Chi stenta ad accettare Papa Francesco forse stenta ad accettare la Chiesa, così come il Signore l'ha fondata e il Papa ci aiuta a comprendere.
Takamatsu, 26 Ottobre 2013 (Zenit.org) Don Antonello Iapicca
Ascolti Papa Francesco e ti appare chiaro e compiuto il Vangelo. Ci stupisce, semina sgomento, in fondo abbiamo sempre pensato alla Chiesa come la nostra casa. Calda, accogliente, le cose in ordine, sempre allo stesso posto, e, soprattutto sicura. Allarme, cani e inferriate a presidiare quello che abbiamo costruito...leggi tutto
Basilica di S. Apolllinare. Il fariseo e il pubblicano. Mosaico
Che cosa il Fariseo abbia domandato a Dio, cercalo nelle sue parole:
non troverai nulla.
Salì' per pregare; non volle domandare a Dio, ma lodare se stesso.
E’ poco non domandare a Dio e lodare se stesso:
per dippiu', anche insultava chi domandava.
Il pubblicano stava lontano, egli tuttavia s'avvicinava a Dio...
poco che stesse lontano:
neppure alzava gli occhi al cielo...
C'e' dippiu', si batteva. il petto...
dicendo: “Signore sii propizio a me peccatore!”.
Ecco colui che domanda.
Sant'Agostino
Dal Vangelo secondo Luca 18, 9-14
In quel tempo, Gesù disse ancora questa parabola per alcuni che avevano l’intima presunzione di essere giusti e disprezzavano gli altri:
«Due uomini salirono al tempio a pregare: uno era fariseo e l’altro pubblicano.
Il fariseo, stando in piedi, pregava così tra sé: “O Dio, ti ringrazio perché non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adùlteri, e neppure come questo pubblicano. Digiuno due volte alla settimana e pago le decime di tutto quello che possiedo”.
Il pubblicano invece, fermatosi a distanza, non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto dicendo: “O Dio, abbi pietà di me peccatore”.
Io vi dico: questi, a differenza dell’altro, tornò a casa sua giustificato, perché chiunque si esalta sarà umiliato, chi invece si umilia sarà esaltato».
Il commento
Andare in Chiesa, frequentarla assiduamente, lustrarla e farci catechismo, anche pregarci tutti i giorni, può non voler dire nulla. Vi si può uscire esattamente come vi si è entrati. E’ quello che accade a “chi presume di essere giusto e disprezza gli altri”. Come noi che, prigionieri di un Io sconfinato che si crede “diverso”, consideriamo gli altri solo dei poveri scarti di noi stessi.
Non a caso questa società edonistica e carnale idolatra il diverso a tutti i costi, al punto che la normalità diventa l’eccezione da nascondere. Come nel Vangelo, dove il diverso, ovvero il fariseo, è in prima fila e il normale, ovvero il peccatore, se ne resta giù in fondo.
Chi si sente “diverso” si arroga sempre più diritti degli altri. Niente di nuovo, succede nelle famiglie, succede nella società con le nuove lobby “di genere”, è successo quel giorno nel Tempio. Ne è l’immagine il fariseo, di fronte a Dio come davanti a uno specchio nel quale non vedeva che se stesso travestito da dio: "stando in piedi, pregava rivolto verso se stesso", secondo il senso del greco originale. Non prega, dialoga con se stesso…
Per Sant'Agostino, il fariseo "viene biasimato come superbo e tronfio, ma non perché rendeva grazie a Dio, bensì perché desiderava - per così dire - di non ricevere da Dio nient'altro oltre a quel ch'egli era". Non desiderava nulla, non aveva nostalgia del Cielo perché lo aveva rimpicciolito confinandolo nella sua meschinità. Nel suo orgoglio sterile in cui si credeva a posto, aveva spento ogni santo desiderio. Il demonio gli aveva venduto un paradiso contraffatto e al cui centro aveva messo lui, il suo ego gonfiato. E se la misura della felicità era lui e la sua carne, anche i desideri ne venivano compressi e mutilati. Se, invece, al centro vi è Dio allora tutto ha la sua misura: si desidera un amore infinito, quello per cui siamo stati creati; un matrimonio che non finisca e dove regni la misericordia di Dio. E così per tutto.
E non avviene a noi lo stesso quando scambiamo la promessa di Dio con quello che la concupiscenza del momento reclama? Quando ci accontentiamo di noi stessi, non perché ci sentiamo amati così come siamo, ma perché ci crediamo in diritto di essere amati per quello che siamo e facciamo. E' l'inganno subdolo che ci spinge a idolatrare quello che siamo e abbiamo o vorremmo avere. Comunque finiamo con il desiderare una vita senza problemi che sazi la nostra carne affamata: un buon lavoro, qualche giorno di ferie, una bella famigliola, un paio di marmocchi e un cane da infilare nella macchina che ci piace. Un televisore al plasma e qualche gadget elettronico di ultima generazione. O un fidanzato che dia senso ai nostri giorni.
E così, purtroppo, proprio il Tempio dove Dio ha dato convegno al suo Popolo, diviene la passerella dell'ipocrisia. Come le nostre Chiese, le comunità, e poi ovunque Dio ci ha dato appuntamento, a casa, al lavoro, a scuola. A causa dell’inganno del demonio la nostra vita diviene un’autocelebrazione no-stop, un Grande Fratello dove esibire ipocrite vanità, per colorare di virtù anche i peccati.
Il pubblicano, invece, “non osa neanche ad alzare lo sguardo”, posato sulla terra che definisce la verità su se stesso. Il testo greco suggerisce che egli non si sentiva semplicemente un peccatore, ma il peccatore. Per questo tende la mano a percuotersi il cuore dal quale sa che sgorga ogni malvagità, per spezzettarlo e farne un cuore contrito ed umiliato.
In lui rinveniamo le sembianze del Signore Gesù: Lui non è mai rivolto verso se stesso, ma perennemente rivolto verso il seno del Padre (cfr. Gv 1,18). Sulla Croce Gesù ha gridato implorando a Lui perdono per tutti noi; è sceso all'ultimo posto, "a distanza" - e che distanza... - sino a sentire l'abbandono del Padre. Gesù si è fatto pubblicano tra i pubblicani, disprezzato da tutti, perché i superbi, tu ed io, potessimo scendere i gradini che conducono alla verità.
Lui è già nel fonte battesimale che ci attende oggi, nel buio di cui abbiamo paura, nella verità che ci può far liberi.Lo troveremo sempre là dietro, dove non te lo aspetti e non lo cercheresti: in chiesa, all’ultimo posto… hai presente l’angolo oscuro accanto alla bacheca con le riviste della buona stampa? Proprio dove si fermano quelli dell’ultima ora nell’arrivare a messa e della prima ad uscire…
E’ lì che si prega, perché è solo all’ultimo posto, l’unico che ci fa autentici, che si sperimenta la paternità di Dio. Presumere di se stessi e credersi migliori, infatti, non fa parte del DNA dei figli di Dio. Tutto il contrario. Per questo non si diventa figli senza una lunga gestazione nelle viscere materne della Chiesa che ci rigenerano a immagine di Cristo.
Nell'attitudine del pubblicano Gesù rivela il cuore del cristiano. Egli è colui che, dopo un catecumenato che lo ha aiutato a conoscersi, è giunto nell’abisso del suo nulla dove ha incontrato Cristo. Ha dato morte all’uomo vecchio illuso e superbo, per rivestire il nuovo, sino ad assumere la stessa confidenza filiale di Gesù.
Ben venga allora la Croce che pota l’arroganza e ci “umilia” dinanzi a Dio e agli uomini. Abbiamo paura vero? Non vorremmo che fossero svelate le nostre debolezze… Davanti al marito o alla moglie, qualcosa sì, che vuoi dopo tanti anni, ma proprio questa schiavitù no... Che ne sarebbe della nostra relazione? Che farebbe mia moglie se sapesse che, a cinquant’anni suonati, ancora cado attratto dalla pornografia?
Davanti ai figli, beh questo proprio no. Loro devono avere modelli sani, non genitori scassati…. E un prete, un vescovo, un papa, la prudenza invita a occultare difetti e peccati… Che stolti siamo, ancora schiavi del mondo e dei suoi criteri. Certo, nella penombra non ci si avvede che, se Cristo si è fatto peccato e ora è lì in fondo alla Chiesa, la stessa struttura del Tempio è ormai capovolta.
Il Santo dei Santi non si trova più laddove il fariseo si era inoltrato a presentare la propria pretesa giustizia, ma è disceso a “giustificare”, a perdonare e a fare giustizia del cuore contrito del pubblicano. Nella Chiesa si viene per scendere e non per salire, per sperimentare tutti a favore di tutti la stessa “giustificazione”…
E’ quello che aveva sperimentato San Paolo caduto dalla propria superbia di fariseo: “Nella debolezza si manifesta pienamente la potenza di Dio”. La preghiera di un cristiano formato è il linguaggio filiale che esprime una fede adulta: stima chiunque superiore a sé stesso. E’ il frutto del discernimento che ha su stesso e sulla storia: è la domanda di Grazia di un condannato a morte.
La Chiesa è l’ufficio del Governatore o del Presidente, di colui che, solo, può concedere la Grazia. Per ottenerla basta il pentimento sincero, un cuore che si è arreso all’evidenza. Lo abbiamo oggi? O continuiamo a venire in Chiesa per sentirci importanti e impegnati, e sciacquare le macchie in un po’ di attivismo e di preghiere ben fatte… Eh no, la Chiesa è un’altra cosa… In essa ci si converte, ovvero si rinasce a vita nuova, si entra ingiustificabili e si torna giustificati.
Come può “disprezzare gli altri” chi è rimasto con solo poche parole sulle labbra - "abbi pietà di me che sono un peccatore, merito tutto questo", come il ladrone crocifisso accanto a Gesù - prima di sedersi sulla sedia elettrica? Non può perché la sua realtà ha fatto giustizia della sua superbia. Oggi, non siamo per caso sotto la lama di una ghigliottina? Basta pochissimo perché i peccati colmino la misura e addio figli, addio matrimonio, addio lavoro. “Sono un peccatore”, e chi lo dice più? Il Papa, e si scandalizzano…
Oggi, ora sono un peccatore, sto tradendo mia moglie, con amante o senza amante; ho ucciso mio cognato, con pensieri e lingua; ho rubato denaro con l’avarizia, affetto con le menzogne, stima con l’ipocrisia. Oggi può crollare tutto o posso tornare a casa, cioè in famiglia, nelle cose mie familiari, “giustificato”. Oggi il demonio può averla vinta o la “giustizia” della Croce può sanare e salvare. Sta a me: o mi precipito sul trono di un io inesistente, o accetto me stesso così come sono, consegnandomi all’Unico che può graziarmi.
Un grande monaco della Chiesa Orientale, Silvano del Monte Athos lo aveva compreso bene: "Tieni il tuo spirito agli inferi, e non disperare!". Il cristiano sa di camminare ogni giorno su un filo, con lo strapiombo a destra e a sinistra; non presume di se stesso e non nasconde a nessuno la propria debolezza, meno che meno a Dio. Si abbandona alla sua “pietà”, nella certezza che, istante dopo istante, laddove potrebbe abbondare il peccato e condannarsi, sovrabbonderà di certo la Grazia che lo giustificherà.
Il fariseo era rigido nel corpo e nello spirito, il pubblicano flesso nella postura corporale e nell’anima. Il fariseo parlava a se, il pubblicano a Dio. Il Dio del fariseo era interno, quello del pubblicano esterno. Il fariseo pensava di possedere Dio, il pubblicano no. Il criterio di giudizio del fariseo era se stesso, quello del pubblicano era Dio. Il fariseo giudicava gli altri in generale e nel particolare il pubblicano, il pubblicano esaminava se stesso. Il fariseo stava nei primi posti, il pubblicano negli ultimi. Il fariseo elencava meriti inesistenti, il pubblicano si riconosceva peccatore. Il fariseo si esaltava, il pubblicano si umiliava. Il fariseo non tornò giustificato, il pubblicano sì. Entrambi tornarono a casa con convinzioni errate: il fariseo di essere a posto, il pubblicano di non aver ottenuto il perdono. Ambedue ottengono quello che chiedono: il fariseo è confermato nella diversità rispetto al pubblicano, (qui risiede l’aspetto ricorsivo), l’esattore delle tasse è perdonato delle proprie colpe. Cfr. ebook di Ravecca Massimo. Tre uomini un volto: Gesù, Leonardo e Michelangelo. Grazie.
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