Quando era l’uomo a temere la natura
Presentazione della Enciclica di Papa Francesco“Laudato si’, sulla cura della casa comune”
*Si informano i giornalisti accreditati che giovedì 18 giugno 2015, alle ore 11.00, nell’Aula Nuova del Sinodo in Vaticano, si terrà la Conferenza Stampa di presentazione dell’Enciclica di Sua Santità Papa Francesco “Laudato si’, sulla cura della casa comune”.Interverranno:- Em.mo Card. Peter Kodwo Appiah Turkson, Presidente del Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace.- Sua Eminenza il Metropolita di Pergamo John Zizioulas in rappresentanza del Patriarcato Ecumenico e della Chiesa Ortodossa;- Prof. John Schellnhuber, Fondatore e Direttore del Potsdam Institute for Climate Impact Research;Sarà disponibile il servizio di traduzione simultanea in italiano, francese, inglese, spagnolo e dal tedesco.Dopo gli interventi dei Relatori è previsto un tempo limitato per le domande dei giornalisti.
Ricordi e rispetto per l’ambiente. Armstrong scopre la lunaSan Francesco e la lode del creato. (Ugo Sartorio) «Ce l’hanno insegnato a scuola, dicendoci che è stato uno dei primi testi in lingua volgare. Ed è bello che l’italiano sia iniziato così: laudato sie! Che è come dire, con tutte le proprie forze, grazie!». Con queste parole, a firma di “un frate”, prende avvio un originale commento a più voci in libreria da pochi giorni San Francesco, Laudato sie, mi’ Signore! (Padova, Edizioni Messaggero di Padova, 2015, pagine 120, euro 12) a cura di Fabio Scarsato, con illustrazioni di Luca Salvagno. Sono — oltre a Giovanni Bachelet, il cui intervento pubblico infra — francescanisti e poeti, economisti e filosofi, scrittori e giornalisti, uomini di Chiesa e rappresentanti delle religioni, ma anche alcuni bambini della parrocchia di Roncadelle (Brescia) e una coppia di laici francescani.L’impressione è che il Cantico delle Creature sia come una grande vetrata alla quale ognuno guarda lasciandosi catturare da colori e riverberi particolari, anche perché istoriata da innumerevoli temi, alcuni insospettati. Dalla prima parte, quella cosmologica, in cui si convocano le creature inanimate perché insieme all’uomo innalzino la propria lode a Dio, si passa infatti alla seconda, di carattere più antropologico, nella quale emergono i temi densi del perdono e della pace, della sofferenza e delle tribolazioni, della morte con la quale tutti, prima o poi, devono fare i conti.Di tutto si tratta, allora, fuorché di un canto spensierato di un innamorato della natura che ne vanta la bellezza e si interessa alla sua integrità, anche perché, ai tempi di san Francesco, non era la natura a temere l’uomo, ma viceversa. I grandi disboscamenti realizzati nel cuore dell’Europa durante il Medioevo, per ricavarne pascoli e terre coltivabili, erano di fatto considerati alla stregua di imprese epiche.Qual è, dunque, la giusta prospettiva per non fraintendere un testo che troppi hanno forzato con interpretazioni di parte? Come scrive monsignor Paolo Martinelli, uno dei contributori, la vita stessa del santo di Assisi rappresenta la chiave ermeneutica più sicura, in particolare gli ultimi due anni tribolati della sua esistenza: quando cioè l’ordine minoritico, sempre più istituzionalizzato, sembra sfuggirgli di mano; quando ormai le stimmate, segno dell’intima unione con Cristo, segnano in modo indelebile il suo corpo; quando una logorante e incurabile malattia gli rende insopportabile la stessa visione della luce. «Come è possibile — commenta Martinelli — che in tali condizioni abbia potuto scrivere un Cantico che contiene la più formidabile affermazione della positività del reale?».Solo attraversando questa apparente contraddizione si approda al testo del Cantico in modo avvertito, capaci di intendere, finalmente in grado di vedere con gli occhi stessi di Francesco, in profondità. E cosa si vede? Si vedono le creature finalmente affratellate, le une accanto alle altre, rivelazione dell’amore di Dio e luogo del restituirsi a Lui del cosmo e dell’uomo stesso. «Quanto sono dolci e meravigliosi questi termini di fratello e sorella! — scrive la poetessa Donatella Bisutti — Non si avverte forse, leggendoli, una specie di pace infinita scendere nel cuore? E non si è portati ad accogliere queste parole di Francesco come una rivelazione della vera essenza, del vero significato del mondo? Francesco è stato l’unico, anche fra i santi, a cogliere questa dimensione di fratellanza universale che risolve e scioglie ogni conflitto evitando tuttavia qualsiasi tentazione di una lettura panteista dell’universo, che è ben altra cosa».La terra è l’unica delle creature a essere chiamata insieme “sorella” e “matre”, essendo colei che “ne sustenta e governa”, cioè che ci procura il cibo per sostentarci, per cui l’atteggiamento dell’uomo nei suoi confronti è decisivo. Purtroppo, commenta il gastronomo Carlo Petrini, «le politiche che mettiamo in essere nei confronti del suolo o dell’agricoltura sono ben lontane dall’avere uno sguardo amorevole sulla terra e su chi la lavora». Come ben sappiamo, però, trascurare la terra significa, di fatto, non prendersi cura del domani, del futuro di tutti, in particolare delle generazioni a venire, per cui, sottolinea la biblista suor Elena Bosetti, è necessario ritrovare la sintonia che il santo di Assisi ha avuto con madre terra.Per fare questo ci vuole umiltà, non nel senso di un generico ridimensionamento di se stessi, quanto piuttosto del recupero di un corretto rapporto con Dio. Se il Cantico inizia con la parola Altissimo, si conclude con in termine humilitate, che richiama l’humus, ancora una volta la terra. Impastato di polvere, l’uomo è libero interlocutore di Dio, e questa è la sua vera grandezza, ciò che ne fa il partner di Dio collocato nel giardino perché lo coltivi e lo custodisca. Il binomio «coltivare e custodire» (Genesi, 2, 15) indica l’abitare dell’uomo nella sua specificità, quella che lo rende unico rispetto a ogni essere vivente: se coltivare esprime il tratto più attivo e trasformativo dell’agire umano, nel senso che l’uomo interviene sulla vita e la trasforma prendendo l’iniziativa, non può mancare la dimensione del custodire, che non significa difendere l’invariabilità assoluta dell’esistente, quanto piuttosto rispettarne le finalità, senza forzature e compromessi. La prospettiva corretta è dunque quella del coltivare custodendo e del custodire coltivando, interpretando creativamente quel ruolo di stewardship (gestione, amministrazione) che Dio ha fin dagli inizi affidato all’uomo. Questa è la genuina prospettiva biblica di cui il santo di Assisi si fa araldo.*
(Giovanni Bachelet) Avevo quattordici anni ed ero al mio secondo campo scout ad Alfedena quando, il 21 luglio 1969, l’astronauta Neil Armstrong uscì dal modulo lunare e toccò il suolo della luna. Tutto il mondo seguiva l’evento in televisione, ma non noi, seduti attorno al fuoco. Fu il nostro assistente don Franco che, al momento di andare in tenda a dormire, prima della benedizione, ci parlò dello sbarco sulla luna. Cominciò lodando il Signore con tutte le sue creature, come san Francesco: il sole, la luna e le stelle nel cielo; l’acqua della fontana e il vento fra gli alberi, l’erba e i fiori in mezzo ai quali erano piantate le nostre tende.
Ci fece poi osservare che lo stesso fuoco intorno al quale avevamo cantato, e stavamo adesso pregando, poteva essere considerato una meraviglia della natura: lo annoverava fra le creature di Dio anche san Francesco nel suo Cantico. Allora però, a pensarci bene — aggiunse — era natura anche la tenda in cui dormivamo; era natura anche l’aereo che in quel momento solcava il cielo sopra di noi, sfidando il buio della notte con le sue luci e la legge di gravità con la forza dei suoi motori; era natura anche la navicella spaziale che di lì a poco avrebbe consentito a un uomo di mettere per la prima volta piede sulla luna. Prima del canto e della benedizione finale lesse il Salmo 8, che comincia con le parole: «O Signore, Signore nostro, quanto è mirabile il tuo nome su tutta la terra!», e dice poi: «Quando vedo i tuoi cieli, opera delle tue dita, la luna e le stelle che tu hai fissato, che cosa è mai l’uomo perché di lui ti ricordi, il figlio dell’uomo, perché te ne curi? Davvero l’hai fatto poco meno di un dio, di gloria e di onore lo hai coronato. Gli hai dato potere sulle opere delle tue mani, tutto hai posto sotto i suoi piedi». Sì, disse, il capolavoro della natura è l’uomo. A lui il Creatore ha donato la capacità di ammirare e godere la bellezza della natura, ma anche di comprenderne le leggi e trarne vantaggio e la difficile libertà di farne buono o cattivo uso. Per questo — concluse — ringraziando Dio e ringraziandoci gli uni gli altri per le cose belle e buone di questa giornata, prima di dormire dobbiamo anche chiedere perdono per il piccolo o grande male fatto, e perdonare quello che gli altri hanno fatto a noi. Ce lo ha insegnato Gesù nel Padre nostro: Rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori. Ce lo ha ribadito san Francesco, che alla fine del Cantico ha posto il capolavoro dei capolavori, il più grande dono di Dio: la capacità di perdonare gli altri e resistere al male nella pace, la nuova strada aperta da Gesù morto e risorto. Anche più di quarant’anni dopo, alla vigilia dei sessanta, se guardo la luna nel cielo o sento il vento fra gli alberi, se con il computer o il telefonino raggiungo in tempo reale un figlio lontano, se chiedo e ricevo il perdono, mi accompagnano le parole del vecchio don Franco e quelle del Cantico: «Laudato sie, mi’ Signore, cum tutte le Tue creature... laudato si’, mi’ Signore, per quelli ke perdonano per lo Tuo amore».
Ci fece poi osservare che lo stesso fuoco intorno al quale avevamo cantato, e stavamo adesso pregando, poteva essere considerato una meraviglia della natura: lo annoverava fra le creature di Dio anche san Francesco nel suo Cantico. Allora però, a pensarci bene — aggiunse — era natura anche la tenda in cui dormivamo; era natura anche l’aereo che in quel momento solcava il cielo sopra di noi, sfidando il buio della notte con le sue luci e la legge di gravità con la forza dei suoi motori; era natura anche la navicella spaziale che di lì a poco avrebbe consentito a un uomo di mettere per la prima volta piede sulla luna. Prima del canto e della benedizione finale lesse il Salmo 8, che comincia con le parole: «O Signore, Signore nostro, quanto è mirabile il tuo nome su tutta la terra!», e dice poi: «Quando vedo i tuoi cieli, opera delle tue dita, la luna e le stelle che tu hai fissato, che cosa è mai l’uomo perché di lui ti ricordi, il figlio dell’uomo, perché te ne curi? Davvero l’hai fatto poco meno di un dio, di gloria e di onore lo hai coronato. Gli hai dato potere sulle opere delle tue mani, tutto hai posto sotto i suoi piedi». Sì, disse, il capolavoro della natura è l’uomo. A lui il Creatore ha donato la capacità di ammirare e godere la bellezza della natura, ma anche di comprenderne le leggi e trarne vantaggio e la difficile libertà di farne buono o cattivo uso. Per questo — concluse — ringraziando Dio e ringraziandoci gli uni gli altri per le cose belle e buone di questa giornata, prima di dormire dobbiamo anche chiedere perdono per il piccolo o grande male fatto, e perdonare quello che gli altri hanno fatto a noi. Ce lo ha insegnato Gesù nel Padre nostro: Rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori. Ce lo ha ribadito san Francesco, che alla fine del Cantico ha posto il capolavoro dei capolavori, il più grande dono di Dio: la capacità di perdonare gli altri e resistere al male nella pace, la nuova strada aperta da Gesù morto e risorto. Anche più di quarant’anni dopo, alla vigilia dei sessanta, se guardo la luna nel cielo o sento il vento fra gli alberi, se con il computer o il telefonino raggiungo in tempo reale un figlio lontano, se chiedo e ricevo il perdono, mi accompagnano le parole del vecchio don Franco e quelle del Cantico: «Laudato sie, mi’ Signore, cum tutte le Tue creature... laudato si’, mi’ Signore, per quelli ke perdonano per lo Tuo amore».
Kairos
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