Santa Maria,

Santa Maria,
...donna del primo sguardo, donaci la grazia dello stupore.

martedì 20 agosto 2013

Meeting di Rimini 2013 "Uomo Vivo" & " fratel Biagio Conte "


Giovanni Fighera su GKC su La Nuova Bussola Quotidiana

articoli-ripartire-dall'umano con-padre-brown






Lo scrittore inglese G.K. Chesterton è senz'altro uno dei protagonisti del Meeting di Rimini 2013. A lui è dedicata una mostra, uno spettacolo teatrale e la presentazione della nuova edizione italiana del suo romanzo "Uomo Vivo" (Manalive), ad opera dell'editrice Lindau. in un appuntamento dedicato all'«Emergenza uomo» risalta l'opera di uno scrittore che ha avuto la capacità di leggere l'umano nel profondo. Come dimostrano, ad esempio, i racconti di padre Brown. 

Ogni volta che si legge un racconto di Chesterton su padre Brown, il lettore riparte da zero, come se da ogni fatto derivasse tutto il resto: ex uno omnia. Non orpelli inutili o abbellimenti fini a se stessi, ma tanta essenzialità, acuta intelligenza, vivo spirito di osservazione caratterizzano le storie del minuto prete cattolico, «ingenuo e impacciato all’apparenza», che cerca non il «criminale da punire, ma l’uomo da far ricredere e l’anima da recuperare». Il piccolo prete è «l’essenza di quelle pianure dell’Essex», ha «il volto rotondo e inespressivo come gli occhi di Norfolk, gli occhi incolori come il Mare del Nord». Quella che all’apparenza è la «stupidità essexiana» nasconde, in realtà, una «santa semplicità», una viva perspicacia e un segreto che molti gli invidiano. 

Qual è il segreto di Padre Brown? È lui stesso a rivelarlo: «Io non cerco di guardare l’uomo dall’esterno, cerco di penetrare nell’interno dell’assassino… Anzi, molto di più, non vi pare? Sono dentro un uomo. Io vi sono sempre dentro e gli muovo le braccia e le gambe, ma aspetto di essere dentro un assassino, attendo finché penso i suoi stessi pensieri e lotto con le sue stesse passioni, […] finché vedo il mondo con i suoi occhi torvi iniettati di sangue» (da «Il segreto di padre Brown»). 

Conoscere il male altrui è conoscere il proprio male, capire il male di cui noi tutti siamo capaci. Sentiamo come Padre Brown spiega l’umano: «Nessun uomo può essere veramente buono finché non conosce la propria malvagità o quella che potrebbe avere: finché non ha esattamente compreso quale diritto abbia di esprimere tutti quei giudizi e questo disprezzo, e di parlare di “criminali” come fossero scimmie in una foresta lontana mille miglia». 

Il prete difende ad oltranza la ragione: «La ragione è sempre ragionevole, anche nell’ultimo limbo, anche al limite estremo delle cose». E per le stesse ragioni è un grande paladino e difensore della Chiesa: «So bene che si accusa la Chiesa di abbassare la ragione, ma è il contrario, invece. Sola sulla terra la Chiesa fa la ragione veramente suprema. Sola sulla terra la Chiesa afferma che Dio stesso è legato alla ragione». 

Che ne pensa allora Padre Brown del razionalismo imperante ai suoi tempi come ai nostri? Che ne pensa un investigatore come lui dei miracoli? «Il fatto più incredibile nei miracoli è che accadono veramente» (da «La croce azzurra»).

La riflessione sui misteri criminali si mescola nei racconti con la profonda meditazione sui misteri più alti e profondi dell’uomo tanto che lo stesso Antonio Gramsci in carcere leggeva i racconti di Chesterton ritenendoli decisamente superiori alle storie di uno scrittore mediocre come Conan Doyle. L’investigatore Flambeau, personaggio di molti racconti di Padre Brown, manifesterà tutta la sua stima per il prete dell’Essex: «Consideriamo il vostro successo nel caso dell’assassinio di Moonshine come il più grande trionfo della storia della scienza poliziesca […]. Ci pare che per molti motivi ci sia un’evidente differenza tra il vostro metodo di indagine e quello degli altri investigatori, siano fittizi o reali. Qualcuno anzi ha osservato che la differenza di metodo può mascherare piuttosto l’assenza di metodo». 

Di fronte ad una scienza asettica che ostenta una disciplina sempre più specialistica e distaccata padre Brown utilizza l’unico metodo possibile per comprendere i fatti: ripartire dall’umano.
G. Fighera

Storia di Biagio

Fratel Biagio al Meeting di Rimini

«Sta pregando»: i volontari del Banco Farmaceutico che lo hanno invitato al Meeting di Rimini per una testimonianza, mi fermano quando faccio per entrare nel piccolo stanzino all’interno dello stand. Ho solo mezz’ora disponibile per l’intervista e i minuti volano via, mangiati nell’attesa che concluda la preghiera in quello spazio improbabile ricavato nei padiglioni della Fiera di Rimini. Eppure è il momento più importante dell’intervista, perché è ciò che meglio descrive fratel Biagio Conte, un uomo che, a causa della conversione, a Palermo in venti anni ha messo in piedi tre diverse strutture che ospitano e danno un futuro a senzatetto, stranieri dirottati qui da Lampedusa, donne abbandonate e ragazze madri. Alloggi, terreni da coltivare e altre attività artigianali per lavorare e vivere. 

Ma tutto ciò ha un’origine, una fonte che si chiama Cristo. Altrimenti, come direbbe papa Francesco, saremmo come una organizzazione non governativa. Ma la Chiesa è altro, è molto di più: la risposta al bisogno di pane, di un tetto, di un lavoro porta con sé la risposta al bisogno più grande che tutti abbiamo: quello della felicità, del significato della nostra vita, delle ragioni per cui vivere.

E quando fratel Biagio finalmente esce da quello stanzino quella risposta ce l’ha stampata in faccia, è il suo volto trasformato da quel Cristo con cui si è intrattenuto fino a un attimo prima. Un volto gioioso, occhi azzurri pieni di luce, una lunga barba nera e un aspetto da profeta dell’Antico Testamento: una veste di tessuto grezzo color verde marcio sotto un mantello di un verde ancora più scuro che gli copre anche il capo; un lungo bastone cui si appoggia per camminare e un grosso rosario che gli esce dal fianco destro. Anche San Francesco ai suoi tempi doveva apparire un po’ in questo modo. 

Saluta, stringe le mani, gente arrivata da Palermo lo viene a salutare; quando arriviamo a cominciare l’intervista il tempo non è più molto, ma l’essenziale lo abbiamo già visto. Ma come è accaduto? “Mi hanno sempre colpito le immagini degli ultimi, i poveri, i soli, i più deboli – comincia a raccontare fratel Biagio -, mentre io pensavo alle cose del mondo, alla moda, al consumismo. Mi colpiva fortemente vedere questa grande sofferenza  delle persone nella città, i tanti senzatetto, i bambini che giocavano fra i detriti. Addirittura ho cominciato a sentirmi in colpa perché mi lasciavo trascinare dall’egoismo e dall’indifferenza che domina questa società”.

Indifferenza evidentemente non molto perché quelle immagini di povertà lo seguono continuamente, lo assillano e lo fanno diventare insofferente, triste, depresso.  “Qualcosa facevo - prosegue - davo il mio obolo, ma non mi sporcavo le mani, non mi donavo. Questa è la svolta, il buon Dio mi ha fatto capire che una società che lascia indietro i più deboli non è una società giusta, prima o poi esplode”.
Biagio ha 26 anni, ricerca disperatamente la verità: “Credevo che la risposta venisse dalla scienza, dall’arte, ero un appassionato d’arte”, ma gli mancava il donarsi, come ripete più volte, gli mancava qualcosa che prendesse tutta la sua vita. 

Così all’improvviso, o forse per logica conseguenza, la decisione: il 5 maggio 1990 molla tutto, lascia la sua casa e senza dire nulla da Palermo prende la direzione opposta al mare, va verso l’interno della Sicilia, sulle montagne. Vive da eremita per quasi nove mesi. I suoi non lo trovano – e lo cercano anche a “Chi l’ha visto?” – ma lui pian piano ritrova se stesso: “Il buon Dio mi ha fatto percorrere la strada che mi ha cambiato, ho riscoperto la pace, la vera libertà, ho assaporato la vera libertà, non quella che nella nostra società porta alla droga, all’alcol e cose del genere. Il silenzio, il rapporto con la natura mi ha portato a riscoprire me stesso”. 

Ecco allora che Biagio parte, altri cinque mesi, stavolta in cammino a piedi attraverso la Sicilia, la Calabria, su su fino ad Assisi, “incontrando i poveri, i vagabondi, gli anziani soli; mi aiutavano i contadini, i pastori”. Poi Assisi, “e qui sento di lasciare ogni cosa materialistica, sento Gesù che mi invita: Seguimi. E io lo seguo, la mia vita è la missione”.

Biagio è un uomo nuovo, diventa fratel Biagio, come Francesco otto secoli prima. Ridiscende l’Italia, convinto di andare in Africa ma arrivato a Palermo - 14 mesi dopo aver lasciato la casa paterna - gli si ripresentano tutti quei volti di poveri e deboli che lo avevano tormentato anni prima e capisce che la sua missione è qui. Ma non torna a casa, neanche un giorno. Comincia la sua nuova vita dalla stazione di Palermo, porta del latte caldo, panini, coperte, ma soprattutto quelli che per tutti sono vagabondi “io li ho chiamati fratelli e sorelle”. E nasce una familiarità.

Con i poveri però, non certo con le autorità, che nel migliore dei casi lo scambiano per un altro barbone, ma vedono con diffidenza e ostilità questo suo mettere insieme i “barboni”. “Ma ogni volta che mi offendevano e mi umiliavano, così come facevano con i miei fratelli, mi rafforzavano”.

E allora, dopo mesi di sofferenza e di condivisione della sofferenza, scrive a tutte le autorità, fa digiuni, alla fine ottiene i primi locali per cominciare una comunità. E’ l’inizio di una storia che dura da oltre venti anni ed è diventata un modello di accoglienza. Per gli oltre mille “fratelli e sorelle” accolti nelle sue case ci sono 500 volontari, associazioni e parrocchie che si danno il cambio per aiutare e organizzazioni che forniscono almeno una parte dei mezzi necessari. Come il Banco Farmaceutico, che ha portato fratel Biagio al Meeting di Rimini, e fornisce alla sua opera una parte dei farmaci donati durante la Giornata Nazionale di Raccolta del farmaco e di quelli che arrivano attraverso le donazioni aziendali.

Ma fratel Biagio non è solo neanche a sostenere questa opera nelle sue fondamenta: ora ha un sacerdote e altri fratelli e sorelle, un nuovo ordine religioso che lentamente sta prendendo forma e che per ora ha il nome della sua opera, Missione Speranza e Carità. Fratelli e sorelle che, come lui, hanno lasciato tutto per servire Cristo nei più deboli, in quelli che una società ingiusta ha lasciato indietro andando incontro alla sua rovina. L’origine della crisi, come lascia intendere fratel Biagio, ma “non è vero che è troppo tardi”, dice, “bisogna rialzare questa società”. Lui un motto ce l’ha: “Sbracciati e datti da fare”, ripete più volte. “C’è tanto da fare, è proprio nella crisi che bisogna mettersi insieme; basta poco, uniamo le forze”. Ma soprattutto “affidiamoci alla Provvidenza”, che è quella che ha permesso la “Missione Speranza e Carità”: dal niente della strada all’opera modello che è oggi.  

Del resto a ognuno di noi è affidato un compito. Come riconoscerlo? “In ognuno di noi c’è un eremita – mi dice fratel Biagio prima di lasciarmi -, ma bisogna staccare la spina. Se non staccavo la spina tutto questo non l’avrei scoperto”.
R. Cascioli

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