Santa Maria,

Santa Maria,
...donna del primo sguardo, donaci la grazia dello stupore.

sabato 27 giugno 2015

XIII del Tempo Ordinario, Anno B

LA LITURGIA DELLA DOMENICA:

QUI IL COMMENTO ALLA PAROLA DELLA XIII SETTIMAMA DEL TEMPO ORDINARIO. ANNO B (28 GIUGNO 2015)



Nella tredicesima domenica del Tempo ordinario, la liturgia ci propone il Vangelo in cui Gesù guarisce una donna che aveva perdite di sangue e risuscita la figlia di Giàiro. Alla bambina dice:
“'Talità kum', che significa: 'Fanciulla, io ti dico: àlzati!'. E subito la fanciulla si alzò e camminava”.

Il Vangelo di oggi, nella sua semplicità – Gesù cura una donna che ha delle perdite di sangue e risuscita una fanciulla – potrebbe darci un’idea distorta del Signore e della sua missione. Questo Gesù, che si lascia toccare dalla donna, e la guarisce; questo Gesù che pronuncia in aramaico, la sua lingua, una semplice parola su una ragazza morta: “Talità kum”: “Fanciulla, àlzati!” e la rimette in piedi, viva, non è il Signore di cui abbiamo bisogno? L’uomo, che da sempre è alla ricerca di rimedi, di risposte ai suoi mali, alle sue sofferenze, non ha trovato qui il taumaturgo, il guaritore? Di cos’altro abbiamo bisogno? Letto così il Vangelo di oggi è stravolto. Non è certo questo il motivo per cui viene proclamato nella liturgia della Chiesa. La missione di Gesù non è di arrivare lì dove la scienza e la medicina hanno fallito, o non sanno ancora cosa fare, per inaugurare qui sulla terra un’era di pace e di benessere, un “mondo migliore”. Per quanto questo sogno possa attirarci, per quanto esso sia distribuito a piene mani da tanti falsi profeti, rimane un sogno, perché completamente fuori della realtà e contrario alla rivelazione. L’uomo è chiamato a confrontarsi ogni giorno con il male, fisico e morale, malattie e peccato: il mistero di iniquità all’azione nel mondo. Le guarigioni che Gesù opera sono la buona notizia che annuncia che in questo mondo, dominato dal principe del male, dal demonio, è giunta la liberazione di Dio che ridà all’uomo la sua dignità di figlio di Dio, che ricongiunge l’uomo al suo Dio, che gli ridà la vita. (Pasotti)

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Mc 5,21-43
21Essendo Gesù passato di nuovo in barca all'altra riva, gli si radunò attorno molta folla ed egli stava lungo il mare. 22E venne uno dei capi della sinagoga, di nome Giàiro, il quale, come lo vide, gli si gettò ai piedi 23e lo supplicò con insistenza: «La mia figlioletta sta morendo: vieni a imporle le mani, perché sia salvata e viva». 24Andò con lui. Molta folla lo seguiva e gli si stringeva intorno.
25Ora una donna, che aveva perdite di sangue da dodici anni 26e aveva molto sofferto per opera di molti medici, spendendo tutti i suoi averi senza alcun vantaggio, anzi piuttosto peggiorando, 27udito parlare di Gesù, venne tra la folla e da dietro toccò il suo mantello. 28Diceva infatti: «Se riuscirò anche solo a toccare le sue vesti, sarò salvata». 29E subito le si fermò il flusso di sangue e sentì nel suo corpo che era guarita dal male.
30E subito Gesù, essendosi reso conto della forza che era uscita da lui, si voltò alla folla dicendo: «Chi ha toccato le mie vesti?». 31I suoi discepoli gli dissero: «Tu vedi la folla che si stringe intorno a te e dici: «Chi mi ha toccato?»». 32Egli guardava attorno, per vedere colei che aveva fatto questo. 33E la donna, impaurita e tremante, sapendo ciò che le era accaduto, venne, gli si gettò davanti e gli disse tutta la verità. 34Ed egli le disse: «Figlia, la tua fede ti ha salvata. Va' in pace e sii guarita dal tuo male».
35Stava ancora parlando, quando dalla casa del capo della sinagoga vennero a dire: «Tua figlia è morta. Perché disturbi ancora il Maestro?». 36Ma Gesù, udito quanto dicevano, disse al capo della sinagoga: «Non temere, soltanto abbi fede!». 37E non permise a nessuno di seguirlo, fuorché a Pietro, Giacomo e Giovanni, fratello di Giacomo. 38Giunsero alla casa del capo della sinagoga ed egli vide trambusto e gente che piangeva e urlava forte. 39Entrato, disse loro: «Perché vi agitate e piangete? La bambina non è morta, ma dorme». 40E lo deridevano. Ma egli, cacciati tutti fuori, prese con sé il padre e la madre della bambina e quelli che erano con lui ed entrò dove era la bambina. 41Prese la mano della bambina e le disse: «Talità kum», che significa: «Fanciulla, io ti dico: àlzati!». 42E subito la fanciulla si alzò e camminava; aveva infatti dodici anni. Essi furono presi da grande stupore. 43E raccomandò loro con insistenza che nessuno venisse a saperlo e disse di darle da mangiare.
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L'audacia della fede apre il cuore di Dio
Commento al Vangelo della Domenica XIII del Tempo Ordinario, Anno B -- 28 giugno 2015
E’ di nuovo Domenica, il memoriale della Vita più forte nella morte. E’ Domenica per noi, che durante la settimana abbiamo perduto sangue senza riuscire a guarire dalle sconfitte, dalle umiliazioni, dai peccati con i quali ci siamo difesi dal mondo.
Il flusso del sangue, infatti, nella Bibbia è vita che si perde e morte che lambisce l'esistenza. Per questo l'emorragia rendeva impuri, impedendo il culto, e quindi la relazione con Dio, come un anticipo dell'inferno. La donna del Vangelo lo era “da dodici anni”, numero che indica i mesi di un anno, immagine della totalità dell'esistenza. E stava “peggiorando”.
E' immagine della nostra vita che ci sfugge senza riuscire a trattenerla, progetti che se ne vanno in fumo, relazioni fallimentari consegnate agli psicologi, alle terapie di gruppo, alle medicine, o agli amici, ai confidenti, alla televisione, ai social networks, ai manuali, alle palestre e alle meditazioni zen; o all'impegno, al fare, al produrre, tentando di dare un senso che riempia la voragine che inghiotte l'esistenza.
Ma sempre senza successo, anzi peggiorando. Sempre più poveri, “dilapidando ogni avere”. Ma il Signore é in mezzo a noi, è all'opera e passa beneficando; anche ora sta seguendo uno dei tanti Giairo che lo implorano dopo aver ascoltato l'annuncio che Lui è in grado guarire davvero. Passa Gesú, si tratta semplicemente di raggiungerlo e toccarlo.
Anche solo di sfuggita, anche “solo il lembo del suo mantello”, lo stesso del Profeta Elia, dal quale si sprigiona il potere di salvare la Vita che abbiamo perso. Ma sorge una domanda: abbiamo mai toccato Gesù? La donna del Vangelo lo tocca prima con la mente e con il cuore, lo tocca dentro di lei, dal fondo della sua disperazione, dal buio della sua impotenza.
"Chi mi ha toccato?". Uno tra mille, e Lui si accorge dell’unica che lo ha toccato “tra la folla”, con ansia e paura, dal fondo delle sofferenze e dei fallimenti di una vita, ma con fede. Mentre la folla va a messa, prega, chiede grazie, si impegna "nel sociale"; bravi preti, brave mamme, bravi papà che fanno elemosine, volontariato, gruppi, gite e pellegrinaggi. E Lui non si accorge di nulla, e nulla di tutto ciò scuote il Signore, nulla carpisce la sua forza. Tanti si accalcano, forse lo toccano, ma è solo curiosità, religiosità superficiale, un tentativo, un numero in più sulla ruota della vita. 

Per lei no, solo per lei è questione di vita o di morte. Dal cuore, dal desiderio disperato che si traduce in speranza, la sua mano si allunga e, “da dietro”, come il pubblicano nascosto nell'ombra al fondo del tempio, lo tocca tremante. E torna alla vita. Impura tocca il puro, infrangendo la legge secondo la quale non avrebbe assolutamente dovuto. Cosí facendo infatti, la donna contamina Gesù (cfr. Lev. 15, 19-33), lo tocca e lo attira dentro la propria immondezza. Lei sa che toccarlo da impura significava renderlo impuro come lei. Per questo si avvicina da tergo e lo tocca fugacemente, sperando d'essere salvata senza essere riconosciuta, senza che nessuno se ne dia conto e accusi Gesú. 

Ma il Signore va oltre le apparenze, perché Lui guarda il cuore. Si rende conto di quello che è successo, “sente” che il flusso di morte di quella donna lo aveva raggiunto strappandogli la vitaa Lui la morte, a lei la Vita. Il mistero pasquale si compie in un incontro, immagine d'ogni sacramento che ridona la vita realizzando quello che significa, la vittoria di Gesù sulla morte. I due sanno quello che è successo, “sentono” la stessa cosa nel loro intimo, laddove gli occhi della carne che appesantiscono anche lo sguardo di Pietro, non possono arrivare: “sentono” lo stesso flusso d’amore e di vita, si “toccano” nel cuore in un abbraccio interiore che è il ritorno alla comunione del Paradiso.
E’ un’immagine fortissima della relazione di intimità con Gesù dalla quale scaturiscono tutti gli altri rapporti: in questo toccare della donna si rivelano le nozze mistiche che generano la santità matrimoniale, la santa sottomissione della sposa allo Sposo e il dono della vita di questi alla sposa, l’obbedienza fiduciosa della creatura al Creatore, il “mistero grande” di cui parla San Paolo riferendosi al sacramento del matrimonio. In questo gesto brillano anche lo splendore e la santità dell’unione sessuale dei corpi aperti al flusso di vita che sgorga da Cristo; e così l’amicizia, il fidanzamento, la relazione tra i genitori e i figli. Per questo Gesú la cerca, la vede, e con il suo sguardo la chiama.
E’ il compimento dell’amore, il frutto benedetto di ogni relazione che passa attraverso la mediazione della carne. La donna tocca il Signore, guarisce dall’egoismo che disperde la vita, per incontrare lo sguardo celeste di Dio. Ogni volta che ci si consegna a Cristo ci si ritrova in Paradiso; così, ogni volta che ci doniamo all’altro, sia nel talamo come nella vita di ogni giorno, si schiudono per noi le porte del Cielo, l’anticipo della vita che non muore.
Finalmente libera e tornata alla vita, la donna può “gettarsi ai piedi” di Gesù, professando la sua fede, il canto di lode che accompagna la sua Redditio Symboli; lì, accasciata davanti al Signore, racconta e testimonia l'incontro seguito all'annuncio, di come Gesù abbia avuto il potere di salvarla, laddove tutti e tutto avevano fallito, e quell’intimità esclusiva “sentita” nel fondo dello spirito, la gioia più grande di tutta la sua vita.
E diventa figlia, rigenerata nel potere di Gesù, attraverso la porta della fede che l'ha “salvata” prima di “guarirla”. Ora può andare in pace, sanata alla radice dal male, perché prima è stata “salvata”. L'audacia della sua fede ha aperto il cuore di Dio: toccare Gesù significa la fede pura e adulta nella quale abbandonarsi a Lui anche dal fondo del peccato più grave. La fede, infatti, è sporcare e contaminare Gesù, trascinarlo dentro la nostra vita mezza morta. E fare in modo che si accorga che ci ha salvati, obbligare il potere che il Signore sembra sia incapace di controllare.
Secondo la tradizione rabbinica, prima d'ogni altra cosa, Dio ha creato la misericordia, sapendo che l'uomo appena creato ne avrebbe avuto subito bisogno. Forse è tempo che non parliamo con nostra moglie, o con quel cugino che ci ha tolto denaro e onore. Forse l'emorragia ci ha prosciugato la forza per perdonare e chiedere perdono, per parlare con nostra figlia, per svegliarci e accogliere un nuovo giorno grigio di routine.
Forse abbiamo speso tutto, energie e speranze, ci siamo dibattuti come pesci nella rete cercando di saltar fuori dalla solitudine, dal dolore, dal tradimento. Forse i tanti affari con i quali abbiamo tentato di tenere lontana la realtà dura e difficile del ministero e della missione si sono dissolti e nessuno ha più bisogno di noi. Forse ci siamo ritrovati soli con anni spesi a rincorrere una pienezza e una pace mai trovate.
Fratelli, è giunto il momento unico e irripetibile di correre e toccare Gesù, con il cuore e con la mente: è santa l'emorragia come sono santi i “dodici anni” - tutta la nostra vita sino ad oggi - che ci hanno condotto sul bordo della piscina battesimale, pronti ad immergervi il nostro uomo vecchio. E' santa la storia che ha reciso ogni alienazione, appoggio, sicurezza.
E' santa l'impotenza che ci spinge a toccare il lembo del mantello di Cristo, e che suscita il desiderio di cercare in Lui solo consolazione, pace, amore e pienezza. E' santa la nostra vita di oggi che ci costituisce per il Signore un tu vero e da amare, un “chi” che il Signore possa cercare tra la folla e riconoscere per salvare.
E' santa la volontà di Dio che ci conduce alla fede adulta che non teme si toccare Cristo nel suo mantello che è la Chiesa dispensatrice dei sacramenti che hanno potere su ogni nostro peccato. Proprio quello che crediamo ci stia distruggendo afferma invece la nostra identità unica e preziosa agli occhi di Cristo; la nostra debolezza gettata sul suo mantello ci rende oggetto delle sue attenzioni, della ricerca del suo sguardo, dello zelo del suo cuore.
E chi non vorrebbe attirare l'attenzione dell'amato? Con Gesù non è il trucco, non sono i vestiti, non sono le qualità a suscitare attenzioni e sguardi, perché Lui cerca la debolezza, l'inutilità, la povertà, proprio tutto quello che l'uomo disprezza. Come la “figlioletta” di Giairo, immagine di quanto di noi e in noi è ormai “agli estremi”. Mentre attorno le voci dei parenti e degli amici che credono di conoscere la nostra vita, fermi alla superficie delle cose, ripetono che ogni “figlia” dei nostri sforzi, dei desideri e dei progetti è ormai “morta”, ed è inutile “disturbare ancora il Maestro".
Parole di una logica così stringente che ci assediano anche dal nostro intimo. Il matrimonio fa acqua, i figli non ascoltano, l’irreparabile suscita “derisione”, e molti “piangono e strepitano”, inducendoci a disperare e a vestire il lutto che avvolga i fallimenti, il vero obbiettivo del demonio. Ma anche oggi Gesù ci annuncia che la nostra vita “è solo addormentata, non è morta!”. Nulla di quanto speravamo e desideravamo è destinato alla corruzione; tutto si addormenta nella caducità e nella debolezza della carne per risvegliarsi e trasfigurarsi nell'incontro con Cristo, l'autore della vita. 
Gesù “caccia via” tutti quelli che ci vogliono allontanare dalla fede, ed entra con la sua Chiesa “dove è la bambina”, esattamente dove oggi giace quella parte di noi che sembra morta. Ci porta con sé, “genitori” a cui è stata affidata la vita con la sua storia, che per il peccato si sta spegnendo su di un giaciglio di morte; e “prende la mano” inerme del matrimonio, della relazione con i figli, del lavoro, del fidanzamento e sussurra quell’ “Alzati, risuscita!” con cui ristabilisce nello splendore originale della volontà del Padre ogni frammento della nostra vita.
“Dodici anni” per comprendere la nostra debolezza, una vita per farci prendere per mano dal Signore e ascoltare l’annuncio che ci rimette in piedi, per “camminare” seguendo le sue orme di amore e libertà, “mangiando” finalmente il cibo che non perisce, la sua vita fatta carne e sangue capaci di compiere la volontà del Padre.
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XIII domenica del tempo Ordinario, anno B, 28 giugno 2015

Mc 5,21-43
Commento al Vangelo di Enzo Bianchi
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Che cos’è l’impurità? Quando una persona è impura, cioè indegna di stare con gli altri e con Dio? Quando una persona è “segnata” da una situazione malefica? E potremmo continuare a porre domande simili o parallele, perché da sempre questi interrogativi emergono nei nostri cuori nelle differenti situazioni della nostra vita. E le risposte che noi esseri umani abbiamo dato, e magari ancora diamo, non sempre riflettono la volontà del Creatore, i sentimenti di Dio. Purtroppo le vie religiose tracciate dall’umanità spesso riflettono non il pensiero di Dio, ma sono piuttosto il frutto di sentimenti umani per i quali si sono trovate giustificazioni fonte di alienazione o di separazione tra gli umani.
In questi percorsi, il sangue, segno della vita negli animali e negli umani, ha attirato fortemente l’attenzione su di sé. Ognuno di noi è nato nel sangue che fluisce dall’utero della madre e ognuno di noi muore quando il suo sangue non scorre più. Ecco dunque, al riguardo, la Legge e le leggi: il sangue che esce da una donna nel mestruo o alla nascita di un figlio la rende impura, così come ognuno quando muore entra nella condizione di impurità, perché preda della corruzione del proprio corpo. Il sangue rende impuri, rende indegni, e questa per una donna è una schiavitù impostale dalla sua condizione secondo la Legge, dunque – dicono gli uomini religiosi – da Dio. La donna impura per il mestruo o per la gravidanza non toccherà cose sante, non entrerà nel tempio (nel Santo) e per purificarsi dovrà offrire un sacrificio; anche chi toccherà una donna impura sarà reso impuro (cf. Lv 12,1-8; 15,19-30), impuro come un lebbroso e chi lo tocca, impuro come un morto e chi lo tocca. Di qui ecco barriere, muri, separazioni innalzati tra persona e persona, ecco l’imposizione dell’esclusione e dell’emarginazione. Certo, “a fin di bene”, per evitare il contagio, per instaurare un regime di immunitas: ma al prezzo della creazione di uno steccato e dell’indegnità-impurità posta come sigillo su alcune persone! Anche le misure di precauzione finiscono per diventare una condanna…
Ma Gesù è venuto proprio per far cadere queste barriere: egli sapeva che non è possibile che il sangue di un animale offerto in sacrificio possa togliere il peccato e rendere puri, mentre il sangue di una donna versato per il naturale ciclo mestruale o il corpo di un morto di cui occorre avere cura possano generare impurità, indegnità di stare con gli altri e davanti a Dio. Per questo i vangeli mettono in evidenza che Gesù non solo curava e guariva i malati, gli impuri, come i lebbrosi o come le donne colpite da emorragia, ma li toccava e da essi si faceva toccare. Gesù abolisce ogni sorta di sacro, poiché egli non era “sacro” come i sacerdoti, essendo un ebreo laico, non di stirpe sacerdotale, e poiché vedeva nelle leggi della sacralità una contraddizione alla carità, alla relazione così vitale per noi umani. Amare l’altro vale più dell’offerta a Dio di un sacrificio (cf. Mc 12,33; 1Sam 15,22), essere misericordiosi è vivere il precetto, il comandamento dato dal “Dio misericordioso (rachum) e compassionevole (channun)” (Es 34,6). In Gesù c’era la presenza di Dio, dunque lui era “il Santo di Dio” (Mc 1,24; Lc 4,34; Gv 6,69), ma egli non temeva di contrarre l’impurità; al contrario, egli proclamava e mostrava che la santità di Dio santifica anziché rendere impuri, consuma e brucia il peccato e l’impurità, perché è una santità che è misericordia (cf. Os 11,9: “Io sono Dio e non uomo; sono il Santo in mezzo a te e non verrò da te nella mia ira”).
Per questo Gesù lasciava che i malati lo toccassero, avessero contatto con il suo corpo (cf. Mc 6,56; Mt 14,36), per questo egli toccava i malati: tocca il lebbroso per guarirlo (cf. Mc 1,41 e par.), tocca gli orecchi e la lingua del sordomuto per aprirli (cf. Mc 7,33), tocca gli occhi del cieco per ridargli la vista (cf. Mc 8,23.25), tocca i bambini e impone le mani su di loro (cf. Mc 10,13.16 e par.), tocca il morto per risuscitarlo (cf. Lc 7,14); e a sua volta si lascia toccare dai malati, da una prostituta, dai discepoli, dalle folle… Toccare, questa esperienza di comunicazione, di con-tatto, di corpo a corpo, azione sempre reciproca (si tocca e si è toccati, inscindibilmente!), questo comunicare la propria alterità e sentire l’altrui alterità… Toccare è il senso fondamentale, il primo a manifestarsi in ciascuno di noi, ed è anche il senso che più ci coinvolge e ci fa sperimentare l’intimità dell’altro. Toccare è sempre vicinanza, reciprocità, relazione, è sempre un vibrare dell’intero corpo al contatto con il corpo dell’altro.
Le due azioni di Gesù riportate da Marco nel brano evangelico di questa domenica sono unite tra loro proprio dal toccare: Gesù è toccato da una donna emorroissa e tocca il cadavere di una bambina. Due azioni vietate dalla Legge, eppure qui messe in rilievo come azioni di liberazione e di carità. Questo toccare non è un’azione magica, bensì eminentemente umana, umanissima: “Io tocco, dunque sono con te!”. Mentre Gesù passa con la forza della sua santità in mezzo alla gente, una donna malata di emorragia vaginale pensa di poter essere guarita toccando anche solo il suo mantello, il tallit, lo scialle della preghiera. Ciò avviene puntualmente, e allora la donna, impaurita e tremante, nella convinzione di aver fatto un gesto vietato dalla Legge, un atto che rende impuro Gesù, una volta scoperta scoperta confessa “il peccato” da lei commesso. Ma Gesù, che con il suo sguardo la cerca tra la folla, udita la confessione le dice con tenerezza e compassione: “Figlia, la tua fede ti ha salvata. Va’ in pace e sii guarita dal tuo male”. Egli si comporta così non per infrangere la Legge, ma perché risale alla volontà di Dio, senza fermarsi alla precettistica umana. E se Dio era sceso per liberare il suo popolo in Egitto, terra impura, abitata da gente impura, anche Gesù sente di poter stare tra impuri e di poterli incontrare, dando loro la liberazione. Per questo egli ha sentito uscire da sé “un’energia” (dýnamis) quando la donna l’ha toccato, perché la sua santità passava in quella donna impura.
Subito dopo Gesù viene condotto nella casa del capo della sinagoga Giairo, dove giace la sua figlioletta di dodici anni appena morta. Portando con sé solo Pietro, Giacomo e Giovanni, appena entrato in casa sente strepito, lamenti e grida per quella morte; allora, cacciati tutti dalla stanza, in quel silenzio prende la mano della bambina e le dice in aramaico: “Talità kum”, “Ragazza, io ti dico: Alzati!”. Anche qui la santità di Gesù vince l’impurità del cadavere, vince la possibile corruzione e comunica alla bambina una forza che è resurrezione, possibilità di rimettersi in piedi e di riprendere vita. Nella sua attenzione umanissima, poi, Gesù ordina che a quella bambina sia dato da mangiare, quasi che lei stessa abbia faticato per rispondere alla santità di Gesù, il quale le comunica quell’energia divina di cui è portatore.
Toccare l’altro è un movimento di compassione;
toccare l’altro è desiderare con lui;
toccare l’altro è parlargli silenziosamente con il proprio corpo, con la propria mano;
toccare l’altro è dirgli: “Io sono qui per te”;
toccare l’altro è dirgli: “Ti voglio bene”;
toccare l’altro è comunicargli ciò che io sono e accettare ciò che lui è;
toccare l’altro è un atto di riverenza, di riconoscimento, di venerazione.
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La fede fa miracoli

Lectio Divina sulle letture per la XIII domenica del Tempo Ordinario (Anno B) -- 28 giugno 2015

Monsignor Francesco Follo, osservatore permanente della Santa Sede presso l'UNESCO a Parigi, offre oggi la seguente riflessione sulle letture per la XIII domenica del Tempo Ordinario (Anno B), 28 giugno 2015.
Come di consueto offre anche una lettura patristica.
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LECTIO DIVINA

Domenica XIII del Tempo Ordinario – Anno B – 28 giugno 2015

Rito Romano

Sap 1,13-15; 2,23-24; Sal 29; 2Cor 8,7.9.13-15; Mc 5,21-43

Rito Ambrosiano

Gen 17,1b-16; Sal 104; Rm 4,3-12; Gv 12,35-50
V Domenica dopo Pentecoste.

1) Fede che guarisce e salva.

Nel lungo brano del Vangelo di questa Domenica sono presentati due miracoli, che si incastrano l’uno nell’altro. Il filo rosso che unisce il miracolo della guarigione della donna, che soffriva perdite di sangue, e quello della risurrezione della figlia del capo-sinagoga Giairo è la fede. Questa fede non solo guarisce e ridà la vita, ma salva la vita dandole pienezza.
Come dice Papa Francesco: “All’uomo che soffre Dio non dona un ragionamento che spieghi tutto, ma offre la sua risposta nella forma di una presenza che accompagna, di una storia di bene che si unisce a ogni storia di sofferenza per aprire in essa un varco di luce” (Lumen Fidei, 57).
In effetti, nella scena evangelica di oggi vediamo Gesù che condivide il dolore di Giairo, uno dei capi della sinagoga, il quale ha la figlia dodicenne gravemente ammalata, e la sofferenza della donna malata.
Soffermiamoci un po’ su questa scena. Avendo saputo delle guarigioni di Gesù, Giario, incurante della sua posizione sociale e e del suo ruolo autorevole, si getta ai piedi del Nazareno e lo supplica insistentemente di andare a imporre le mani alla sua figlioletta, perché sia salvata e viva. Gesù accoglie la richiesta e si dirige con lui verso la sua casa. Ma ecco che, nella ressa della folla che stringe da ogni parte, avanza una donna, affetta da 12 anni di eccessive perdite emorragiche; la poveretta aveva speso tutti i suoi averi dai medici senza nulla ottenere, anzi peggiorando.
Il miracolo della guarigione della donna che soffriva perdite di sangue si sarebbe prestato molto bene a sottolineare la potenza di Gesù. È bastato toccare la veste di Gesù per guarire. Però non è solo su ciò che San Marco ferma l’attenzione. L’Evangelista parla anche della meraviglia dei discepoli: “Vedi la folla che ti preme e domandi: chi mi ha toccato?”.
Perché Gesù dà rilievo al gesto di questa donna la quale non vuole farsi notare toccandogli quasi un lembo del mantello che Gesù ha sulle spalle? Occorre sapere che la legge mosaica dichiarava impura la donna che aveva perdite di sangue, e chi la toccava diventava impuro. Ecco perché la donna tocca la veste di Gesù di nascosto, approfittando della calca, ed ecco perché si sente tanto colpevole, paurosa e tremante, quando si vede scoperta. Ed è per lo stesso motivo che Gesù dà pubblicità all’accaduto: per dichiarare pubblicamente, di fronte a tutti, che non si sente impuro per essere stato toccato dalla donna, e che il puro e l’impuro legali sono superati dalla fede. Per questo, pubblicamente il Salvatore dice alla donna che gli ha “rubato” il miracolo: “Va’ in pace, la tua fede ti ha salvato”.
Ancora la fede è al centro della guarigione della figlia di Giairo: “Non temere, solo abbi fede”. Fede nella potenza di Gesù, una potenza capace di raggiungerti qui, nella tua propria situazione, vittoriosa persino sulla morte. Ma in questo racconto Marco accenna anche a un altro tema: “La bambina non è morta, ma dorme”. Il grande miracolo è la vittoria sulla morte, come ci ricorda il Salmo: “Dio guarisce tutte le tue infermità, salva dalla fossa la tua vita, ti circonda di bontà e misericordia » (103,3-4). In effetti, non sarebbe salvezza piena se non fosse per sempre.
Gesù, dopo aver smentito le parole degli uomini, che dicevano che la bambina era morta, e dopo averli mandati tutti fuori, dà un nome nuovo anche alla morte. La sua Parola è più importante di quella degli uomini. La Parola di Dio ridà vita, la dà per sempre.

2) Fede: è questione di intelligenza e di cuore, è maniera di vivere non solo di pensare.

Come stiamo vedendo, l’attenzione è attirata non tanto sui due miracoli, quanto sulla fede di chi li domanda. La fede è indispensabile al miracolo. Gesù non compie miracoli per forzare, ad ogni costo, il cuore dell’uomo. I miracoli sono segni a favore della fede, ma non sminuiscono il coraggio di credere. I miracoli sono un dono, una risposta alla sincerità e purezza del cuore dell’uomo che cerca il Signore e che mendica la guarigione del corpo e dell’anima.
Gesù non compie miracoli, dove gli uomini pretendono di essere loro a stabilire le modalità dell'agire di Dio. Il miracolo è la libera risposta di Dio alla mendicanza della creatura umana.
Purtroppo siamo spesso ciechi di fronte ai molti segni che Dio compie, non abbiamo il cuore aperto per decifrarli e il coraggio per deciderci, e allora ci si scusa pretendendone altri. Chiediamo nuovi segni, sempre nuovi segni, e intanto non ci accorgiamo dei molti segni che Dio ha già - di sua iniziativa - seminato lungo la strada della storia e della nostra vita.
Dobbiamo chiedere ma con purezza di cuore e compunzione. La parola compunzione diventa molto espressiva se pensiamo alla sua etimologia: significa infatti il bruciore provocato da una puntura. Quel bruciore che provoca in noi l’amore di Dio manifestato in Cristo quanto tocca il nostro cuore peccatore. La compunzione non equivale al senso di colpa né agli scrupoli, ma fa riferimento all'amore, perché deriva dalla considerazione che Dio ci ama e che “Cristo è morto per noi, quando eravamo ancora peccatori” (Rm, 5, 8).
Il contrario della paura non è il coraggio, è la fede. L’importante è perseverare in essa e farla crescere in noi. Anche quando il dubbio assale, anche se la nostra fede non ha nulla di eroico, lasciamo che la Parola di Dio abiti nel nostro cuore, che il Nome di Cristo salga alle labbra con un’ostinazione da innamorati.
La fede è un atto umanissimo, vitale, che tende alla vita e si oppone alla morte. La fede è un atto dell’intelligenza e un abbandono della volontà, che ci fa aderire a Dio come un bambino aderisce al petto della madre, poi come i bambini dal cuore svezzato della mamma restiamo confidenti nella braccia di Dio.
“La fede è propriamente una risposta al dialogo di Dio e alla sua Parola, alla Sua Rivelazione.
La fede è il “sì” che consente al pensiero divino di entrare nel nostro.
La fede è un atto che si fonda sul credito che noi diamo al Dio vivente: è l’atto di Abramo che credette a Dio e che da ciò trasse salvezza.
La fede è un insieme di convinzione e fiducia, che pervade tutta la personalità del credente e impegna la sua maniera di vivere.” (Paolo VI, novembre 1966).
E' dunque giusto chiederci, oggi, quale dimensione ha la nostra fede: se è un atteggiamento superficiale che non dà credito alla Sua onnipotenza o “una maniera di vivere Dio”.
Le Vergini consacrate nel mondo testimoniano che la fede è una maniera di vivere Dio. La loro vita di vergini è testimonianza dell’amore di Dio e manifestazione della sapienza del cuore ricevuta da Cristo. Con la vita totalmente donata a Dio queste donne “predicano il vangelo della Verginità”, secondo il quale “la fede non è una cosa decorativa, ornamentale; vivere la fede non è decorare la vita con un po’ di religione” (Papa Francesco), ma è criterio di base per vivere veramente. Con umiltà e con fede amorosa le Vergini consacrate nel mondo si sono donate a Cristo, di cui ascoltano la Parola con costanza mediante la lettura assidua della Bibbia e si protendono nel mondo quale vangelo di Verginità “al fine di amare più ardentemente il Cristo e servire con più libera dedizione i fratelli” (Premesse del Rito di Consacrazione della Vergini). Per questo l’esortazione apostolica Vita consecrataattribuisce loro una sorta di “magistero spirituale” che le colloca come «guide esperte di vita spirituale» (Vita consecrata, n. 55). Esse ci insegnano a vivere la fede con il cuore, ad ascoltare la sua Parola
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LETTURA PATRISTICA

Sant’Efrem, Diatessaron, VII, 6, 19-23

1. I medici e il medico

La sua fede arrestò in un istante, come in un batter d’occhio, il flusso di sangue che era sgorgato per dodici anni. Numerosi medici l’avevano visitata moltissime volte, ma l’umile medico, il figlio unico la guardò soltanto un momento. Spesso, quella donna aveva profuso forti somme per i medici; ma all’improvviso, accanto al nostro medico, i suoi pensieri sparsi si raccolsero in un’unica fede. Quando i medici terreni la curavano, ella pagava loro un prezzo terreno (Mc 5,26); ma quando il medico celeste le apparve, ella le presentò una fede celeste. I doni terrestri furono lasciati agli abitanti della terra, i doni spirituali furono elevati al Dio spirituale nei cieli.
I medici stimolavano coi loro rimedi i dolori causati dal male, come una belva abbandonata alla sua ferocia. Così, per reazione, come una belva inferocita, i dolori li diffondevano dappertutto, essi e i loro rimedi. Quando tutti si affrettavano di sottrarsi alla cura di quel dolore, una potenza uscì, rapida, dalla frangia del mantello di Nostro Signore; colpì violentemente il male, lo bloccò e s’attirò l’elogio per il male domato. Uno solo si prese gioco di quelli che s’erano presi gioco per molto. Un solo medico divenne celebre per un male che parecchi medici avevano reso celebre. Proprio quando la mano di quella donna aveva distribuito grandi cifre, la sua piaga non ricevette alcuna guarigione; ma quando la sua mano si tese vuota, la cavità si riempi di salute. Finché la sua mano era ripiena di ricompense tangibili, essa era vuota di fede nascosta, ma quando si spogliò delle ricompense tangibili, fu ripiena di fede invisibile. Diede ricompense manifeste e non ricevette guarigione manifesta; diede una fede manifesta e ricevette una guarigione nascosta. Sebbene avesse dato ai medici il loro onorario con fiducia, non trovò per il suo onorario una ricompensa proporzionata alla sua fiducia; ma quando diede un prezzo preso con furto, allora ne ricevette il premio, quello della guarigione nascosta...
E coloro che non erano stati capaci di guarire quest’unica donna coi loro rimedi, guarivano frattanto molti pensieri con le loro risposte. Nostro Signore, invece, capace di guarire ogni malato, non voleva mostrarsi capace di rispondere anche ad un solo interrogativo; conosceva quella risposta, ma descriveva in anticipo coloro che avrebbero detto: "Tu, con la tua venuta, dai testimonianza di te stesso; la tua testimonianza non è vera" (Jn 8,13). La sua potenza aveva guarito la donna, ma il suo parlare non aveva persuaso quella gente. Eppure, per quanto la sua lingua restasse muta, la sua opera risuonava come una tromba. Col suo silenzio soffocava l’orgoglio arrogante; con la sua domanda: "Chi mi ha toccato?" (Lc 8,45) e con la sua opera, la sua verità era proclamata.
Se non ci fosse che un senso da dare alle parole della Scrittura, il primo interprete lo troverebbe, e gli altri uditori non avrebbero più il lavoro pesante della ricerca, né il piacere della scoperta. Ma ogni parola di Nostro Signore ha la sua forma, e ogni forma ha molti membri, e ogni membro ha la sua fisionomia propria. Ciascuno comprende secondo la sua capacità, e interpreta come gli è dato.
È così che una donna si presentò a lui e che la guarì. Si era presentata davanti a parecchi uomini che non l’avevano guarita; avevano perduto il loro tempo con lei. Ma un uomo la guarì, quando il suo volto era girato da un’altra parte; egli biasimava così coloro che, con grande cura, si volgevano verso di lei, ma non la guarivano: "La debolezza di Dio è più forte degli uomini" (1Co 1,25). Sebbene il volto umano di Nostro Signore non poté guardare che da una sola parte, la sua divinità interiore aveva occhio dappertutto poiché vedeva da ogni lato.

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