragionare le cose più semplici, come il fatto che «un regno diviso non può aver potere», che «satana non può rivoltarsi contro se stesso». La stoltezza che nega l'evidenza del bene è la peggiore, è la condanna più atroce, quella che ci fa vivere come dei topi in gabbia. Il caos antecedente la creazione torna a sconvolgere le nostre vite, al punto di sbarrarci le porte alla conversione. San Tommaso d’Aquino afferma che il peccato contro lo Spirito Santo “si dice irremissibile… perché toglie i mezzi con i quali ci compie la remissione dei peccati” (S.Th. II, 14,3). Una "impermeabilità della coscienza" (Giovanni Paolo II) si impossessa del nostro intimo, ci getta nello sconforto e in una sorta di depressione spirituale. Ma giunge oggi il Signore, ed è «il più forte». Il suo amore squarcia i Cieli e discende nella profondità più recessa del nostro intimo, laddove abbiamo alzato bandiera bianca, arrendendoci alla nostra debolezza. E prende per mano proprio questa debolezza, per esorcizzare il dubbio: «lega» il demonio, incatena la menzogna, azzittisce l'orgoglio. Gesù viene oggi per farci «suo bottino», proprietà eterna del suo amore. Con Lui scende in noi il soffio dello Spirito per svelarci la Verità: in ogni evento alberga un germe d'amore e di vita, il mistero nascosto agli angeli, l'amore fatto carne nei nostri fallimenti, in tutto quello che ci aveva condotti sull'orlo del baratro. «Forte», il Signore ci fa forti della sua fedeltà, ci strappa dalle mani del demonio, riporta ordine e pace, e ogni cosa torna al suo posto, nello scrigno della Sua volontà. Viene Gesù, e nel cuore e sulle labbra, laddove affiorava maligna la bestemmia, depone un canto di lode e di benedizione.
APPROFONDIMENTI

Giovanni Paolo II. Il peccato contro lo Spirito Santo

Isacco della Stella. L'invidia: una bestemmia contro lo Spirito

sabato 26 gennaio 2013

venerdì 25 gennaio 2013

Conversione di San Paolo








Questa svolta della sua vita, questa trasformazione di tutto il suo essere 
non fu frutto di un processo psicologico, 
di una maturazione o evoluzione intellettuale e morale, 
ma venne dall’esterno: non fu il frutto del suo pensiero, 
ma dell’incontro con Cristo Gesù. 
In questo senso non fu semplicemente una conversione, 
una maturazione del suo "io", 
ma fu morte e risurrezione per lui stesso: 
morì una sua esistenza e un’altra nuova ne nacque con il Cristo Risorto. 
Solo l'avvenimento, l'incontro forte con Cristo, 
è la chiave per capire che cosa era successo: 
morte e risurrezione, 
rinnovamento da parte di Colui che si era mostrato e aveva parlato con lui. 
In questo senso più profondo possiamo e dobbiamo parlare di conversione. 
Questo incontro è un reale rinnovamento 
che ha cambiato tutti i suoi parametri. 
Adesso può dire che ciò che prima era per lui essenziale e fondamentale, 
è diventato per lui "spazzatura"; 
non è più "guadagno", ma perdita, 
perché ormai conta solo la vita in Cristo.


Benedetto XVI
















Dal Vangelo secondo Marco 16,15-18.

Gesù disse loro: «Andate in tutto il mondo e predicate il vangelo ad ogni creatura.
Chi crederà e sarà battezzato sarà salvo, ma chi non crederà sarà condannato. E questi saranno i segni che accompagneranno quelli che credono: nel mio nome scacceranno i demòni, parleranno lingue nuove, prenderanno in mano i serpenti e, se berranno qualche veleno, non recherà loro danno, imporranno le mani ai malati e questi guariranno». 


Il commento


Un uomo lanciato nel fuoco di uno zelo smisurato, e un amore più grande d'ogni entusiasmo, che arriva come un fendente, e rovescia la vita: una voce improvvisa, una luce che abbaglia, e tutto quello che è stato - certezze che sembravano granito, la storia, i Padri, le tradizioni, l'elezione e l’Alleanza – viene assorbito travasato nel buio della cecità. E poi, anni di silenzi, il deserto, occhi poggiati sul nulla, e quella voce che risuona dentro, insieme alle voci amiche di chi era stato nemico che raccontano l'amore che ha vinto la morte. La vita di Saulo era precipitata in un frullatore che rimestava ogni molecola; soprattutto, non lo lasciava il ricordo vivo di pietre e sangue e il volto di Stefano, come quello di un angelo piegato sulle ginocchia, quella sapienza sconosciuta che consegnava la vita per lui. Moriva quel gemello fedele dell'eretico di Nazaret, e sussurrava le stesse, strane parole, moriva perdonando, e non era cosa di questo mondo. Quell'immagine, quell'uomo piagato eppure sfolgorante di Cielo gli si era conficcata nella memoria, e s'intrecciava con quella voce che lo aveva afferrato e scaraventato giù dalla vita. Saulo di Tarso, quello che incarcerava e uccideva i cristiani era lì, in quell'eremo d'Arabia, ridiventato bambino, la mano stretta in quella di Anania, e camminava a ritroso nella sua storia e in quella del suo Popolo; ad ogni passo si dileguava un frammento di buio, e le cose si facevano prima chiare, e poi vere, e poi nette come un mattino sferzato di tramontana. E sempre e di nuovo Stefano impresso nella memoria, la sua voce così simile a quella voce che lo aveva rapito e sconvolto, il suo volto così uguale a quello che lo aveva sedotto sulla via di Damasco. Era Stefano, ma era anche il Rabbì di Nazaret, ma erano anche i piccoli che aveva messo in catene. La Verità aveva bussato, senza nessun altro preavviso che quel volto tumefatto di chi, morendo, lo aveva scusato, perdonato, amato; ora comprendeva, ora che quella misericordia senza condizioni, quel non tener conto delle intenzioni malvagie, degli errori e dei peccati, lo aveva raggiunto e chiamato a seguire e diventare come l'eretico giustiziato sulla Croce; ora ci vedeva, e capiva perché il volto di Stefano gli era sembrato come quello di un angelo del Cielo. Era vero quel morire come un agnello, era vero che il Messia doveva patire come il Servo di Yahwé delle Scritture, era vero, il Crocifisso è risorto, e Gesù è il Figlio di Dio. La Storia di salvezza, le promesse, l'Alleanza, la Terra, la Legge, la Pasqua, le tradizioni, tutto parlava di Gesù, lo annunciava e lo attendeva; come egli stesso, sbagliando mira, aspettava la redenzione, il compimento, il Messia. Saulo non lo aveva capito, correva verso Damasco a perseguitare i discepoli di Colui che il suo cuore desiderava più d'ogni altra cosa al mondo. Per il Messia Saulo avrebbe considerato tutto spazzatura; per l'atteso del suo popolo avrebbe consegnato la vita, sino all'ultimo respiro. Per questo voleva estirpare la spazzatura che si opponeva all'avvento del Messia, bruciava di desiderio e doveva cancellare ogni menzogna ed eresia, non v'era posto per i falsi profeti. Ma Saulo non poteva prevedere che dietro a quel suo zelo si nascondeva il bisogno bambino di essere amato, salvato, rigenerato. Giudicava senza pietà perché cercava pietà; voleva estirpare la menzogna perché bramava la Verità; correva e cercava perché voleva essere trovato; era certo di non sbagliare perché desiderava qualcuno che lo amasse quando sbagliava; era geloso delle sue cose perché cercava un fondamento più forte di se stesso. 


Ma proprio sull'orlo dell'abisso, appare Gesù, l'amato sconosciuto del suo cuore; ora era Lui ad averlo trovato, fermato, perdonato, amato. Gesù, vivo in tutti quelli che Saulo stava per consegnare alla morte; Gesù e quel suo "perché?" che illumina tutta la sua vita come un'unica, spesso disperata ricerca d'amore. Perché mi perseguiti? Perché dai calci contro il pungolo? Perché vuoi uccidere l'amore che cerchi? In quel "perché?" c'era tutto: la Chiesa, la Vita, la Verità, la Via, il perdono; e l'amore mai sperimentato che s'era impadronito di lui, ed era divenuto fuoco, incontenibile. La certezza che quell’amore aveva vinto il peccato ed era più forte della morte, diveniva un dovere impellente, un’urgenza che gli premeva dentro, un incarico improcastinabile: partire, correre, e annunciare, non era possibile arrestare quel fiume in piena, l'amore si faceva gratitudine e poi avventura, e lingue nuove da parlare in ogni centimetro del mondo e dei secoli, e poi malati guariti, e comunità fondate in ogni città; e serpenti tra le mani, e veleni nella gola, e nulla poteva che potesse recar danno al Vangelo; e poi persecuzioni dietro ad ogni angolo, e il dolore più grande, lancinante, come quello che aveva trapassato il costato del suo nuovo Signore: i suoi fratelli, il suo stesso sangue, che s'erano fatti nemici. Era vivo Gesù, era vivo in Lui, era vittorioso e vinceva, nelle sue parole, ogni demonio. Saulo era come ciascuno di noi, fieri e certi in apparenza, ma in realtà pavidi e insicuri. Come lui, anche noi cerchiamo, ci affanniamo, lottiamo, ci indigniamo e giudichiamo, ci appassioniamo e ci spendiamo, soffriamo e sudiamo per nulla, incapaci di afferrare l'Unico che il nostro cuore davvero desidera. Come Saulo non ci rendiamo conto di cercare proprio quello che stiamo rifiutando, la verità e l'amore che si celano in tutto quello che mettiamo a morte ogni giorno. Ma lo stesso perché che ha salvato il Fariseo di Tarso, bussa oggi alla nostra vita: perché corriamo per mettere in galera la moglie, il marito, il capoufficio, o la fidanzata? Perché pretendiamo vita e felicità e ce le prendiamo incatenando chi ci è intorno, appropriandoci di tutti per soddisfare i nostri desideri, esigendo comprensione, reclamando giustizia. Perché? Perché siamo ciechi e non abbiamo compreso che in tutto e in tutti si nasconde il Messia, Colui che il nostro cuore desidera ardentemente. Ma ogi, di nuovo, Egli appare sulla strada che ci conduce alle nostre Damasco di superbia e vanità, odii e rancori, concupiscenze, gelosie e avarizie; ci guarda e ci parla, e il suo amore ci tramortisce, illuminando la storia e le persone di una luce sconosciuta. Perseguitando chi ci è vicino, abbiamo perseguitato Lui, l'unica salvezza; rifiutando gli eventi e lottandoci contro, abbiamo gettiamo fuori dalla nostra vita Cristo, l'unica fonte di gioia e pace. La conversione è ritorno, secondo il significato ebraico del termine teshuvà; è un cammino, sin dentro le radici, per scoprire un'elezione e un amore eterni. Anche per noi è preparato, oggi e ogni giorno, come per Paolo, l'incontro decisivo che disarciona dai giumenti delle certezze perché ci abbandoniamo a un amore più grande, che illumina ogni rivolo delle nostre vite, che svela il senso misterioso di chi ha perduto la sua per noi. Ci attende oggi, dove meno ce lo aspettiamo, un incontro che è preludio alla conversione, una dolcezza ferma e vera che seduce e accompagna nel cammino alla Verità, il ritorno alle radici d'ogni nostra unica e irripetibile vita; alle origini, nell'Eterno che ci ha generati, vi è il suo amore infinito nel quale è racchiuso il senso autentico che colma l'esistenza. Da esso sgorga lo zelo che muove una vita nuova e santa: il volto presentato ai flagellatori invece delle pietre scagliate contro l'Agnello, perché la vita è una missione meravigliosa, che annuncia il Vangelo ovunque, sino al dono totale di sé.




APPROFONDIMENTI


giovedì 24 gennaio 2013










Oggi i cristiani sono chiamati a essere testimoni di preghiera, 
proprio perché il nostro mondo è spesso chiuso all'orizzonte divino 
e alla speranza che porta l’incontro con Dio. 
Nell’amicizia profonda con Gesù 
e vivendo in Lui e con Lui la relazione filiale con il Padre, 
attraverso la nostra preghiera fedele e costante, 
possiamo aprire finestre verso il Cielo di Dio. 
Anzi, nel percorrere la via della preghiera, senza riguardo umano, 
possiamo aiutare altri a percorrerla: 
anche per la preghiera cristiana è vero che, camminando, si aprono cammini.


Benedetto XVI, Udienza del 30 novembre 2011












Dal Vangelo secondo Marco 3,7-12.

Gesù intanto si ritirò presso il mare con i suoi discepoli e lo seguì molta folla dalla Galilea. Dalla Giudea e da Gerusalemme e dall'Idumea e dalla Transgiordania e dalle parti di Tiro e Sidone una gran folla, sentendo ciò che faceva, si recò da lui. Allora egli pregò i suoi discepoli che gli mettessero a disposizione una barca, a causa della folla, perché non lo schiacciassero. Infatti ne aveva guariti molti, così che quanti avevano qualche male gli si gettavano addosso per toccarlo. Gli spiriti immondi, quando lo vedevano, gli si gettavano ai piedi gridando: «Tu sei il Figlio di Dio!». Ma egli li sgridava severamente perché non lo manifestassero. 

Il commento


Vi è una fuga feconda, un ritiro che genera figli e li salva. Così Gesù, sospinto dalle trame ordite contro di lui, “si ritira presso il mare”, e in quel fazzoletto di terra nascosto, è seguito da una moltitudine. Il mare rappresenta sempre il pericolo, il mistero e la morte. E Gesù elegge a suo ritiro proprio la sua prossimità: sul fronte del pericolo e del dolore Egli sta come una sentinella a proteggere dai flutti di morte chiunque lo segua. Con lui porta i suoi intimi, e insieme salgono su una “barchetta” (così l'originale greco), immagine del legno della Croce, segno dell'umiltà e della debolezza che costituisce la "carena" della Chiesa: un “nulla” stolto e scandaloso nel mondo, capace però di difendere dalla massa, dal successo, dalla carne che idolatra e seduce, il rapporto vitale dei discepoli con il Signore. Per questo hanno una missione specifica: curare la barca, custodirla e assicurarsi che sia sempre vicina al Signore e "a sua disposizione"; ciò significa amore alla Parola di Dio e alle cose sante, approfondire e custodire il Magistero e il deposito della fede, curare la liturgia in ogni dettaglio, sapendo che essa parla al'uomo attraverso ogni suo segno; essere attenti alla dignità e alla pulizia delle chiese, alla sobrietà e la bellezza degli ambienti; ma significa anche la cura di ogni fratello, del più debole, dei poveri, di chi soffre ed è angosciato, degli anziani perché non restino mai soli, delle coppie che dubitano tra crisi economiche e tentazioni mondane e hanno paura di aprirsi alla vita, dei giovani disorientati; significa, innanzitutto, custodire la primogenitura e lo zelo per la missione, annunciare il Vangelo in modo opportuno e inopportuno, anche ai cristiani; e preparare per loro una seria iniziazione cristiana che guidi il Popolo della barca sul cammino verso la fede adulta che dia i segni dell'amore e dell'unità perché il mondo creda. E' la fedeltà di cui Gesù parlerà alla fine della sua vita, nulla di moralistico o di volontaristico, solo puro amore.


Gesù, mostrando la via di Dio, rivela il cammino della Chiesa: la fuga, l'anacoresi, secondo l'originale greco ‘anachórein’ tradotto con “ritirarsi”, che significa anche allontanarsi. Fuggire la carne che trama alle nostre spalle, per porsi seriamente di fronte alla vita e alla morte, nel combattimento decisivo, in comunione con tutta la Chiesa. "Ascoltare, meditare, tacere davanti al Signore che parla è un'arte, che si impara praticandola con costanza. Certamente la preghiera è un dono, che chiede, tuttavia, di essere accolto; è opera di Dio, ma esige impegno e continuità da parte nostra" (Benedetto XVI). E' la storia della Chiesa: i monaci del deserto, gli anacoreti che sfuggivano il mondo per gettarsi nella lotta con il demonio; e poi i certosini, i benedettini, le suore di clausura, Padre Pio, il Curato d'Ars, Giovanni Paolo II e molti altri. E tutti, nel profondo di quella solitudine anacoretica, divenivano segni di salvezza, e moltitudini li cercavano per essere sanati, nel corpo e nello spirito. Esattamente come Gesù: la preghiera "attraversa tutta la sua vita, come un canale segreto che irriga l’esistenza, le relazioni, i gesti e che lo guida, con progressiva fermezza, al dono totale di sé, secondo il progetto di amore di Dio Padre" (Benedetto XVI). Nella sua preghiera sono attirati i pagani delle regioni vicine, coloro che, avendo udito qualcosa di Lui, lo cercano per trovare Grazia e salvezza. E lo possono "toccare" come l'emoroissa, in un rapporto esclusivo e personale; e così "guarire", “terapeo” secondo il greco originale, che significa letteralmente "rispettare", "venerare": Gesù ha inaugurato la "terapia" autentica contro qualsiasi male affligga l'uomo, perchè Egli rispetta tutti con i propri difetti, i tempi e la libertà, "venerando" sempre e comunque l'immagine divina scolpita in ciascuno, e ne fa il destino singolare e speciale della sua stima e della sua misericordia. Il rispetto di Gesù stana il demonio e smaschera la menzogna con cui ci inganna sbattendoci in faccia i peccati e le debolezze, perché ci disprezziamo e disperiamo della salvezza. Non è la sapienza carnale della folla, che strattona, spinge, afferra, sfrutta e getta via: il mondo mira allo stordimento, agli entusiasmi, all'anonimato delle masse da gestire e condurre senza problemi. Ideologie, musica, sport, social networks e media sguazzano nella massificazione, patria di ogni dittatura, non ultima quella del relativismo. È la sapienza della barca, del legno della Croce, nella quale Gesù accoglie ciascuno come fosse l'unica persona al mondo, perché ancor prima d'essere toccato, pregando, lo ha visto nei suoi bisogni più intimi e amato in mezzo ai suoi peccati. Solo così si può guarire, resuscitare a una vita santa e degna, liberi dai complessi e dai rimpianti. Anche noi siamo chiamati ad essere anacoreti, sempre in fuga dal mondo, pur vivendoci sino in fondo; ovunque come nella cella di un monastero, il Cielo planato nelle ore che si spalmano nella storia, l'intimità con Cristo nell'abisso del cuore. Al lavoro, a scuola, in famiglia e con gli amici, nei momenti difficili e in quelli di gioia, vivere tutto come dentro alla nostalgia di Dio che si fa preghiera incessante, un atteggiamento interiore distaccato dalle cose del mondo. Nessuna persona, nessuna attività, nulla più come un assoluto, ma tutti guardati e amati nella preghiera ancor prima che aprano bocca e mani per chiederci aiuto. E accettare le persecuzioni di chi ci sta intorno, e fuggire con ali di colomba nel deserto dove il Signore ci attende per parlare al nostro cuore: “Il deserto è un distacco interiore da ogni creatura, nel quale l’anima né si ferma né si riposa in nulla” (San Giovanni della Croce, “Ascesa al Monte Carmelo”). Più saremo soli con Dio, più verranno a noi le persone; il coniuge, i figli, i parenti, gli amici, i colleghi, i nemici, saranno attirati come le api dal miele, perché intuiranno in noi l'amore divino e gratuito, radicato nella Verità. E' il cuore della missione, di ciascuna missione, dell'evangelizzazione come dell'educazione; nel Nome di Gesù la Chiesa scaccia i demoni "senza lasciarli parlare" perché non rivelino a modo loro la sua identità; l'annuncio che sgorga dall'essere crocifissi con Cristo nella sua barchetta, infatti, offre agli uomini l'occasione di incontrarLo nell’amore, debole con i deboli, povero con i poveri; mentre la rivelazione spettacolare del potere alla quale satana voleva spingere Gesù - tentazione alla quale sino alla fine non ha ceduto - rischia di idolatrare persino Lui, sino a farne un feticcio a cui ricorrere per piegare la realtà a proprio piacimento. 






APPROFONDIMENTI



mercoledì 23 gennaio 2013







vangelodelgiorno.blogspot.it


Dio si serve di modi e strumenti 
che a noi sembrano a prima vista solo debolezza. 
Il Crocifisso svela, da una parte, la debolezza dell'uomo 
e, dall'altra, la vera potenza di Dio, cioè la gratuità dell'amore: 
proprio questa totale gratuità dell'amore è la vera sapienza. 


Benedetto XVI, Udienza generale 29 ottobre 2008










Dal Vangelo secondo Marco 3,1-6.

Entrò di nuovo nella sinagoga. C'era un uomo che aveva una mano inaridita, e lo osservavano per vedere se lo guariva in giorno di sabato per poi accusarlo. Egli disse all'uomo che aveva la mano inaridita: «Alzati e mettiti nel mezzo!». Poi domandò loro: «E' lecito in giorno di sabato fare il bene o il male, salvare una vita o toglierla?». Ma essi tacevano. E guardandoli tutt'intorno con indignazione, rattristato per la durezza dei loro cuori, disse a quell'uomo: «Stendi la mano!». La stese e la sua mano fu risanata. E i farisei uscirono subito con gli erodiani e tennero consiglio contro di lui per farlo morire. 


Il commento


"E' lecito in giorno di sabato salvare una vita o toglierla, fare il bene o il male?": la domanda di Gesù, ormai sotto processo per aver attentato alle prescrizioni sul Sabato, colloca il bene per la vita al centro della questione. Di più, mettendo "in mezzo" l'uomo con la mano inaridita, rovescia il processo e, da imputato si fa giudice. "In mezzo", come imputato, è ora il "cuore indurito" dei farisei e degli erodiani, inaridito come la mano di quell'uomo. In giorno di sabato, pur rispettando ogni prescrizione, si può fare il bene come il male: loro, con la malizia con cui "osservavano" Gesù per vedere se amava anche in quel giorno santo "per accusarlo e farlo morire", avevano fatto il male. Dunque, se per loro, in giorno di sabato, era lecito "tenere consiglio" per "togliere una vita", come poteva non essere lecito guarire e salvare una vita? Con questo paradosso Gesù svela l'ipocrisia malvagia di chi, nel nome di una Legge spogliata dello Spirito, stava decidendo nel cuore di uccidere chi stava facendo del bene. In quella sinagoga si trattava di salvare o togliere la vita ad “un uomo”,anthrōpos, immagine di ogni uomo. Per lui, infatti, Dio ha “fatto il sabato”, il riposo preparato per chi ha sperimentato, durante la settimana, la durezza della vita, la conseguenza del peccato di Adamo. Ma esso può essere sporcato dall'ipocrisia, e trasformarsi in luogo di male e di morte. Scoccando la domanda, Gesù penetra sino al fondo del cuore, e non ci si può più nascondere, si può solo “tacere”. Ai suoi occhi che, come un periscopio, secondo l’originale greco “periblepsamenos”, scrutano e abbracciano ogni pensiero a 360 gradi, non sfugge il cuore indurito di chi gli era accanto. E non può trattenere l”ira” divina con la quale il Padre aveva corretto “gelosamente” il suo Popolo; esplode in Lui lo “zelo” mosso dalla “tristezza” per ogni anima arida ed arsa, senz'acqua e fecondità, dei farisei e degli erodiani come dell'infermo. Per questo, Gesù colma il silenzio calato nella sinagoga con la parola creatrice, offrendo a tutti la possibilità di salvarsi. Attraverso quella mano incapace di stendersi per accogliere e donare, mostra cosa significhi dare al sabato pieno compimento. Anche un cuore indurito può alzarsi e risuscitare, ed è il giudizio di misericordia di Gesù, offerto a tutti in quell'oggi nel quale stava compiendo la Parole profetiche sul Messia. Proprio la debolezza che ci costituisce è la prova che "scagiona" Gesù, giustificando con la necessità e l'urgenza dell'amore, laliceità di fare il bene e salvare una vita, non solo anche di sabato, ma proprio e in maniera definitiva di sabato: il cuore e la mano, infatti, sono induritianche di sabato, come ogni altro giorno. E proprio nel sabato della tomba, nella sepoltura e nella discesa agli inferi, Gesù avrebbe mostrato la liceità di amare perché, compiendo in esso il precetto di non fare niente - non vi è nulla di più inattivo di un morto - ha sanato e salvato la vita dal peccato e dalla morte; per questo dice “Alzati e mettiti in mezzo!”, “destati” dall'aridità, come recita, non a caso, il termine originale greco usato anche per la "risurrezione" di Gesù. Questo pover'uomo è incapace di tutto, come quando si dice "sono senza una mano": prendere, scrivere, guidare, mangiare, qualunque relazione è compromessa. Per lui ogni giorno è sabato, ma, invece d’essere di festa e riposo, è un sabato di condanna e di morte che si spalma su tutta l’esistenza. In quest’uomo si scorge l’esito di una religione vestita d’ipocrisia: in quel sabato, infatti, si trova nella sinagoga e non fa nulla, compiendo così la Legge. Ma vi è costretto dall’infermità, immagine dei legalismi che obbligano a compiere i precetti dall'esterno, lasciando sudicio l’interno. C’è una bella differenza tra il non poter e il non voler fare nulla, come quella che passa tra l’amore e il timore. 


Ma a quell’uomo una cosa non è impedita, l'obbedienza, l'unica che apre il cammino alla risurrezione. Anche a noi non è preclusa, per quanto deboli, aridi, insensibili e incapaci siamo, e i peccati, le sofferenze, le difficoltà, ci ostacolino e ci blocchino. Gesù ha obbedito, ha "steso" le sue mani sulla Croce e "disteso" il corpo nel sepolcro, è entrato nella morte, l'ha vinta e ci consegna gratuitamente l'obbedienza per risorgere. "Alzati e mettiti nel mezzo!", "stendi la mano", quell'uomo non ha fatto altro che ascoltare e obbedire. E così è risuscitato, recuperando una vita piena, da spendere in tutte le sue immense potenzialità. Come lui, anche noi siamo chiamati dal Signore ad alzarci dall'egoismo e a metterci in mezzo. Non si tratta però del nostro cercare di stare al centro dell'attenzione, facendo buona mostra della propria presunta parte migliore, ma di essere posti nel mezzo affinché si veda bene la mano sterile che guarisce per opera di Dio, la ferita sanata dalla misericordia. Come Gesù, che tutti hanno potuto vedere crocifisso, perché doveva essere evidente la risurrezione proprio attraverso la certezza della crocifissione. Lo stesso Uomo crocifisso era l'Uomo resuscitato. Così Dio sceglie la sterilità, la piccolezza, la debolezza, i peccatori, come Giacobbe, Davide, Sansone, e Pietro, il traditore. Dio sceglie “il nulla” per mostrare che cosa significhi il sabato, il giorno in cui “nulla” si fa perché è Dio che fa "tutto". Per il battesimo, siamo stai crocifissi con Cristo, in mezzo ai due ladroni immagine del mondo schiavo dei peccati. E' il mistero della nostra elezione, per la quale i nostri difetti, le debolezze, gli stessi peccati, inchiodati alla Croce del Signore, sono issati sul candelabro perché il mondo riceva un raggio della luce che brilla sul volto di Cristo. In questa missione, tutto della nostra vita acquista senso: le nostre ferite “stese” davanti al mondo, infatti, sono il luogo della misericordia di Dio che “ristabilisce” la vita laddove era la morte; il suo amore la fa ritornare ad essere, secondo il significato del termine greco tradotto con "risanata", com'era al principio, nel progetto del Padre: “aperta” per donare, come la mano guarita, come il cuore inondato d’amore. La nostra carne povera, debole, ferita è la pietra scartata dai legalisti che "osservano" ogni passo falso dei peccatori; essi “tengono consiglio per togliere di mezzo” tanta debolezza, mentre invece essa è la porta spalancata sul Signore, il preludio alla sua opera. Spesso vorremmo nasconderci, desidereremmo che i nostri difetti venissero cancellati e occultati, e invece, sembra che qualcuno ci trascini là in mezzo. Cristiani e nevrotici. Cristiani e incoerenti. Proprio così. Peccatori e santi, amati, sempre in mezzo al lavoro, a scuola, tra gli amici, perché brilli, tra l'ipocrisia e la menzogna, l'unica verità capace di salvare, l'amore infinito di Dio per ogni uomo. Di esso portiamo le stigmate che non possono rimanere celate, come fu per Padre Pio e per San Francesco. Come fu per Gesù dopo la risurrezione, quando, proprio attraverso le sue ferite, provava agli apostoli la risurrezione della sua carne: quelle ferite erano la memoria della sua carne crocifissa per amore, e la prova che proprio con quella carne lì aveva vinto il peccato. Come le nostre ferite poste in mezzo facendoci arrossire, perché chi ci è accanto possa vedervi l’opera soprannaturale che le guarisce e trasfigura, l’amore infinito di Dio che vi ha preso dimora.










APPROFONDIMENTI


martedì 22 gennaio 2013


Martedì della II settimana del Tempo Ordinario








Per Israele, il Sabato era il giorno 
in cui tutti potevano partecipare al riposo di Dio, 
in cui uomo e animale, padrone e schiavo, 
grandi e piccoli erano uniti nella libertà di Dio. 
Così il Sabato era espressione dell’alleanza tra Dio e uomo e la creazione. 
Sì, l’alleanza è la ragione intrinseca della creazione 
come la creazione è il presupposto esteriore dell’alleanza.
Dio ha fatto il mondo, perché ci sia un luogo 
dove Egli possa comunicare il suo amore 
e dal quale la risposta d’amore ritorni a Lui. 
Davanti a Dio, il cuore dell’uomo che gli risponde 
è più grande e più importante dell’intero immenso cosmo materiale...


Benedetto XVI, Omelia nella Veglia Pasquale del 2011












Dal Vangelo secondo Marco 2,23-28.

In giorno di sabato Gesù passava per i campi di grano, e i discepoli, camminando, cominciarono a strappare le spighe. I farisei gli dissero: «Vedi, perché essi fanno di sabato quel che non è permesso?». Ma egli rispose loro: «Non avete mai letto che cosa fece Davide quando si trovò nel bisogno ed ebbe fame, lui e i suoi compagni? Come entrò nella casa di Dio, sotto il sommo sacerdote Abiatàr, e mangiò i pani dell'offerta, che soltanto ai sacerdoti è lecito mangiare, e ne diede anche ai suoi compagni?». E diceva loro: «Il sabato è stato fatto per l'uomo e non l'uomo per il sabato! Perciò il Figlio dell'uomo è signore anche del sabato».

Il commento


La Scrittura disegna il rapporto tra Dio e l'uomo con i tratti gioiosi di un banchetto di nozze, di cui il sabato ne è un segno tra i più importanti. Nulla di più lontano da una religione fatta di precetti e divieti, di regole da applicare, di un tedioso dare ed avere tra la divinità e l'uomo. L’halakà concedeva di entrare nel campo a raccolto ultimato, dopo che i poveri avevano spigolato la loro parte secondo i dettami della Torah: «Quando è permesso a chiunque di spigolare? Quando l’ultimo povero se n’è andato» (Mishnah, Peah 8:1). I discepoli di Gesù non avevano infranto la Legge, al contrario: seguendo le orme del loro Maestro avevano raggiunto l'ultimo posto, i più poveri tra i più poveri, e per questo liberi davvero. Nulla da difendere, tutto da ricevere. Il discepolo è piccolo, indifeso, bisognoso di tutto, un segno di contraddizione, un interrogativo posto dinanzi al cuore di ogni uomo perché sia svelato il cuore della Legge, e quello di Dio, che ne è l’autore. Una parte dei farisei considerava anche lo spigolare dei poveri illecito nel giorno di sabato, anteponendo la lettera della Legge al suo spirito. Ma Gesù e la sua comunità - la Chiesa - svelano il contenuto autentico della Legge, il sì di Dio all'uomo, il Sabato della vita più forte della quotidianità di morte che affama e getta nel bisogno le esistenze. La Legge, comprendendo ogni aspetto della vita dell'uomo per rivestirlo della santità di Dio, fa presente il Paradiso perduto, l'oggetto della nostalgia insopprimibile che punge il cuore di ogni uomo: "Dio ha fatto il mondo, perché ci sia un luogo dove Egli possa comunicare il suo amore e dal quale la risposta d’amore ritorni a Lui. Davanti a Dio, il cuore dell’uomo che gli risponde è più grande e più importante dell’intero immenso cosmo materiale..." (Benedetto XVI). La Legge doveva accogliere l'uomo per proteggerlo e, nel sabato, farlo risplendere come la "cosa molto buona" creata da Dio, la creatura alla quale donarsi come a una sposa, perché essa si doni a sua volta. La Legge era il luogo dell'Alleanza, ma i farisei, con le loro interpretazioni restrittive, l'avevano pervertita così da farne una barriera invalicabile che precludeva il riposo e la pace ai più poveri, ai deboli, agli affamati e ai bisognosi. Donata per proteggere e guidare nel cammino (halakà deriva dal verbo halak, “camminare”) verso l'intimità con Dio, la Legge era divenuta un impedimento e un inciampo. Come capita a noi quando recintiamo le nostre vite e quelle altrui di leggi figlie dei nostri criteri, che si tramutano ben presto in aguzzine violentatrici della libertà e dell'amore. 

Ma il Signore oggi ci mostra la libertà e la gioia d'essere figli di Dio. Era quello che mancava alla fredda ragione dei farisei, come ad ogni etica senza Spirito Santo. Occorreva una carne capace di compiere quello che la Legge disegnava e stabiliva, l'uomo nuovo libero dalla schiavitù del peccato: "Infatti ciò che era impossibile alla legge, perché la carne la rendeva impotente, Dio lo ha reso possibile: mandando il proprio Figlio in una carne simile a quella del peccato e in vista del peccato, egli ha condannato il peccato nella carne, perché la giustizia della legge si adempisse in noi, che non camminiamo secondo la carne ma secondo lo Spirito" (Rom. 8, 1 ss). Il suo amore “ci strappa” alla maledizione che pesa su chi, aspettando dalla Legge la salvezza, non la compie, divenendone trasgressore colpevole. La sua misericordia ci introduce nel suo Regno, dove con Lui siamo sacerdoti, re, profeti, liberi di mangiare dei pani di vita preparati per l'offerta rituale. In Cristo siamo condotti al cuore della Legge, per poterla vivere nella sua autenticità, come se ne fossimo anche noi gli autori, giorno per giorno, situazione per situazione, relazione per relazione: il compimento della Legge, infatti, è l’amore, l’unico che sa coniugarla concretamente incarnandola nell’offerta gratuita di se stessi, come spighe mature. Così, quanto fatto dai discepoli, assume un carattere profetico, annuncia la buona notizia che Gesù è venuto a proclamare: è giunto il Messia - nel Talmud (Tamid 7,4) l'Era Messianica è chiamata Yom shekullò Shabbat, il giorno che sarà tutto Shabbat. – Gesù di Nazaret, il chicco di grano caduto in terra per produrre il molto frutto dell’amore e della libertà. Il campo nel quale sono entrati i discepoli è immagine del sepolcro che ha accolto il Signore; le spighe sono il frutto della risurrezione, germogliato proprio per distruggere le barriere della schiavitù del peccato; i discepoli, affamati di perdono, vita e libertà, entrano in quel sabato per partecipare del compimento definitivo di ogni sabato, e non per trasgredirne i precetti: in quel campo è apparso il “Signore del sabato” che ha vinto il signore del sepolcro e della morte, il frutto atteso, la gratuità del perdono e dell’amore che ogni sabato insegna e celebra. “Strappare le spighe e mangiarne” allora, significa vivere in pienezza il sabato, “fatto da Dio per l’uomo” al termine della creazione, il sigillo dell’Alleanza che accoglie e sposa l’umanità nel suo riposo. Come capovolgere il disegno d’amore di Dio, facendo del suo talamo un letto di prostituzione dove comprare l’amore con gli sforzi che abbiamo visto e sperimentato inconcludenti e frustranti? La Croce è per l’uomo, e non l’uomo per la Croce! Su di essa vi è salito Cristo per perdonare proprio i peccati che impediscono all’uomo di compiere il sabato dell’amore gratuito. Su di essa Egli ci accoglie ogni giorno attraverso i fatti e le persone che incontriamo, per donarci la spiga matura che non siamo stati capaci di far germogliare nella nostra vita. Lo scandalo dei farisei è lo stesso che sperimentiamo quando rifiutiamo la storia e la misericordia che vi è deposta, convinti che “non sia lecito” quell’amore così assurdo! Non è lecito perdonare settanta volte sette la moglie, il marito, il collega. Non è lecito lasciarsi “strappare” l’onore, la dignità, il tempo e le idee. La “fame e il bisogno” di Davide in fuga da Saul, altro non erano che la fame e il bisogno di ciascuno di noi perseguitati dalla gelosia e dalla schiavitù di rapporti malsani, carnali, appiattiti sui criteri mondani, in cerca di un sabato che sia per noi rifugio, libertà, pace, riposo, pienezza e amore. Oggi possiamo scoprire che questo amore è a un passo da noi, cammina accanto a noi, è Cristo che attende di essere “strappato” come una spiga: basta entrare nel campo, nella storia di ogni giorno, e accogliere i frutti di una vita rinnovata; in essa, ogni giorno diviene un sabato dove chi ci è accanto possa accogliere l’amore di cui è affamato, cogliendo in noi discepoli del Signore, le sue spighe mature: "Per mezzo del battesimo siamo dunque stati sepolti insieme a lui nella morte, perché come Cristo fu risuscitato dai morti per mezzo della gloria del Padre, così anche noi possiamo camminare in una vita nuova. Ora invece, liberati dal peccato e fatti servi di Dio, voi raccogliete il frutto che vi porta alla santificazione e come destino avete la vita eterna" (Rom. 6, 4ss).












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