Santa Maria,

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lunedì 11 febbraio 2013

Il Papa ha annunciato oggi la sua rinuncia al ministero petrino. <> Un uomo mai stato così grande



Il futuro di Dio





Giovanni Maria Vian: "Il futuro di Dio"




 È un avvenimento senza precedenti, e che di conseguenza ha subito fatto il giro del mondo, la rinuncia di Benedetto XVI al papato. Come lo stesso Pontefice ha annunciato con semplice solennità davanti a un gruppo di cardinali, dalla sera del 28 febbraio la sede episcopale di Roma sarà vacante e subito dopo verrà convocato il conclave per eleggere il successore dell’apostolo Pietro. Così è specificato nel breve testo che il Papa ha composto direttamente in latino e che ha letto in concistoro.
La decisione del Pontefice è stata presa da molti mesi, dopo il viaggio in Messico e a Cuba, in un riserbo che nessuno ha potuto infrangere, e avendo «ripetutamente esaminato» la propria coscienza «davanti a Dio» (conscientia mea iterum atque iterum coram Deo explorata), a causa dell’avanzare dell’età. Benedetto XVI ha spiegato, con la chiarezza a lui propria, che le sue forze «non sono più adatte per esercitare in modo adeguato» il compito immane richiesto a chi viene eletto «per governare la barca di san Pietro e annunciare il Vangelo».
Per questo, e soltanto per questo, il Romano Pontefice, «ben consapevole della gravità di questo atto, con piena libertà» (bene conscius ponderis huius actus plena libertate) rinuncia al ministero di vescovo di Roma affidatogli il 19 aprile 2005. E le parole che Benedetto XVI ha scelto indicano in modo trasparente il rispetto delle condizioni previste dal diritto canonico per le dimissioni da un incarico che non ha paragoni al mondo per il peso reale e l’importanza spirituale.
È risaputo che il cardinale Ratzinger non ha in alcun modo cercato l’elezione al pontificato, una delle più rapide nella storia, e che l’ha accettata con la semplicità propria di chi davvero affida la propria vita a Dio. Per questo Benedetto XVI non si è mai sentito solo, in un rapporto autentico e quotidiano con chi amorevolmente governa la vita di ogni essere umano e nella realtà della comunione dei santi, sostenuto dall’amore e dal lavoro (amore et labore) dei collaboratori, e sorretto dalla preghiera e dalla simpatia di moltissime persone, credenti e non credenti.
In questa luce va letta anche la rinuncia al pontificato, libera e soprattutto fiduciosa nella provvidenza di Dio. Benedetto XVI sa bene che il servizio papale, «per la sua essenza spirituale», può essere compiuto anche «soffrendo e pregando», ma sottolinea che «nel mondo di oggi, soggetto a rapidi mutamenti e agitato da questioni di grande rilevanza per la vita della fede» per un Papa «è necessario anche il vigore, sia del corpo, sia dell’animo», vigore che in lui va naturalmente scemando.
Nelle parole rivolte ai cardinali, prima stupiti e poi commossi, e con la sua decisione che non ha precedenti storici paragonabili, Benedetto XVI dimostra una lucidità e un’umiltà che è innanzi tutto, come ha spiegato una volta, aderenza alla realtà, alla terra (humus). Così, non sentendosi più in grado di «amministrare bene» il ministero affidatogli, ha annunciato la sua rinuncia. Con una decisione umanamente e spiritualmente esemplare, nella piena maturità di un pontificato che, fin dal suo inizio e per quasi otto anni, giorno per giorno, non ha smesso di stupire e che certo lascerà una traccia profonda nella storia. Quella storia che il Papa legge con fiducia nel segno del futuro di Dio.
g.m.v.

L'Osservatore Romano, 12 febbraio 2013.


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Dimissioni del Papa. Il mondo esprime sorpresa e rispetto




La notizia della rinuncia di Benedetto XVI al pontificato ha fatto in poco tempo il giro del mondo, monopolizzando i siti internet dei giornali e le dirette televisive e catalizzando l’attenzione del web, come dimostra il fatto che sia subito balzata al primo posto nelle tendenze mondiali di twitter. Mentre in ogni luogo del pianeta si commenta l’avvenimento, da tutte le capitali giungono attestati di stima e di riconoscenza per l’opera del Pontefice.Di «straordinario coraggio e straordinario senso di responsabilità» ha parlato il presidente della Repubblica italiana, Giorgio Napolitano, il quale ha aggiunto che nel loro ultimo colloquio traspariva come Benedetto XVI «fosse provato e consapevole di una fatica difficilmente sostenibile».
All’uscita dalla Sala del Concistoro, il cardinale Angelo Bagnasco, presidente della Conferenza episcopale italiana, ha definito quella del Papa una decisione «che lascia con animo carico di dolore e di rincrescimento», sottolineando che «ancora una volta Benedetto XVI ha offerto esempio di profonda libertà interiore» e assicurando «la profonda gratitudine e l’affettuosa vicinanza dei vescovi italiani per l’attenzione costante che ha avuto per il nostro Paese e per la guida sicura e umile con cui ha indirizzato la barca di Pietro».
Il cancelliere tedesco, Angela Merkel, ha detto che si tratta di «una notizia che emoziona e suscita il mio più grande rispetto». Merkel ha ricordato inoltre gli incontri personali avuti con Benedetto XVI a Roma e in Germania, in occasione del viaggio del Pontefice nella sua terra natale nel settembre 2011. «Indimenticabile per me — ha detto il cancelliere federale — resta il discorso che il Papa ha tenuto davanti al Parlamento tedesco, quando sottolineò il compito fondamentale di noi politici: servire il diritto e difendersi dal dominio dell’ingiustizia». È stato — ha concluso — «un grande momento per il nostro Parlamento. E personalmente le parole del Papa mi accompagneranno ancora a lungo».
Di decisione «altamente rispettabile» ha parlato il presidente francese, François Hollande. La Repubblica — ha aggiunto — «saluta il Papa che prende questa decisione».
Da Londra, il primo ministro britannico, David Cameron, ha scritto in una nota di volere inviare i suoi migliori auguri al Papa dopo il suo annuncio di oggi. Il premier ha sottolineato che Benedetto XVI «mancherà come capo spirituale a milioni di persone» e ha evidenziato il suo operare «senza sosta per rafforzare i legami tra Gran Bretagna e Santa Sede».
L’arcivescovo di Canterbury, Justin Welby, primate della Comunione anglicana, ha spiegato di aver accolto con «cuore pesante e completa comprensione» la decisione di Joseph Ratzinger di lasciare il ministero di vescovo di Roma, un ruolo — ha detto — «ricoperto con grande dignità, visione e coraggio». Il primate della Comunione anglicana ha rigraziato Dio per la vita di Benedetto XVI «profondamente dedicata, in parole e opere, nella preghiera e nel servizio dispendioso, alla sequela di Cristo».
Il Patriarcato ortodosso di Mosca ha ricordato la «dinamica positiva» che Benedetto XVI ha garantito nei rapporti ecumenici e ha auspicato che tale dinamica continui anche col suo successore.
Il portavoce della Chiesa copta egiziana, il vescovo Angelos, ha rivolto a Benedetto XVI espressioni di stima e rispetto, sostenendo che «in quanto religioso il Papa ha assunto un ruolo importante per l’estensione della pace e la rinuncia alla violenza», e ne ha sottolineato la «visione chiara, saggia e profonda».
Yona Metzger, rabbino capo di Israele, ha lodato il Papa per l’impronta data al dialogo tra le religioni. «Nel corso del suo pontificato — ha detto — abbiamo registrato le migliori relazioni da sempre tra Chiesa cattolica e gran rabbinato e auspichiamo che questa tendenza continui. Credo che questo Papa meriti tanto credito per i progressi fatti nel dialogo tra giudaismo, cristianesimo e islamismo. Auguriamo al Papa buona salute e lunga vita».
Vicinanza e rispetto a Benedetto XVI «per la sofferta e coraggiosa decisione» ha espresso il presidente dell’Unione delle comunità ebraiche italiane, Renzo Gattegna, il quale ha ricordato come «estremamente significativi» i passi compiuti dal Papa durante il suo magistero «per l’avvicinamento tra ebrei e cristiani nel solco dei valori comuni». Analoghe espressioni di stima sono giunte dal rabbino capo di Roma, Riccardo Di Segni.
Di scelta coraggiosa e da rispettare ha infine parlato Izzedin Elzir, presidente dell’Unione delle comunità islamiche d’Italia.

L'Osservatore Romano, 12 febbraio 2013.



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Dall’età tardoantica a oggi tutte le volte che un Papa ha rinunciato (o dovuto rinunciare) al suo ministero. Scesi dal soglio di Pietro




La risposta di Benedetto XVI nel libro-intervista Luce del mondo, era stata esplicita. Alla domanda del giornalista Peter Seewald («Quindi è immaginabile una situazione nella quale lei ritenga opportuno che il Papa si dimetta?») aveva detto «Sì. Quando un Papa giunge alla chiara consapevolezza di non essere più in grado fisicamente, mentalmente e spiritualmente di svolgere l’incarico affidatogli, allora ha il diritto e in alcune circostanze anche il dovere di dimettersi».In verità, la ricostruzione storica dei casi in cui si è interrotto un pontificato prima della morte del Papa, ci riconduce a pochissime figure e in nessun caso a una situazione come quella che si è verificata con la decisione di Benedetto XVI.
Agli albori della Chiesa, quando ancora la predicazione degli apostoli era realtà viva e ricordata per testimonianza diretta, troviamo la figura di Papa Clemente: nella lista dei vescovi di Roma stilata da Ireneo di Lione indicato come terzo successore di Pietro dopo Lino e Anacleto. Le fonti non sono univoche nel ricostruire una data esatta del suo Pontificato: secondo Eusebio di Cesarea sarebbe succeduto ad Anacleto nel dodicesimo anno di Domiziano, cioè nell’anno 92 (Historia Ecclesiastica, III, 15). Ma Girolamo riporta, oltre a questa, anche la tradizione che voleva Clemente come successore immediato di Pietro. Epifanio di Salamina si chiedeva come mai un contemporaneo degli apostoli fosse subentrato solo più tardi nell’episcopato romano e ipotizza che gli apostoli possano aver ordinato chi li sostituisse nel governo della Chiesa romana mentre loro erano impegnati nel ministero apostolico. Epifanio immagina, sulla base della lettera della Chiesa dei Romani a quella dei Corinzi (cfr. 54, 2) — tradizionalmente attribuita a Clemente anche se, in realtà, il fatto non è documentato, e nella quale si esortano i più generosi ad allontanarsi piuttosto che suscitare sedizioni, divisioni e discordie — che in questo passo si rifletta una situazione personale dell’autore il quale, per non suscitare problemi all’interno della comunità, si sarebbe astenuto dall’esercitare le funzioni episcopali finché non vi fu costretto alla morte di Pietro, di Lino e di Cleto.
Siamo però in un ambito in cui il condizionale è d’obbligo e le notizie mancano del necessario fondamento storico. Anche perché — è l’orientamento degli studi attuali — almeno fino al II secolo la guida della Chiesa di Roma sembra vedere come protagonista un collegio di presbiteri piuttosto che una figura prevalente.
Da Clemente si passa a Ponziano. Diciottesimo vescovo della Chiesa di Roma, la data di inizio del suo episcopato va fissata, per congettura, al 230. La fonte più attendibile, il Catalogo liberiano, stabilisce la durata del suo ministero in cinque anni, due mesi e sette giorni. Nel 235 Ponziano fu deportato in Sardegna insieme con il presbitero Ippolito. La durezza del provvedimento risulta dal testo dalla specificazione: in insula nociva, formula che probabilmente intende il clima insalubre e la condanna ai lavori forzati in miniera. Il catalogo ricorda quindi la data della rinuncia di Papa Ponziano alla carica, rinuncia espressa con il termine tecnico discinctus est (cfr. Thesaurus linguae Latinae, V, 1, Lipsiae 1909-34, col. 1316), avvenuta in Sardegna (in eadem insula) il 28 settembre e l’ordinazione, come successore, di Antero il 21 novembre.
Ponziano, come ipotizza l’Enciclopedia dei Papi, «potrebbe essere stato spinto da un ammirevole realismo, avendo dato per certo che non sarebbe uscito vivo dalla deportazione, e che l’assenza di un pastore avrebbe nuociuto al gregge. Ma circostanze particolari potrebbero averlo indotto a un gesto di forte significato simbolico. Se il presbitero Ippolito esiliato con lui, sia o meno da identificare con l’autore dell’Èlenchos, fosse stato il capo spirituale di una comunità romana dissidente con l’orientamento in quel momento maggioritario rappresentato da Ponziano, il gesto di quest’ultimo acquisterebbe ulteriore spessore in quanto teso a favorire o sancire una riconciliazione. E se ci si volesse spingere oltre nel campo della congettura l’elezione a Roma di Antero, un greco di origine orientale, come dovrebbe essere stato Ippolito, avrebbe il sapore di una ulteriore apertura alla riunione delle varie componenti della comunità romana».
Con un salto di circa tre secoli si giunge a Papa Silverio. Alla morte del padre (Papa Ormisda) nel 523, ne compose l’epitaffio, oggi perduto, nel quale celebrava i tentativi di riconciliazione con l’Oriente e il ritorno dell’Africa alla libertà. Non è noto se all’epoca Silverio fosse già entrato nel clero, poiché l’iscrizione non porta alcun titolo, ma si sa che quando giunse la morte di Papa Agapito, avvenuta a Costantinopoli il 22 aprile 536, egli era suddiacono della Chiesa di Roma.
La sua candidatura al soglio pontificio, imposta da re Teodato, secondo il cronista del Liber pontificalis suscitò un diffuso malumore tra il clero, come reazione al rango modesto del candidato nella gerarchia ecclesiastica. Era la prima volta che un suddiacono accedeva al pontificato. Silverio si impegnò nella lotta contro i monofisiti nel concilio che si svolse dal 2 al 4 giugno del 536, durante il quale fu condannato in contumacia Antimo, che fu deposto dalla sua sede di Trebisonda. Questa politica di repressione del monofisismo indispose l’imperatrice Teodora, che decise la rovina di Silverio inviando una lettera al generale Belisario nella quale gli intimava di deporre il Papa.
Belisario obbedì convocando i presbiteri, i diaconi e tutto il clero affinché eleggessero Vigilio, che fu consacrato il 29 marzo 537, sebbene il Liber pontificalis lo designi come diacono fino alla morte del suo predecessore. Secondo la stessa fonte Silverio fu confinato nell’isola di Palmarola, una delle Pontine, e ridotto alla stato monastico. Liberato parla invece di un primo esilio a Patara, in Licia, mostrando una relativa concordanza con Procopio, il quale riferisce che Belisario mandò il Papa accusato di tradimento «in Grecia».
In tutt’altra epoca si inquadra Benedetto IX, al secolo Teofilatto dei conti di Tuscolo, regnante tra l’ottobre del 1032 e il settembre del 1044. A lui toccò di rappresentare il segno della assoluta mondanizzazione e strumentalizzazione del potere papale. Nella sua complessa vicenda il Pontefice fu espulso da Roma, dove rientrò prima di essere definitivamente sconfitto. Incerta la data di nascita e l’esatta posizione della genitura, si può comunque dire che non fosse fanciullo al momento dell’elezione, come sostenuto a lungo. Gli Annales Romani riportano che nel 1044 a Roma scoppiò una rivolta contro il Papa che venne cacciato. Subito dopo venne eletto il vescovo di Sabina Giovanni, che prese il nome di Silvestro III, il quale dopo 49 giorni venne a sua volta rimosso da Benedetto IX che tornò sul soglio pontificio.
In carica Benedetto IX vi rimase dal 10 marzo al 1° maggio del 1045, quando cedette l’incarico a Giovanni Graziano, che divenne Pontefice con il nome di Gregorio VI.
La successione era avvenuta con un meccanismo usuale, dati i tempi, quello dell’acquisto per denaro. Anche il nuovo Papa non restò a lungo sul soglio: sceso in Italia nell’autunno del 1046, Enrico III riunì un concilio a Sutri, invitando i tre Pontefici che erano stati protagonisti delle vicende degli ultimi due anni. Silvestro III non si presentò. Gregorio VI, unico presente, riconobbe la sua colpa, pur nell’affermazione della sua buona fede. Nemmeno Benedetto IX si presentò e nel concilio romano immediatamente successivo, nel Natale del 1046, fu dichiarato deposto dal nuovo Pontefice Clemente II. Ma dopo la morte improvvisa di Clemente, il 9 ottobre 1047, Benedetto IX riuscì a tornare ancora sul soglio di Pietro, forte dell’appoggio di Bonifacio di Canossa, e sfruttando la lontananza dall’Italia di Enrico III. Durò però poco. Enrico chiese a Bonifacio di scortare a Roma il nuovo Pontefice scelto da lui stesso, Poppone di Bressanone che assunse il nome di Damaso II. Dopo un’iniziale riluttanza Bonifacio dovette cedere alle minacce del sovrano e accompagnò a malincuore il Papa germanico nella città eterna, determinando l’allontanamento definitivo di Benedetto IX, che si rifugiò tra i castelli della Sabina. Qui Teofilatto continuò a considerarsi in carica in uno sdegnoso ritiro.
Dopo il caso di Celestino V del quale scriviamo in questa pagina, si arriva così all’ultimo Pontefice che lasciò il soglio di Pietro. Angelo Correr, figlio del patrizio veneziano Nicolò di Pietro, Papa dal 1406 al 1415 con il nome di Gregorio XII, dimettendosi da vicario di Pietro (ma su richiesta del concilio di Costanza) cercò di avviare verso la soluzione un groviglio di problemi straordinariamente complesso: anni di lotte e di contese giuridiche, belliche e diplomatiche con gli antipapi Benedetto XIII, espressione della fazione avignonese, e Giovanni XXIII (nome che verrà poi riutilizzato da Papa Roncalli) durante lo scisma d’Occidente.
Nel marzo 1415 aveva nominato Carlo Malatesta suo procuratore, delegando nel contempo propri rappresentanti con la potestà di convocare a suo nome il concilio. Se l’assemblea conciliare avesse accettato tale procedura Gregorio sarebbe apparso come l’unico Papa legittimo; si trattava di un riconoscimento formale, ma importante. Il concilio ritenne comunque opportuno accogliere la richiesta, destinata a spianare la via all’unità. Così il 4 luglio 1415 il cardinale Dominici lesse la bolla di convocazione del concilio, dopodiché il Malatesta dette l’annuncio ufficiale dell’abdicazione di Gregorio XII. Il concilio aveva deciso di conferire a Gregorio XII il titolo di cardinale vescovo di Porto con il primo rango dopo il Papa e la nomina vitalizia di legato per la Marca di Ancona. Di quanto era avvenuto a Costanza il 4 luglio 1415 ebbe notizia il 19 luglio e il giorno seguente, nell’ultimo concistoro che volle convocare, si spogliò dei simboli del potere papale rivestendo l’abito cardinalizio. Dal gennaio 1416, tornato Angelo Correr, visse a Recanati dove si spense il 18 ottobre 1417. L’11 novembre di quello stesso anno, con l’elezione di Oddone Colonna che assunse il nome di Martino V, il grande scisma era definitivamente riassorbito.

L'Osservatore Romano, 12 febbraio 2013.




«La decisione del Papa presa già da molti mesi. Una decisione libera e fiduciosa nella provvidenza di Dio»
 




Carissimi Fratelli,
vi ho convocati a questo Concistoro non solo per le tre canonizzazioni,

ma anche per comunicarvi una decisione di grande importanza per la vita della Chiesa.

Dopo aver ripetutamente esaminato la mia coscienza davanti a Dio, sono pervenuto alla certezza che le mie forze,
per l’età avanzata, non sono più adatte per esercitare in modo adeguato il ministero petrino.
Sono ben consapevole che questo ministero, per la sua essenza spirituale,
deve essere compiuto non solo con le opere e con le parole, ma non meno soffrendo e pregando.
Tuttavia, nel mondo di oggi, soggetto a rapidi mutamenti e agitato da questioni di grande rilevanza per la vita della fede,
per governare la barca di san Pietro e annunciare il Vangelo, è necessario anche il vigore sia del corpo, sia dell’animo,
vigore che, negli ultimi mesi, in me è diminuito in modo tale da dover riconoscere
la mia incapacità di amministrare bene il ministero a me affidato.
Per questo, ben consapevole della gravità di questo atto,
con piena libertà,
dichiaro di rinunciare al ministero di Vescovo di Roma, Successore di San Pietro,
a me affidato per mano dei Cardinali il 19 aprile 2005, in modo che,
dal 28 febbraio 2013, alle ore 20,00, la sede di Roma, la sede di San Pietro, sarà vacante
e dovrà essere convocato, da coloro a cui compete, il Conclave per l’elezione del nuovo Sommo Pontefice.
Carissimi Fratelli, vi ringrazio di vero cuore per tutto l’amore e il lavoro
con cui avete portato con me il peso del mio ministero,
e chiedo perdono per tutti i miei difetti.
 Ora, affidiamo la Santa Chiesa alla cura del suo Sommo Pastore, Nostro Signore Gesù Cristo,
e imploriamo la sua santa Madre Maria,
affinché assista con la sua bontà materna i Padri Cardinali nell’eleggere il nuovo Sommo Pontefice.
Per quanto mi riguarda, anche in futuro, vorrò servire di tutto cuore,
con una vita dedicata alla preghiera,
la Santa Chiesa di Dio.




I perchè di un gesto umile




Di seguito riporto i commenti di Bruno Forte, Vittorio Messori, Enzo Bianchi e Antonio Spadaro.


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Di seguito l'editoriale pubblicato oggi sul quotidiano Il Sole 24 Ore, in cui monsignor Bruno Forte, arcivescovo di Chieti-Vasto, riflette sulla notizia della rinuncia al soglio petrino da parte di Benedetto XVI.



È con profonda emozione che ho appreso la notizia della rinuncia di Papa Benedetto XVI al suo servizio di Vescovo di Roma. Avevo avuto la gioia di parlargli giovedì scorso, al termine dell’udienza concessa ai membri del Pontificio Consiglio della Cultura, riuniti in seduta plenaria. Come sempre era stato squisito, lucidissimo nella memoria e luminoso nell’intelligenza, nel pur breve scambio di parole che avevo avuto con lui. Eppure, non mi aveva sorpreso ascoltare il commento preoccupato di qualcuno dei presenti, Cardinali e Vescovi di varie parti del mondo, colpito dall’impressione di fragilità fisica che il Papa ci aveva dato. Sta proprio in questa paradossale combinazione la chiave di lettura della rinuncia annunciata: da una parte, la coscienza limpida dei propri doveri, delle responsabilità e delle sfide poderose che la Chiesa deve affrontare in questo mondo in così rapida trasformazione; dall’altra, la percezione di una debolezza di forze, che appariva chiaramente impari ai pesi da portare.
Sono toccanti le parole con cui lo stesso Papa ha espresso tutto questo: “Dopo aver ripetutamente esaminato la mia coscienza davanti a Dio, sono pervenuto alla certezza che le mie forze, per l'età avanzata, non sono più adatte per esercitare in modo adeguato il ministero petrino. Sono ben consapevole che questo ministero, per la sua essenza spirituale, deve essere compiuto non solo con le opere e con le parole, ma non meno soffrendo e pregando. Tuttavia, nel mondo di oggi, soggetto a rapidi mutamenti e agitato da questioni di grande rilevanza per la vita della fede, per governare la barca di San Pietro e annunciare il Vangelo, è necessario anche il vigore sia del corpo, sia dell'animo, vigore che, negli ultimi mesi, in me è diminuito in modo tale da dover riconoscere la mia incapacità di amministrare bene il ministero a me affidato”.
Appare in queste espressioni la grandezza dell’uomo spirituale, che tutto considera nella verità davanti a Dio e sceglie infine ciò che è più conforme secondo la sua coscienza al servizio d’amore da rendere. La lucida consapevolezza del compito e la non meno lucida coscienza del degradare delle proprie forze fisiche trovano sintesi in quest’atto di amore a Cristo e alla Chiesa, per cui il Papa rinuncia al servizio pontificale e sceglie la via del silenzio orante e dell’umiltà confessante: “Per quanto mi riguarda, anche in futuro, vorrò servire di tutto cuore, con una vita dedicata alla preghiera, la Santa Chiesa di Dio”.
Emerge così in quest’atto, semplice e solenne, storico per la sua portata, anche se non unico nella bimillenaria vicenda della Chiesa Cattolica, quello che è stato il vero motivo ispiratore di questi otto anni di pontificato: la riforma spirituale della Chiesa, alla luce del primato assoluto della fede in Dio. Sorge spontanea l’analogia con Celestino V, il Papa santo, che rinuncia al servizio petrino dopo appena un mese di pontificato perché ritiene di poter meglio servire il popolo di Dio con la preghiera e con l’offerta sacrificale di sé.
È in nome dell’obbedienza a Dio e alla verità che solo gli rende gloria, che Benedetto XVI ha affrontato e governato la dolorosa vicenda degli abusi sessuali, presenti fra alcuni membri del clero specialmente nelle decadi della seconda metà del secolo passato. Convinto della forza della parola di Gesù “la verità vi farà liberi” (Giovanni 8,32), questo Pontefice ha voluto che si facesse piena verità, anzitutto a sostegno delle vittime e poi per intraprendere coraggiosi cammini di purificazione e di rinnovamento. Con la stessa fiducia in Dio Papa Ratzinger ha portato avanti con decisione il suo rapporto di privilegiata amicizia verso il popolo ebraico, la cui fede è santa radice di quella dei cristiani, come pure il dialogo franco e sereno con le grandi religioni universali e in particolare con l’Islam, certo che il Dio unico avrebbe guidato i credenti sinceri sulle vie della pace. In campo ecumenico, la mano tesa alle diverse tradizioni confessionali si è aperta anche a proposte coraggiose verso i seguaci di Mons. Lefebvre, anche qui confidando nell’esigenza di ogni autentico credente di voler piacere a Dio e non ai propri sostenitori mondani.
All’interno della Chiesa cattolica, poi, questo Papa ha promosso la riforma spirituale, insistendo mediante continui e profondi insegnamenti sulla necessità della conversione dei cuori e del rinnovamento dei costumi, premessa indispensabile di ogni possibile rinnovamento strutturale. La riforma, aveva scritto da giovane Professore, “consiste nell’appartenere unicamente e interamente alla fraternità di Gesù Cristo… Rinnovamento è divenire semplici, rivolgersi a quella vera semplicità… che in fondo è un’eco della semplicità del Dio uno. Questo è il vero rinnovamento per noi cristiani, per ciascuno di noi e per la Chiesa intera” (Il nuovo popolo di Dio, Brescia 1971, 301. 303).
L’autentica riforma, voluta da questo Papa, è stata, insomma, quella della conversione evangelica, la sola capace di fare della Chiesa un segno credibile di luce e di speranza per tutti. Sarà dal riconoscimento del primato di Dio confessato e amato che verrà la nuova primavera, di cui il popolo di Dio e gli uomini tutti hanno necessità assoluta. “Ciò di cui abbiamo soprattutto bisogno in questo momento della storia - aveva detto qualche settimana prima di diventare Papa - sono uomini che, attraverso una fede illuminata e vissuta, rendano Dio credibile in questo mondo… Abbiamo bisogno di uomini che tengano lo sguardo dritto verso Dio, imparando da lì la vera umanità. Abbiamo bisogno di uomini il cui intelletto sia illuminato dalla luce di Dio e a cui Dio apra il cuore, in modo che il loro intelletto possa parlare all’intelletto degli altri e il loro cuore possa aprire il cuore degli altri. Soltanto attraverso uomini toccati da Dio, Dio può far ritorno presso gli uomini” (Subiaco, 1 Aprile 2005).
Con il suo pontificato e, in modo singolare, con quest’atto umile e grande della rinuncia ad esso per amore di Cristo e della Chiesa, Benedetto XVI ha dimostrato - al di là di ogni possibile incomprensione - di essere un uomo così. Ed è grazie a uomini come lui, che - come egli stesso diceva tre giorni fa ai Seminaristi di Roma - “l’albero della Chiesa non è un albero morente, ma l’albero che cresce sempre di nuovo”.  

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I tre perché di un gesto umile
di Vittorio Messori
in “Corriere della Sera” del 12 febbraio 2013
Ci sarà tutto il tempo per analisi, bilanci, previsioni. Oggi, ancora sconcertati, cercheremo solo di
dare una possibile risposta a tre domande che ci sono subito sorte. Innanzitutto: perché, un simile
annuncio, proprio in questo giorno di febbraio? Poi: perché in una riunione di cardinali annunciata
come di routine? Infine: perché il luogo scelto per il ritiro da Papa emerito?
Riflettendoci, dopo la sorpresa quasi brutale tanto è stata imprevista (e per tutti, nella Gerarchia
stessa), mi pare si possano azzardare delle possibili spiegazioni. L'11 febbraio, ricorrenza della
prima apparizione della Vergine a Lourdes, è stata dichiarata dall'«amato e venerato predecessore»,
come sempre lo ha chiamato, Giornata mondiale del malato. Ha detto Ratzinger, nel latino della
breve e sconvolgente dichiarazione: «Sono pervenuto alla certezza che le mie forze, per l'età
avanzata, non sono più adatte per esercitare in modo adeguato il ministero petrino». Terenzio, e poi
Seneca, Cicerone e tanti altri avevano ricordato mestamente: senectus ipsa est morbus, la vecchiaia
stessa è una malattia. Dunque, è infermo comunque chi, come lui, il prossimo 16 aprile compirà 86
anni. Ha aggiunto, infatti: «Il vigore del corpo e dell'animo negli ultimi mesi in me è diminuito in
modo tale da dover riconoscere la mia incapacità di amministrare bene il ministero a me affidato».
Quale giorno più adeguato, dunque, per prendere atto davanti al mondo della propria infirmitas di
vegliardo di quello dedicato alla Madonna di Lourdes, protettrice dei malati? In fondo, anche in
questo vi è un segno di solidarietà fraterna per tutti coloro che, per morbi o per anni, non possono
più contare sulle proprie forze.
Ma perché (è la seconda domanda) dare l'annuncio, ex abrupto, proprio in un concistoro di cardinali
per decidere la glorificazione dei martiri di Otranto, massacrati dalla furia dei turchi musulmani?
Non crediamo che vi sia qui un qualche richiamo alla violenza di un certo islamismo, attuale ora
come nel XV secolo della strage in Puglia. Crediamo, piuttosto, che in questi mesi Benedetto XVI
abbia meditato sul primo e solo caso di abdicazione formale di un Pontefice nella storia della
Chiesa, quello del 13 dicembre 1294, da parte di Celestino V. Vi erano stati, nei «secoli bui»
dell'Alto Medioevo alcuni casi di rinuncia papale, ma in circostanze oscure e sotto la pressione di
minacce e di violenze. Ma solo Pietro da Morrone, l'eremita strappato a forza alla sua cella ed
elevato al soglio pontificio, abdicò liberamente ed ufficialmente, adducendo anch'egli soprattutto
l'età più che ottuagenaria e la debolezza che ne conseguiva. Prima di compiere l'inedito passo, aveva
consultato discretamente i maggiori canonisti che gli confermarono che la rinuncia era possibile, ma
andava fatta «davanti ad alcuni cardinali». È proprio quanto ha deciso di fare Benedetto XVI, che
non aveva che quel precedente cui rifarsi: precedente del resto, spiritualmente sicuro, in quanto il
buon Pietro fu dichiarato santo dalla Chiesa e non meritava davvero l'accusa di viltade lanciatagli
contro dal ghibellino Dante per sue ragioni politiche. Insomma, in mancanza di altre regole, papa
Ratzinger, sempre rispettoso della tradizione, si è rifatto a quelle stabilite otto secoli fa dal
confratello di cui voleva condividere il destino. Probabilmente, non è casuale anche il fatto che
l'imprevisto annuncio sia stato letto solo in latino, quasi per richiamarsi anche in questo a quel
precedente lontano.
Ma, per venire alla terza domanda, per quale ragione, dopo un breve soggiorno a Castel Gandolfo
(deserto, e dunque disponibile, durante la sede vacante) il già Benedetto XVI si ritirerà in quello che
è stato un monastero di clausura, all'interno delle Mura Vaticane? Questo, almeno, il programma
annunciato dal portavoce, padre Lombardi. Non sappiamo se quella sistemazione sarà definitiva ma,
in ogni caso, neppure questa è una scelta casuale. Dicono le ultime parole dell'annuncio di ieri:
«Anche in futuro vorrò servire di tutto cuore, con una vita dedicata alla preghiera, la Santa Chiesa
di Dio». Negli anni di pontificato ha ripetuto spesso: «Il cuore della Chiesa non è dove si progetta,
si amministra, si governa, ma è dove si prega». Dunque, il suo servizio alla Catholica non solo
continua ma, nella prospettiva di fede, diventa ancor più rilevante: se non ha scelto un eremo


lontano — magari nella sua Baviera o in quella Montecassino cui aveva pensato papa Wojtyla come
estremo rifugio — è forse per testimoniare, anche con la vicinanza fisica alla tomba di Pietro,
quanto voglia restare accanto a quella Chiesa cui vuole donarsi sino all'ultimo. Né è casuale,
ovviamente, l'aver privilegiato mura impregnate di preghiera come quelle di un monastero di
clausura. Comunque, se la sistemazione in Vaticano sarà stabile, la discrezione proverbiale di
Joseph Ratzinger assicura che non vi sarà alcuna interferenza col governo del successore. Siamo del
tutto certi che rifiuterà pure il ruolo di un «consigliere» carico di anni ma anche di esperienza e di
sapienza, pure se ci dovessero essere richieste esplicite del nuovo Papa regnante. Nella sua
prospettiva di fede, il solo vero «consigliere» del Pontefice è quello Spirito Santo che, sotto le volte
della Sistina, ha puntato su di lui il dito.
Ed è proprio in questa prospettiva religiosa che vi è, forse, risposta a un altro interrogativo: non era
più «cristiano» seguire l'esempio del beato Wojtyla, cioè la resistenza eroica sino alla fine, piuttosto
che quello del pur santo Celestino V? Grazie a Dio, molte sono le storie personali, molti i
temperamenti, i destini, i carismi, i modi per interpretare e vivere il Vangelo. Grande, checché ne
pensi chi non la conosce dall'interno, grande è la libertà cattolica. Molte volte, l'allora cardinale mi
ripeté, nei colloqui che avemmo negli anni, che chi si preoccupa troppo della situazione difficile
della Chiesa (e quando mai non lo è stata?) mostra di non avere capito che essa è di Cristo, è il
corpo stesso di Cristo. A Lui, dunque, tocca dirigerla e, se necessario, salvarla. «Noi — mi diceva
— siamo soltanto, parola di Vangelo, dei servi, per giunta inutili. Non prendiamoci troppo sul serio,
siamo unicamente strumenti e, in più, spesso inefficaci. Non arrovelliamoci, dunque, per le sorti
della Chiesa: facciamo fino in fondo il nostro dovere, al resto deve pensare Lui». C'è anche, forse
soprattutto, questa umiltà, nella decisione di passare la mano: lo strumento sta per esaurirsi, il
Padrone della messe (come ama chiamarlo, con termine evangelico) ha bisogno di nuovi operai, che
vengano dunque, purché consapevoli essi pure di essere solo dei sottoposti. Quanto ai vecchi ormai
estenuati, diano il lavoro più prezioso: l'offerta della sofferenza e l'impegno più efficace. Quello
della preghiera inesausta, attendendo la chiamata alla Casa definitiva.

*  *  *



Riporto da "La Stampa" di oggi, 12 febbraio 2013
a firma di Enzo Bianchi
Per quasi tutti è stata una sorpresa, per chi lo conosceva anche solo un poco, come me, no. Perché Benedetto XVI è innanzitutto un uomo coerente tra il suo dire e l’operare. Aveva detto più volte, e lasciato pubblicare nella sua intervista con Peter Seewald, che il papa avrebbe potuto dimettersi qualora giungesse “alla chiara consapevolezza di non essere più in grado fisicamente, mentalmente e spiritualmente di svolgere l’incarico” di successore di Pietro. E così ha fatto, quando davanti a Dio ha esaminato la propria coscienza. Un gesto compiuto anche nella consapevolezza che nel mondo di oggi, soggetto a rapidi mutamenti, occorre il vigore di chi è più giovane, “sia nel corpo sia nell’animo”. Così si è dimesso, ma preparando con cura questo giorno. Aveva celebrato un concistoro in novembre, per dare un volto maggiormente universale al collegio cardinalizio, aveva terminato la sua fatica di fede e di testimonianza nello stendere una lettura di Gesù morto e risorto, vissuto realmente negli anni della nostra storia, approfondendone i vangeli dell’infanzia. E speriamo che prima del 28 febbraio consegni – quasi come suo testamento – l’enciclica sulla fede, dopo le due luminose sull’amore e sulla speranza. Noi attendiamo ancora questo dono da lui.
Non è questo il momento di tracciare un bilancio, ammesso che si possa fare, sui quasi otto anni del suo ministero petrino: un pontificato che ha attraversato la nostra storia non facile, non semplice e a volte anche enigmatica, una storia piena di mutamenti globali nel mondo occidentale (l’aggravarsi di una crisi culturale e una crisi economica mai conosciuta nei tempi recenti) e di rivoluzioni nel mondo arabo che giudichiamo “primavere” ma che vediamo attraversate da gelate repentine; un tempo di incertezze e di mutamenti nell’etica, soprattutto nelle culture un tempo cristiane. Sono stati anni  in cui Benedetto XVI ha continuato ad ammonire la chiesa, accettandone la condizione minoritaria, chiedendole di essere minoranza significativa, capace di esprimere la differenza cristiana in un mondo indifferente e nel contempo segnato dalla presenza simultanea di molte religioni nello stesso luogo.

Lo si è definito più volte un papa conservatore, ma questo gesto lo mostra come  innovatore: rompe, infatti, una tradizione di duemila anni in cui tutti i vescovi di Roma sono morti di morte violenta o di malattia o di vecchiaia (papa Celestino V dimissionò, ma costretto da chi sarebbe diventato il suo successore). Così il cattolico è invitato a guardare più al ministero petrino che non alla persona del papa: questo è certamente un fatto rivoluzionario e, ritengo, anche più evangelico. Chi esercita l’episcopato o un servizio di presidenza nella chiesa, lo fa in comunione con Cristo Signore in misura del grado in cui è stato posto, ma una volta cessato l’esercizio del ministero, un altro può continuarlo e la persona che lo ha esercitato in precedenza scompare, diminuisce, si ritira.
La domanda che già sentiamo risuonare – come sarà con due papi viventi? - in realtà non sussiste, perché uno solo sarà il papa. Benedetto XVI tornerà a essere il cardinal Ratzinger e non possederà più quella grazia e quell’autorevolezza dello Spirito santo che saranno possedute da chi sarà eletto nuovo papa dal legittimo collegio cardinalizio. Su questo la dottrina cattolica è chiara e non permette che una persona sia più determinante del ministero che gli è stato affidato. In ogni caso, conoscendo l’umiltà di Benedetto XVI, siamo certi che egli – come promette nel messaggio rivolto ieri ai cardinali – si dedicherà alla preghiera e anche lui pregherà con la chiesa intera per Pietro, per il nuovo papa, ben sapendo di non esserlo più: avverrà per il vescovo di Roma, come per i vescovi emeriti delle altre diocesi.

Papa Benedetto ha compiuto un grande gesto, evangelico innanzitutto, e poi umano. In uno stupendo commento ai salmi, sant’Agostino – un padre della chiesa tra i più amati da Benedetto XVI – leggiamo: “Si dice che quando i cervi migrano in gruppo o si dirigono verso nuove terre, appoggiano il peso delle loro teste scambievolmente gli uni sugli altri, in modo che uno va avanti e quello che segue appoggia su di esso la sua testa... quello che sta in testa sopporta da solo il peso di un altro, quando poi è stanco passa in coda, giacché al suo posto va un altro a portare il peso che prima portava lui e così si riposa dalla sua stanchezza, poggiando la sua testa come la poggiano gli altri” (Commento al Salmo 41).
Così la presenza di Ratzinger nella chiesa non si conclude. Sarà un presenza altra e non meno significativa: una presenza di intercessione. Si metterà cioè tra Dio e gli uomini, non per compaginarli nella comunione cattolica – questo non sarà più il suo compito – ma per chiedere che Dio continui a inviare le energie dello Spirito santo sulla chiesa e i suoi doni sull’umanità. Molti oggi vorrebbero dire a papa Benedetto XVI: “Grazie, santo Padre!” per il suo disinteresse, per la sua sollecitudine affinché anche il papa sia decentrato rispetto a colui che dà il nome di cristiani a molti uomini e donne che hanno fede solo in lui: Gesù Cristo! Si diceva che questo papa ha grandi parole ed è incapace di gesti: il più bel gesto ce lo lascia ora, come Pietro che ormai anziano – dice il Nuovo Testamento - “se ne andò verso un altro luogo” continuando però a seguire il Signore. Benedetto XVI appare successore di Pietro più che mai, anche nel suo esodo.





* * *


L’annunzio delle dimissioni di un Papa è una notizia di portata storica. La rinuncia al ministero petrino è una notizia difficilmente addomesticabile. E’ una novità che coglie di sorpresa e sorprende. Ha ragione il cardinal Sodano a dire che si è trattato di un “fulmine a ciel sereno”.
Alcuni hanno sovrapposto a quelle di Benedetto XVI le immagini di “Habemus Papam“ di Nani Moretti. Sbagliando completamente, a mio avviso. Perché? Cerco di spiegarlo…
Le analisi saranno numerose e così i commenti e le previsioni. Alcune, come è ovvio, si riveleranno corrette, altre errate. Dopo avere riflettuto “a caldo” sento di poter dire una cosa: sbagliano coloro che leggono il gesto del Papa come un gesto di semplice rinuncia a causa della debolezza fisica dovuta all’età.
Non credo affatto che la rinuncia al ministero petrino sia da attribuire alla stanchezza o a motivi simili.
1. Il Papa certamente afferma: “sono pervenuto alla certezza che le mie forze, per l’età avanzata, non sono più adatte per esercitare il modo adeguato il ministero petrino”. Dice pure: “il vigore, negli ultimi mesi, in me è diminuito in modo tale da dover riconoscere la mia incapacità di amministrare bene il ministero a me affidato”. Queste parole sono da ricollegare a quanto il Papa aveva affermato nel libro intervista “La luce del mondo” dove aveva affermato che “Quando un Papa giunge alla chiara consapevolezza di non essere più in grado fisicamente, psicologicamente e mentalmente di svolgere l’incarico affidatogli, allora ha il diritto e in alcune circostanze anche il dovere di dimettersi”.
2. Il Papa, probabilmente avendo anche in mente l’esperienza del suo predecessore, dice di essere ben consapevole che il ministero petrino deve essere compiuto “non solo con le opere e con le parole, ma non meno soffrendo e pregando“. Dunque Benedetto XVI sa bene che il ministero petrino può essere svolto anche in una condizione in cui le opere e le parole non possono essere esteriormente vigorose.
3. Il passaggio DECISIVO, a mio avviso, viene subito dopo, quando nel suo annuncio di dimissioni, il Pontefice scrive: “Tuttavia, nel mondo di oggi, soggetto a rapidi mutamenti e agitato da questioni di grande rilevanza per la vita della fede, per governare la barca di san Pietro e annunciare il Vangelo, è necessario anche il vigore sia del corpo, sia dell’animo”.QUI a mio avviso c’è il cuore del messaggio che il Papa vuole comunicare con il suo gesto.
Il Papa, cioè, intende spronare la Chiesa. Immagina una chiesa “vigorosa”, dunque coraggiosa nell’affrontare le sfide dei rapidi mutamenti (in mundo nostri temporis rapidis mutationibus subiecto) e le sfide delle questioni di grande rilevanza per la vita della fede (quaestionibus magni ponderis pro vita fidei). Il gesto del Papa non è affatto una rinuncia. Semmai è un gesto di umiltà e di libertà. Benedetto XVI sa di aver svolto il suo ministero fino in fondo. Adesso si rende conto che la situazione che il mondo e la Chiesa vivono è completamente cambiata rispetto anche a pochi anni fa. C’è bisogno di vigore.
Lasciando il Pontificato Benedetto XVI sta dicendo qualcosa alla Chiesa di oggi, quella di spendere le forze per aprirsi alle sfide e alle questioni, di non temere la rapidità e il peso dei mutamenti.
Il Papa sa che ci vogliono forze per tutto questo e, davanti a Dio e alla sua coscienza, si rende conto di non averle. Per questo lascia ad altri il testimone ritirandosi in preghiera e in silenzio. Ma, appunto, non senza dirci che la motivazione del suo gesto non è la rinuncia, ma una visione aperta sul mondo e la certezza interiore della vocazione della Chiesa. Benedetto XVI ha affrontato tantissime sfide. Adesso passa il testimone perché la missione sia sempre al centro. E lo fa con grande responsabilità e libertà di spirito. E’ un gesto che non si fa fatica a vedere collocato nel cuore stesso del suo Magistero.
E, infine, non dimentichiamo che appena pochi giorni fa, l’8 febbraio, parlando ai seminaristi in occasione della festa della Madonna della Fiducia, il Papa aveva lanciato un forte messaggio di ottimismo: “La Chiesa si rinnova sempre, rinasce sempre. Il futuro è nostro”. (A. Spadaro)

Un uomo mai stato così grande

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Poche battute di un’agenzia e tutto diventa, di colpo, infinitamente piccolo: gli schiamazzi della politica-cabaret, il dito medio di un allenatore, Sanremo e lo spread. Tutto ciò per cui il mondo si dimena cercando spazio da invadere e occupare è divenuto, in un attimo, impercettibile, al cospetto di un uomo che mai è stato così grande. L’amore autentico, infatti, quando arde nel cuore, brucia tutto quello che ne è sprovvisto.
L’amore rende giustizia alla verità e smaschera la menzogna,con la forza dirompente che oggi si è abbattuta sul mondo esplodendo fulminea da poche, semplici, parole: “Per il bene della chiesa”. Oggi un uomo ha consegnato se stesso per amore dell’umanità. Oggi i nostri occhi hanno contemplato il Getsemani e il Golgota nel bel mezzo del Vaticano, e il Signore offrirsi di nuovo per ogni uomo di questa perduta generazione. Oggi Pietro, il dolce Cristo in terra, ci ha presi per mano, uno ad uno, e, pur lasciandoci sgomenti, ci ha detto la parola più forte, la più profondamente umana perché limpidamente divina: la parola della Croce, stoltezza e scandalo per l’orgoglio mondano, sapienza potente per l’umiltà di chi cerca e spera la salvezza.
Nelle sue dimissioni, infatti, sono registrate le dimissioni da padre e da madre, da figli e da figlie, da uomini e da donne, da persone uniche e irripetibili, di tutti coloro che la menzogna del demonio sta inghiottendo senza pietà in ogni angolo del mondo. Le nostre dimissioni dinanzi alle urgenti responsabilità dell’amore, quelle che nascondiamo e, orgogliosamente, non riusciamo a rassegnare, sono tutte li, sulla soglia del paradiso. Le ha consegnate il nostro Papa, nelle sue «dimissioni vicarie», con le quali di nuovo Cristo ha bussato oggi alla porta del Padre per consegnargli i limiti della forze umane, e, con essi, le debolezze, le cadute, il groviglio di dolore e morte di questa generazione, perché tutti possano essere di nuovo «assunti» alla dignità e alla santità per le quali sono stati creati. Amore per la chiesa, infatti, significa amore per ogni uomo, l’unico autentico, gratuito, disinteressato. Amore per il bene di ciascuno, senza distinzione. E non vi è che un bene, assoluto, definitivo, eterno: Cristo. È Lui il bene della Chiesa, per il quale il Papa si è dimesso. Altro non sappiamo, altro non ci interessa. Per Cristo, e perché Egli possa essere annunziato e così giungere ad ogni uomo, Benedetto XVI ha deciso di lasciare il pontificato.
“Che cos’è un uomo perché te ne curi, un figlio dell’uomo perché te ne dia pensiero?” recita il salmo 8. Che poi soggiunge: “eppure lo hai fatto poco meno degli angeli, di onore e di gloria lo hai coronato, tutto hai messo sotto ai suoi piedi”. Che cos’è un Papa? Che cosa siamo ciascuno di noi, che cerchiamo disperatamente di divenire i papi delle nostre famiglie, dei nostri uffici, dei nostri bar? Nulla, siamo “nulla più il peccato” diceva Santa Teresa d’Avila. E nessuno, neanche un Papa, sfugge a questa verità.
“Eppure” Benedetto XVI, proprio oggi è apparso, nella sua esile figura e nelle poche parole pronunciate, coronato di gloria e di onore; tutto, finanche il pontificato, vediamo oggi messo sotto i suoi piedi. È caduto sotto il peso della Croce, come Gesù, e ci ha dischiuso il cammino della libertà. Un uomo, infatti, è tanto più grande quanto più accoglie con amore la propria piccolezza e la consegna a Cristo. Oggi il Papa lo ha fatto, per amore nostro, spingendoci a guardare più in alto di lui, e di ciascuno di noi. Lo abbiamo riscoperto oggi contemplando il grave e difficile passo compiuto da Benedetto XVI, e non ci è sembrato mai così chiaro: nulla è più originalmente cristiano che «lasciare» tutto a Dio nella certezza che Lui fa bene ogni cosa; ora lo sappiamo, la potenza dell’amore si manifesta pienamente nella debolezza, soprattutto in quella di chi, umilmente, rassegna le dimissioni consegnando se stesso, la Chiesa e ogni uomo, all’unico Maestro, il Buon Pastore che ha dato la sua vita per le sue pecore.
E’ la grande quaresima della Chiesa, e Cristo ci chiama a conversione con le parole e il gesto del suo Vicario. Entriamo tutti con Lui nel Conclave, chiudiamo la porta in faccia ai peccati, alle idolatrie, al mondo e alle sue seduzioni. E attendiamo, fiduciosi, il soffio dello Spirito Santo che ci indichi, in un volto e una storia, il cammino autentico della Vita che non muore. Rinnovamento è, innanzi tutto, conversione, lo ha detto molte volte Benedetto XVI: “Convertirsi a Cristo significa in fondo proprio questo: uscire dall’illusione dell’autosufficienza per scoprire e accettare la propria indigenza, esigenza del suo perdono”. Offrendo se stesso nel martirio più arduo, quello dell’umiltà, il Papa ha fatto il primo passo nella sequela della Via, della Verità e della Vita, l’atto di governo più alto e responsabile, più santo e incorruttibile. Basta parole inutili, basta ipocrisie. E’ tempo di convertirci, tutti, e prendere la vita così com’è e consegnarla a Cristo, senza riserve. Lui la rivestirà dello splendore della sua vittoria sulla morte e il peccato, rinnovando nell’amore e nello zelo la sua Chiesa.
Antonello Iapicca Pbro


Chi raccoglierà le chiavi di Pietro


I due articoli che seguono, di Sandro Magister, usciranno  su "L'espresso" n. 6 del 2013, in edicola da domani 15 febbraio.

La rinuncia di Benedetto XVI. Gli ultimi suoi atti. L'imminente conclave e i candidati alla successione. Le novità e le incognite di una decisione senza precedenti nella storia


 La sera di un qualunque giovedì di Quaresima, alle ore 20 del 28 febbraio, Joseph Ratzinger farà dunque quel passo che nessuno dei suoi predecessori aveva osato. Deporrà sulla cattedra di Pietro le chiavi del regno dei cieli. Che un altro sarà chiamato a raccogliere.

C'è la forza di una rivoluzione in questo gesto che non ha eguali neppure in secoli lontani. Da lì in avanti la Chiesa entra in una terra incognita. Dovrà eleggere un nuovo papa mentre il predecessore è ancora in vita, e le sue parole ancora risuonano, e i suoi dettami ancora valgono, e la sua agenda ancora aspetta di essere compiuta.

Quei cardinali che la mattina di lunedì 11 febbraio sono stati convocati nella sala del concistoro per la canonizzazione degli ottocento cristiani di Otranto martirizzati dai turchi sei secoli fa sono rimasti attoniti nell'ascoltare Benedetto XVI, al termine della cerimonia, annunciare in latino la sua rinuncia al pontificato.

Toccherà a loro, a metà Quaresima, scegliere il successore. La domenica delle Palme, il 24 marzo, il nuovo eletto celebrerà la sua prima messa in piazza San Pietro, nel giorno dell'ingresso di Gesù in Gerusalemme sul dorso di un'asina, acclamato come il "benedetto che viene nel nome del Signore".

*

Sono 117 i cardinali che a metà marzo si chiuderanno in conclave, lo stesso numero di quelli che otto anni fa elessero papa Joseph Ratzinger al quarto scrutinio con più dei due terzi dei voti, in una delle elezioni più fulminee e meno contrastate della storia.

Ma questa volta sarà tutto diverso. L'annuncio delle dimissioni li ha colti di sorpresa come il ladro nella notte, senza che un lungo tramonto del pontificato, come era avvenuto con Giovanni Paolo II, abbia loro consentito di arrivare al conclave con delle opzioni già sufficientemente vagliate.

Nel 2005, la candidatura di Ratzinger non sbocciò all'improvviso, era già matura da almeno un paio d'anni, e tutte le candidature alternative erano l'una dopo l'altra cadute. Mentre oggi non è sicuramente così. E alla difficoltà di individuare i candidati si somma l'inedito incombere del papa dimesso.

Il conclave è una macchina elettorale unica al mondo che, affinata nel tempo, è arrivata nell'ultimo secolo a produrre risultati stupefacenti, elevando a papa uomini di qualità decisamente più alta del livello medio del collegio cardinalizio che li ha di volta in volta votati.

Per citare il caso più clamoroso, l'elezione nel 1978 di Karol Wojtyla fu un colpo di genio che rimarrà per sempre nei libri di storia.

E la nomina di Ratzinger nel 2005 non fu da meno, come hanno confermato i quasi otto anni del suo pontificato, segnati da una distanza invincibile tra la grandezza dell'eletto e la mediocrità di tanti suoi elettori.

In più, i conclavi si sono spesso caratterizzati per la capacità del collegio cardinalizio di imprimere al papato delle svolte. La sequenza degli ultimi papi è anche su questo istruttiva.

Non è una lunga fila grigia, ripetitiva e noiosa. È un seguito di uomini e di eventi segnati ciascuno da forte originalità. L'inaspettato annuncio del concilio dato da papa Giovanni XXIII a un gruppo di cardinali riuniti a San Paolo fuori le Mura non fu certo meno sorprendente e rivoluzionario dell'annuncio delle dimissioni dato da Benedetto XVI a un altro gruppo di cardinali stupefatti, pochi giorni fa.

Ma nelle prossime settimane accadrà qualcosa che non si è mai verificato prima. I cardinali dovranno valutare che cosa confermare o innovare rispetto al precedente pontefice con lui vivo. Di Ratzinger tutti ricordano e ammirano il rispetto con cui trattava anche chi gli era avversario: per il cardinale Carlo Maria Martini, il più autorevole dei suoi oppositori, ha sempre manifestato un'ammirazione profonda e sincera. Ma nonostante il suo promesso ritrarsi nella preghiera e nello studio, quasi in clausura, è difficile che la sua pur silenziosa presenza non pesi sui cardinali chiamati a conclave, e poi sul nuovo eletto. È inesorabilmente più facile dibattere con libertà e franchezza di un papa in cielo che di un ex papa in terra.

*

Fino al 28 febbraio l'agenda di Benedetto XVI non subirà modifiche. Dopo il rito delle ceneri e una "lectio" ai preti di Roma sul Concilio Vaticano II, si affaccerà la domenica all'Angelus, terrà il mercoledì l'udienza generale, farà gli esercizi spirituali ascoltando le prediche del cardinale Gianfranco Ravasi, riceverà in visita "ad limina" i vescovi della Liguria capeggiati dal cardinale Angelo Bagnasco e poi quelli della Lombardia con alla testa il cardinale Angelo Scola.

Il caso vuole che proprio in uno di questi due cardinali egli potrebbe salutare il papa venturo.

In Italia, in Europa e nel Nordamerica la Chiesa attraversa anni difficili, di generale declino. Ma qua e là con risvegli di vitalità e di incidenza pubblica, anche inaspettati come di recente è avvenuto in Francia. Ancora una volta, quindi, i cardinali elettori potrebbero orientarsi su candidati di quest'area, che in ogni caso continua a detenere la leadership teologica e culturale sull'intera Chiesa. E proprio l'Italia potrebbe tornare in corsa, dopo due pontificati andati a un polacco e a un tedesco.

Tra i candidati italiani, Scola, 71 anni, appare il più solido. Si è formato come teologo nel cenacolo di "Communio", la rivista internazionale che ebbe Ratzinger tra i suoi fondatori. È stato discepolo di don Luigi Giussani, il fondatore di Comunione e Liberazione. È stato rettore della Lateranense, l'università della Chiesa di Roma. È stato patriarca di Venezia, dove ha dimostrato fattive capacità di governo e ha creato un centro teologico e culturale, il Marcianum, proiettato con la rivista "Oasis" verso il confronto tra l'Occidente e l'Oriente cristiano ed islamico. È da quasi due anni arcivescovo di Milano. E qui ha introdotto uno stile pastorale molto attento ai "lontani", con inviti alle messe in cattedrale distribuiti agli incroci delle strade e alle stazioni delle metropolitana, e con una cura particolare per i divorziati risposati, incoraggiati ad accostarsi all'altare per ricevere non la comunione ma una speciale benedizione.

Oltre a Scola, potrebbe entrare nella rosa nei candidati anche il cardinale Bagnasco, 70 anni, arcivescovo di Genova e presidente della conferenza episcopale italiana.

Per non dire dell'attuale patriarca di Venezia, Francesco Moraglia, 60 anni, astro nascente dell'episcopato italiano, pastore di forte vita spirituale, molto amato dai fedeli. Il suo limite è che non è cardinale. Nulla vieta che possa essere eletto anche chi non fa parte del sacro collegio, ma persino il titolatissimo Giovanni Battista Montini, pur invocato come papa già nel 1958 dopo la morte di Pio XII, dovette aspettare di ricevere la porpora prima di essere eletto nel 1963 con il nome di Paolo VI.

Al di fuori dell'Italia, il collegio cardinalizio sembra orientato a guardare al Nordamerica.

Qui un candidato che può corrispondere alle attese è il canadese Marc Ouellet, 69 anni, plurilingue, anche lui formato teologicamente nel cenacolo di "Communio", per molti anni missionario in America latina, poi arcivescovo del Québec, cioè di una delle regioni più secolarizzate del pianeta, e oggi prefetto della congregazione vaticana che seleziona i nuovi vescovi in tutto il mondo.

Oltre a Ouellet, due nordamericani che riscuotono apprezzamento nel collegio cardinalizio sono Timothy Dolan, 63 anni, dinamico arcivescovo di New York e presidente della conferenza episcopale degli Stati Uniti, e Sean O'Malley, 69 anni, arcivescovo di Boston.

Nulla però esclude che il prossimo conclave decida di abbandonare il vecchio mondo e aprire agli altri continenti.

Se dall'America latina e dall'Africa, dove pure risiede la maggior parte dei cattolici, non sembrano emergere personalità di spicco capaci di attrarre voti, non così avviene per l'Asia.

In questo continente, che si appresta a diventare il nuovo asse del mondo, anche la Chiesa cattolica gioca il suo futuro. Nelle Filippine, che sono l'unica nazione dell'Asia dove i cattolici sono maggioranza, brilla un giovane e colto cardinale, l'arcivescovo di Manila Luis Antonio Tagle, sul quale si appuntano crescenti attenzioni.

Come teologo e storico della Chiesa, Tagle è stato uno degli autori della monumentale storia del Concilio Vaticano II pubblicata dalla progressista "scuola di Bologna". Ma come pastore ha mostrato un equilibrio di visione e una rettitudine dottrinale che lo stesso Benedetto XVI ha molto apprezzato. Soprattutto colpisce lo stile con cui fa il vescovo, vivendo sobriamente e mescolandosi alla gente più umile, con grande passione missionaria e di carità.

Un suo limite potrebbe essere che ha 56 anni, un anno meno dell'età nella quale fu eletto papa Wojtyla. Ma qui torna in campo la novità delle dimissioni di Benedetto XVI. Dopo questo suo gesto, la giovane età non sarà più un ostacolo ad essere eletti papa.

__________



UNA SCOMMESSA SOPRANNATURALE


La rinuncia di Benedetto XVI al papato non è per lui né una sconfitta né una resa. "Il futuro è nostro, il futuro è di Dio", ha detto contro i profeti di sventura nella sua ultima uscita pubblica prima dell'annuncio delle dimissioni, la sera di venerdì 8 febbraio nel seminario romano.

E due inverni fa, parlando proprio delle sue possibili future dimissioni, aveva avvertito: "Non si può scappare nel momento del pericolo e dire: Se ne occupi un altro. Ci si può dimettere in un momento di serenità, o quando semplicemente non ce la si fa più".

Se ora dunque papa Joseph Ratzinger ha deciso in coscienza che la sua giornata di "umile lavoratore nella vigna del Signore" è arrivata al termine, è semplicemente perché ha visto avverarsi le due condizioni: il momento è sereno e il vigore per "bene amministrare" gli è venuto meno, sotto il peso degli anni.

In effetti, una tregua sembra essere intervenuta dopo le tante tempeste che si sono succedute nei quasi otto anni del suo pontificato. Una tregua che ha lasciato però intatte le posizioni di potere che in curia alimentano da molti anni il dissesto.

Saranno i due ultimi segretari di Stato, i cardinali Angelo Sodano e Tarcisio Bertone, nessuno dei quali è innocente, a governare l'interregno tra un papa e l'altro, il primo come decano del collegio cardinalizio, il secondo come camerlengo. Ma entrambi usciranno poi definitivamente di scena. Per gli altri capi di curia lo "spoils system" che scatta per legge canonica ad ogni cambio di pontificato libererà il nuovo papa, se lo vorrà, dai cattivi amministratori della precedente gestione.

Nei suoi quasi otto anni di pontificato, Benedetto XVI è stato risoluto e lungimirante nell'indicare le mete e tenere dritta la barra del timone. Ma sulla barca di Pietro l'equipaggio non sempre gli è stato fedele.

È avvenuto così quando ha dettato una rigorosa linea di condotta per contrastare lo scandalo della pedofilia tra il clero, scontrandosi con applicazioni ipocrite e tardive.

È accaduto lo stesso quando ha ordinato pulizia e trasparenza negli uffici finanziari ecclesiastici, venendone disatteso.

È stato così quando si è visto tradito dal maggiordomo di sua fiducia, che gli ha violato i segreti e rubato le carte più personali.

Ma c'è di più. Papa Ratzinger si è battuto prima di tutto e sopra tutto per ravvivare la fede della Chiesa, per correggere i suoi sbandamenti nella dottrina, nella morale, nei sacramenti e nei comandamenti. E anche qui spesso si è trovato solo, osteggiato, incompreso.

È stata insomma una riforma incompiuta, quella perseguita da Benedetto XVI. Dimettendosi, ha riconosciuto di non poterla più condurre avanti con le sue deboli forze. E si è affidato al conclave perché elegga un nuovo papa con l'energia necessaria per fare l'impresa.

La sua è una scommessa soprannaturale che ricorda quella del suo predecessore Giovanni Paolo negli ultimi dolorosi anni della sua vita.

*

Tra gli analisti della Chiesa, è il professor Pietro De Marco dell'università di Firenze che ha colto con più acutezza il significato dell'audace rinuncia di Benedetto XVI.

La differenza sembra abissale tra l'attuale papa e il suo predecessore Giovanni Paolo II, che invece di dimettersi volle fino all'ultimo "restare sulla croce". Ma non è così.

Papa Karol Wojtyla affidò al carisma del suo corpo malato un guadagno spirituale per la Chiesa che sovrastasse la crescente inefficienza del suo governo.

Mentre Benedetto XVI affronta un rischio simmetrico: affida il governo della Chiesa, cioè il suo "bene", alle forze integre di un suo successore, invece che ai benefici spirituali offerti da un prolungato consegnarsi alla propria debolezza, restando in carica.

Il carisma di Giovanni Paolo II e la razionalità di Benedetto XVI sono le due facce inscindibili dei due ultimi pontificati, la cui cifra sono i rispettivi atti finali.

È dunque insensato vedere nelle dimissioni dell'attuale papa l'alba di una nuova prassi che obbligherà i futuri pontefici a dimettersi per infermità o per carico d'anni, magari sotto l'arbitrato di una giuria visibile o invisibile fatta di medici, di vescovi, di canonisti, di psicologi.

La decisione di un papa di dimettersi o di restare in carica a vita è sempre e soltanto sua, nell'ordinamento della Chiesa. La sua rinuncia, Benedetto XVI l'ha decisa "in coscienza davanti a Dio" e non l'ha sottoposta a nessuno. L'ha semplicemente annunciata.

E con ciò ha rimesso tutto nelle mani imponderabili del prossimo conclave e del futuro pontefice. Commenta De Marco:

"La posta in gioco, per quanto attiene al giudizio umano, è enorme. Ma in questo confido: come il sovrano rischio di Giovanni Paolo II di governare la Chiesa col suo essere sofferente ha ottenuto il miracolo dell'elezione di papa Benedetto, così il rischio, altrettanto radicale, di Benedetto di riconsegnare la guida della Chiesa a Cristo perché ne dia il peso a un nuovo papa in forze, otterrà un altro pontefice all'altezza della storia".


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