Santa Maria,

Santa Maria,
...donna del primo sguardo, donaci la grazia dello stupore.

martedì 30 giugno 2015

«Salvaci, Signore, siamo perduti!».

Martedì della XIII settimana del Tempo Ordinario





L'ANNUNCIO
 (DAL VANGELO SECONDO MATTEO 8, 23-27)
In quel tempo, essendo Gesù salito su una barca, i suoi discepoli lo seguirono. Ed ecco scatenarsi nel mare una tempesta così violenta che la barca era ricoperta dalle onde; ed egli dormiva.
Allora, accostatisi a lui, lo svegliarono dicendo: «Salvaci, Signore, siamo perduti!».
Ed egli disse loro: «Perché avete paura, uomini di poca fede?» Quindi levatosi, sgridò i venti e il mare e si fece una grande bonaccia.



 




αποφθεγμα Apoftegma


E in questa vita, la tempesta è quasi continua, 
e la vostra barca sempre sul punto di affondare. 
Tuttavia, non dimenticatevi, io sono qui; 
con me, questa barca è insommergibile! 
Diffidate di tutto, e soprattutto di voi stessi, 
però abbiate in me una fiducia totale che scacci ogni inquietudine.

Charles de Foucauld



La vita è una traversata per "passare all'altra riva", immagine del Cielo, solcando il mare che, spesso, nella Scrittura, è immagine della morte. La vita è, dunque, una Pasqua! Solo nella sua luce acquista senso e pienezza. E  proprio le "tempeste" definiscono la vita della Chiesa, della quale la "barca" è immagine. "tempesta" traduce l'originale greco che, letteralmente, significa “grande sisma”, usato anche nei racconti della crocifissione per il "terremoto" scoppiato alla morte di Gesù. Quella "barca" in mezzo ai marosi è dunque profezia della Croce di Cristo piantata sul Golgota e scossa dal terremoto. Sulla "barca" e sulla Croce le onde e le scosse sismiche sono il segno dello sconvolgimento innescato dal "sonno" di Gesù. Il suo "dormire", infatti, "sveglia" colui che, sino ad allora, aveva riposato tranquillo, sazio di anime. Al sopraggiungere del Signore il demonio si sente scoperto e vulnerabile. Per questo, quella "barca" non doveva arrivare in quel porto; Gadara, infatti, era in piena Decapoli, terra pagana, territorio del nemico. Gli abitanti vi si dedicavano al commercio dei maiali e all'usura. Impuri tra i più impuri, schiavi di satana che Gesù andava ad attaccare. Egli sapeva che Gesù "era venuto prima del tempo a tormentarlo", prima cioè che potesse preparare una controffensiva. Doveva difendersi e impedire a Gesù di compiere la sua missione. Quella "tempesta", dunque, non era come le altre; quel "vento" e quelle "onde" erano i rantoli di gelosia e ira del demonio e di chi ne è ingannato, che vorrebbe far annegare Gesù nella morte. Così è di ogni tempesta che infuria sulla "barca" di Gesù e Pietro, repentina come quelle che scoppiano sul mare di Galilea, e tanto "violenta che la barca si ricopre di onde". All'inizio è una brezza soave, ma poi rapidamente si fa vento gagliardo e le onde si alzano come bastioni insormontabili; infine, ecco le secchiate d'acqua, che una mano invisibile sembra rovesciare dentro la "barca". Così si insinua il demonio. E non basta averne l'esperienza; come Pietro, pur esperto del lago di Tiberiade, non poteva nulla contro l'infuriare della tempesta, neanche noi, pur essendo caduti tante volte nelle lusinghe e trappole del demonio da saperle riconoscere, abbiamo la capacità per resistere quando ci attacca con furia improvvisa. D'altronde, nessuna "tempesta" nella vita di un cristiano è davvero improvvisa: quella "barca" le attira, e proprio per questo Gesù continua a "dormire". La tempesta non lo sorprende; non si sveglia neanche quando la "barca" si riempie d'acqua. Lui aspettava quella tempesta, si era imbarcato per entrarci dentro; era un segno della sua incarnazione e una profezia del suo Mistero Pasquale. Soprattutto, sapeva che l'unico modo per passarci indenni era dormire; sapeva che il demonio vi si nascondeva, come in tutti gli avvenimenti della sua vita, e l'unico modo per compiere la sua missione sarebbe stato "reclinare il capo" sulla Croce per addormentarsi nella morte.
Gesù "dormiva" perché sapeva che per raggiungere Gadara - il mondo pagano dove eri, e sei, tu, dove è tua figlia e il tuo collega, tua nipote e il tuo vicino di banco - per raggiungere ogni uomo e liberarlo dal potere del demonio, doveva lasciare che le onde lo ricoprissero sino a togliergli la vita! Solo allora avrebbe potuto scovare il demonio a casa sua, nel suo quartier generale, e farlo saltare una volta per tutte, e così sterminare la "legione" con i suoi ufficiali e generali, rendendo impotente con la sua morte chi della morte aveva il potere, ovvero satana. Le parole che Egli usa per placare il mare sono, infatti, le stesse usate dagli evangelisti nei racconti degli esorcismi. Le stesse che, nella versione greca della Settanta, presentano il gesto di Yahvè che con l’onnipotenza della sua parola prosciuga le acque del Mar Rosso. Questa era la missione di Gesù, la stessa di Pietro e della Chiesa: "sciogliere" sulla terra quello che Lui ha sciolto per sempre. Gesù rivolge agli apostoli una domanda che potrebbe suonare beffarda: "perché avete paura?". Ma come, stiamo per affondare e tu ci chiedi perché abbiamo paura? Essi, come noi, erano "uomini di poca fede", non avevano compreso nulla di quello che stava accadendo. Perché la "fede" è entrare con Cristo nella tempesta e mettersi a dormire! E', concretamente, addormentarsi con Lui nella morte che ci attende ogni giorno, lasciando che le "onde ci ricoprano", perché - ed è il cuore del cristianesimo che batte nel Mistero Pasquale di Gesù - per "passare all'altra riva" occorre entrare nella tempesta. Per avere la vita in abbondanza bisogna perderla; per vivere bisogna morire. Non a caso "passare" in ebraico si dice HBR, da cui deriva “ebreo”; essi sono i fratelli maggiori, sul cui “passare” dall'Egitto alla Terra Promessa siamo stati innestati: “Dietro Gesù … l’evangelista … desidera che risuoni nelle orecchie dei discepoli il nome di “ebreo”. Desidera che i suoi ascoltatori abbiano l’intelligenza dell’indispensabile coesione della loro vita. Essi debbono attraversare fisicamente, concretamente, il mare. Allora l’evangelista forma in greco un verbo nuovo, “diegeiro”, per dire svegliare. Impossibile da tradurre letteralmente, questo verbo ha l’accento ebraico di “passare”. Dunque, i discepoli che sono nella barca di Gesù lo svegliano… Lo chiamano…. E quando si sarà “svegliato sarà passato di là”, e tutte le cose si saranno placate, quando ci sarà la calma, l’evento non finirà lì. La “traversata” continuerà con la domanda di Gesù, alla maniera della Torah… ”Dove sei?”. Gesù dirà: “Uomini di poca fede, perché avete paura?”, Come dire: “Ebrei, dove siete? Avete dimenticato di sentire il vostro nome? Avete dimenticato il vostro nome, la vostra vita?” (M. Vidal). La stessa domanda, oggi, prorompe nella nostra vita: “Perché avete paura?”, "non avete ancora fede"? Di fronte alle "tempeste" che si abbattono su di noi siamo terrorizzati perché siamo senza discernimento; abbiamo perduto la memoria del nostro "nome" e della nostra origine. Come gli apostoli, sopraffatti dalle onde che scuotono la carne facendole lambire la morte, abbiamo dimenticato Chi ci ha "ordinato" di "passare all'altra riva". Il primo attacco del demonio, subdolo e astuto, ci ha centrati in pieno: maestro del rimestare nei ricordi per scombinarli al punto di far perdere il filo di Grazia che li lega, ci ha sottratto il ricordo della nostra chiamata. La nostra vita ha origine, senso e compimento nelle parole con le quali Gesù ci ha chiamato a "passare" con Lui "all'altra riva". Non lo abbiamo scelto noi, probabilmente neanche lo desideravamo. Noi siamo "nel mondo" proprio perché non siamo "del" mondo! L'attitudine degli apostoli nostra emersa nella "barca" è ben descritta da Peguy, amaro e crudo come sempre: "Poiché non hanno il coraggio di essere del mondo, credono di essere di Dio. Poiché non sono dell’uomo credono di essere di Dio. Poiché non amano nessuno, credono di amare Dio". Non amiamo nessuno, per questo abbiamo paura. Come gli apostoli, forse non siamo ancora pronti a morire con Lui. Anche gli apostoli, pur chiamati, avevano bisogno della "fede" per compiere la loro missione! Erano, secondo il greco originale, "oligopistoi": avevano solo un po' di fede, nel senso che era ancora acerba, doveva crescere... Come noi, erano incapaci di riconoscerlo nella tempesta. Senza fede non capiamo che proprio perché "dorme" ci ama come nessuno. "Dorme" e non ferma le guerre. "Dorme" e non guarisce il cancro di mio padre. "Dorme" e non cambia il carattere di mio marito. "Dorme" e non dà un lavoro a mio figlio. "Dorme" perché non mi ama... "Uomo di poca fede", non hai capito nulla! Gesù "amava Lazzaro", eppure si è fermato ancora due giorni dove si trovava senza scendere da lui ammalato, quasi aspettando che l’amico morisse. E quando infatti Lazzaro si “addormenta” Gesù dice ai suoi discepoli di essere felice per loro di non essere stato dall’amico, “affinché possano credere”. E proprio per crescere nella fede e "poter credere" stiamo "nella barca" come nell'utero della Chiesa, e questo è l'importante. Dio è fedele, e ha misericordia di noi, ha pazienza, sa che un giorno, daremo la vita per Cristo e la salvezza degli uomini; come gli apostoli che, rimanendo le stesse identiche persone, una volta pieni di Spirito Santo, invece di impaurirsi, si sono "addormentati" nel martirio! Gesù ci vede nella "barca" con Lui pieni di pura, ma guarda oltre, alle persone alle quali saremo inviati; ci vede tra qualche anno, in quella situazione nella quale daremo testimonianza al vangelo, anche a costo della vita. Per questo oggi Gesù si "desterà" ancora una volta a "sgridare i venti e i mari" perché torni la "bonaccia" nella nostra vita. Alla paura che ci fa sentire "perduti" di fronte alla Croce ascolterà ancora e sempre la nostra preghiera, e calmerà le tempeste: nella Chiesa, durante la gestazione dell'uomo nuovo, ci darà ancora segni della sua risurrezione su cui appoggiare la nostra "fede" che deve crescere, per divenire adulta e farci discernere nella tempesta il risveglio di satana nel campo della missione. 

lunedì 29 giugno 2015

29 giugno. Santi Pietro e Paolo. "29 anniversario Matrimonio"

VENTINOVE ANNI FA 

ci siamo promessi davanti all'altare 

del Signore.



Io, 
Giuliano, accolgo te,  Isabella, come mia sposa.Prometto di esserti fedele sempre,nella gioia e nel dolore,nella salute e nella malattia,e di amarti e onorartitutti i giorni della mia vita.

Io, Isabella, accolgo te, Giuliano, come mio sposo.Prometto di esserti fedele sempre,nella gioia e nel dolore,nella salute e nella malattia,e di amarti e onorartitutti i giorni della mia vita.

nella Festa dei Santi Pietro e Paolo

"rinnoviamo gli impegni
 che in quel giorno abbiamo assunto "

ringraziamo Dio ci ha unito
per la vita


Giuliano ed Isabella

29 giugno. Santi Pietro e Paolo 

 




La Chiesa non è santa da se stessa; 
consiste infatti di peccatori, 
lo sappiamo e lo vediamo tutti. 
Piuttosto, essa viene sempre di nuovo santificata 
dall’amore purificatore di Cristo. 
Dio non solo ha parlato: 
ci ha amato molto realisticamente, 
amato fino alla morte del proprio Figlio. 
E’ proprio da qui che ci si mostra tutta 
la grandezza della rivelazione 
che ha come iscritto nel cuore di Dio stesso le ferite. 

Benedetto XVI




«Dove c'è Pietro, lì c'è la Chiesa; dove c'è la Chiesa, lì non c'è affatto morte ma vita eterna» (S. Ambrogio). Pietro e la Chiesa. E, in essa, la vita, e la fine della morte. E' questo il desiderio d'ogni uomo, il nostro desiderio d'oggi, il più profondo, il più intenso, l'anelito che freme insopprimibile in ogni parola, pensiero, azione. 
La vita è come il cammino dei due discepoli di Emmaus, che avevano sperato in Gesù di Nazaret, profeta potente in parole ed opere, che li avrebbe liberati e invece.... Anche Lui in una tomba da tre giorni. E le lacrime di Pietro, il tradimento e un amore strozzato nella paura di morire, di fare la stessa fine atroce. Come noi, come tutti. Tutto infranto e i desideri spezzati. Ma quella sera, all'imbrunire d'un giorno di paura, i chiavistelli della vita ben serrati, nella stanza d’una pasqua appena volata via, ecco d’improvviso apparire un volto incandescente di luce, una voce, un saluto di Pace che trapassa i muri e i cuori. La sua voce, il suo volto, le sue piaghe. E' proprio Lui, lo dicono i segni del suo amore inchiodato ad un legno. E la gioia esplode incontenibile: in quel cenacolo, in mezzo a quel manipolo terrorizzato, che è scappato, che ha tradito, l'amore era esploso in una vita più forte del peccato.
E Pietro era lì; la roccia, primo tra gli apostoli, il primo ad essere perdonato, il primato del perdono. La beatitudine di Pietro è un perdono che né carne e né sangue possono rivelare perché viene dal sepolcro, ha attraversato l'inferno, e si è fatto dono gratuito e immeritato. Pietro, perdonato e per questo roccia e fondamento della Chiesa, capace di “legare” a Cristo i peccatori e “scioglierli” dal peccato, eternamente.
Con Pietro nella Chiesa si apprende l'amore perché il Buon Pastore ne guida il cammino. Un Pastore incarnato nel pastore che ci è donato. Pietro, e ogni papa, schiude le porte del Cielo offrendo gratuitamente a ogni uomo l'amore di Dio. Sulla soglia del mondo Pietro è garante e custode della fede incarnata qui ed ora; dischiude le porte della sua casa, la Chiesa dov'è vivo Cristo, le viscere di misericordia di Dio. Dialogo, tolleranza, rispetto, tutto va bene per le umane, povere forze spese ad arginare il male. La casa di Pietro invece annuncia l'amore eterno, l’ unico scoglio che può infrangere ogni male. Nella Chiesa Pietro  presiede nella carità un pugno di poveri uomini strappati all'inganno segno dell'unica speranza.
Nella storia di San Paolo possiamo leggere la nostra vita. Era deciso, sicuro, religioso, zelante. Era tutto per Dio, per Lui era disposto ad incarcerare, e a uccidere. Come noi, al lavoro, in famiglia, con amici e vicini. Abbiamo la Parola di Dio dalla nostra, ne siamo certi, dobbiamo estirpare l'errore. Discussioni senza fine, polemiche, al bar, nella pausa pranzo, tra una lezione e l'altra, a cena la sera con consorte e figli. Indossata la corazza della nostra giustizia corriamo anche noi ogni giorno verso Damasco, recando lettere che ci autorizzano a gettare in prigione chi pretende di uscire dai nostri schemi. Anche in Chiesa, nelle comunità dove camminiamo per convertirci, nelle riunioni, nelle assemblee. Preti, laici, non v'è differenza, portiamo tutti la stessa armatura di certezze che abbigliava San Paolo.
Ma accade l'imprevisto. Qualcosa a cui Saulo non era preparato. Qualcuno appare sul suo cammino e smonta le sue certezze. Un fatto, un avvenimento, un incontro. E inizia la conversione, la Teshuvà, il ritorno al vero, al bello, al buono, al santo. San Paolo incontra Cristo, più forte d'ogni sua ignoranza, d'ogni suo passato. Una scintilla d'amore e nasce una cosa nuova, una creatura nuova e comprende che tutto nella sua vita era orientato a quell'istante. Dio lo aveva preparato, misteriosamente, senza moralismi, salvaguardando ogni millimetro della sua libertà, accompagnando i suoi passi, permettendo che si impantanassero nell'ingiustizia, che combinassero guai e si lasciassero dietro una linea di sangue e di dolore. Dio ha avuto pazienza, e lo ha atteso nel momento più virile della sua esistenza, laddove era lanciato verso il compimento d'una menzogna. E lì, sul selciato del suo cammino lo ha amato e ricreato con un’elezione che era l’opposto di quello che era stato.
Nessun rimprovero, solo una luce ad illuminare il proprio nulla e subito un invio, una missione. La vita fantastica dell'apostolo delle genti sorgeva da lì, dal suo nulla. Sulla via di Damasco Paolo ha conosciuto la risurrezione di Cristo, capace di risuscitare anche la sua vita, di fare di un persecutore un perseguitato, di un determinato accusatore uno zelante annunciatore. I segni che accompagnano gli apostoli nella missione universale, per San Paolo hanno cominciato a compiersi in quel mezzogiorno che lo ha lanciato, con lo stesso ardore, con più zelo, sulle strade che aveva detestato, quelle dell'annuncio infaticabile del Vangelo.
Oggi appare anche a noi Cristo. Il “perché” che ha fermato Saulo ci viene incontro oggi, nella situazione concreta che stiamo vivendo. Perché perseguitiamo il Signore, incarnato in nostra moglie, nei nostri figli, nei colleghi, nella suocera?. Perché abbiamo dimenticato Lui e il suo amore, abbiamo sepolto la sua chiamata. Ma Lui ci viene incontro, e fa di noi i suoi apostoli, e ci lancia in tutto il mondo, lavoro, scuola, casa, supermercato, parrocchia. Ci manda oggi laddove abbiamo combinato macelli con i nostri peccati, sui sentieri che abbiamo sporcato con le maldicenze, con i giudizi, con i compromessi, con le bugie, con le concupiscenze, con l'arroganza e la superbia. Ci invia come Pietro e Paolo, segni della sua misericordia che trasforma, istante dopo istante, la nostra vita, perchè anche gli altri possano vedere, credere, e conoscere il Signore.



Il Vangelo del giorno

Quando non sai qual è la volontà di Dio, scegli quello che ti costa di più.

Ti voglio bene - Lubich Chiara

Ti voglio bene,
non perché ho imparato a dirti così,
non perché il cuore mi suggerisce
questa parola,
non perché la fede mi fa credere
che sei amore,
nemmeno perché sei morto per me.
Ti voglio bene
perché sei entrato nella mia vita
più dell'aria nei miei polmoni,
più del sangue nelle mie vene.
Sei entrato
dove nessuno poteva entrare,
quando nessuno poteva aiutarmi,
ogniqualvolta nessuno poteva consolarmi.
Ogni giorno ti ho parlato.
Ogni ora ti ho guardato
e nel tuo volto ho letto la risposta,
nelle tue parole la spiegazione,
nel tuo amore la soluzione.
Ti voglio bene
perché per tanti anni
hai vissuto con me
ed io
ho vissuto di Te.
Ho bevuto alla tua legge
e non me n'ero accorta.
Me ne sono nutrita,
irrobustita,
mi sono ripresa,
ma ero ignara
come il bimbo che beve dalla mamma
e ancor non sa
chiamarla con quel dolce nome.
Dammi d'esserti grata
- almeno un po' -
nel tempo che mi rimane
di questo amore
che hai versato su me
e m'ha costretta
a dirti:
"ti voglio bene."


- Chiara Lubich -


Credere è scoprire di essere amati da Dio, è affidarsi totalmente a questo amore rispondendo all'amore con l'amore. 
Se tu mi ami, Dio entra in te e testimonia dentro di te, lui stesso. Lui dà un modo tutto nuovo di guardare la realtà che ti circonda. 
La fede ci fa vedere gli avvenimenti con i suoi stessi occhi, il disegno che egli ha su di noi, sugli altri, sulla creazione intera.

- Chiara Lubich -



Quando l'unità passa, lascia una sola orma: il Cristo. Ma per costruire l'unità è necessario cedere tutto; senza amare oltre ogni misura, senza perdere il giudizio proprio, senza perdere la propria volontà, i propri desideri, non saremo mai uno!

- Chiara Lubich -



Vi sono tra voi coloro che soffrono per prove spirituali o morali? Comprendeteli come e più di una madre. Illuminateli con la parola e con l’esempio. 
Non lasciate mancar loro, anzi accrescete attorno ad essi, il calore della famiglia. 

- Chiara Lubich - 



Buona giornata a tutti. :-)

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domenica 28 giugno 2015

“'Talità kum', che significa: 'Fanciulla, io ti dico: àlzati!'. E subito la fanciulla si alzò e camminava”.

LA LITURGIA DELLA DOMENICA:

QUI IL COMMENTO ALLA PAROLA DELLA XIII SETTIMAMA DEL TEMPO ORDINARIO. ANNO B (28 GIUGNO 2015)




XIII del Tempo Ordinario, Anno B

Nella tredicesima domenica del Tempo ordinario, la liturgia ci propone il Vangelo in cui Gesù guarisce una donna che aveva perdite di sangue e risuscita la figlia di Giàiro. Alla bambina dice:
“'Talità kum', che significa: 'Fanciulla, io ti dico: àlzati!'. E subito la fanciulla si alzò e camminava”.

Il Vangelo di oggi, nella sua semplicità – Gesù cura una donna che ha delle perdite di sangue e risuscita una fanciulla – potrebbe darci un’idea distorta del Signore e della sua missione. Questo Gesù, che si lascia toccare dalla donna, e la guarisce; questo Gesù che pronuncia in aramaico, la sua lingua, una semplice parola su una ragazza morta: “Talità kum”: “Fanciulla, àlzati!” e la rimette in piedi, viva, non è il Signore di cui abbiamo bisogno? L’uomo, che da sempre è alla ricerca di rimedi, di risposte ai suoi mali, alle sue sofferenze, non ha trovato qui il taumaturgo, il guaritore? Di cos’altro abbiamo bisogno? Letto così il Vangelo di oggi è stravolto. Non è certo questo il motivo per cui viene proclamato nella liturgia della Chiesa. La missione di Gesù non è di arrivare lì dove la scienza e la medicina hanno fallito, o non sanno ancora cosa fare, per inaugurare qui sulla terra un’era di pace e di benessere, un “mondo migliore”. Per quanto questo sogno possa attirarci, per quanto esso sia distribuito a piene mani da tanti falsi profeti, rimane un sogno, perché completamente fuori della realtà e contrario alla rivelazione. L’uomo è chiamato a confrontarsi ogni giorno con il male, fisico e morale, malattie e peccato: il mistero di iniquità all’azione nel mondo. Le guarigioni che Gesù opera sono la buona notizia che annuncia che in questo mondo, dominato dal principe del male, dal demonio, è giunta la liberazione di Dio che ridà all’uomo la sua dignità di figlio di Dio, che ricongiunge l’uomo al suo Dio, che gli ridà la vita. (Pasotti)
*
Mc 5,21-43
21Essendo Gesù passato di nuovo in barca all'altra riva, gli si radunò attorno molta folla ed egli stava lungo il mare. 22E venne uno dei capi della sinagoga, di nome Giàiro, il quale, come lo vide, gli si gettò ai piedi 23e lo supplicò con insistenza: «La mia figlioletta sta morendo: vieni a imporle le mani, perché sia salvata e viva». 24Andò con lui. Molta folla lo seguiva e gli si stringeva intorno.
25Ora una donna, che aveva perdite di sangue da dodici anni 26e aveva molto sofferto per opera di molti medici, spendendo tutti i suoi averi senza alcun vantaggio, anzi piuttosto peggiorando, 27udito parlare di Gesù, venne tra la folla e da dietro toccò il suo mantello. 28Diceva infatti: «Se riuscirò anche solo a toccare le sue vesti, sarò salvata». 29E subito le si fermò il flusso di sangue e sentì nel suo corpo che era guarita dal male.
30E subito Gesù, essendosi reso conto della forza che era uscita da lui, si voltò alla folla dicendo: «Chi ha toccato le mie vesti?». 31I suoi discepoli gli dissero: «Tu vedi la folla che si stringe intorno a te e dici: «Chi mi ha toccato?»». 32Egli guardava attorno, per vedere colei che aveva fatto questo. 33E la donna, impaurita e tremante, sapendo ciò che le era accaduto, venne, gli si gettò davanti e gli disse tutta la verità. 34Ed egli le disse: «Figlia, la tua fede ti ha salvata. Va' in pace e sii guarita dal tuo male».
35Stava ancora parlando, quando dalla casa del capo della sinagoga vennero a dire: «Tua figlia è morta. Perché disturbi ancora il Maestro?». 36Ma Gesù, udito quanto dicevano, disse al capo della sinagoga: «Non temere, soltanto abbi fede!». 37E non permise a nessuno di seguirlo, fuorché a Pietro, Giacomo e Giovanni, fratello di Giacomo. 38Giunsero alla casa del capo della sinagoga ed egli vide trambusto e gente che piangeva e urlava forte. 39Entrato, disse loro: «Perché vi agitate e piangete? La bambina non è morta, ma dorme». 40E lo deridevano. Ma egli, cacciati tutti fuori, prese con sé il padre e la madre della bambina e quelli che erano con lui ed entrò dove era la bambina. 41Prese la mano della bambina e le disse: «Talità kum», che significa: «Fanciulla, io ti dico: àlzati!». 42E subito la fanciulla si alzò e camminava; aveva infatti dodici anni. Essi furono presi da grande stupore. 43E raccomandò loro con insistenza che nessuno venisse a saperlo e disse di darle da mangiare.
*

L'audacia della fede apre il cuore di Dio
Commento al Vangelo della Domenica XIII del Tempo Ordinario, Anno B -- 28 giugno 2015
E’ di nuovo Domenica, il memoriale della Vita più forte nella morte. E’ Domenica per noi, che durante la settimana abbiamo perduto sangue senza riuscire a guarire dalle sconfitte, dalle umiliazioni, dai peccati con i quali ci siamo difesi dal mondo.
Il flusso del sangue, infatti, nella Bibbia è vita che si perde e morte che lambisce l'esistenza. Per questo l'emorragia rendeva impuri, impedendo il culto, e quindi la relazione con Dio, come un anticipo dell'inferno. La donna del Vangelo lo era “da dodici anni”, numero che indica i mesi di un anno, immagine della totalità dell'esistenza. E stava “peggiorando”.
E' immagine della nostra vita che ci sfugge senza riuscire a trattenerla, progetti che se ne vanno in fumo, relazioni fallimentari consegnate agli psicologi, alle terapie di gruppo, alle medicine, o agli amici, ai confidenti, alla televisione, ai social networks, ai manuali, alle palestre e alle meditazioni zen; o all'impegno, al fare, al produrre, tentando di dare un senso che riempia la voragine che inghiotte l'esistenza.
Ma sempre senza successo, anzi peggiorando. Sempre più poveri, “dilapidando ogni avere”. Ma il Signore é in mezzo a noi, è all'opera e passa beneficando; anche ora sta seguendo uno dei tanti Giairo che lo implorano dopo aver ascoltato l'annuncio che Lui è in grado guarire davvero. Passa Gesú, si tratta semplicemente di raggiungerlo e toccarlo.
Anche solo di sfuggita, anche “solo il lembo del suo mantello”, lo stesso del Profeta Elia, dal quale si sprigiona il potere di salvare la Vita che abbiamo perso. Ma sorge una domanda: abbiamo mai toccato Gesù? La donna del Vangelo lo tocca prima con la mente e con il cuore, lo tocca dentro di lei, dal fondo della sua disperazione, dal buio della sua impotenza.
"Chi mi ha toccato?". Uno tra mille, e Lui si accorge dell’unica che lo ha toccato “tra la folla”, con ansia e paura, dal fondo delle sofferenze e dei fallimenti di una vita, ma con fede. Mentre la folla va a messa, prega, chiede grazie, si impegna "nel sociale"; bravi preti, brave mamme, bravi papà che fanno elemosine, volontariato, gruppi, gite e pellegrinaggi. E Lui non si accorge di nulla, e nulla di tutto ciò scuote il Signore, nulla carpisce la sua forza. Tanti si accalcano, forse lo toccano, ma è solo curiosità, religiosità superficiale, un tentativo, un numero in più sulla ruota della vita. 

Per lei no, solo per lei è questione di vita o di morte. Dal cuore, dal desiderio disperato che si traduce in speranza, la sua mano si allunga e, “da dietro”, come il pubblicano nascosto nell'ombra al fondo del tempio, lo tocca tremante. E torna alla vita. Impura tocca il puro, infrangendo la legge secondo la quale non avrebbe assolutamente dovuto. Cosí facendo infatti, la donna contamina Gesù (cfr. Lev. 15, 19-33), lo tocca e lo attira dentro la propria immondezza. Lei sa che toccarlo da impura significava renderlo impuro come lei. Per questo si avvicina da tergo e lo tocca fugacemente, sperando d'essere salvata senza essere riconosciuta, senza che nessuno se ne dia conto e accusi Gesú. 

Ma il Signore va oltre le apparenze, perché Lui guarda il cuore. Si rende conto di quello che è successo, “sente” che il flusso di morte di quella donna lo aveva raggiunto strappandogli la vitaa Lui la morte, a lei la Vita. Il mistero pasquale si compie in un incontro, immagine d'ogni sacramento che ridona la vita realizzando quello che significa, la vittoria di Gesù sulla morte. I due sanno quello che è successo, “sentono” la stessa cosa nel loro intimo, laddove gli occhi della carne che appesantiscono anche lo sguardo di Pietro, non possono arrivare: “sentono” lo stesso flusso d’amore e di vita, si “toccano” nel cuore in un abbraccio interiore che è il ritorno alla comunione del Paradiso.
E’ un’immagine fortissima della relazione di intimità con Gesù dalla quale scaturiscono tutti gli altri rapporti: in questo toccare della donna si rivelano le nozze mistiche che generano la santità matrimoniale, la santa sottomissione della sposa allo Sposo e il dono della vita di questi alla sposa, l’obbedienza fiduciosa della creatura al Creatore, il “mistero grande” di cui parla San Paolo riferendosi al sacramento del matrimonio. In questo gesto brillano anche lo splendore e la santità dell’unione sessuale dei corpi aperti al flusso di vita che sgorga da Cristo; e così l’amicizia, il fidanzamento, la relazione tra i genitori e i figli. Per questo Gesú la cerca, la vede, e con il suo sguardo la chiama.
E’ il compimento dell’amore, il frutto benedetto di ogni relazione che passa attraverso la mediazione della carne. La donna tocca il Signore, guarisce dall’egoismo che disperde la vita, per incontrare lo sguardo celeste di Dio. Ogni volta che ci si consegna a Cristo ci si ritrova in Paradiso; così, ogni volta che ci doniamo all’altro, sia nel talamo come nella vita di ogni giorno, si schiudono per noi le porte del Cielo, l’anticipo della vita che non muore.
Finalmente libera e tornata alla vita, la donna può “gettarsi ai piedi” di Gesù, professando la sua fede, il canto di lode che accompagna la sua Redditio Symboli; lì, accasciata davanti al Signore, racconta e testimonia l'incontro seguito all'annuncio, di come Gesù abbia avuto il potere di salvarla, laddove tutti e tutto avevano fallito, e quell’intimità esclusiva “sentita” nel fondo dello spirito, la gioia più grande di tutta la sua vita.
E diventa figlia, rigenerata nel potere di Gesù, attraverso la porta della fede che l'ha “salvata” prima di “guarirla”. Ora può andare in pace, sanata alla radice dal male, perché prima è stata “salvata”. L'audacia della sua fede ha aperto il cuore di Dio: toccare Gesù significa la fede pura e adulta nella quale abbandonarsi a Lui anche dal fondo del peccato più grave. La fede, infatti, è sporcare e contaminare Gesù, trascinarlo dentro la nostra vita mezza morta. E fare in modo che si accorga che ci ha salvati, obbligare il potere che il Signore sembra sia incapace di controllare.
Secondo la tradizione rabbinica, prima d'ogni altra cosa, Dio ha creato la misericordia, sapendo che l'uomo appena creato ne avrebbe avuto subito bisogno. Forse è tempo che non parliamo con nostra moglie, o con quel cugino che ci ha tolto denaro e onore. Forse l'emorragia ci ha prosciugato la forza per perdonare e chiedere perdono, per parlare con nostra figlia, per svegliarci e accogliere un nuovo giorno grigio di routine.
Forse abbiamo speso tutto, energie e speranze, ci siamo dibattuti come pesci nella rete cercando di saltar fuori dalla solitudine, dal dolore, dal tradimento. Forse i tanti affari con i quali abbiamo tentato di tenere lontana la realtà dura e difficile del ministero e della missione si sono dissolti e nessuno ha più bisogno di noi. Forse ci siamo ritrovati soli con anni spesi a rincorrere una pienezza e una pace mai trovate.
Fratelli, è giunto il momento unico e irripetibile di correre e toccare Gesù, con il cuore e con la mente: è santa l'emorragia come sono santi i “dodici anni” - tutta la nostra vita sino ad oggi - che ci hanno condotto sul bordo della piscina battesimale, pronti ad immergervi il nostro uomo vecchio. E' santa la storia che ha reciso ogni alienazione, appoggio, sicurezza.
E' santa l'impotenza che ci spinge a toccare il lembo del mantello di Cristo, e che suscita il desiderio di cercare in Lui solo consolazione, pace, amore e pienezza. E' santa la nostra vita di oggi che ci costituisce per il Signore un tu vero e da amare, un “chi” che il Signore possa cercare tra la folla e riconoscere per salvare.
E' santa la volontà di Dio che ci conduce alla fede adulta che non teme si toccare Cristo nel suo mantello che è la Chiesa dispensatrice dei sacramenti che hanno potere su ogni nostro peccato. Proprio quello che crediamo ci stia distruggendo afferma invece la nostra identità unica e preziosa agli occhi di Cristo; la nostra debolezza gettata sul suo mantello ci rende oggetto delle sue attenzioni, della ricerca del suo sguardo, dello zelo del suo cuore.
E chi non vorrebbe attirare l'attenzione dell'amato? Con Gesù non è il trucco, non sono i vestiti, non sono le qualità a suscitare attenzioni e sguardi, perché Lui cerca la debolezza, l'inutilità, la povertà, proprio tutto quello che l'uomo disprezza. Come la “figlioletta” di Giairo, immagine di quanto di noi e in noi è ormai “agli estremi”. Mentre attorno le voci dei parenti e degli amici che credono di conoscere la nostra vita, fermi alla superficie delle cose, ripetono che ogni “figlia” dei nostri sforzi, dei desideri e dei progetti è ormai “morta”, ed è inutile “disturbare ancora il Maestro".
Parole di una logica così stringente che ci assediano anche dal nostro intimo. Il matrimonio fa acqua, i figli non ascoltano, l’irreparabile suscita “derisione”, e molti “piangono e strepitano”, inducendoci a disperare e a vestire il lutto che avvolga i fallimenti, il vero obbiettivo del demonio. Ma anche oggi Gesù ci annuncia che la nostra vita “è solo addormentata, non è morta!”. Nulla di quanto speravamo e desideravamo è destinato alla corruzione; tutto si addormenta nella caducità e nella debolezza della carne per risvegliarsi e trasfigurarsi nell'incontro con Cristo, l'autore della vita. 
Gesù “caccia via” tutti quelli che ci vogliono allontanare dalla fede, ed entra con la sua Chiesa “dove è la bambina”, esattamente dove oggi giace quella parte di noi che sembra morta. Ci porta con sé, “genitori” a cui è stata affidata la vita con la sua storia, che per il peccato si sta spegnendo su di un giaciglio di morte; e “prende la mano” inerme del matrimonio, della relazione con i figli, del lavoro, del fidanzamento e sussurra quell’ “Alzati, risuscita!” con cui ristabilisce nello splendore originale della volontà del Padre ogni frammento della nostra vita.
“Dodici anni” per comprendere la nostra debolezza, una vita per farci prendere per mano dal Signore e ascoltare l’annuncio che ci rimette in piedi, per “camminare” seguendo le sue orme di amore e libertà, “mangiando” finalmente il cibo che non perisce, la sua vita fatta carne e sangue capaci di compiere la volontà del Padre.
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XIII domenica del tempo Ordinario, anno B, 28 giugno 2015
Mc 5,21-43
Commento al Vangelo di Enzo Bianchi
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Che cos’è l’impurità? Quando una persona è impura, cioè indegna di stare con gli altri e con Dio? Quando una persona è “segnata” da una situazione malefica? E potremmo continuare a porre domande simili o parallele, perché da sempre questi interrogativi emergono nei nostri cuori nelle differenti situazioni della nostra vita. E le risposte che noi esseri umani abbiamo dato, e magari ancora diamo, non sempre riflettono la volontà del Creatore, i sentimenti di Dio. Purtroppo le vie religiose tracciate dall’umanità spesso riflettono non il pensiero di Dio, ma sono piuttosto il frutto di sentimenti umani per i quali si sono trovate giustificazioni fonte di alienazione o di separazione tra gli umani.
In questi percorsi, il sangue, segno della vita negli animali e negli umani, ha attirato fortemente l’attenzione su di sé. Ognuno di noi è nato nel sangue che fluisce dall’utero della madre e ognuno di noi muore quando il suo sangue non scorre più. Ecco dunque, al riguardo, la Legge e le leggi: il sangue che esce da una donna nel mestruo o alla nascita di un figlio la rende impura, così come ognuno quando muore entra nella condizione di impurità, perché preda della corruzione del proprio corpo. Il sangue rende impuri, rende indegni, e questa per una donna è una schiavitù impostale dalla sua condizione secondo la Legge, dunque – dicono gli uomini religiosi – da Dio. La donna impura per il mestruo o per la gravidanza non toccherà cose sante, non entrerà nel tempio (nel Santo) e per purificarsi dovrà offrire un sacrificio; anche chi toccherà una donna impura sarà reso impuro (cf. Lv 12,1-8; 15,19-30), impuro come un lebbroso e chi lo tocca, impuro come un morto e chi lo tocca. Di qui ecco barriere, muri, separazioni innalzati tra persona e persona, ecco l’imposizione dell’esclusione e dell’emarginazione. Certo, “a fin di bene”, per evitare il contagio, per instaurare un regime di immunitas: ma al prezzo della creazione di uno steccato e dell’indegnità-impurità posta come sigillo su alcune persone! Anche le misure di precauzione finiscono per diventare una condanna…
Ma Gesù è venuto proprio per far cadere queste barriere: egli sapeva che non è possibile che il sangue di un animale offerto in sacrificio possa togliere il peccato e rendere puri, mentre il sangue di una donna versato per il naturale ciclo mestruale o il corpo di un morto di cui occorre avere cura possano generare impurità, indegnità di stare con gli altri e davanti a Dio. Per questo i vangeli mettono in evidenza che Gesù non solo curava e guariva i malati, gli impuri, come i lebbrosi o come le donne colpite da emorragia, ma li toccava e da essi si faceva toccare. Gesù abolisce ogni sorta di sacro, poiché egli non era “sacro” come i sacerdoti, essendo un ebreo laico, non di stirpe sacerdotale, e poiché vedeva nelle leggi della sacralità una contraddizione alla carità, alla relazione così vitale per noi umani. Amare l’altro vale più dell’offerta a Dio di un sacrificio (cf. Mc 12,33; 1Sam 15,22), essere misericordiosi è vivere il precetto, il comandamento dato dal “Dio misericordioso (rachum) e compassionevole (channun)” (Es 34,6). In Gesù c’era la presenza di Dio, dunque lui era “il Santo di Dio” (Mc 1,24; Lc 4,34; Gv 6,69), ma egli non temeva di contrarre l’impurità; al contrario, egli proclamava e mostrava che la santità di Dio santifica anziché rendere impuri, consuma e brucia il peccato e l’impurità, perché è una santità che è misericordia (cf. Os 11,9: “Io sono Dio e non uomo; sono il Santo in mezzo a te e non verrò da te nella mia ira”).
Per questo Gesù lasciava che i malati lo toccassero, avessero contatto con il suo corpo (cf. Mc 6,56; Mt 14,36), per questo egli toccava i malati: tocca il lebbroso per guarirlo (cf. Mc 1,41 e par.), tocca gli orecchi e la lingua del sordomuto per aprirli (cf. Mc 7,33), tocca gli occhi del cieco per ridargli la vista (cf. Mc 8,23.25), tocca i bambini e impone le mani su di loro (cf. Mc 10,13.16 e par.), tocca il morto per risuscitarlo (cf. Lc 7,14); e a sua volta si lascia toccare dai malati, da una prostituta, dai discepoli, dalle folle… Toccare, questa esperienza di comunicazione, di con-tatto, di corpo a corpo, azione sempre reciproca (si tocca e si è toccati, inscindibilmente!), questo comunicare la propria alterità e sentire l’altrui alterità… Toccare è il senso fondamentale, il primo a manifestarsi in ciascuno di noi, ed è anche il senso che più ci coinvolge e ci fa sperimentare l’intimità dell’altro. Toccare è sempre vicinanza, reciprocità, relazione, è sempre un vibrare dell’intero corpo al contatto con il corpo dell’altro.
Le due azioni di Gesù riportate da Marco nel brano evangelico di questa domenica sono unite tra loro proprio dal toccare: Gesù è toccato da una donna emorroissa e tocca il cadavere di una bambina. Due azioni vietate dalla Legge, eppure qui messe in rilievo come azioni di liberazione e di carità. Questo toccare non è un’azione magica, bensì eminentemente umana, umanissima: “Io tocco, dunque sono con te!”. Mentre Gesù passa con la forza della sua santità in mezzo alla gente, una donna malata di emorragia vaginale pensa di poter essere guarita toccando anche solo il suo mantello, il tallit, lo scialle della preghiera. Ciò avviene puntualmente, e allora la donna, impaurita e tremante, nella convinzione di aver fatto un gesto vietato dalla Legge, un atto che rende impuro Gesù, una volta scoperta scoperta confessa “il peccato” da lei commesso. Ma Gesù, che con il suo sguardo la cerca tra la folla, udita la confessione le dice con tenerezza e compassione: “Figlia, la tua fede ti ha salvata. Va’ in pace e sii guarita dal tuo male”. Egli si comporta così non per infrangere la Legge, ma perché risale alla volontà di Dio, senza fermarsi alla precettistica umana. E se Dio era sceso per liberare il suo popolo in Egitto, terra impura, abitata da gente impura, anche Gesù sente di poter stare tra impuri e di poterli incontrare, dando loro la liberazione. Per questo egli ha sentito uscire da sé “un’energia” (dýnamis) quando la donna l’ha toccato, perché la sua santità passava in quella donna impura.
Subito dopo Gesù viene condotto nella casa del capo della sinagoga Giairo, dove giace la sua figlioletta di dodici anni appena morta. Portando con sé solo Pietro, Giacomo e Giovanni, appena entrato in casa sente strepito, lamenti e grida per quella morte; allora, cacciati tutti dalla stanza, in quel silenzio prende la mano della bambina e le dice in aramaico: “Talità kum”, “Ragazza, io ti dico: Alzati!”. Anche qui la santità di Gesù vince l’impurità del cadavere, vince la possibile corruzione e comunica alla bambina una forza che è resurrezione, possibilità di rimettersi in piedi e di riprendere vita. Nella sua attenzione umanissima, poi, Gesù ordina che a quella bambina sia dato da mangiare, quasi che lei stessa abbia faticato per rispondere alla santità di Gesù, il quale le comunica quell’energia divina di cui è portatore.
Toccare l’altro è un movimento di compassione;
toccare l’altro è desiderare con lui;
toccare l’altro è parlargli silenziosamente con il proprio corpo, con la propria mano;
toccare l’altro è dirgli: “Io sono qui per te”;
toccare l’altro è dirgli: “Ti voglio bene”;
toccare l’altro è comunicargli ciò che io sono e accettare ciò che lui è;
toccare l’altro è un atto di riverenza, di riconoscimento, di venerazione.
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La fede fa miracoli

Lectio Divina sulle letture per la XIII domenica del Tempo Ordinario (Anno B) -- 28 giugno 2015
Monsignor Francesco Follo, osservatore permanente della Santa Sede presso l'UNESCO a Parigi, offre oggi la seguente riflessione sulle letture per la XIII domenica del Tempo Ordinario (Anno B), 28 giugno 2015.
Come di consueto offre anche una lettura patristica.
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LECTIO DIVINA

Domenica XIII del Tempo Ordinario – Anno B – 28 giugno 2015

Rito Romano

Sap 1,13-15; 2,23-24; Sal 29; 2Cor 8,7.9.13-15; Mc 5,21-43

Rito Ambrosiano

Gen 17,1b-16; Sal 104; Rm 4,3-12; Gv 12,35-50
V Domenica dopo Pentecoste.

1) Fede che guarisce e salva.

Nel lungo brano del Vangelo di questa Domenica sono presentati due miracoli, che si incastrano l’uno nell’altro. Il filo rosso che unisce il miracolo della guarigione della donna, che soffriva perdite di sangue, e quello della risurrezione della figlia del capo-sinagoga Giairo è la fede. Questa fede non solo guarisce e ridà la vita, ma salva la vita dandole pienezza.
Come dice Papa Francesco: “All’uomo che soffre Dio non dona un ragionamento che spieghi tutto, ma offre la sua risposta nella forma di una presenza che accompagna, di una storia di bene che si unisce a ogni storia di sofferenza per aprire in essa un varco di luce” (Lumen Fidei, 57).
In effetti, nella scena evangelica di oggi vediamo Gesù che condivide il dolore di Giairo, uno dei capi della sinagoga, il quale ha la figlia dodicenne gravemente ammalata, e la sofferenza della donna malata.
Soffermiamoci un po’ su questa scena. Avendo saputo delle guarigioni di Gesù, Giario, incurante della sua posizione sociale e e del suo ruolo autorevole, si getta ai piedi del Nazareno e lo supplica insistentemente di andare a imporre le mani alla sua figlioletta, perché sia salvata e viva. Gesù accoglie la richiesta e si dirige con lui verso la sua casa. Ma ecco che, nella ressa della folla che stringe da ogni parte, avanza una donna, affetta da 12 anni di eccessive perdite emorragiche; la poveretta aveva speso tutti i suoi averi dai medici senza nulla ottenere, anzi peggiorando.
Il miracolo della guarigione della donna che soffriva perdite di sangue si sarebbe prestato molto bene a sottolineare la potenza di Gesù. È bastato toccare la veste di Gesù per guarire. Però non è solo su ciò che San Marco ferma l’attenzione. L’Evangelista parla anche della meraviglia dei discepoli: “Vedi la folla che ti preme e domandi: chi mi ha toccato?”.
Perché Gesù dà rilievo al gesto di questa donna la quale non vuole farsi notare toccandogli quasi un lembo del mantello che Gesù ha sulle spalle? Occorre sapere che la legge mosaica dichiarava impura la donna che aveva perdite di sangue, e chi la toccava diventava impuro. Ecco perché la donna tocca la veste di Gesù di nascosto, approfittando della calca, ed ecco perché si sente tanto colpevole, paurosa e tremante, quando si vede scoperta. Ed è per lo stesso motivo che Gesù dà pubblicità all’accaduto: per dichiarare pubblicamente, di fronte a tutti, che non si sente impuro per essere stato toccato dalla donna, e che il puro e l’impuro legali sono superati dalla fede. Per questo, pubblicamente il Salvatore dice alla donna che gli ha “rubato” il miracolo: “Va’ in pace, la tua fede ti ha salvato”.
Ancora la fede è al centro della guarigione della figlia di Giairo: “Non temere, solo abbi fede”. Fede nella potenza di Gesù, una potenza capace di raggiungerti qui, nella tua propria situazione, vittoriosa persino sulla morte. Ma in questo racconto Marco accenna anche a un altro tema: “La bambina non è morta, ma dorme”. Il grande miracolo è la vittoria sulla morte, come ci ricorda il Salmo: “Dio guarisce tutte le tue infermità, salva dalla fossa la tua vita, ti circonda di bontà e misericordia » (103,3-4). In effetti, non sarebbe salvezza piena se non fosse per sempre.
Gesù, dopo aver smentito le parole degli uomini, che dicevano che la bambina era morta, e dopo averli mandati tutti fuori, dà un nome nuovo anche alla morte. La sua Parola è più importante di quella degli uomini. La Parola di Dio ridà vita, la dà per sempre.

2) Fede: è questione di intelligenza e di cuore, è maniera di vivere non solo di pensare.

Come stiamo vedendo, l’attenzione è attirata non tanto sui due miracoli, quanto sulla fede di chi li domanda. La fede è indispensabile al miracolo. Gesù non compie miracoli per forzare, ad ogni costo, il cuore dell’uomo. I miracoli sono segni a favore della fede, ma non sminuiscono il coraggio di credere. I miracoli sono un dono, una risposta alla sincerità e purezza del cuore dell’uomo che cerca il Signore e che mendica la guarigione del corpo e dell’anima.
Gesù non compie miracoli, dove gli uomini pretendono di essere loro a stabilire le modalità dell'agire di Dio. Il miracolo è la libera risposta di Dio alla mendicanza della creatura umana.
Purtroppo siamo spesso ciechi di fronte ai molti segni che Dio compie, non abbiamo il cuore aperto per decifrarli e il coraggio per deciderci, e allora ci si scusa pretendendone altri. Chiediamo nuovi segni, sempre nuovi segni, e intanto non ci accorgiamo dei molti segni che Dio ha già - di sua iniziativa - seminato lungo la strada della storia e della nostra vita.
Dobbiamo chiedere ma con purezza di cuore e compunzione. La parola compunzione diventa molto espressiva se pensiamo alla sua etimologia: significa infatti il bruciore provocato da una puntura. Quel bruciore che provoca in noi l’amore di Dio manifestato in Cristo quanto tocca il nostro cuore peccatore. La compunzione non equivale al senso di colpa né agli scrupoli, ma fa riferimento all'amore, perché deriva dalla considerazione che Dio ci ama e che “Cristo è morto per noi, quando eravamo ancora peccatori” (Rm, 5, 8).
Il contrario della paura non è il coraggio, è la fede. L’importante è perseverare in essa e farla crescere in noi. Anche quando il dubbio assale, anche se la nostra fede non ha nulla di eroico, lasciamo che la Parola di Dio abiti nel nostro cuore, che il Nome di Cristo salga alle labbra con un’ostinazione da innamorati.
La fede è un atto umanissimo, vitale, che tende alla vita e si oppone alla morte. La fede è un atto dell’intelligenza e un abbandono della volontà, che ci fa aderire a Dio come un bambino aderisce al petto della madre, poi come i bambini dal cuore svezzato della mamma restiamo confidenti nella braccia di Dio.
“La fede è propriamente una risposta al dialogo di Dio e alla sua Parola, alla Sua Rivelazione.
La fede è il “sì” che consente al pensiero divino di entrare nel nostro.
La fede è un atto che si fonda sul credito che noi diamo al Dio vivente: è l’atto di Abramo che credette a Dio e che da ciò trasse salvezza.
La fede è un insieme di convinzione e fiducia, che pervade tutta la personalità del credente e impegna la sua maniera di vivere.” (Paolo VI, novembre 1966).
E' dunque giusto chiederci, oggi, quale dimensione ha la nostra fede: se è un atteggiamento superficiale che non dà credito alla Sua onnipotenza o “una maniera di vivere Dio”.
Le Vergini consacrate nel mondo testimoniano che la fede è una maniera di vivere Dio. La loro vita di vergini è testimonianza dell’amore di Dio e manifestazione della sapienza del cuore ricevuta da Cristo. Con la vita totalmente donata a Dio queste donne “predicano il vangelo della Verginità”, secondo il quale “la fede non è una cosa decorativa, ornamentale; vivere la fede non è decorare la vita con un po’ di religione” (Papa Francesco), ma è criterio di base per vivere veramente. Con umiltà e con fede amorosa le Vergini consacrate nel mondo si sono donate a Cristo, di cui ascoltano la Parola con costanza mediante la lettura assidua della Bibbia e si protendono nel mondo quale vangelo di Verginità “al fine di amare più ardentemente il Cristo e servire con più libera dedizione i fratelli” (Premesse del Rito di Consacrazione della Vergini). Per questo l’esortazione apostolica Vita consecrataattribuisce loro una sorta di “magistero spirituale” che le colloca come «guide esperte di vita spirituale» (Vita consecrata, n. 55). Esse ci insegnano a vivere la fede con il cuore, ad ascoltare la sua Parola
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LETTURA PATRISTICA

Sant’Efrem, Diatessaron, VII, 6, 19-23

1. I medici e il medico

La sua fede arrestò in un istante, come in un batter d’occhio, il flusso di sangue che era sgorgato per dodici anni. Numerosi medici l’avevano visitata moltissime volte, ma l’umile medico, il figlio unico la guardò soltanto un momento. Spesso, quella donna aveva profuso forti somme per i medici; ma all’improvviso, accanto al nostro medico, i suoi pensieri sparsi si raccolsero in un’unica fede. Quando i medici terreni la curavano, ella pagava loro un prezzo terreno (Mc 5,26); ma quando il medico celeste le apparve, ella le presentò una fede celeste. I doni terrestri furono lasciati agli abitanti della terra, i doni spirituali furono elevati al Dio spirituale nei cieli.
I medici stimolavano coi loro rimedi i dolori causati dal male, come una belva abbandonata alla sua ferocia. Così, per reazione, come una belva inferocita, i dolori li diffondevano dappertutto, essi e i loro rimedi. Quando tutti si affrettavano di sottrarsi alla cura di quel dolore, una potenza uscì, rapida, dalla frangia del mantello di Nostro Signore; colpì violentemente il male, lo bloccò e s’attirò l’elogio per il male domato. Uno solo si prese gioco di quelli che s’erano presi gioco per molto. Un solo medico divenne celebre per un male che parecchi medici avevano reso celebre. Proprio quando la mano di quella donna aveva distribuito grandi cifre, la sua piaga non ricevette alcuna guarigione; ma quando la sua mano si tese vuota, la cavità si riempi di salute. Finché la sua mano era ripiena di ricompense tangibili, essa era vuota di fede nascosta, ma quando si spogliò delle ricompense tangibili, fu ripiena di fede invisibile. Diede ricompense manifeste e non ricevette guarigione manifesta; diede una fede manifesta e ricevette una guarigione nascosta. Sebbene avesse dato ai medici il loro onorario con fiducia, non trovò per il suo onorario una ricompensa proporzionata alla sua fiducia; ma quando diede un prezzo preso con furto, allora ne ricevette il premio, quello della guarigione nascosta...
E coloro che non erano stati capaci di guarire quest’unica donna coi loro rimedi, guarivano frattanto molti pensieri con le loro risposte. Nostro Signore, invece, capace di guarire ogni malato, non voleva mostrarsi capace di rispondere anche ad un solo interrogativo; conosceva quella risposta, ma descriveva in anticipo coloro che avrebbero detto: "Tu, con la tua venuta, dai testimonianza di te stesso; la tua testimonianza non è vera" (Jn 8,13). La sua potenza aveva guarito la donna, ma il suo parlare non aveva persuaso quella gente. Eppure, per quanto la sua lingua restasse muta, la sua opera risuonava come una tromba. Col suo silenzio soffocava l’orgoglio arrogante; con la sua domanda: "Chi mi ha toccato?" (Lc 8,45) e con la sua opera, la sua verità era proclamata.
Se non ci fosse che un senso da dare alle parole della Scrittura, il primo interprete lo troverebbe, e gli altri uditori non avrebbero più il lavoro pesante della ricerca, né il piacere della scoperta. Ma ogni parola di Nostro Signore ha la sua forma, e ogni forma ha molti membri, e ogni membro ha la sua fisionomia propria. Ciascuno comprende secondo la sua capacità, e interpreta come gli è dato.
È così che una donna si presentò a lui e che la guarì. Si era presentata davanti a parecchi uomini che non l’avevano guarita; avevano perduto il loro tempo con lei. Ma un uomo la guarì, quando il suo volto era girato da un’altra parte; egli biasimava così coloro che, con grande cura, si volgevano verso di lei, ma non la guarivano: "La debolezza di Dio è più forte degli uomini" (1Co 1,25). Sebbene il volto umano di Nostro Signore non poté guardare che da una sola parte, la sua divinità interiore aveva occhio dappertutto poiché vedeva da ogni lato.