A proposito di solidarietà
(Paolo Pecorari) Commentando i risultati della recente Giornata mondiale della gioventù, non pochi osservatori hanno lasciato trasparire una certa sorpresa per l’insistenza con la quale Papa Francesco è tornato sul dovere della solidarietà verso i bisognosi, i poveri, i deboli, gli indifesi. Sorpresa che in vero a sua volta sorprende, ove solo si consideri come nella dottrina sociale della Chiesa la solidarietà sia sempre stata un valore portante, costantemente ripensato ed efficacemente inverato nella pluralità delle sue forme storiche.In che senso ripensato? In due sensi, come ha spiegato lo stesso Papa Francesco nel discorso del 25 maggio 2013 alla Fondazione Centesimus annus. Il primo riguarda la necessità di «coniugare il magistero con l’evoluzione socio-economica, che, essendo costante e rapida, presenta aspetti sempre nuovi». Il secondo concerne l’approfondimento, la riflessione ulteriore, per riuscire a far emergere dalla solidarietà tutta la sua «fecondità», che trae origine «dal Vangelo, cioè da Gesù Cristo, e quindi, come tale, contiene potenzialità inesauribili». L’attualizzazione di queste potenzialità non interpella solo le coscienze, ma chiama in causa le diverse culture, perché concorrano a elaborare soluzioni adeguate ai problemi del presente, congiunturali e non.
Una tale lectio del verbo ripensare consente di dire che la solidarietà implica sempre un riferimento al noi, inteso come “intorno sociale“”, del quale si è parte ed entro il quale le relazioni si storicizzano. È questo lo status che caratterizza le economie preindustriali, le quali, pur essendo contrassegnate da diseguaglianze e conflittualità, forniscono una collocazione sociale gerarchizzata e stabile, alimentando nel contempo il senso di appartenenza, mentre il sistema di vita della maggioranza della popolazione, estremamente precario, anche perché assai spesso sconvolto dalla guerra, regge solo grazie all’agire solidale che supporta i singoli con altri singoli, ond’è che la solidarietà rappresenta (e diviene) il percorso «più razionale verso la sopravvivenza», ed è quindi percepita come un «valore di carattere generale».
Con la rivoluzione industriale lo scenario cambia: le comunità rurali si frantumano; la competizione assurge a norma di condotta; riaffiora sotto diverse spoglie e nel quadro di una Weltanschauung antropocentrica il concetto (o mito?) dell’homo faber fortunae suae, non tanto nell’accezione rinascimentale di un Leon Battista Alberti, quanto piuttosto nelle molteplici varianti del razionalismo illuministico settecentesco e in quelle più tarde del materialismo dialettico di Marx, per tacere dei molteplici travestimenti tardo-ottocenteschi riconducibili direttamente o indirettamente al positivismo e all’evoluzionismo. Tutti aspetti che contribuiscono a diffondere e radicare l’idea che l’opposizione prevalga sulla cooperazione. Il che spiega il forte e reiterato richiamo di Leone XIII alla ricomposizione della società organica, al recupero della dimensione solidaristica, alla valorizzazione dei corpi intermedi, alla legittimazione dell’associazionismo operaio (anche semplice, non solo misto): polarità che la Rerum novarum lega alla difesa del lavoro, considerato non solo come uno dei fattori produttivi, secondo i dettami della scienza economica, ma come actus personae, momento di vita umana.
Non per questo la solidarietà cessa di esistere. Essa però cambia volto, si chiude in un ambito circoscritto e diventa premessa di conflitto esterno, in quanto al reciproco sostegno esistente “fra di noi” fa da pendant un atteggiamento competitivo nei confronti degli “altri”. Più tecnicamente, la solidarietà si sdoppia: da un lato, trova alimento quella orientata verso un particolare “soggetto collettivo definito”, che in talune circostanze può anche sfociare in forme di altruismo; dall’altro lato, esprime una sorta di clinamen finalizzato all’opposizione nei confronti di un diverso soggetto collettivo.
Accanto a questi due tipi di solidarietà se ne sviluppa un terzo: quello istituzionale, così chiamato perché è allo Stato che si affida il compito di realizzare un sistema di servizi e di politiche sociali, espressione di una solidarietà che coinvolge, attraverso un enorme processo ridistributivo, l’insieme dei cittadini. Lo Stato sociale che così prende corpo, benché fondato sulla solidarietà, non è immune da deviazioni, in quanto la solidarietà delegata all’istituzione può perdere (e sovente accade che perda) la propria visibilità. Essa allora «trasforma il rapporto fra i due agenti, dimentica il suo fondamento» e, infine, degenera in assistenzialismo e in inefficienza, con l’aggravante dell’insostenibilità finanziaria delle politiche sociali adottate, un’insostenibilità dovuta a una tale espansione dell’indebitamento pubblico da far ritenere che non l’aumento, ma nemmeno il semplice mantenimento dei livelli di offerta sia più sostenibile. Donde l’obbligo di far chiarezza sul ruolo dello Stato e sul suo modus operandi, ciò di cui la cultura cattolica diviene criticamente avvertita quando lega il concetto di sussidiarietà a quello di solidarietà.
Il punto di raccordo va cercato nell’assunto che con la rivendicazione della libertà assoluta a vantaggio di un’attività particolare della vita sociale (quella economica) i classici reclamano «a favore del sistema economico la sottrazione dal controllo politico». Per questa via l’interna contraddizione in cui essi (e i loro epigoni) si dibattono diventa palese, nel senso che, dopo aver giudicato le fasi precedenti dell’economia come «particolaristiche e incapaci di comprendere le esigenze della libertà generale», negano la premessa, ritenendo «suprema la libertà particolare del sistema economico vigente». La qual cosa postula il primato della dimensione economica su quella politica, quando invece la relazione è (e non può non essere) inversa.
L’aderenza al dato storico complesso si fa qui essenziale e si accompagna al riconoscimento del primato della persona rispetto alla storia, non potendosi dare storia di per se stessa, ma solo in relazione all’uomo, al rapporto dell’uomo con le istituzioni, con la natura, con il tempo. Se l’uomo è il principale parametro di valutazione e di misura (l’uomo nella sua globalità, non nella dimensione esclusiva dell’economicità), la prospettiva dei classici ne esce rovesciata: richiamarsi alla concretezza dei soggetti umani comporta una rivendicazione di valori morali operanti nella società, nell’economia, nella politica. Ed è nella logica di questo rovesciamento che prende corpo il concetto di Stato sussidiario: di uno Stato, cioè, che si vuole impegnato a garantire condizioni di vita umana e di sicurezza per chi lavora e produce, ma attento anche alle fasce deboli della popolazione, oltre che disposto a svolgere funzioni di supplenza quando specifiche esigenze, da valutare di volta in volta, lo richiedano.
Sul piano del magistero pontificio, la consonanza con queste tesi e insieme gli sviluppi e gli approfondimenti non mancano. Ad esempio, Pio XI pone in luce il carattere ascendente dell’ordine sociale, considera compito naturale della società l’aiuto suppletivo; affida agli individui e alle comunità minori ciò che sono in grado di fare di loro iniziativa e con le loro forze; apprezza il «fattore soggettivo nella determinazione del valore, ossia il peso della domanda»; puntualizza che società e città sono realtà organiche, la cui unità «supera e comprende la somma delle parti».
In linea con la Quadragesimo anno, Pio XII riprende il concetto di destinazione universale dei beni, facendone l’elemento fondamentale della questione sociale; chiarisce il principio secondo il quale civitas propter cives, non cives propter civitatem, e ancor più nettamente precisa che «le attività e i servizi della società devono avere unicamente un carattere sussidiario, aiutare o completare l’attività dell’individuo, della famiglia, della professione».
Con la Mater et magistra Giovanni XXIII getta nuova luce sul rapporto tra capitale e lavoro, alla base del quale pone non tanto (e non solo) il criterio dell’efficienza economica, quanto piuttosto la norma dell’equità, del dare a ciascuno ciò che gli è necessario in rapporto al soddisfacimento dei bisogni primari. Va da sé che una tale impostazione solidaristica amplia inevitabilmente l’orizzonte distributivo, ponendo il problema in termini di relazioni interpersonali, di corpi intermedi entro un singolo Stato, tra Stato e Stato, tra Paesi che hanno raggiunto un più o meno avanzato sviluppo e Paesi del sottosviluppo.
Il tema viene rilanciato da Paolo VI, che nella Populorum progressio mette in guardia dal ritenere che lo sviluppo possa ridursi alla semplice crescita, avendo l’esperienza storica dimostrato che il progresso economico non manca di risvolti negativi se disgiunto dai valori umani, se dimentica la solidarietà. Prospettiva rinvenibile anche nella Octogesima adveniens, che a giudizio di taluni commentatori costituirebbe l’estremo passo verso l’accettazione del principio che di fronte ai problemi socio-politici e socio-economici del tempo la Chiesa non vuole offrire risposte univoche, ma si propone, col suo insegnamento, di accompagnare gli uomini nella loro ricerca. Da questo punto di vista, la Laborem exercens di Giovanni Paolo II segnerebbe una sorta di regresso (il che non è), dovuto alla volontà di proporre una risposta cristiana ai problemi più urgenti della società che evolve, i medesimi affrontati nella Sollicitudo rei socialis e nella Centesimus annus, dove lo spirito e le traduzioni operative del capitalismo moderno, nonché il principio dell’interdipendenza globale sono interpretati accedendo a una prospettiva non solo economica, ma pure metaeconomica, con l’obiettivo di connotare il profilo di un umanesimo rinnovato, ossia di un umanesimo finalmente integrale.
L’orizzonte di riflessione si amplia ancora con la Caritas in veritate, nella quale, rifacendosi al dettato della Populorum progressio («la Rerum novarum dell’epoca contemporanea»), Benedetto XVI tratta dello sviluppo umano nella sua pienezza e compiutezza, non riducendolo all’aspetto esclusivamente materiale. Non tralascia inoltre di analizzare i processi di un mercato divenuto globale, ma ne considera i rischi interconnessi, a cominciare dalla «riduzione delle reti di sicurezza sociale in cambio della ricerca di maggiori vantaggi competitivi (...), con grave pericolo per i diritti dei lavoratori, per i diritti fondamentali dell’uomo e per la solidarietà attuata nelle tradizionali forme dello Stato sociale».
Nessuna meraviglia allora se Papa Francesco richiama oggi con speciale insistenza al dovere della solidarietà, soprattutto là dove l’immagine integrale dell’uomo è proposta come obiettivo di ogni serio sforzo che cerchi di inverare storicamente e cristianamente, in sintesi sempre nuove, libero mercato e difesa del lavoro, corretta gestione delle risorse e condizioni accettabili di vita, efficienza economica e, appunto, solidarietà, sia in senso «orizzontale (fra di noi)», sia in senso «verticale (verso gli altri)».
Nessuna meraviglia, perché nel suo richiamo il nuovo si salda all’antico e trova parole di «carità nella verità» che specialmente i giovani mostrano di saper comprendere e di voler accogliere.
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