Santa Maria,

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...donna del primo sguardo, donaci la grazia dello stupore.

giovedì 4 giugno 2015

«Luce!»



E la luce rivelò lo spazio sacro



di Enzo Bianchi
«Luce!» fu la prima parola di Dio, il primo suono creatore di evento: con essa «dissipò le tenebre, allontanò la tristezza, illuminò il cosmo, rivestì ogni cosa di un aspetto gradevole e giocondo». In uno stupendo passaggio del suo Esamerone Basilio il Grande dipinge un ritratto incantato del cosmo chiamato all’esistenza da quella parola: «L’aria stessa brillava, o meglio tratteneva in sé tutta la luce, inviandone grandiose inondazioni per tutta la sua estensione… Dopo l’apparizione della luce, anche il cielo divenne più giocondo e le acque più limpide, non soltanto accogliendo la luce, ma anche riflettendola in ogni punto con innumerevoli scintillii… “Sia la luce!” (Gen 1,3), e il comando era subito attuato, così fu creato qualcosa di cui la mente umana non può immaginare nulla di più giocondo e di più bello… “E Dio vide che la luce era bella” (Gen 1,4). Quali lodi potremmo noi mai pronunciare, che siano degne della luce, dal momento che il Creatore stesso l’ha riconosciuta bella fin dall’in-principio?» (Esamerone 2,7).


Così, da quell’in-principio creazionale fino alla Gerusalemme celeste dell’Apocalisse, che «non ha più bisogno né di sole né di luna, perché la gloria di Dio la illumina» (Ap 21,23), l’intera Scrittura è percorsa da una luminosità che narra qualcosa di Dio stesso e nel contempo si contrappone alle tenebre e all’“ombra di morte” (Lc 1,79). Potremmo dire che la luce è ciò che il nostro occhio può cogliere di quella sapienza di Dio che così parla di se stessa: «Ero con lui come architetto ed ero la sua delizia ogni giorno; giocavo davanti a lui in ogni istante, giocavo sul globo terrestre, ponendo le mie delizie tra i figli dell’uomo» (Pr 8,30-31). Un architetto che plasma le forme, le accarezza, le esalta rendendole piacevoli alla vista e comprensibili alla mente. 


Trova così la sua radice biblica l’intuizione di Le Corbusier, secondo il quale «l’architettura è il gioco sapiente, rigoroso e magnifico dei volumi assemblati nella luce»: una composizione di volumi che evoca in noi una sensazione di armonia, di benessere, di ritrovata consonanza con il cosmo, che inevitabilmente si ricollega a una dimensione di bontà etica. Le tenebre della notte evocano il sonno e la morte, così come il riapparire del sole all’aurora pare sigillare il rinnovato trionfo della vita sulla morte, del bene sul male. La luce che illumina il cammino diviene così immagine di una vita rischiarata dalla sapienza, una vita in cui anche gli oggetti, gli edifici, gli artefatti umani divengono testimonianza della presenza dell’Invisibile, una vita in cui non si brancola nel buio ma si discerne la volontà di bene che Dio nutre verso l’uomo.


La letteratura sapienziale approfondisce questa comprensione etica della luce: se, secondo i Proverbi, «la Torah è luce» (Pr 6,23), sono in particolar modo i Salmi a cantare la Parola di Dio come lampada per i passi dell’uomo e luce sul suo sentiero (cf. Sal 119,105), a proclamare la sua volontà come luminosa e capace di conferire trasparenza allo sguardo (cf. Sal 19,9). Insomma, la luce di Dio, il fuoco attraverso il quale si rivela, non sono percepiti come definizioni astratte della sua essenza, ma indicano l’atto con cui egli entra in relazione con l’essere umano da lui creato. È una comprensione di fede che conduce il credente a proclamare il Signore come «mia luce e mia salvezza» (Sal 27,1), unico bene capace di strappare l’esistenza umana dalle tenebre della morte.


Nel Nuovo Testamento questa lettura giunge al suo apice, in particolare negli scritti giovannei: «Questo è il messaggio udito dal Figlio: Dio è luce e in lui non c’è tenebra» (1Gv 1,5). Sì, dopo aver contemplato Gesù Cristo, Parola fatta carne (cf. Gv 1,14), venuto nel mondo come «luce vera che illumina ogni uomo» (Gv 1,9), dopo aver conosciuto e amato colui che ha proclamato: «Io sono la luce del mondo: chi mi segue … avrà la luce della vita» (Gv 8,12), il discepolo può riconoscere nel Figlio la narrazione del Padre (cf. Gv 1,18), «la luce che si è levata su quelli che dimoravano in terra e ombra di morte» (Mt 4,16; cf. Is 9,1), il suo rivelarsi in una dimensione accessibile agli occhi umani. Tre discepoli ne hanno fatto un’esperienza privilegiata quando, al cuore della notte della trasfigurazione, il volto di Gesù «brillò come il sole e le sue vesti divennero bianche come la luce» (Mt 17,2), prefigurazione della luce che risplenderà accanto alla tomba vuota nell’alba di Pasqua (cf. Mt 28,3).


Esperienza unica e irripetibile quella dei testimoni del Tabor e della resurrezione, eppure sulla parola di Gesù che loro ci hanno trasmesso, anche noi come discepoli siamo chiamati a divenire a nostra volta "luce del mondo", lampada che illumina quanti abitano nella casa, e siamo esortati a diffondere la luminosità delle opere belle e buone (cf. Mt 5,14-16). Anche in questa immagine la luce abbraccia la casa, l’immateriale sposa la materia, ridestandola alla sua verità di elemento buono per l’essere umano, per quel "terrestre" che dalla terra è stato tratto e che nutre nostalgia di un’abitazione modellata sul giardino dell’in-principio pieno di luce.
Avvenire

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La Luce modella il tempio cristiano
La Stampa, 4 giugno 2015
di ENZO BIANCHI
L'architettura di una chiesa dovrebbe riuscire nell'operazione o meglio nella predisposizione architetturale - di rendere possibile che la luce, nella quale «viviamo, ci muoviamo ed esistiamo» (At 17,28), ci riveli chi è la luce del mondo, colui che ha detto: «lo sono la luce del mondo» (Gv 8,12). E se «nel Logos era la vita, la vita luce degli uomini» (cf. Gv 1,4), se «il Logos è la luce vera, che illumina ogni uomo che viene nel mondo» (cf. Gv 1,9), allora in un'architettura di assemblea cristiana la luce deve sempre tendere a essere simbolica, sacramentale.
Questo non significa che la luce debba abbagliare, ma che il suo potere rivelativo deve modularsi in luce, penombra e oscurità, dicendo e non dicendo, mai abbagliando e mai lasciando regnare le tenebre. È significativo lo spazio di qualsiasi chiesa cristiana, nella quale la luce del giorno entra in molteplici modi: in squarci di ogiva, oppure attraverso filtri che la rendono dolce, attraverso vetrate che ne dettano un racconto...
E quando scende la sera e lo spazio della chiesa potrebbe essere invaso dalle tenebre, ecco la lampada palpitante, che impedisce alle tenebre di regnare.
«Sia la luce!» (Gen 1,3), è stata la prima parola uscita dalla bocca di Dio sulla terra che era «informe e vuota» (Gen 1,2), mentre «le tenebre ricoprivano l'abisso~ e lo Spirito di Dio aleggiava sulle acque » (ibid.). In questa gestazione, la parola di Dio crea la luce prima di ogni sorgente luminosa, prima del sole, della: luna e delle stelle, creati il quarto giorno. Luce che non si vedeva, ma che faceva vedere; luce creata e rivolta
verso l'altro da sé, verso le" creature, in uno slancio in cui si può cogliere come in Dio la luce sia amore e vita.
Il desiderio di Icaro

Ecco perché noi umani siamo rivolti alla luce, cerchiamo la luce, siamo affascinati dalla luce. Il desiderio di Icaro abita le profondità dei nostri cuori, e tale desiderio nel cristianesimo
è stato disciplinato, ma non negato. Basterebbe pensare all'orientamento verso oriente delle nostre chiese, soprattutto antiche e medievali, alle trifore o alle monofore cistercensi nelle absidi, alle fenditure che consentono di segnare il tempo, con la luce del sole che penetra attraverso di esse nelle chiese. Ma anche agli inni che nelle lodi mattutine della liturgia horarum cantano alla luce, al sole, alla stella del mattino. Se davvero ci fosse consapevolezza della bellezza e della forza della luce, i cristiani potrebbero capire che cosa significano le parole di Gesù: «Voi siete la luce del mondo» (Mt 5,15), o quelle
dell'Apostolo: «Voi siete figli della luce e figli del giorno»
(1Ts 5,5 cfr. Ef 5,8). Ma la cecità oggi pare inguaribile, perché chi non vede è convinto di vedere (cfr. Gv 9,41)...
La chiesa di Bose non è una chiesa che possa vantarsi per qualche aspetto. È stata pensata, progettata e costruita da noi monaci e monache di Bose, attraverso una lunga meditazione, durata almeno
un decennio. Abbiamo anche commissionato il progetto ad architetti italiani ed europei, ma poi siamo stati incapaci di accogliere le loro suggestioni, per noi poco modeste. Volevamo infatti una chiesa modesta, una chiesa che nascesse con lo stesso spirito che aveva guidato i cistercensi a costruire le loro prime chiese monastiche. E da loro ci siamo lasciati ispirare, in particolare dalle loro granges della Francia del Nord.
Esuli nel deserto
Quella di Bose è una chiesa monastica nella quale l'assemblea si sente popolò di Dio pellegrino, esule nel deserto, dunque una chiesa che deve significare l'icona di una carovana in cammino verso il Regno. L'abside è lo spazio di gloria che raccoglie gli sguardi e le preghiere di tutti. Nell'abside la luce penetra dalla trifora, luce unica e capace di alludere alla Triunità di Dio. Sull'assemblea la luce giunge tenue, accogliente, non diretta, e permette l'habitare secum, il raccoglimento; il silenzio adorante, l'assemblea ordinata e composta.
Avendo costruito la chiesa rivolta a Nord, come quelle certosine rivolte alla stella polare - secondo l'antico adagio «Stat crux dum volvitur mundus» -, essa riceve il sole direttamente dalle finestre unicamente a mezzogiorno, quando i raggi penetrano lungo la linea centrale sulla quale stanno ambone, altare, tabernacolo e libro; e il 6 agosto, solennità della Trasfigurazione del Signore, la luce cade proprio a mezzogiorno sull'ambone. È
una povera chiesa monastica, al immagine della nostra comunità; una chiesa senza pretese, non degna di essere guardata, ma capace di insegnare, di fare segno, a chi sa guardare.
Pubblicato su: La Stampa


fonte: Kairos

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