Il mondo visto da Aparecida
Nuovo tweet del Papa:
"Tutti noi siamo vasi d’argilla, fragili e poveri, ma nei quali c’è il tesoro immenso che portiamo"
(9 agosto 2013)
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Riflessioni sul viaggio in Brasile di Papa Francesco.
(Lucetta Scaraffia) Con il passare dei giorni si può riflettere con più calma sul viaggio di Papa Francesco in Brasile e leggerne i molteplici significati. In primo luogo, colpisce una somiglianza con il pontificato di Benedetto XVI: anche per Joseph Ratzinger, infatti, il primo viaggio internazionale avviene per una giornata mondiale della gioventù, a Colonia, e gli offre l’occasione di tornare nel Paese natale, in Germania. Oggi, però, non si tratta soltanto di un Paese, ma di una parte del mondo, e il significato di nuovo inizio è ancora più forte, dal momento che si tratta di una terra molto lontana da Roma.
Per Papa Francesco la partecipazione alla giornata mondiale della gioventù costituiva anche l’ultima occasione di ottemperare un impegno preso dal suo predecessore: da questo momento, infatti, i viaggi saranno solo suoi. Ma il destino — nell’ottica della fede, lo Spirito — ha voluto che l’ultimo atto legato a Benedetto permettesse a Francesco di aprire al futuro, rivelando il documento programmatico del suo pontificato che, per la prima volta nella storia, è nato ed è stato sperimentato in un continente diverso dall’Europa, da vescovi che avevano di fronte problemi ben diversi da quelli del mondo cosiddetto “avanzato”: il programma di Aparecida.
Se già a Lampedusa il Papa aveva parlato di una globalizzazione cattiva, alla quale si deve rispondere con una globalizzazione buona, dal santuario di Aparecida questa scelta positiva prende corpo e anima. La Chiesa cattolica — come indica il suo stesso nome, che significa “universale” — di globalizzazione s’intende da quasi duemila anni, ma questa volta, pur rimanendo a Roma, Francesco ha spostato il punto di vista da dove la Chiesa deve guardare, e si tratta di una rivoluzione strategica di non poco conto.
Certo, a molti europei può apparire un nuovo declassamento del “vecchio continente”, ma non si devono chiudere gli occhi davanti alla necessità di rispondere a una globalizzazione che porta ovunque una cultura dell’utilità e del profitto, elaborata dall’Occidente, che ha fatto perdere di vista la centralità dell’essere umano. E la risposta cattolica può avvenire solo attingendo dalla parte delle vittime di questa globalizzazione. Che ovviamente vedono il mondo in un altro modo, che segnalano come primarie altre necessità, che agiscono come una ventata di rinnovamento in un mondo che sembrava affrontare la crisi economica in modo cieco e immobile.
Qualcosa di simile è avvenuto già al tempo della Riforma, quando la scoperta dell’America e poi i viaggi in Asia hanno aperto nuovi immensi spazi di evangelizzazione al cattolicesimo che stava perdendo una fetta di Europa. Poi di nuovo nel XIX secolo, quando la Chiesa bastonata dalla Rivoluzione francese, dai nazionalismi e dai liberalismi ha trovato nuova vita nelle missioni, che si espandevano grazie ai moderni mezzi di trasporto e davano occasione di testimoniare fino in fondo la fraternità cristiana.
Mentre il colonialismo si esprimeva in razzismo verso i popoli conquistati, infatti, la Chiesa cattolica apriva la carriera ecclesiastica ad asiatici prima e ad africani poi, con il risultato di trovarsi, nel corso del XX secolo, a essere l’unica istituzione che poteva contare in ogni parte del mondo su una élite locale. E oltre un secolo prima, mentre i leader occidentali visitavano Francia e Inghilterra o al massimo gli Stati Uniti, il futuro Pio IX viaggiava per più di due anni in America meridionale, facendosi un’idea precisa delle condizioni di quel mondo.
La dimensione mondiale è quella che ha sempre salvato la Chiesa, le ha dato il respiro necessario a pensare in grande, e sul lungo periodo. È questo l’unico modo per sfuggire, senza perdere la propria identità, all’autoreferenzialità che è stata imputata alla cultura cattolica europea degli ultimi decenni. Il segnale che Papa Francesco ha dato da Aparecida è nuovo, ma è anche un ritorno al passato più glorioso della storia della Chiesa, quando questa istituzione sapeva respirare a pieni polmoni, e liberamente.
L'Osservatore Romano
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