Papa Roncalli, la misericordia e Taizé
Quell’impronta indelebile impressa alla comunità fondata da frère Roger.
Un tesoro comune. L’amicizia e la consonanza spirituale tra Papa Roncalli e frère Roger sono ricordate, a otto anni dalla morte del fondatore della comunità ecumenica della Borgogna, avvenuta il 16 agosto 2005, da «Omnis terra», mensile del Segretariato internazionale della Pontificia unione missionaria, in un articolo di cui pubblichiamo ampi stralci della prima parte.
*
(Fratel Emile) Frère Roger, il nostro fondatore, all’inizio della sua vita a Taizé aveva scritto questa preghiera: «Conservaci, Cristo Signore, nello spirito delle beatitudini: gioia, semplicità, misericordia»; preghiera che egli ha recitato ogni giorno per molti anni. Voleva infatti lasciarsi impregnare da queste realtà evangeliche e in modo particolare da quella della misericordia. Più tardi dirà: «Non vi è nulla di più grave che perdere lo spirito di misericordia». Ogni forma di durezza era per lui una infedeltà nei confronti del mistero della Chiesa.
Penso ancora alle numerose lettere e testimonianze nelle settimane e nei mesi che seguirono la sua morte. Tante furono le lettere giunte da parte di persone che desideravano esprimere quel che aveva significato per loro un incontro, pur se molto breve, con frère Roger. Molti hanno parlato del suo sguardo, uno sguardo di benevolenza (sinonimo per lui di misericordia) che essi ebbero a sperimentare, e che fece loro percepire, in quello sguardo, qualcosa di diverso dal loro modo usuale di guardarsi. Uno sguardo migliore del loro, che donava desiderio di vivere.
In tale visione della Chiesa, un uomo ebbe a svolgere un ruolo di primo piano, un uomo che frère Roger conobbe assai bene, di nome Giovanni. Si tratta, naturalmente di Papa Giovanni XXIII che frère Roger incontrò più volte. La prima udienza risale ai primi giorni del pontificato di Roncalli. Il cardinale Gerlier, arcivescovo di Lione, che sosteneva fortemente frère Roger, volle che questo incontro avvenisse proprio all’inizio del pontificato di Papa Giovanni, e infatti così avvenne. Frère Roger e frère Max furono ricevuti dal Pontefice il 7 novembre 1958. Altre udienze seguirono, a tal punto significative, che portarono frère Roger a dichiarare che Giovanni XXIII era stato colui che aveva impresso una impronta indelebile alla comunità di Taizé. Per frère Roger, Papa Giovanni incarnava questo spirito di misericordia. Chi non l’ha avvertito? Ancora oggi il visitatore della tomba di Giovanni XXIII ode sussurrare tra la folla — spesso sono i genitori che spiegano ai figli — «questa è la tomba del “Papa buono”».
In questo cinquantesimo anniversario del concilio, è spesso citato il discorso con il quale Papa Roncalli ha inaugurato il Vaticano II. Si deve esserne lieti: ma sorprende constatare come nei mesi e negli anni successivi a questo discorso, la sua ricchezza sia sfuggita anche a uomini di Chiesa che erano stati chiamati a svolgere un ruolo di primo piano nella assise ecumenica. Il che fece sì che alcuni osservassero: ma non vi è un programma in questo concilio!
In realtà, questo discorso era programmatico per il concilio e forse per tutta la Chiesa, per farla entrare in una tappa nuova della sua storia. Questo discorso ha impresso al concilio il suo stile. Ricerche recenti hanno offerto ulteriore conferma di quanto Papa Giovanni XXIII tenesse a questo discorso, pronunciato l’11 ottobre 1962. Egli diceva: «È farina del mio sacco». Ora, in questo discorso, la parola «misericordia» esprimeva il modo in cui il Pontefice vedeva il compito del concilio e il volto che la Chiesa avrebbe dovuto mostrare.
La misericordia crea uno spazio che lascia emergere la verità; se nella vocazione ecumenica questo significa dirigersi verso la più grande verità, verso la pienezza della fede, allora si comprenderà che la misericordia, lo spirito di misericordia è di primaria importanza. Giovanni XXIII ha voluto aprire nuove vie che vanno in questa direzione, specialmente con il concilio Vaticano II, dal quale vennero gli inviti da lui rivolti ai non cattolici che furono chiamati a partecipare al concilio come osservatori. Si sa che la loro presenza ha avuto influenza sulla stesura dei documenti. Il contrasto con le altre epoche è evidente.
La Controriforma cattolica è stata caratterizzata dalla necessità di distinguersi dall’altro, di assumere l’opinione contraria a quella dell’altra confessione. Si è venuta così costituendo una identità artificiale. Se una data confessione afferma la tale verità, allora l’altra confessione si impegnerà subito a sottolineare energicamente l’opposto, con il rischio di sviluppare troppo alcuni elementi della fede trascurando gli altri. Il padre Congar cambiò profondamente la situazione e la comprensione dell’ecumenismo, ponendo la questione ecumenica dentro la questione della cattolicità. Egli comprese che l’ecumenismo non era un ambito particolare. Infatti, è per essere più pienamente se stessa, per vivere pienamente la sua cattolicità che la Chiesa deve essere “una”. Ed è sforzandosi di realizzare in pienezza la grazia della sua cattolicità che la Chiesa compie la sua vera opera ecumenica. Congar ha scritto: «Finalmente, l’ecumenismo non voluto, non espresso, l’ecumenismo nella sua sola dimensione o qualità interna, era il più efficacemente ecumenico». Il fatto di opporsi sistematicamente alla confessione contraria ha causato un impoverimento nella dottrina. Molte realtà esistenti nella Riforma, specie il principio “personale”, esistono anche nella grande tradizione cattolica. Ma poiché la Riforma insisteva su questo punto, la Controriforma cattolica si oppose, per cui vennero accantonati degli elementi che avevano il loro posto prima della divisione dei cristiani. L’elemento personale venne così abbandonato per cedere il posto a quel che si potrebbe chiamare “oggettivismo”. Potremmo menzionare esempi simili in altri campi, come quello della successione apostolica. Questo fece dire un giorno al padre Henri de Lubac: «È un grande male aver appreso il catechismo contro qualcuno». Uno dei mali è senza dubbio l’impoverimento, quel che Congar ha chiamato un «deficit di cattolicità».
Divenire consapevoli del bisogno dei doni e dei carismi delle altre Chiese per una espressione più completa della cattolicità, significa prendere coscienza dell’urgenza dell’ecumenismo. L’ecumenismo non è una questione di diplomazia. Giovanni Paolo II diceva che è uno scambio di doni. Ed è anche la presa di coscienza che tutti i doni che Dio ha elargito al suo popolo sono necessari per far fronte alle nuove sfide. Recentemente, frère Alois, che è succeduto a frère Roger come priore della comunità a Taizé, lanciava questo appello alla riconciliazione dei cristiani: «Come rispondere alle nuove sfide delle nostre società, specie quelle della secolarizzazione e della mutua comprensione tra le culture, senza riunire i doni dello Spirito Santo deposti in tutte le famiglie cristiane?».
Non si può dimenticare che i conflitti e le guerre tra cristiani sorsero proprio nell’epoca in cui un mondo nuovo stava nascendo. Con il rinascimento e i due secoli che seguirono, in particolare con la fine del XVII secolo, assistiamo a quel che Paul Hazard chiamò «la crisi della coscienza europea». Una nuova sensibilità, una nuova coscienza stavano emergendo. Invece di cercare come incarnarvi il Vangelo e la fede in Cristo, i cristiani si lasciarono coinvolgere nelle dispute tra confessioni. La loro assenza nelle questioni nascenti contribuì ad allargare il fossato tra fede e cultura. Questa assenza è stata poi tradotta in “deficit di cattolicità”. Padre Congar descriveva il fenomeno in questo modo: «Ne risultò che un’immensa parte dell’attività umana, tutta una crescita di umanità, di carne umana — la vita moderna con la sua scienza, le sue miserie, le sue grandezze — non ha avuto in se stessa l’Incarnazione del Verbo; la Chiesa non ha dato la sua anima a questo corpo che si estendeva e che doveva, come ogni valore umano, ricevere la comunicazione dello Spirito di Cristo per divenire così il suo corpo e rendere gloria a Dio».
Non fu dunque senza ragione che Papa Giovanni XXIII chiamò i padri Congar e de Lubac come esperti al concilio. E quando si verificarono dei blocchi piuttosto seri nella Commissione incaricata di preparare lo schema sulla Divina Rivelazione, Giovanni XXIII prese allora l’iniziativa di formare una commissione mista con un numero uguale di persone scelte sia nella Commissione dottrinale che nel Segretariato per l’unità dei cristiani. Questo fatto ebbe delle conseguenze considerevoli per il concilio, e si tradusse anche, come egli ebbe a sottolineare, in un modo di concepire l’approfondimento della verità cristiana. Attribuire una tale importanza a un nuovo organismo, come era il Segretariato per l’unità dei cristiani, era un modo per indicare che la Chiesa cattolica desiderava mettersi all’ascolto delle altre confessioni per cercare la verità insieme a loro. Vi è anche la manifestazione di una benevolenza, di una simpatia per quel che l’altro ha da dire e da esprimere.
Quel che sto cercando di esprime-re è in completa consonanza con il bel testo del Gruppo di Dombes intitolato Pour la conversion des Eglises. Cito dal volume la frase seguente: «Quando i cristiani riconoscono che la loro Chiesa confessionale difetta di ecclesialità a motivo della divisione, il processo della conversione ecclesiale e confessionale alla piena cattolicità diviene di nuovo possibile». Il Gruppo di Dombes ha opportunamente sottolineato che «l’identità cristiana non è statica ma dinamica. Essa è decentramento, esodo, passaggio, movimento pasquale. L’identità cristiana è sempre un divenire cristiano. Essa è apertura a un al di là escatologico che la spinge senza sosta in avanti e le impedisce di ripiegarsi su se stessa. Essa è quindi una apertura radicale agli altri, oltre tutti i muri di separazione. Una identità che si fossilizza o si ripiega su se stessa si corrompe e giunge a perdersi. Una identità viva in effetti non si completa mai: essa è sempre in costruzione. Solo l’avvenire svelerà definitivamente la nostra identità». Come ben si esprime lo stesso documento: «Non si tratta, per le confessioni, di perdere l’originalità della propria eredità, ma di potersi aprire alle altre eredità». In questo senso «la conversione è qui costitutiva di una identità che vuole restare viva e semplicemente fedele a se stessa».
Penso ancora alle numerose lettere e testimonianze nelle settimane e nei mesi che seguirono la sua morte. Tante furono le lettere giunte da parte di persone che desideravano esprimere quel che aveva significato per loro un incontro, pur se molto breve, con frère Roger. Molti hanno parlato del suo sguardo, uno sguardo di benevolenza (sinonimo per lui di misericordia) che essi ebbero a sperimentare, e che fece loro percepire, in quello sguardo, qualcosa di diverso dal loro modo usuale di guardarsi. Uno sguardo migliore del loro, che donava desiderio di vivere.
In tale visione della Chiesa, un uomo ebbe a svolgere un ruolo di primo piano, un uomo che frère Roger conobbe assai bene, di nome Giovanni. Si tratta, naturalmente di Papa Giovanni XXIII che frère Roger incontrò più volte. La prima udienza risale ai primi giorni del pontificato di Roncalli. Il cardinale Gerlier, arcivescovo di Lione, che sosteneva fortemente frère Roger, volle che questo incontro avvenisse proprio all’inizio del pontificato di Papa Giovanni, e infatti così avvenne. Frère Roger e frère Max furono ricevuti dal Pontefice il 7 novembre 1958. Altre udienze seguirono, a tal punto significative, che portarono frère Roger a dichiarare che Giovanni XXIII era stato colui che aveva impresso una impronta indelebile alla comunità di Taizé. Per frère Roger, Papa Giovanni incarnava questo spirito di misericordia. Chi non l’ha avvertito? Ancora oggi il visitatore della tomba di Giovanni XXIII ode sussurrare tra la folla — spesso sono i genitori che spiegano ai figli — «questa è la tomba del “Papa buono”».
In questo cinquantesimo anniversario del concilio, è spesso citato il discorso con il quale Papa Roncalli ha inaugurato il Vaticano II. Si deve esserne lieti: ma sorprende constatare come nei mesi e negli anni successivi a questo discorso, la sua ricchezza sia sfuggita anche a uomini di Chiesa che erano stati chiamati a svolgere un ruolo di primo piano nella assise ecumenica. Il che fece sì che alcuni osservassero: ma non vi è un programma in questo concilio!
In realtà, questo discorso era programmatico per il concilio e forse per tutta la Chiesa, per farla entrare in una tappa nuova della sua storia. Questo discorso ha impresso al concilio il suo stile. Ricerche recenti hanno offerto ulteriore conferma di quanto Papa Giovanni XXIII tenesse a questo discorso, pronunciato l’11 ottobre 1962. Egli diceva: «È farina del mio sacco». Ora, in questo discorso, la parola «misericordia» esprimeva il modo in cui il Pontefice vedeva il compito del concilio e il volto che la Chiesa avrebbe dovuto mostrare.
La misericordia crea uno spazio che lascia emergere la verità; se nella vocazione ecumenica questo significa dirigersi verso la più grande verità, verso la pienezza della fede, allora si comprenderà che la misericordia, lo spirito di misericordia è di primaria importanza. Giovanni XXIII ha voluto aprire nuove vie che vanno in questa direzione, specialmente con il concilio Vaticano II, dal quale vennero gli inviti da lui rivolti ai non cattolici che furono chiamati a partecipare al concilio come osservatori. Si sa che la loro presenza ha avuto influenza sulla stesura dei documenti. Il contrasto con le altre epoche è evidente.
La Controriforma cattolica è stata caratterizzata dalla necessità di distinguersi dall’altro, di assumere l’opinione contraria a quella dell’altra confessione. Si è venuta così costituendo una identità artificiale. Se una data confessione afferma la tale verità, allora l’altra confessione si impegnerà subito a sottolineare energicamente l’opposto, con il rischio di sviluppare troppo alcuni elementi della fede trascurando gli altri. Il padre Congar cambiò profondamente la situazione e la comprensione dell’ecumenismo, ponendo la questione ecumenica dentro la questione della cattolicità. Egli comprese che l’ecumenismo non era un ambito particolare. Infatti, è per essere più pienamente se stessa, per vivere pienamente la sua cattolicità che la Chiesa deve essere “una”. Ed è sforzandosi di realizzare in pienezza la grazia della sua cattolicità che la Chiesa compie la sua vera opera ecumenica. Congar ha scritto: «Finalmente, l’ecumenismo non voluto, non espresso, l’ecumenismo nella sua sola dimensione o qualità interna, era il più efficacemente ecumenico». Il fatto di opporsi sistematicamente alla confessione contraria ha causato un impoverimento nella dottrina. Molte realtà esistenti nella Riforma, specie il principio “personale”, esistono anche nella grande tradizione cattolica. Ma poiché la Riforma insisteva su questo punto, la Controriforma cattolica si oppose, per cui vennero accantonati degli elementi che avevano il loro posto prima della divisione dei cristiani. L’elemento personale venne così abbandonato per cedere il posto a quel che si potrebbe chiamare “oggettivismo”. Potremmo menzionare esempi simili in altri campi, come quello della successione apostolica. Questo fece dire un giorno al padre Henri de Lubac: «È un grande male aver appreso il catechismo contro qualcuno». Uno dei mali è senza dubbio l’impoverimento, quel che Congar ha chiamato un «deficit di cattolicità».
Divenire consapevoli del bisogno dei doni e dei carismi delle altre Chiese per una espressione più completa della cattolicità, significa prendere coscienza dell’urgenza dell’ecumenismo. L’ecumenismo non è una questione di diplomazia. Giovanni Paolo II diceva che è uno scambio di doni. Ed è anche la presa di coscienza che tutti i doni che Dio ha elargito al suo popolo sono necessari per far fronte alle nuove sfide. Recentemente, frère Alois, che è succeduto a frère Roger come priore della comunità a Taizé, lanciava questo appello alla riconciliazione dei cristiani: «Come rispondere alle nuove sfide delle nostre società, specie quelle della secolarizzazione e della mutua comprensione tra le culture, senza riunire i doni dello Spirito Santo deposti in tutte le famiglie cristiane?».
Non si può dimenticare che i conflitti e le guerre tra cristiani sorsero proprio nell’epoca in cui un mondo nuovo stava nascendo. Con il rinascimento e i due secoli che seguirono, in particolare con la fine del XVII secolo, assistiamo a quel che Paul Hazard chiamò «la crisi della coscienza europea». Una nuova sensibilità, una nuova coscienza stavano emergendo. Invece di cercare come incarnarvi il Vangelo e la fede in Cristo, i cristiani si lasciarono coinvolgere nelle dispute tra confessioni. La loro assenza nelle questioni nascenti contribuì ad allargare il fossato tra fede e cultura. Questa assenza è stata poi tradotta in “deficit di cattolicità”. Padre Congar descriveva il fenomeno in questo modo: «Ne risultò che un’immensa parte dell’attività umana, tutta una crescita di umanità, di carne umana — la vita moderna con la sua scienza, le sue miserie, le sue grandezze — non ha avuto in se stessa l’Incarnazione del Verbo; la Chiesa non ha dato la sua anima a questo corpo che si estendeva e che doveva, come ogni valore umano, ricevere la comunicazione dello Spirito di Cristo per divenire così il suo corpo e rendere gloria a Dio».
Non fu dunque senza ragione che Papa Giovanni XXIII chiamò i padri Congar e de Lubac come esperti al concilio. E quando si verificarono dei blocchi piuttosto seri nella Commissione incaricata di preparare lo schema sulla Divina Rivelazione, Giovanni XXIII prese allora l’iniziativa di formare una commissione mista con un numero uguale di persone scelte sia nella Commissione dottrinale che nel Segretariato per l’unità dei cristiani. Questo fatto ebbe delle conseguenze considerevoli per il concilio, e si tradusse anche, come egli ebbe a sottolineare, in un modo di concepire l’approfondimento della verità cristiana. Attribuire una tale importanza a un nuovo organismo, come era il Segretariato per l’unità dei cristiani, era un modo per indicare che la Chiesa cattolica desiderava mettersi all’ascolto delle altre confessioni per cercare la verità insieme a loro. Vi è anche la manifestazione di una benevolenza, di una simpatia per quel che l’altro ha da dire e da esprimere.
Quel che sto cercando di esprime-re è in completa consonanza con il bel testo del Gruppo di Dombes intitolato Pour la conversion des Eglises. Cito dal volume la frase seguente: «Quando i cristiani riconoscono che la loro Chiesa confessionale difetta di ecclesialità a motivo della divisione, il processo della conversione ecclesiale e confessionale alla piena cattolicità diviene di nuovo possibile». Il Gruppo di Dombes ha opportunamente sottolineato che «l’identità cristiana non è statica ma dinamica. Essa è decentramento, esodo, passaggio, movimento pasquale. L’identità cristiana è sempre un divenire cristiano. Essa è apertura a un al di là escatologico che la spinge senza sosta in avanti e le impedisce di ripiegarsi su se stessa. Essa è quindi una apertura radicale agli altri, oltre tutti i muri di separazione. Una identità che si fossilizza o si ripiega su se stessa si corrompe e giunge a perdersi. Una identità viva in effetti non si completa mai: essa è sempre in costruzione. Solo l’avvenire svelerà definitivamente la nostra identità». Come ben si esprime lo stesso documento: «Non si tratta, per le confessioni, di perdere l’originalità della propria eredità, ma di potersi aprire alle altre eredità». In questo senso «la conversione è qui costitutiva di una identità che vuole restare viva e semplicemente fedele a se stessa».
Nessun commento:
Posta un commento