Santa Maria,

Santa Maria,
...donna del primo sguardo, donaci la grazia dello stupore.

sabato 31 agosto 2013

Perché a chiunque ha sarà dato e sarà nell'abbondanza; ma a chi non ha sarà tolto anche quello che ha.










Commento al Vangelo della XXII Domenica del Tempo Ordinario - Anno C
Takamatsu, 29 Agosto 2013 (Zenit.org) Don Antonello Iapicca


Presentandoci la vita come il funerale dei desideri, il demonio vuole indurci a non accogliere l’«invito a nozze» che il Signore ci consegna attraverso i fatti e le persone. Ogni giorno, …leggi tutto









Willem de Poorter. The parable of the talents or minas




Forse c’è qualcosa di Erode anche in noi? 
Forse anche noi, a volte, vediamo Dio come una sorta di rivale? 
Forse anche noi siamo ciechi davanti ai suoi segni, 
sordi alle sue parole, 
perché pensiamo che ponga limiti alla nostra vita 
e non ci permetta di disporre dell’esistenza a nostro piacimento? 
Quando vediamo Dio in questo modo 
finiamo per sentirci insoddisfatti e scontenti, 
perché non ci lasciamo guidare da Colui 
che sta a fondamento di tutte le cose. 
Dobbiamo togliere dalla nostra mente 
e dal nostro cuore l’idea della rivalità, 
l’idea che dare spazio a Dio sia un limite per noi stessi; 
dobbiamo aprirci alla certezza che Dio 
è l’amore onnipotente che non toglie nulla,
non minaccia, anzi, 
è l’Unico capace di offrirci la possibilità di vivere in pienezza, 
di provare la vera gioia.


Benedetto XVI, Omelia del 6 gennaio 2011




Dal Vangelo secondo Matteo 25,14-30. 

Avverrà come di un uomo che, partendo per un viaggio, chiamò i suoi servi e consegnò loro i suoi beni. 
A uno diede cinque talenti, a un altro due, a un altro uno, a ciascuno secondo la sua capacità, e partì. 
Colui che aveva ricevuto cinque talenti, andò subito a impiegarli e ne guadagnò altri cinque. 
Così anche quello che ne aveva ricevuti due, ne guadagnò altri due. 
Colui invece che aveva ricevuto un solo talento, andò a fare una buca nel terreno e vi nascose il denaro del suo padrone. 
Dopo molto tempo il padrone di quei servi tornò, e volle regolare i conti con loro. 
Colui che aveva ricevuto cinque talenti, ne presentò altri cinque, dicendo: Signore, mi hai consegnato cinque talenti; ecco, ne ho guadagnati altri cinque. 
Bene, servo buono e fedele, gli disse il suo padrone, sei stato fedele nel poco, ti darò autorità su molto; prendi parte alla gioia del tuo padrone. 
Presentatosi poi colui che aveva ricevuto due talenti, disse: Signore, mi hai consegnato due talenti; vedi, ne ho guadagnati altri due. 
Bene, servo buono e fedele, gli rispose il padrone, sei stato fedele nel poco, ti darò autorità su molto; prendi parte alla gioia del tuo padrone. 
Venuto infine colui che aveva ricevuto un solo talento, disse: Signore, so che sei un uomo duro, che mieti dove non hai seminato e raccogli dove non hai sparso; 
per paura andai a nascondere il tuo talento sotterra; ecco qui il tuo. 
Il padrone gli rispose: Servo malvagio e infingardo, sapevi che mieto dove non ho seminato e raccolgo dove non ho sparso; 
avresti dovuto affidare il mio denaro ai banchieri e così, ritornando, avrei ritirato il mio con l'interesse. 
Toglietegli dunque il talento, e datelo a chi ha i dieci talenti. 
Perché a chiunque ha sarà dato e sarà nell'abbondanza; ma a chi non ha sarà tolto anche quello che ha. 
E il servo fannullone gettatelo fuori nelle tenebre; là sarà pianto e stridore di denti. 


IL COMMENTO


Secondo l'interpretazione dei Padri della Chiesa, l'uomo che parte per un lungo viaggio è il Signore. Dopo aver compiuto il suo Esodo dalla morte alla Vita, Egli chiama gli apostoli "che si era scelti nello Spirito Santo" e impartisce loro le istruzioni sulla missione svelando i segreti del Regno. La Parabola inizia con un flash sui quaranta giorni che separano la risurrezione dall'Ascensione, ma che include anche l'incontro sul Monte delle Beatitudini e la discesa dello Spirito Santo. Con poche parole Gesù sintetizza quale sarà il suo Testamento: donato alla Chiesa come segno sacramentale nell'eucarestia dell'Ultima Cena, sarà consegnato come "talenti" da impiegare nella missione affidata. Lo Spirito Santo sigillerà ogni insegnamento, evento e parola del Signore nella luce sfolgorante della Pasqua, riversando nei loro cuori l'amore con il quale vivere nella storia la stessa vita del Signore, coinvolti nella sua missione. Il corpo e il sangue di Cristo, uniti poi a tutti gli altri sacramenti, divengono così il Testamento nuovo ed eterno, l'alleanza nella quale la Chiesa dovrà vivere e percorrere il mondo sino ai confini della terra. A Gesù che sta per partire, è stato dato ogni potere in cielo ed in terra: consegnando i talenti Egli dice agli apostoli: "Andate dunque e ammaestrate tutte le nazioni, battezzandole nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro ad osservare tutto ciò che vi ho comandato. Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo" (Mt. 28, 18-20). I "talenti" sono dunque colmi del potere stesso di Cristo. 

Essi non sono le qualità umane, sono le ricchezze dei beni messianici, i beni del Padre donati completamente al Figlio. E, da Lui, consegnati e affidati ai servi, ai discepoli, a ciascuno di noi. Il verbo consegnare è decisivo: il Padre ha consegnato il Figlio; il Figlio si è consegnato al Padre ed è stato consegnato dal traditore. L'economia della salvezza passa per queste consegne. Per questo, l'inizio della parabola descrive un momento importante e decisivo, che riassume, in una profezia, il cuore della missione di Gesù e della sua Chiesa: "consegnando i suoi beni", l' "uomo", immagine di Gesù, "consegna" tutto se stesso. Ma quest' "uomo" è anche immagine di ogni uomo, creato da Dio a immagine del suo Figlio, perché si "consegni" senza riserve. E' Adamo per il quale è stata creata Eva, aiuto alla quale donarsi. 

Tutta la vita dello Sposo e della Sposa infatti si sviluppa in un crescendo di consegne, sino all'ultimo istante della storia, quando il Figlio consegnerà il Regno al Padre. La consegna è un sinonimo dell'amore. Si consegna davvero solo chi ama. Comprendiamo allora l'incipit della parabola, che è poi quello della nostra stessa vita, come lo è stato di quella del Signore: è l'amore smisurato che spinge il Padre a consegnare il Figlio al posto nostro, e quello del Figlio che si consegna sino alla fine. Il frutto di questo amore intimo e perfetto, è la consegna dei beni di Dio alla Chiesa, a ciascuno di noi, perchè siano consegnati ad ogni uomo. E il bene più grande di Dio è il Figlio stesso. E' Lui il talento prezioso che i servi ricevono. 

"Come il Padre ha mandato me anche io mando voi", perché "come il Padre ha amato me, anche io ho amato voi". Come Lui si è consegnato a noi così anche noi siamo chiamati a consegnarlo al mondo attraverso la nostra stessa consegna. Il "come" è descritto nel diverso numero dei talenti che ricevono i servi. Non si tratta di qualità diversa, solo di forme diverse in funzione della missione specifica che ciascuno riceve. Se il talento è Cristo, consegnato attraverso la sua Parola, i sacramenti e tutti i beni che la Chiesa ha sempre custodito e amato gelosamente, anche chi riceve un solo talento non ha affatto ricevuto meno. Al contrario, ha ricevuto tutto, e nulla gli manca per compiere la sua missione. Significa semplicemente che la storia di ciascuno è diversa e irripetibile, ma non per questo la vita di San Francesco Saverio è più importante agli occhi di Dio di quella di una sconosciuta monaca di clausura nascosta a Lisieux. Il Papa riceve i talenti necessari per adempiere la sua missione, così come la vedova ammalata che vive in uno sperduto paese di montagna.

Da quest'ultimo servo possiamo partire per comprendere la Buona Notizia che oggi il Signore vuole annunciarci. Certamente la "paura" di questi nasceva innanzi tutto dall'invidia. Come Caino non guardava di buon occhio suo fratello, anche lui guardava storto gli altri servi. Nella parabola questo non è scritto, ma si può dedurre da come guarda il Signore. Con occhi invidiosi; l’etimologia del termine invidia rivela la relazione con il “vedere”: in-videre significa avere un occhio cattivo, che non vede nè gli altri nè le cose. In Caino l'invidia giunge sino a desiderare la sparizione di Abele dalla sua vista. Il servo si comporta proprio così: ha un occhio in-capace di vedere, vede storto Colui che gli ha dato il talento e per questo lo nasconde alla sua vista, sotterrando quel talento che ne è immagine e presenza. Invidia ed è geloso degli altri servi. In ebraico, la gelosia si chiama con la stessa parola, qin'ah, che si usa per nominare l'invidia. Un morbo maligno abita il suo cuore, vede male e quindi non conosce il suo Signore e neppure il talento ricevuto e, di conseguenza ne ha paura. Seppellisce il suo ricordo perché l'invidia non lo sfinisca. 

Quell'unico talento tra le mani gli innesca i pensieri più terribili, - "so che sei un uomo duro, che mieti dove non hai seminato e raccogli dove non hai sparso" - non può neanche sopportare la sua vista. Lo sotterra per timore, perchè l'invidia genera sempre la paura. Il terrore di non essere, di perdere la propria identità, di non valere e non reggere; la paura di soccombere e non essere amato. Per questo il servo, con il talento, nasconde anche se stesso. Esattamente come Adamo dopo aver perduto l'innocenza che lo stringeva a Dio in un legame intimo e familiare. Sotterrare il talento significa sotterrare la propria dignità, il proprio essere, la primogenitura e il senso della propria vita; significa nascondersi e macerarsi in un misto di sentimenti di gelosia, mormorazioni, rancori, che avvelenano e ci imprigionano sempre più. Perchè, in una parola, sotterrare il talento è occultare Cristo, ucciderlo, come Caino ha ucciso Abele. 

Quel Talento, questa volta con lettera maiuscola, definisce il servo, ne annuncia l'autentica identità; è l'occasione di conversione, di abbandonarsi alla fedeltà, al potere e all'amore di Dio per vivere secondo la sua volontà. Nascosto il Talento si spengono le luci e la vita diviene un brandello gettato "fuori nelle tenebre", dove "sarà pianto e stridore di denti". E' quello che facciamo molto spesso, in una sorta di "damnatio memoriae" delle persone e degli eventi che non abbiamo accettato. Sotterriamo, bruciamo, guardiamo con occhio malvagio, perché le ferite non continuino a farci male. L'atteggiamento di questo servo è, ad esempio, quello che sta all'origine di ogni divorzio. Per quanto si sotterri l'ex coniuge, questi resta comunque vivo come una ferita che sanguina, e non c'è verso che si rimargini... Perché se si divorzia dal marito o dalla moglie, significa che prima si è tagliato il rapporto con Dio, come Adamo ed Eva. Non piaceva quel Talento, non rispondeva alle concupiscenze della carne, osava essere se stesso, così diverso e pieno di difetti. Obbligava ad uscire da se stessi. a dimenticare i propri criteri e a donarsi... No, non era il Talento che si desiderava, per saziarsi e realizzarsi... Era un mostro di talento, inaccettabile.... Ma, in quel Talento, nonostante tutto, era vivo Cristo. Ed era Lui che, giorno dopo girono, giudizio dopo giudizio, rancore dopo rancore, si è andato rifiutando... E, se si avvelenano i pozzi, con che acqua ci si potrà dissetare? 

Il "servo malvagio e infingardo" non ha trattato il talento con familiarità, amore, dedizione, fedeltà anche nei piccoli particolari, come fosse cosa propria, accogliendo in esso la presenza di Colui che glielo aveva affidato. Per lui, schiavo dell'invidia e della paura, nessuna intimità con Cristo; i beni di Cristo non erano oggetto delle sue attenzioni, perchè la sua esistenza stava scivolando via da tempo senza alcuna relazione con Lui. Chiamato a vivere la sua stessa vita, ad amare e a donarsi per annunciare al mondo il suo amore, si è chiuso in se stesso, nel timore figlio del pensar male di Dio. In fondo, dietro all'atteggiamento di questo servo, vi è quello comune a tanti di noi. Pensiamo che Dio voglia sottrarci qualcosa e sospettiamo di Lui, ingannati dalla menzogna primordiale nella quale sono caduti i progenitori: Dio non ti ama, vuole solo limitarti. Dietro alle sue parole si nasconde l'inganno, vuole incastrarti. Dio è esigente e la Chiesa, peggio di peggio. Perché non avere rapporti pre-matrimoniali? Perché non ci si può divorziare? Perché non posso convivere per capire se l'altro è la persona giusta per me? Perché sposarmi se sono tanto giovane? Perché non posso vivere secondo i miei criteri e la libertà che mi spetta? Perché perdonare quello che non posso perdonare? A tutte queste domande il demonio ci presenta sempre la stessa risposta infiltrata dalla menzogna: Perché Dio mi vuole incastrare e la Chiesa interpreta a caso e subdolamente la sua Parola. Ascolatandola e accettandola, di fronte a eventi e persone, comincia a dominare in noi la paura che dietro alla Croce non vi sia la resurrezione, ma, nella migliore delle ipotesi, solo un gran punto interrogativo. La paura di chi ha smarrito la fede o si è lasciato raffreddare dagli insuccessi, dallo scandalo della Croce. 

E' lo stesso timore che spesso prende la Chiesa e le impedisce di annunciare il Vangelo sotterrando il Talento in discussioni, convegni, slogan e proclami, produzione di carta, impegni volontaristici con i quali ci si sotterra sempre di più invece di schiudere il Cielo. La Chiesa che non annuncia il Vangelo è sempre una Chiesa che ha sepolto Cristo di nuovo. E così lascia sepolti quelli a cui è mandata, al suo interno e nel mondo. Il servo malvagio infatti non riporta nessun talento guadagnato: la sua vita è stata infeconda. Quando la Chiesa, mondanizzata, ha paura e non crede nel potere della predicazione, sta gravemente abdicando, si converte in una serva malvagia e infingarda, che lascia nell'inganno e nella morte i suoi figli e i pagani, e non li porta e riconsegna a Cristo, che per loro si è donato.

Si comprende ancora una volta che dietro a questi atteggiamenti del cuore vi sia un inganno profondo: facendo leva sulle disillusioni, sulle sofferenze, sulla croce che ha segnato la nostra vita, il demonio ci ha sedotti ritoccando l'immagine di Dio con un colpo ineffabile di "Photoshop": via la misericordia, la generosità, la fiducia, e l'amore e dentro durezza, esigenza, moralismo. Ha preso qualche cosa della nostra storia e l'ha sovrapposta all'immagine di Dio, coprendo e occultando la realtà più profonda. Invece, proprio in quei momenti crocifissi ci veniva consegnato il talento! La Buona Notizia del Vangelo di oggi è nascosta qui: i talenti sono Cristo Crocifisso in noi,inviato ancora a vivere la storia per seminarvi la sua vita, il suo potere, il riscatto eterno per ogni uomo. Il talento consegnato ci consegna al mondo. Negli eventi che ci hanno fatto soffrire Dio era presente, ed è presente, e ci consegna il suo talento più prezioso. In quei momenti, lungi dall'essere duro ed esigente, Egli rivela il suo volto pieno di generosità e misericordia: è nella durezza della vita - che esiste a causa del peccato - che Dio elargisce gratuitamente il suo potere e la sua vittoria. Per questo, quando ci assalgono i pensieri tristi che tendono a gettarci nella paura e nell'invidia bisogna correre "dai banchieri", dagli esperti del denaro, per imparare da loro, perchè ci aiutino a trafficare bene quanto ricevuto. Così ha fatto la Chiesa durante i secoli quando, di fronte ai problemi nuovi che sorgevano, ha indetto i Concili, spesso sospinta dai servi fedeli che hanno ricevuto i talenti-carismi e li stavano trafficando. Così anche noi, nei momenti di crisi, quando si insinuano pensieri malvagi e ci accorgiamo di perdere il gusto per la volontà di Dio, avviciniamoci ai presbiteri, ai catechisti, ai genitori, ai banchieri che Dio ha messo sul nostro cammino, e affidiamoci a loro.

Il Vangelo di oggi rovescia completamente la prospettiva del servo malvagio che ci fa guardare storto alla vita. I talenti ci sono dati per essere trafficati, perchè siano consegnati nelle trame della storia e attirino in essi ogni sofferenza; nel potere di Cristo, nel suo Mistero Pasquale ogni relazione, ogni evento. Per questo, "i servi fedeli nel poco" che ancora è questa vita - le occasioni piccole di ogni giorno che abbiamo visto a proposito della parabola delle dieci vergini - consegnano al Signore i talenti esattamente raddoppiati: a ciascun Talento corrisponde un evento redento, un uomo salvato. Anche oggi l' "Uomo" vero, Cristo risorto, si consegna a noi perché possiamo "trafficare" il suo amore perdonando nostro marito, prendendo su di noi il peccato di nostra figlia, guardando con misericordia il collega. Sono loro "i frutti" già maturi che attendono il nostro talento per tornare a Cristo. Ci abbiamo mai pensato? Quando entriamo in ufficio e salutiamo i colleghi, abbiamo mai pensato che sono venuti a lavorare perché aspettano da noi il talento che Dio ci ha dato? O che moglie e figli ci sono stati donati per trafficare con loro l'amore con il quale Dio ha colmato la nostra vita? Che ogni istante è un appuntamento unico e irripetibile, per "guadagnare" a Cristo la persona che incontriamo? 

E' tutto opera sua, nessuna esigenza, nessun moralismo anzi! Si tratta al contrario di "partecipare della gioia di Dio", che è sempre quella di aver ritrovato la pecora perduta, di un peccatore convertito, di essersi donati senza riserve. Come quando marito e moglie si uniscono, il piacere è massimo e sazia proprio quando ci si dona mutuamente e completamente, senza riserve e contraccettivi, siano essi sulla carne e o nel cuore: quando l'unione è totalmente aperta alla fecondità e alla vita raggiunge il massimo dell'intensità e del piacere, perché coinvolge i coniugi in ogni loro aspetto nel grande dono creatore di Dio. Sì, nel talamo nuziale, come in ogni situazione dove si è chiamati, preti, suore e laici, è preparata per noi la gioia piena e autentica dell'amore. La stessa gioia di Cristo esplosa la sera di Pasqua nel rivedere i suoi discepoli: il suo talento aveva dato il frutto meraviglioso della salvezza di quel manipolo di traditori. La gioia del perdono! 

Per questo la missione della Chiesa, quella che ci coinvolge tutti ogni giorno, è un'avventura affascinante. Trafficare il talento nel fidanzamento, osando l'impossibile della castità pre-matrimoniale come un dono che si compie per il potere di Cristo risorto; trafficarlo nel lavoro, osando servire come l'ultimo degli impiegati; trafficarlo nella scuola, osando la dabbenaggine di sedersi e studiare davvero mentre fuori splende il sole e gli amici se ne vanno a divertirsi; e così in ogni aspetto della nostra vita, sino ai più piccoli. Osare con Dio perchè Lui ha osato con noi, ci ha dato fiducia nonostante la brutta esperienza dell'Eden; perchè ci ha consegnato se stesso, e con Lui tutto si può, anche l'impossibile. E quando si varca la frontiera dell'assurdo, si entra nella sala più intima, quella riservata ai familiari del re. Vivere trafficando il talento per oltrepassare ogni giorno la soglia dell'impossibile, oltre la quale c'è la gioia vera, la partecipazione completa e senza limiti di tutti i beni di Dio. Altro che trappole, limiti, durezze ed esigenze. Altro che sospetti! Con Dio è tutto un dono, e i tagli che ci feriscono sono i varchi che Lui si apre per consegnarsi a noi. Attraverso la Croce, il Talento ci appartiene come noi apparteniamo a Lui. Sì, anche noi siamo i talenti di Dio! La nostra vita è frutto del talento ricevuto dai nostri genitori e dalla Chiesa. Accogliere e trafficare il Talento che è Cristo stesso significa lasciare che tutta la nostra vita divenga sua, pensieri e azioni, ogni istante, nulla escluso. Trafficare il talento è vivere in Cristo, e allora tutto è toccato e colmato da Lui; anche il fisico, anche le cose più banali, tutto diviene bello nella sua bellezza. Come invidiare allora chi ha lo stesso identico talento? Impossibile! Anzi, nella missione sorge l'innocenza e la comunione. Per questo, con Giovanni Paolo II, il Signore oggi ci ripete: "Non abbiate paura!". Spalancate le porte a Cristo, al suo amore, al Talento che fa della vostra vita un'opera d'arte, una meraviglia ai vostri stessi occhi, qualcosa di grande, autentico, santo, in ogni istante, ovunque, con tutti!".




"Non abbiate paura, aprite anzi spalancate le porte a Cristo! Il Papa parlava ai forti, ai potenti del mondo, i quali avevano paura che Cristo potesse portar via qualcosa del loro potere, se lo avessero lasciato entrare e concesso la liberta' alla fede. Si', egli avrebbe certamente portato via loro qualcosa: il dominio della corruzione, dello stravolgimento del diritto, dell'arbitrio. Ma non avrebbe portato via nulla di cio' che appartiene alla liberta' dell'uomo, alla sua dignita', all'edificazione di una societa' giusta. Il Papa parlava inoltre a tutti gli uomini, soprattutto ai giovani. Non abbiamo forse tutti in qualche modo paura - se lasciamo entrare Cristo totalmente dentro di noi, se ci apriamo totalmente a lui, paura che Egli possa portar via qualcosa della nostra vita? Non abbiamo forse paura di rinunciare a qualcosa di grande, di unico, che rende la vita cosi' bella? Non rischiamo di trovarci poi nell'angustia e privati della liberta'? Ed ancora una volta il Papa voleva dire: no! chi fa entrare Cristo, non perde nulla, nulla - assolutamente nulla di cio' che rende la vita libera, bella e grande. No! solo in quest'amicizia si spalancano le porte della vita. Solo in quest'amicizia si dischiudono realmente le grandi potenzialita' della condizione umana. Solo in quest'amicizia noi sperimentiamo cio' che e' bello e cio' che libera. Cosi', oggi, io vorrei, con grande forza e grande convinzione, a partire dall'esperienza di una lunga vita personale, dire a voi, cari giovani: non abbiate paura di Cristo! Egli non toglie nulla, e dona tutto. Chi si dona a lui, riceve il centuplo. Si', aprite, spalancate le porte a Cristo, e troverete la vera vita. Amen".


Benedetto XVI, Omelia per la messa di inizio pontificato, 24 aprile 2005



APPROFONDIMENTI





venerdì 30 agosto 2013

A mezzanotte si levò un grido: Ecco lo sposo, andategli incontro!

Solo all'ultimo posto il Vangelo è autentico e credibile

Commento al Vangelo della XXII Domenica del Tempo Ordinario - Anno C

Takamatsu,  (Zenit.org) Don Antonello Iapicca

Presentandoci la vita come il funerale dei desideri, il demonio vuole indurci a non accogliere l’«invito a nozze» che il Signore ci consegna attraverso i fatti e le persone. Ogni giorno, …
leggi tutto





Io temo che il nemico renda inquieti alcuni di voialtri, 
proponendovi cose ardue e grandi per il servizio di Dio 
e che fareste se vi trovaste in altre parti da quelle dove ora state.
Pertanto ognuno di voi, nei luoghi ove si trova, 
s'impegni molto per trarre profitto prima per sé 
e poi per gli altri, 
avendo per sicuro che in nessun'altra parte può servire tanto Dio 
come laddove uno si trova per obbedienza, 
confidando in Dio nostro Signore
In questa maniera farete progressi nelle vostre anime 
vivendo confortati e utilizzando bene il tempo 
che è una cosa tanto preziosa, 
pur senza essere conosciuta da molti, 
dato che sapete quale stretto conto 
dovrete rendere di esso a Dio nostro Signore. 
Infatti, dato che non rendete alcun frutto 
poiché non state nei luoghi dove desiderereste trovarvi, 
cosi, allo stesso modo, nei luoghi dove ora state 
non trarrete alcun profitto né per voi né per gli altri, 
avendo i pensieri e i desideri occupati altrove.
Inoltre coloro che si ritengono qualcosa, 
facendo assegnamento su loro stessi più di quanto non valgano, 
disprezzando le cose umili 
senza essersi molto esercitati e avvantaggiati vincendosi in esse, 
sono più deboli durante i grandi pericoli e travagli perché, 
non portando a termine quello che avevano cominciato, 
perdono il coraggio per le piccole cose 
allo stesso modo con cui lo avevano perduto per le grandi.


San Francesco Saverio, Lettera 90





Dal Vangelo secondo Matteo 25,1-13. 

Il regno dei cieli è simile a dieci vergini che, prese le loro lampade, uscirono incontro allo sposo.
Cinque di esse erano stolte e cinque sagge;
le stolte presero le lampade, ma non presero con sé olio;
le sagge invece, insieme alle lampade, presero anche dell'olio in piccoli vasi.
Poiché lo sposo tardava, si assopirono tutte e dormirono.
A mezzanotte si levò un grido: Ecco lo sposo, andategli incontro!
Allora tutte quelle vergini si destarono e prepararono le loro lampade.
E le stolte dissero alle sagge: Dateci del vostro olio, perché le nostre lampade si spengono.
Ma le sagge risposero: No, che non abbia a mancare per noi e per voi; andate piuttosto dai venditori e compratevene.
Ora, mentre quelle andavano per comprare l'olio, arrivò lo sposo e le vergini che erano pronte entrarono con lui alle nozze, e la porta fu chiusa.
Più tardi arrivarono anche le altre vergini e incominciarono a dire: Signore, signore, aprici!
Ma egli rispose: In verità vi dico: non vi conosco.
Vegliate dunque, perché non sapete né il giorno né l'ora.


Il commento

Conoscere il Signore ed essere da Lui conosciuti: questa è la vita eterna, la felicità, la pace. E, come in un fidanzamento e in un matrimonio, anche con Gesù ci si conosce poco a poco; è un cammino fatto di piccole grandi cose, i cui passi sono simboleggiati dai "piccoli vasi" nei quali versare l'olio. Nella Scrittura il verbo "conoscere" ha un senso molto profondo, che suppone un'intimità come quella che si dà tra due sposi. Per questo, non a caso, teatro della parabola è un banchetto di nozze. 

Questa parabola fa parte del così detto discorso escatologico. Le "dieci vergini" erano delle damigelle di onore dello sposo; secondo la tradizione ebraica, esse dovevano accompagnarlo sino alla casa della sposa, e da qui alla sala del banchetto. Loro compito era tenere accese le lampade per illuminare il corteo nuziale, e per questo avevano anche un "piccolo vaso" che conteneva l'olio di riserva. Esse sono immagine "simile" al "Regno di Dio"; rappresentano i chiamati ad essere cristiani, ai quali è stata donata la primogenitura: i cristiani sono chiamati, infatti, a fare da corona allo Sposo quando tornerà, a sedere sui troni accanto a Lui e a giudicare le Nazioni. Sono promessi a un unico sposo, per essere presentati quali vergini caste a Cristo (cfr. 2 Cor. 11, 2). Ma non tutti i chiamati saranno eletti (Mt. 22:14). Questi ultimi "sono infatti vergini e seguono l'Agnello dovunque va. Essi sono stati redenti tra gli uomini come primizie per Dio e per l'Agnello" (Ap. 14, 4). La chiamata inaugura un cammino attraverso la storia reale e concreta di ciascuno, per giungere all'elezione che sigilla la missione dei cristiani nel mondo, quella di annunciare e testimoniare il Vangelo. In essa è prevista un ritardo, ed è provvidenziale. Attraverso di esso si sperimenta la fragilità e la debolezza che ci accomuna tutti: ci si assopisce, perché l'attesa sembra non finire mai. Il ritardo è sempre gravido di vita, come possiamo imparare dalla natura della donna: quando essa ha "un ritardo" significa che è incinta. 

Durante la nostra vita, come nella storia dell'umanità, il tempo che ci separa dall'incontro con lo Sposo è proprio come un tempo di gravidanza e di doglie che preludono al parto. In essa il bimbo cresce prendendo forma da sua madre; nella gestazione, il figlio riceve tutti gli elementi che lo faranno somigliante ai suoi genitori. Il Dna ne connoterà la compatibilità, al punto che in caso di dubbio, si potrà ricorrere alla sua analisi per stabilire quel legame unico al mondo. Così è per ciascuno di noi, chiamato ad essere figlio nel Figlio, a prendere da Lui la somiglianza con il Padre. Creati a sua immagine dobbiamo crescere in essa perché, al giungere dello Sposo alla fine del mondo, Egli possa "riconoscerci" quali suoi fratelli, chiamarci, destarci e farci nascere alla vita che non muore. Per questo le nozze eterne si preparano durante tutta la vita. L' "olio" è segno della consacrazione, dell'elezione: sigilla la primogenitura. I cristiani sono unti dello stesso crisma di Cristo, e ciò significa che gli appartengono; in quest'olio, immagine dello Spirito Santo, essi crescono nella conformazione e nella somiglianza con il Signore. Unti ma non ancora giunti a perfezione. Consacrati ma non per questo con il visto per il Paradiso già in tasca. Se così non fosse, la nostra vita sarebbe un tragico e beffardo teatrino di burattini, affidato al caso e agli umori di un sinistro burattinaio. 

Invece, con il Signore è come in un fidanzamento, un matrimonio, un'amicizia: non sono cose di un momento, non sono avventure e passioni, roba da grandi ed effimeri entusiasmi. Tutto si costruisce passo dopo passo, attraverso la fedeltà nelle piccole cose: "afferro le occasioni che si presentano ogni giorno, per compiere azioni ordinarie in modo straordinario" (Card. Van Thuan, Dal carcere). La "saggezza" è questa fedeltà paziente e semplice; la "stoltezza" è la superficialità che disprezza il sacrificio quotidiano aspettando il grande slancio, le emozioni forti. Sapienza è umiltà fondata nella verità. Stoltezza è superbia radicata nella menzogna. La vita è molto seria, un cammino tracciato dalle orme di Cristo. Sono orme semplici, piccole, quelle che attraversano la vita di ogni giorno. E' seguendole che si entra al banchetto. Sono le orme della "piccola via" percorsa da Santa Teresa di Lisieux, immagine limpida della vergine sapiente: "Sono sempre rimasta piccola, non avendo altra occupazione che quella di cogliere fiori, i fiori dell'amore e del sacrificio, e di offrirli al buon Dio per suo piacere... M'impegnavo soprattutto a praticare le virtù piccole, non avendo il destro per praticare le grandi, così mi piaceva ripiegare le cappe dimenticate dalle consorelle, e rendere a queste ultime tutti i piccoli servigi che potevo... Mi fu dato anche l'amore della mortificazione e fu tanto più grande in quanto niente mi era permesso per soddisfarlo... Quelle che mi permisero senza che io le chiedessi consistevano nel mortificare il mio amor proprio, ciò che mi procurava molto maggior vantaggio che non le peni­tenze corporali. Il refettorio, che fu il mio ufficio subito dopo la vestizione, mi offerse più d'una occasione per mettere il mio amor proprio al posto che gli spetta, cioè sotto i piedi... A Gesù piace mostrarmi il solo cammino che conduca alla fornace divina, cioè l'abbandono del bambino il quale si addormenta senza paura tra le braccia di suo Padre... Ah, se tutte le anime deboli e imperfette sentisse­ro ciò che sente la più piccola fra loro, l'anima della sua Tere­sa, non una dispererebbe d'arrivare alla vetta della montagna d'amore, poiché Gesù non chiede grandi azioni, bensì soltanto l'abbandono e la riconoscenza... Sì, Amato, la mia vita si consumerà così. Non ho altri mezzi per provarti il mio amore, se non gettar dei fiori, cioè non lasciar sfuggire alcun piccolo sacrificio, alcuna pre­mura, alcuna parola, e profittare di tutte le cose piccole, e farlo per amore... Voglio soffrire per amore e perfino gioire per amore, così getterò fiori davanti al tuo trono; non ne incon­trerò uno senza sfogliarlo per te... poi, gettando fiori, canterò anche quando dovrò cogliere i miei fiori in mezzo alle spine, e il canto sarà tanto più melodioso quanto più le spine saranno lunghe e pungenti" (S. Teresa di Lisieux, Storia di un'anima). 

E' percorrendo un serio cammino di conversione che si potrà ascoltare il grido che annuncerà l'arrivo dello Sposo ed entrare con Lui nelle nozze. I "piccoli vasi" indicano proprio le orme che precedono i nostri passi, le piccole occasioni che Dio ci offre nella nostra storia: è in esse che occorre essere fedeli, pronti, colmi di olio. Per questo la vera saggezza è procurarsi l'olio dello Spirito Santo, e in esso rinnovare ad ogni evento della vita l'Alleanza che ci fa primogeniti. Scriveva Sant'Agostino: "Il simbolo del santo mistero che avete ricevuto tutti insieme e che oggi avete reso uno per uno, sono le parole su cui è costruita con saldezza la fede della madre Chiesa sopra il fondamento stabile che è Cristo Signore… Voi dunque lo avete ricevuto e reso, ma nella mente e nel cuore lo dovete tenere sempre presente, lo dovete ripetere nei vostri letti, ripensarlo nelle piazze e non scordarlo durante i pasti: e anche quando dormite con il corpo, dovete vegliare in esso con il cuore". (S. Agostino, Sermo 215, 1). Ci si può "addormentare", siamo tutti deboli come le dieci vergini che, tutte, si assopirono; non è questo il problema, perché proprio nella debolezza si manifesta la potenza di Dio. Il Vangelo di oggi ci invita piuttosto a tener desta l'attesa del cuore: "Io dormo, ma il mio cuore veglia. Un rumore! È il mio diletto che bussa: «Aprimi, sorella mia, mia amica, mia colomba, perfetta mia»." (Ct. 5, 2). Il sonno delle vergini sagge illumina l'attitudine costante del cristiano: è debole, ma nell'intimo sa che anche il sonno è cifra dell'attesa. Il "ritardo" è colmo di vita, per questo il cuore veglia mentre si dorme, come il feto è vivo nel buio del seno materno, come le lampade sono lì, pronte, colme dell'olio necessario. Non vi è contraddizione tra il sonno e l'attesa, perché Dio guarda al cuore non all'aspetto: tutte e dieci "dormivano", ma solo cinque avevano il cuore in veglia. Le altre, con il cuore dissipato, avevano spento il cuore, disattente e stolte.

"Secondo la concezione biblica e nella visione dei Padri, il cuore è quel centro dell’uomo in cui si uniscono l’intelletto, la volontà e il sentimento, il corpo e l’anima. Quel centro, in cui lo spirito diventa corpo e il corpo diventa spirito; in cui volontà, sentimento e intelletto si uniscono nella conoscenza di Dio e nell’amore per Lui" (Benedetto XVI). Il cuore colmo dell'amore riversato per mezzo dello Spirito Santo sa intercettare le occasioni per amare. Per questo anche "se la carne è debole lo Spirito è pronto": se il cuore è desto, anche addormentati possiamo amare... Anche se inciampiamo nei peccati, questi non ci impediscono di desiderare il Signore, di sperare e attendere il suo arrivo; la debolezza non ci separa da Lui, ma la stolta superficialità e l'ipocrita arroganza sì. E' questa la Sapienza che lo Spirito ci dona: nella notte dell'attesa, il cuore è pronto a discernere gli eventi e ad aprire allo Sposo che bussa indossando le vesti del prossimo. Anche Adamo si è addormentato, e fu vita tratta dalla sua stessa carne. Anche Abramo fu preso da un torpore, e fu l'Alleanza incorruttibile. Anche i discepoli, nel Getsemani, cedettero agli occhi appesantiti, e fu il compimento definitivo della Volontà di Dio. In comune tutti hanno la propria debolezza e il potere di Dio: è Lui che fa tutto, perché Dio dona il pane ai suoi amici nel sonno: mentre dormiamo pulsa la vita autentica, ed è il mistero a cui siamo chiamati, la vita nella morte. La primogenitura è, essenzialmente, vivere senza timore nel sonno della morte che ogni giorno prende le nostre vite, tenendo desto il cuore colmo di Spirito Santo. Accettare la propria debolezza nella certezza che essa sarà colmata, giorno dopo giorno, dall'amore infinito e potente di Dio. Accettare di non saper perdonare il coniuge o i figli, di non avere pazienza, di addormentarci di fronte ai bisogni di chi ci è accanto; accettarlo senza presumere d'essere bravi e buoni, e così attendere che giunga lo Sposo e ci desti per accompagnarci nel banchetto dove perdonare, avere pazienza, essere attenti ai bisogni dell'altro, perché ricolmi del suo Spirito e della Vita più forte del sonno dei peccati e della morte.

Per questo il ritardo del Signore è fecondo, perché in esso si cela il suo mistero di Pasqua, di vita che distrugge la morte. Gli stessi verbi utilizzati da Matteo rimandano a questo significato: le vergini si "destano" come il Signore si "desta" dalla morte! Il ritardo è l'occasione per crescere nell'amore, per prepararsi all'incontro con lo Sposo, per assomigliare a Lui in tutto. Così ogni ritardo nella nostra vita, quello della moglie nello stirare la camicia e del marito nel comprendere le esigenze della sposa, quello dei figli nell'obbedire e dei genitori nell'ascoltare i figli, quello del corpo che non ce la fa a guarire, quello del datore di lavoro nel promuoverci o nel darci le ferie o lo stipendio; tutto ciò che ritarda il compimento dei nostri desideri e delle nostre speranze costituisce l'occasione per vivere come primogeniti, con i nomi inscritti nei cieli, pronti al sacrificio, a crocifiggere la propria carne con le sue passioni, e a vivere la vita nuova secondo lo Spirito. 

Essere "vigilanti" è, secondo il grande esegeta H. Schlier, essere sobrii, che "significa vedere e prendere le cose così come esse sono» (La fine del tempo). Prenderle anche quando richiedono un sacrificio, che è l'unico polo capace di attrarre l'attesa e tenerla desta orientandola verso la bellezza: "Quando uno capisce il valore del sacrificio in positivo? Quando capisce che senza sacrificio non c’è bellezza, cioè le cose non corrispondono. La bellezza è la corrispondenza ultima con un’attesa che abbiamo, con un’attesa del cuore: lo splendore della verità. Bellezza, splendore della verità" (Mons. L. Giussani). Per questo la nostra vita presente e futura dipende dall'olio che abbiamo nei piccoli vasi. E' decisivo prendere l'olio, il combustibile capace di far marciare la nostra vita sul sentiero tracciato per noi. San Paolo, dopo aver ricordato ai Galati che “il tempo è breve”, conclude dicendo: “Dunque, fino a quando abbiamo tempo, operiamo il bene verso tutti, soprattutto verso i fratelli nella fede!”. Operare il bene che lo Spirito Santo ispira e compie attraverso di noi, nei fatti e con le persone di ogni giorno: il lavoro con le sue difficoltà, le occasioni per prendere su di sé le pratiche dei colleghi e, per amore, rinunciare al proprio prestigio; il fidanzamento ancorato alla speranza di vedere compiuto il desiderio di amare, attraverso il combattimento per la castità, per il rispetto, per la libertà dell'altro, imparando nei piccoli frammenti di vita a rinunciare a se stessi; il matrimonio aperto costantemente alla vita, alla volontà di Dio, nelle occasioni di fedeltà che si presentano ogni giorno, nella pazienza e nel dono del proprio tempo, dei propri gusti, accompagnando il coniuge, in tutto, verso l'obbedienza a Cristo; i genitori a cui obbedire anche nelle cose più banali, come lavare i piatti, rifare il letto e lavarsi i denti; la scuola e lo studio nei quali approfittare per imparare a fare anche ciò che non piace, rinunciando alle più allettanti e gratificanti per compiere la volontà di Dio; la vita religiosa nella quale cogliere l'occasione per obbedire ai superiori, che ci appaiono così spesso meno perspicaci e illuminati di noi, per imparare ad ancorare la vita in Cristo e non negli uomini attraverso i quali Egli ci parla. 

Tutto quello che ci è dato di vivere è un'occasione per crescere e prepararsi all'ultima opportunità, quella che ci attende sulla soglia del banchetto escatologico. Solo gli stolti si lasciano scappare i kairos pieni di amore, i fatti e le persone che Dio ci invia ogni giorno perché siano vissuti cristianamente, intrisi cioè nell'unzione del Crisma profetico, sacerdotale e regale. In tutto come profeti del Cielo, re della carne e dei suoi desideri, sacerdoti che intercedono per ogni uomo. Il Crisma del Signore ci è donato per imparare a vivere tutto nella Signoria di Cristo. I "piccoli vasi" sono offerti perché, attraverso la Chiesa, l'ascolto della Parola, i sacramenti e la vita comunitaria, siano riempiti di Spirito Santo: i suoi frutti realizzano nella nostra vita la Signoria di Cristo: "amore, gioia, pace, magnanimità, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé" (Gal 5,22). Per questo, ai cristiani della Chiesa di Tiàtira il Signore dice: "quello che possedete tenetelo saldo fino al mio ritorno. Al vincitore che persevera sino alla fine nelle mie opere, darò autorità sopra le nazioni." (Ap. 2,25). Possediamo l'unzione, i frutti dello Spirito Santo, le virtù celesti di fede, speranza e carità: nello Spirito Santo possiamo perseverare nelle sue opere.

Le vergini stolte sono invece immagine di chi non persevera nelle opere di Cristo, preferendo, per sciatteria e superficialità, le proprie. Dormono ma il loro cuore non veglia. Ogni relazione, ogni esperienza è per loro come quella di un corpo addormentato dopo un'ubriacatura, preda di sogni e passioni, ma incapace di cogliere la realtà nella sua essenza. Vivono tutto addormentate nel sonno drogato della carne, con il cuore assente e vuoto, come i loro piccoli vasi. Non possono colmare d'amore le occasioni che Dio dona loro. Fanno, disfano e non resta nulla: opere morte, opere addormentate. Così è di tanti matrimoni, di tanti fidanzamenti, di tante amicizie: "Invece che spalancare le braccia ad abbracciare il mondo, si vuole ridurre l'abbraccio all'oggetto che piace, che ci è davanti, e così uno lancia le braccia - secondo il paragone dell'Eneide - e stringe il nulla, abbraccia e stringe il niente" (Mons. Luigi Giussani). Vivono come il figlio maggiore che non ha compreso nulla di suo padre, vive in casa con lui ma è come se non gli appartenesse nulla, perché, in fondo, non si sente figlio. Come il servo malvagio che ha nascosto il talento sotto terra, disprezzando il dono per invidia. Sono stolte perché nemmeno si rendono conto di essere state chiamate ad accompagnare lo Sposo, ad esserne le damigelle d'onore; hanno dimenticato l'abito nuziale, l'olio per le lampade, la primogenitura: sono stolte perché senza memoria. Hanno, come tanti di noi, partecipato al memoriale della Pasqua del Signore, sorgente e compimento della vocazione, ma non hanno mai rinnovato nulla, non hanno mai accolto davvero la Grazia offerta dalla Chiesa: sacramenti, preghiere, riunioni, forse anche buone opere, ma tutto come vasi forati, incapaci di trattenere lo Spirito Santo. Hanno tutto, esattamente come le sagge, ma manca loro l'umiltà che discerne le piccole occasioni; non hanno fatto provvista dello Spirito di Sapienza. Stolte come chi pensa di poterla comunque sfangare alla fine, anche se nella vita ha sempre schivato il sacrificio, le piccole occasioni, dissipando l'olio ricevuto senza provvederne dell'altro. La stoltezza è negare la Croce, ed è sempre opera dell'anticristo che nega l'incarnazione, le piccole occasioni dove incontrare il Signore. Ma, alla resa dei conti, la stoltezza si rivela per quello che è: zizzania cresciuta accanto al grano, buona solo per essere gettata fuori. Si muore come si è vissuti: benedicendo per chi ha benedetto; amando per chi ha amato. 

Come alla fine, anche ogni giorno occorre pensare seriamente e saggiamente a se stessi. Vi sono cose che nessuno potrà mai fare per noi. Non è possibile distribuire l'olio destinato a ciascuno, perché non ne venga a mancare a tutti. Si può amare, pregare, offrire la propria vita, ma l'olio dello Spirito Santo capace di far compiere le opere per le quali siamo predestinati, quello è dono esclusivo di Dio. A Lui bisogna chiederlo al tempo opportuno. Non c'è sentimentalismo o pietismo che tenga: nulla possiamo anteporre a Cristo. Nulla all'obbedienza e all'intimità con Lui. Vi è sempre un ordine fondamentale, perduto il quale si inciampa e ci si perde: una madre non può trascurare il proprio rapporto con il Signore per tentare di aiutare suo figlio. Sarebbe assorbita dalle stesse sabbie mobili. Così per ogni relazione: quanti ragazzi distruggono la propria vita per tentare di salvare l'amico o la fidanzata drogata, perdendo il proprio olio e non offrendo nulla se non la propria indifesa debolezza. E' Cristo e solo Lui che scende nella morte, che perdona e risuscita: noi possiamo e siamo chiamati ad annunciarLo, a condurre al suo trono di misericordia chi amiamo, non a sostituirci a Lui. Per questo l'amore autentico agli altri sorge da un'intimità profonda con il Signore: spesso è meglio parlare a Dio delle persone che alle persone di Dio. 

La libertà è la firma di Dio nella vita di ciascuno e spesso ci procura dolore; la stoltezza di un figlio, di un amico, di una persona cara ci spezza il cuore, ma non possiamo sostituirci a lui. L'unico che è morto al posto di ciascuno di noi è Cristo! Amare autenticamente, saggiamente, è dunque curare il nostro cuore, tenerlo desto, riempirlo di Spirito Santo perché in noi ogni stolto possa incontrare Lui, e, se ancora in tempo, accogliere il suo amore. E' Cristo che ci chiamerà e ci condurrà nel banchetto, è Lui che ci accompagnerà nella morte, come ci accompagna ogni giorno nelle piccole occasioni di donare la nostra vita. I frutti dello Spirito Santo incarnati in ciascun chiamato illumineranno il corteo trionfale dello Sposo. I frutti gratuiti accolti giorno per giorno accenderanno le fiaccole, apriranno le porte, ci introdurranno nella festa senza fine di chi contempla il suo volto d'amore.




Gesù, 
io non aspetterò, vivo il momento presente, colmandolo di amore.
La linea retta è fatta di milioni di piccoli punti uniti uno all'altro.
Anche la mia vita è fatta di milioni di secondi e di minuti uniti uno all'altro.
Dispongo perfettamente ogni singolo punto
e la linea sarà retta.
Vivo con perfezione ogni minuto
e la vita sarà santa.
Il cammino della speranza è lastricato di piccoli passi di speranza.
La vita di speranza è fatta di brevi minuti di speranza.
Come tu, Gesù, che hai fatto sempre ciò che piace al Padre tuo.
Ogni minuto voglio dirti:
Gesù, ti amo,
la mia vita è sempre una «nuova ed eterna alleanza» con te.
Ogni minuto voglio cantare con tutta la Chiesa: 
Gloria al Padre e al Figlio e allo Spirito Santo...


Servo di Dio François Xavier Nguyen Van Thuan



IL CUORE DESTO E' UN CUORE CHE PREGA SEMPRE

La preghiera del cuore, incessante, al ritmo del respiro, pervade ogni istante e lascia operare lo Spirito Santo anche nella notte e nel sonno, deponendo il cuore dell'uomo nel cuore di Dio. Siamo chiamati dunque all'hesychìa, patrimonio della tradizione orientale, che significa: calma, pace, tranquillità, assenza di preoccupazione. "L'esicasta è sulla terra l'immagine di un angelo; egli, liberatosi dal torpore e dalla trascuratezza, scrive la sua orazione sulla pergamena del desiderio con le lettere del fervore. L'esicasta è colui che può dire in verità: lo dormo, ma il mio cuore veglia" (S. Giovanni Climaco, La scala del paradiso). L'invocazione del Nome di Gesù infatti, tiene sempre il cuore desto ponendolo senza posa alla presenza del Signore; dicevano i Padri: "Rimani nella tua cella, resta nel tuo eremo, ed essa ti insegnerà ogni cosa"; potremmo applicarla al Vangelo di oggi affermando: "rimani con il tuo piccolo vaso colmo di olio, ed esso ti insegnerà tutto", perché, come ci annuncia il Signore, è lo Spirito che insegna e guida alla Verità tutta intera. Anche quando la vita si fa dura, un inferno: "metti il tuo spirito agli inferi e non disperare" (S. Silvano del Monte Athos), caccia la bocca nella polvere, perchè è "morendo che risuscita a vita eterna" (S. Francesco d'Assisi).

FESTIVALETTERATURA di Mantova

La profezia del silenzio



Se nella nostra società “l’uomo è diventato un’appendice del rumore” (Max Picard), si fa sempre più urgente l’esigenza che ciascuno ritrovi la propria umanità attraverso la riscoperta del silenzio e l’apprendimento dell’antichissima arte di “ascoltare il silenzio”. Impresa certo non semplice, se già Eraclito definiva i propri simili come “incapaci di ascoltare e di parlare”: da allora forse abbiamo l’impressione di aver compiuto passi in avanti nella capacità di parlare, ma certo quanto ad ascolto sembriamo tornati indietro di secoli. Abbiamo bisogno di una pedagogia dell’ascolto che può prendere le mosse solo dal silenzio. Sì, “ascoltare il silenzio” può sembrare un ossimoro, invece è la chiave che apre il mondo dell’ascolto autentico e della comprensione di ciò che si sente.
La tradizione spirituale non solo cristiana ha sempre riconosciuto l’essenzialità del silenzio per una vita interiore autentica. “La preghiera – ha detto il Savonarola, che pur di discorsi appassionati ben si intendeva – ha per padre il silenzio e per ma­dre la solitudine”. Solo il silenzio, infatti, rende possibile l’ascolto, cioè l’accoglienza in sé non soltanto della parola pronunciata, ma anche della presenza di colui che parla. Il silenzio è linguaggio di amore, di profondità, di pre­senza all’altro. Del resto, nell’esperienza amorosa il silenzio è spesso linguaggio molto più eloquente, intenso e comunicativo delle parole. Purtroppo oggi il silenzio è raro, è forse la realtà maggiormente assente nelle nostre giornate: siamo bombardati da messaggi sonori e visivi, i rumori ci derubano della nostra interiorità e le parole stesse vengono immiserite dal loro essere urlate, ridotte a slogan o invettive. Ora, “quando diminuisce il prestigio del linguaggio aumenta quello del silenzio” (Susan Sontag). Dobbiamo confessarlo: abbiamo bisogno del silenzio! Ci è necessario da un punto di vista pret­tamente antropologico, perché l’uomo, che è un essere di relazione, comunica in modo equilibrato e significativo soltanto grazie all’armonico rapporto fra parola e silenzio.
Ma abbiamo bisogno del silenzio anche dal punto di vista spirituale. Per la fede ebraica e cristiana il silenzio è una dimensione teologica: sul monte Oreb, il profeta Elia percepì di essere alla presenza di Dio non nel frastuono di venti, tuoni e terremoto ma solo quando ascoltò “la voce di un silenzio sottile” (1Re 19,12). Ignazio di Antiochia dirà che Cristo è “la Parola che procede dal silenzio”. Non si tratta semplicemente dell’astenersi dal parlare o dell’assenza di rumori, ma del silenzio interiore, quella dimensione che ci restituisce a noi stessi, ci pone sul piano dell’essere, di fronte all’essenziale. “Nel silenzio è insito un meraviglioso potere di osservazione, di chiarificazione, di concentrazione sulle cose essenziali” (Dietrich Bonhoeffer). Il silenzio è custode dell’interiorità in quanto ci conduce da una dimensione primaria e “negativa” di sobrietà, di­sciplina nel parlare o addirittura di astensione da parole, a un livello più profondo, di intensa vita spirituale: cioè al far tacere i pensieri, le immagini, le ribellioni, i giu­dizi, le mormorazioni che nascono nel cuore. È il difficile silenzio interiore, quello che trova il proprio ambito vitale nel cuore, luogo della lotta spirituale. Ma proprio questo silenzio profondo genera l’attenzione, l’accoglienza, l’empatia nei confronti dell’altro.
Il silenzio scava nel nostro profondo uno spazio per farvi abitare l’alterità, per farne risuonare la parola e, al tempo stesso, ci dispone all’ascolto intelligente, al parlare misurato, al discernimento di ciò che brucia nel cuore dell’altro e che è celato nel silenzio da cui nascono le sue parole. Il silenzio, allora, quel silenzio, suscita in noi la carità, l’amore del fratello. “Il silenzioso diventa fonte di grazia per chi ascolta” aveva affermato san Basilio. Per il cristiano, il rimando all’ascolto obbediente della Parola di Dio, all’accoglienza del Verbo fatto carne è evidente ed estremamente eloquente. Non a caso è questo il silenzio che proviene a noi da una lunga storia spirituale: è il silenzio cercato e praticato dagli esicasti per ottenere l'unificazione del cuore, il silenzio della tradizione monastica finalizzato all’accoglienza in sé della parola di Dio, il silenzio della preghiera di adorazione della presenza di Dio. Ma è anche il silenzio caro ai mistici di ogni tradizione religiosa e, ancor prima, è il silenzio di cui è intriso il linguaggio poetico, il silenzio che costituisce la materia stessa della musica, il silenzio essenziale a ogni atto comunicativo. Il silenzio, evento di profondità e di unificazione, rende il corpo eloquente conducendoci ad abitare il nostro corpo, a nutrire la nostra vita interiore, guidandoci a quell’habitare secum così prezioso per la tradizione monastica come per quella filosofica. Il corpo abitato dal silenzio diviene rivelazione della persona intera. 
Proviamo allora a ricavare nel ritmo del nostro vivere un tempo per ascoltare il silenzio: riusciremo a cogliere gli sforzi compiuti per crearlo e custodirlo, a discernere i suoni impercettibili della presenza di altre creature accanto a noi, a comprendere il non-detto che abita la gran quantità di parole, ad avere intelligenza di quanto accade – cioè, letteralmente, a “leggere dentro” gli eventi – e, finalmente, anche ad ascoltare meglio noi stessi e gli altri quando parlano al nostro cuore e alla nostra mente, e non solo ai nostri orecchi.

giovedì 29 agosto 2013

Il Papa scrive alla nonna di Nicolò: «Non deve perdere la fede»

 



Pachelbel     Canon in D (the ultimate best version)


Il Resto del Carlino
La lettera di Papa Francesco ha aperto uno squarcio di luce nel buio della disperazione di Teonilde Cupelli, nonna di Nicolò Serroni, il ragazzo drammaticamente scomparso per arresto cardiaco a soli 14 anni il 21 luglio scorso mentre giocava a pallone sulla spiaggia di Porto (...)

Martirio di San Giovanni Battista

Dall'Alba al Tramonto

Il messaggio del giorno

Il peccato rende schiavo l’uomo, la verità lo rende libero. È questo l’insegnamento di Gesù che in Giovanni trova piena attuazione.

www.albatramonto.it





Pachelbel     Canon in D (the ultimate best version)





Giovanni non visse soltanto per se stesso, e neppure morì solo per sé. 
Quanti uomini, carichi di peccati, la sua vita dura e austera seppe trarre a conversione! 
Quante persone la sua morte immeritata incoraggiò a sopportare le avversità! 
E a noi, da dove viene oggi l’occasione di rendere grazie a Dio con fede 
se non dal ricordo di san Giovanni ucciso per la giustizia, cioè per Cristo?
Egli non amò la sua anima, 
cioè la parte sensitiva che cerca il piacere e rifugge l’austerità, 
ma la odiò nel senso che non volle affatto acconsentire alle voglie istintive. 
Così odiandola, o meglio amandola in modo vero e religioso, 
l’ha conservata per la vita eterna. 
E non ha salvato soltanto se stesso, 
ma col suo esempio ha coinvolto moltissimi nella difesa della giustizia.


Giovanni Giusto Lanspergio












Dal Vangelo secondo Marco 6, 17-29

Erode infatti aveva fatto arrestare Giovanni e lo aveva messo in prigione a causa di Erodìade, moglie di suo fratello Filippo, che egli aveva sposata. Giovanni diceva a Erode: «Non ti è lecito tenere la moglie di tuo fratello».
Per questo Erodìade gli portava rancore e avrebbe voluto farlo uccidere, ma non poteva, perché Erode temeva Giovanni, sapendolo giusto e santo, e vigilava su di lui; e anche se nell'ascoltarlo restava molto perplesso, tuttavia lo ascoltava volentieri.
Venne però il giorno propizio, quando Erode per il suo compleanno fece un banchetto per i grandi della sua corte, gli ufficiali e i notabili della Galilea. Entrata la figlia della stessa Erodìade, danzò e piacque a Erode e ai commensali. Allora il re disse alla ragazza: «Chiedimi quello che vuoi e io te lo darò». E le fece questo giuramento: «Qualsiasi cosa mi chiederai, te la darò, fosse anche la metà del mio regno». La ragazza uscì e disse alla madre: «Che cosa devo chiedere?». Quella rispose: «La testa di Giovanni il Battista». Ed entrata di corsa dal re fece la richiesta dicendo: «Voglio che tu mi dia subito su un vassoio la testa di Giovanni il Battista». Il re ne fu rattristato; tuttavia, a motivo del giuramento e dei commensali, non volle opporle un rifiuto.
E subito il re mandò una guardia con l'ordine che gli fosse portata la testa [di Giovanni]. La guardia andò, lo decapitò in prigione e portò la testa su un vassoio, la diede alla ragazza e la ragazza la diede a sua madre.
I discepoli di Giovanni, saputa la cosa, vennero, ne presero il cadavere e lo posero in un sepolcro.



Il commento

Sì, si può perdere la testa per Gesù. La verità, quella che ci fa liberi, quella che non è barattabile, la nemica dei falsi compromessi volti a salvare la pelle, fa perdere la testa. Ci sono sempre tagliatori di teste in cerca di poveri profeti disarmati che annunciano senza posa la verità. E la verità, normalmente è scomoda. Ne sappiamo qualcosa anche noi, quando qualcuno osa rimproverarci, evidenziarci un errore, un peccato. Per la Bibbia correggere un saggio è renderlo ancora più saggio. Correggere uno stolto invece, significa attirarne le ire. Facciamo due conti e vediamo da che parte stiamo. Probabilmente da quella dei tagliatori di teste, degli stolti, come Nabal, letteralmente, «colui al quale non si può dire nulla». Uno stolto, uno che per tacitare la verità e potersi rimirare tranquillo allo specchio, non esita a ghigliottinare il profeta.


La verità ci fa liberi, smaschera il serpente antico e le sue menzogne che ci tengono schiavi, e apre la strada al liberatore, il Signore Gesù, la Verità incarnata per la nostra salvezza. "Non ti è lecito" gridava Giovanni Battista, e non per un rigido legalismo, ma perché sei creato per essere libero, felice, e non ti è lecito andare contro natura, il peccato non si addice all'uomo, genera la morte, sempre. Le parole di Giovanni illuminano Erode, sono dirette al fondo del suo cuore, laddove è deposto il seme della verità, del bene, della giustizia. Sono parole capaci di riportare alla luce quel frammento di umanità che, seppure sepolto da una montagna di menzogne, alberga nel cuore di ogni uomo. 


Erode si era infilato in una strada senza ritorno, condannandosi ad una vita sterile, chiusa nell'egoismo. Una vita infelice: "Se uno prende la moglie del fratello è una impurità, egli ha scoperto la nudità del fratello; non avranno figli" (cfr. Lv. 18,16 e 20,21). La concupiscenza lo aveva accecato per trasformarlo in oggetto della maledizione più grande, quella di non avere figli; non vi era cosa più disonorante che scendere nella tomba senza una discendenza, perché era il segno di una vita senza frutto, scivolata via senza amore, senza consistenza, una vita in fumo. Quante volte ci ritroviamo, come Erode, preda di passioni ed entusiasmi che spengono lo sguardo in una fobia illusoria e annichiliscono ogni discernimento. I romanzi e i film e i tentacoli dei media e della cultura ci hanno lavato il cervello sino a farci credere che quando si muove qualcosa nel petto e ti prendono i crampi allo stomaco, allora è l'amore che bussa alla porta. 


I ragazzi vivono nell'illusione della grande passione, confusa con il grande amore. Non aspettano altro che il momento per lasciarsi andare. E allora ogni piccolo terremoto ormonale, comune del resto anche agli animali, è subito accolto con fasti e onori, come la visita di un imperatore. E si alimenta la passione come quando si monta la panna: la "quantità" è la stessa ma a forza di sbatterla aumenta di volume, e sembra crescere anche di peso. Così anche la passione è alimentata e fatta crescere a dismisura con messaggini e chat, e il telefono caldo 24 ore al giorno ogni giorno; la mente è rapita in un sogno che sembra realissimo, si accettano compromessi pur di non guardare in faccia la realtà e prendere le cose con calma; non si può accettare, infatti, che l'amore autentico abbia bisogno della testa e della ragione per imbrigliare la passione e consegnarla al sacrificio che la purifica e la trasforma in dono. I nostri figli non hanno compreso - anche e soprattutto perché nessuno glielo ha spiegato - che perdere la vita non fa perdere la testa, mentre perdere la testa non fa perdere la vita.Ovvero, amare davvero sino a donarsi e perdere la vita non fa mai diventare irragionevoli e perdere la testa. Chi ama in Cristo e la sua ragione è illuminata dalla fede, è sempre lucido, anche quando "cede" alla follia di perdonare l'imperdonabile e caricarsi dei peccati altrui. La misericordia, infatti, non sarà mai frutto della passione. Al contrario, perdere la luce della ragione e del discernimento nello stordimento della passione e della concupiscenza, impedisce il donarsi senza riserve, perché la carne esige sempre il contraccambio. Senza una Grazia speciale essa è incapace di consegnarsi gratuitamente all'altro, nel rispetto, nel sacrificio e nella pazienza.


Ai giovani e ai meno giovani accade come a Davide che, alla vista della bellezza di Betsabea, chiude in prigione ragione e fede, si lascia trascinare dai vortici della passione, e macchina piani e menzogne per dar corpo agli sconvolgimenti dell'istinto ormai senza freno. Morirà Uria, ucciso dalla malizia di Davide. E morirà il bambino nato dalla passione, perché ogni pensiero e ogni azione che non siano ispirate da Dio attraverso la ragione illuminata dalla fede sono senza frutto. Erode «ascoltava perplesso», vigilava, temeva. Ma non era sufficiente. Aveva ormai consegnato il cuore a Erodiade. Al contrario di Davide, peccatore, fragile, ma, inspiegabilmente per chi legge le cose solo carnalmente, proprio lui è il campione dell'uomo secondo il cuore di Dio. Il punto è tutto qui. Un cuore radicato in Dio, anche se cade, è capace di contrizione e di umiltà. Anche se la mareggiata della passione ne ha sconvolto gli equilibri, può tornare ad aggrapparsi all'àncora che non ha smesso di legarlo misteriosamente a sé. Erode invece ha scelto il peccato, lo ha scelto nel fondo del suo intimo, laddove l'uomo è completamente libero e si giocano le sue sorti; Erode ha reciso la fune che lo legava all'àncora e la tempesta ha rotto, inesorabilmente, gli ormeggi. Lo si comprende al «momento propizio», che può essere quello in cui il Signore scuote la coscienza intorpidita, ma anche quello in cui il demonio sferra l’attacco decisivo.

Per Davide il «kairos» è giunto con il profeta Natan, le cui parole dissolvono la menzogna e lo conducono al pentimento: «ho peccato» risponde, senza accampare scuse; così, nel riconoscersi peccatore, Davide accetterà, umilmente, le sofferenze che ne conseguono. Erode non può. Il rancore di Erodiade, alla quale aveva consegnato l'anima, lo trascina nell'abisso, perché l'accendersi di una passione spalanca sempre il passo a peccati più gravi. Erode ha soffocato la ragione nella carne, e quando la sua carne si adagia in un «banchetto» che ne sazia le voglie, seduto sulla propria anima, si ritrova sordo e cieco, perde la memoria delle parole del profeta, e promette e consegna la sua vita ad un'immagine effimera, il corpo seducente di una ragazza, che appare ai suoi occhi come l'albero dell'Eden, «buono da mangiare, gradito agli occhi e desiderabile per acquistare saggezza». Ed è morte, della Verità prima, della sua anima poi. 


Il Vangelo di oggi ci chiama a conversione, a guardare senza sconti la nostra vita, a lasciarci illuminare sui compromessi, sulle situazioni pericolose nelle quali ci troviamo, proprio dove non abbiamo forza e volontà per tagliare, voltare pagina e abbandonarci alla fedeltà di Dio. Quell'amicizia che ci insinua calunnie sugli altri, quell'affetto troppo corposo, che ha già messo il laccio al cuore e ci ha deposto sul piano inclinato che conduce al tradimento; quel rancore che arde, sordo, sotto la cenere del tempo che vorremmo capace di essiccare il peccato; quell'adulazione che risuona nelle nostre orecchie e ci pianta al centro di un universo che ci appare ogni giorno più ostile a tutto quanto facciamo e pensiamo. Per questo l'episodio di Erode ci invita a chiedere a Dio la grazia del cuore di Davide, pronto al pentimento, a rientrare in se stesso come il figliol prodigo, ad ascoltare la voce dei profeti che, con amore e fermezza, ci chiamano a conversione: ispirati da Dio, i pastori, i catechisti, i fratelli, i genitori, il coniuge, illuminano quanto, nella nostra vita, «non è lecito» ed è destinato a restare senza figli, svelando la parte di noi che, infeconda, appartiene alla terra ed è incapace di ereditare il Cielo. 


La correzione, certo, quando arriva fa male, perché graffia l’orgoglio che ci vorrebbe impenitenti, ma poi reca il bene immenso della libertà. Lasciamo allora che l'annuncio del Vangelo ci raggiunga e sconvolga le nostre precarie certezze, accogliamo la correzione e la Verità, permettiamo al Signore di amarci come solo Lui sa, sino ad innamorarci perdutamente di Lui; solo radicati in Lui e partecipando della sua obbedienza alla Parola del Padre di fronte alle seduzioni del demonio, che presentano sempre il potere e il possesso come la fonte della felicità, potremo divenire i testimoni della Verità di cui il mondo ha bisogno. Liberi come Giovanni, senza paura e lontani dai compromessi, dalle ipocrisie e dai ricatti, sino a perdere la testa, cioè oltrepassando "il lecito" della ragione strozzata dalla ricerca del proprio tornaconto; così siamo chiamati a mostrare al mondo che non è lecito chiudersi in ciò che è lecito per assecondare la carne, mentre è lecito perché secondo Dio e per il bene dell'uomo, abbandonare schemi e criteri che appesantiscono mente e cuore nell'egoismo, per uscire da se stessi e donarsi, per amore di chi ci è accanto, per Lui che ha perduto tutto per noi.





APPROFONDIRE