di ENZO BIANCHI
Il perdono è tema così decisivo nella vita umana e cristiana perché conosciamo il male, quella profonda contraddizione al bene che non possiamo rimuovere né negare. Il perdono ha intrinsecamente a che fare con il male, quello che facciamo a noi stessi e agli altri, e quello che gli altri fanno a noi. Il male – nelle sue varie forme del cattivo pensare, del malvagio agire, dell’offensivo parlare – è una realtà nella nostra vita e nelle nostre relazioni. Il male, secondo le parole di Gesù, è ciò che nasce dal nostro cuore e diventa aggressività, violenza, odio verso gli altri e verso noi stessi (cf. Mc 7,20-23; Mt 15,18-20). Il male è ciò che io faccio nonostante voglia fare il bene, come confessa l’apostolo Paolo ai cristiani di Roma (cf. Rm 7,18-19).
Ora, il male commesso è irreversibile, resta male anche dopo il perdono, ma può essere trasceso. Con il perdono, chi ha subìto il male irreversibile ricrea le condizioni per un nuovo inizio nella relazione con l’altro: questa è l’azione dello Spirito santo il quale «è la remissione dei peccati», il perdono che ricrea vita là dove c’è morte, che rimette in piedi chi è caduto, che fa di un peccatore una nuova creatura.
Il perdono attesta che l’ultima parola non spetta al male commesso, ma alla grazia, all’amore! Perdonare richiede un sacrificio di se stessi in rapporto all’altro: si perdona affinché l’altro esista, ma questo contrasta non solo con l’egocentrismo, ma anche con la più sana autostima. Non è naturale perdonare, a tal punto che un perdono accordato facilmente ha molte probabilità di essere inautentico. Questo è tanto più vero oggi, in un contesto socio-culturale in cui si è diffusa l’abitudine di perdonare – o di essere interpellati sul perdono – in favore di telecamere, facendo così un atto di esibizione e di protagonismo che riceve l’applauso della gente.
Chi è arrivato a perdonare in verità sa invece che si tratta di un cammino lungo, faticoso, costoso. Un percorso segnato da due tappe fondamentali e decisive: la primaria rinuncia a reagire al male con il male e la successiva volontà di rispondere con l’amore. Il primo passo è segnato da una dimensione di “passività”, dal “non fare” ciò che avremmo voluto che gli altri non facessero a noi: solo così si può spezzare la catena perversa e infinita della violenza che chiama altra violenza, il terribile contagio della vendetta. Ma in un secondo momento occorre la libertà e la volontarietà del cercare di guardare con amore chi ci ha offeso. Se abbiamo rinunciato a vendicarci, prima o poi giungeremo a scorgere nell’altro il suo non essere identificabile con il male che ha commesso. L’altro non è il nemico, non incarna il male, non può essere demonizzato: l’altro è un uomo, una donna che ha commesso un’azione malvagia. Ora, questo cammino esigente e rigenerante del perdono, come cristiani lo possiamo percorrere solo nella consapevolezza che il perdono di Dio precede il nostro perdono; precede addirittura il pentimento dell’uomo, perché è un evento incondizionato, gratuito: è questo perdono di Dio a causare la conversione, il mutamento, la nostra stessa capacità di esercitare il perdono.
Perdonare allora è prendere coscienza della necessità di rinnovare la comunicazione, la relazione con l’altro, per non negarlo, per non ridurlo alla condizione paralizzante di nemico. Davvero il cammino del perdono è il cammino dell’umanizzazione, è il cammino di Dio per noi esseri umani.
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