L'imbarazzo della scelta... "OMELIA"
Quel gelso mi ha fatto incazzare (omelia)
Scritto da don Marco Pozza
sullastradadiemmaus.it |
Abacuc: l'imbarazzo di un nome, sillabe che racchiudono un mistero. Un progetto. “Chi era costui” sarà lecito a qualcuno chiedersi imitando il vecchio curato di manzoniana memoria (liturgia della XXVII^ domenica del tempo ordinario). Abacuc era un uomo come mille altri uomini: un pugno di fango reso vivente da un soffio divino. Nome un po’ strano, forse un po’ bizzarro: le poche volte che lo incontriamo sorridiamo. Un uomo smarrito, impotente,incazzato col mondo. Sulla scia di tutti i profeti dell’Antica Alleanza. Di più: incazzato con il suo Dio! Perché lo spettacolo quotidiano era disgustoso. E perché di questo disgusto Dio sembrava fregarsene. Ai suoi tempi gli uomini si scannano con ferocia, l’ingiustizia raggiunge livelli atroci, si rapina il mondo, il debole è interrato (altro che innalzato come disse Maria), Caino sembra impazzire con suo fratello. Il creato, splendido giardino appoggiato nelle mani creative dell’uomo, sembra diventato una landa di ululati solitari. Storie di “balbettanti bamboccioni babbuini” – come direbbe Harry Potter. E Lui? Lui semplicemente lascia fare. Sembra distratto, indifferente. Sembra un Dio menefreghista. E Abacuc non ci sta. Lui, profeta costretto ad urlare parole di fuoco che nessuno voleva sentir dire, guarda in faccia Dio, il suo Dio, colui che l’ha mandato allo sbaraglio di fronte al palcoscenico della storia e sembra dirGli: “Dio, come la mettiamo? Io, Abacuc, protesto…” Lo guardi esterefatto, t’innamori di questo piccolissimo uomo che osa puntare il dito contro Dio, prendi paura perché non scherza. Per poi scoprire che Abacuc sono io, don Marco. Forse sei tu. Abacuc siamo noi. Siamo noi quando sgraniamo gli occhi stupiti e sbalorditi, frastornati e increduli, indignati e scandalizzati per la sporcizia del mondo. Ma pensa te: son passati 2700 anni e scopri che l’uomo è rimasto lo stesso: una vecchia anticaglia arrugginita che fatica a camminare. Aveva ragione De Andrè quando, a proposito di un vecchio professore alla ricerca del piacere, annotava: “Diecimila lire/ per sentirti dire/ micio bello/ e bamboccione”.
Dio e il suo profeta: uno splendore di attesa, di strategia morosa, di follia incantevole. Dio ascolta lo sfogo di quell’uomo. Lo ascolta, lo interpreta, ne fa tesoro perché Dio s’innamora dell’uomo quand’è libero. Libero di sfogarsi e ringraziare, di stupirsi e vergognarsi, di camminare e cadere, di credere o bestemmiare. Dio aspetta. Poi fa prendere ad Abacuc carta, penna e calamaio:”Scrivi la visione e incidila bene sulle tavolette perché la si legga speditamente”. Ah! Allora Dio c’aveva in testa qualcosa, non se ne stava indifferente, sentiva l’urlo montare nella gola di quell’uomo. Ed è anche preciso Dio: parla di un termine, di una scadenza. Si, perché su questo palcoscenico che noi chiamiamo vita un giorno calerà il sipario, il regista riguarderà le scene, sarà emesso un verdetto. Il quando non è dato sapere: basta aver appreso che succederà. E’ Parola di Dio: cioè Dio mette se stesso come garanzia, come assicurazione alla sua parola. Dio mette in gioco se stesso per costringere l’uomo a mettersi in gioco!
Ci sono uomini fiacchi, incapaci di superarsi. Di una felicità mediocre fanno la loro felicità, dopo aver soffocato la parte migliore di sé. Essi si fermano in una locanda per tutta la vita. Si coprono d'infami. Non m'importa di ciò che fanno costoro, non m'importa se vivono. Essi chiamano felicità il marcire sulle loro misere provviste. Rifiutano di avere dei nemici all'infuori di sé e dentro di sé(Antoine de Saint-Exupéry, Cittadella)
Una data come consegna. Che ti fa leggere la storia in modo inatteso: “Se aveste fede quanto un granellino di senape, potreste dire a questo gelso: Sii sradicato e trapiantato nel mare, ed esso vi ascolterebbe”. Vuoi far ridere Dio? ParlaGli dei tuoi sogni. Vuoi vederlo nervoso? DiGli che non c’è niente da fare. FaGli capire che la realtà è quella che è, la realtà non cambia. Non è mai cambiata. “Se aveste fede…”. Cioè la realtà è quello che è perché la nostra fede è quello che è, cioè non è fede. Se oggi ti tuffi nel Vangelo, rischi di spararti. Perché fai una scoperta amara: se hai fede c’è tutto da fare. Tutto resta sempre da fare. Tutto è possibile. Tutto: anche sradicare un gelso dalle radici impantanate nelle profondità del suolo. Anche spostare una montagna gigantesca. Anche cambiare te stesso. Il gelso sta lì in mezzo non per sederci attorno con vestaglia e pantofole, sonniferi e telecomando, diuretici e dimagranti. Il gelso sta lì perché non siamo riusciti a toglierlo. Sta li perché protestiamo ma non cambiamo. Giochiamo con le parole ma sono senza potenza, ne abbiam rapito la tenerezza. Ci sentiamo dei giganti ma la nostra povera storia di uomini ci dipinge come dei nani. E’ la stessa esortazione che fa Paolo di Tarso scrivendo all’amico Timoteo e ricordandogli che Dio ci ha dato uno spirito da guerrieri, da avventurieri. Gli ricorda che noi siamo gente creata per lanciarsi all’avventura del mondo. Sporcarsi le mani è comandamento diretto di Dio sceso dalle righe prime del Vecchio Patto: nessuna dispensa autorizzata. Perché il gelso va sradicato, il male va smascherato. Il mondo va aiutato a risorgere quotidianamente. Non basta custodire: è necessario costruire, elevare, innalzare. E’ necessario sconvolgere il mondo!
Robe da matti, don Marco! – direbbe la mia cuginetta sorridente. Sono proprio robe da matti: aspetto i miracoli dal Signore. Ne sono ghiotto: amo collezionarli come un appassionato di filatelica i francobolli. Ma mi dimentico che i miracoli li compiva quando vedeva la fede. Io, invece, aspetto il miracolo per aver fede. E il mio cammino non s’incrocia mai. Le spalle si guardano, gli occhi si ignorano. E pensare che tutto il Vangelo è dimostrazione delladebolezza di Dio di fronte alla fede. Ma io nego al Signore questa gioia. Perché non ho fede. Sono colpevole di aver rifiutato un po’ di gioia al Signore a motivo della mia poca fede. Insomma: è bastato un gelso sul mio cammino per incassare una pesante bocciatura. L’ennesima.
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XXVII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO (Anno C) CEI |
Alzo gli occhi verso i monti: da dove mi verrà l’aiuto? Il mio aiuto viene dal Signore: egli ha fatto cielo e terra.
Commenti Vangelo 6 ottobre 2013 XXVII T. O.
Commenti al Vangelo di:
5.E. Bianci
6. L. Manicardi
Anno CAb 1,2-3; 2,2-4; Sal 94; 2Tm 1,6-8.13-14; Lc 17,5-10
La fede è il tema unificante la prima lettura e il vangelo. Nella prima lettura si tratta della fede messa alla prova dal silenzio e dall’inazione di Dio e chiamata a divenire attesa perseverante e fiduciosa nella promessa di Dio. Così, anche in tempi bui, il giusto troverà vita grazie alla fede.
Nel vangelo si tratta della fede come realtà non quantificabile, ma qualitativa, caratterizzata dalla relazione di abbandono fiducioso del servo al suo Signore.
Di fronte alle parole di Gesù che parlano di perdono fino a sette volte al giorno nei confronti del fratello che pecca (cf. Lc 17,3-4), gli apostoli pregano Gesù di accrescere la loro fede (cf. Lc 17,5). Essi mostrano così di aver ben capito che il perdono non è solo un gesto etico, ma è evento escatologico, dono dello Spirito santo, irruzione del Regno di Dio nella vita degli uomini. Mostrano di aver capito che la comunione nella comunità cristiana – comunione a cui è essenziale il perdono – è possibile solo grazie alla fede, al far regnare la signoria di Dio. Ma chiedendo la fede essi mostrano anche di aver compreso che la fede è dono che trova nel Signore stesso la sua origine e la sua fonte. E mostrano di aver capito che della fede – propria e altrui – non si è padroni e non la si può imporre, ma solo la si può accogliere con gratitudine e nutrire con la preghiera. E ancora che anche per loro, “gli apostoli” (Lc 17,5), i Dodici scelti direttamente da Gesù, la fede non è una realtà scontata. Anzi la fede è sempre “poca” e i discepoli sono sempre “uomini di poca fede”, ovvero incapaci di quella relazione di abbandono pieno e fiducioso, gratuito e convinto, umile e perseverante, dolce e robusto, in una parola, di quell’amore che è alla base della potenza della fede.
La fede e null’altro è alla base dell’autorità degli apostoli: questo è sottolineato da Luca con l’annotazione che, se avessero fede quanto un minuscolo granello di senape, potrebbero farsi “obbedire” (verbo hypakoúein: Lc 17,6) anche da un albero a cui viene ordinata una cosa folle. Solo la fede consente al predicatore, al missionario, all’apostolo di farsi eco – con la propria azione e la propria parola – dell’azione e della Parola di Dio e di suscitare nel destinatario l’adesione teologale, non un’appartenenza alla propria persona.
Nel detto parabolico dei vv. 7-10 Gesù prima paragona gli apostoli a dei padroni che hanno dei servi, poi direttamente a dei servi, e per di più, inutili. L’autorità nella chiesa si declina come servizio ed esclude ogni rapporto di forza e di dominio. Il passaggio dall’“avere un servo” (cf. Lc 17,7) all’“essere servi” (cf. Lc 17,10) è significativo: nella comunità cristiana non vi sono padroni e servi, ma vi sono dei fratelli che sono dei servi dell’unico Signore e maestro (cf. Mt 23,8-10). L’autorità nella chiesa deve passare attraverso il vaglio dell’umiltà e del servizio per non esprimersi come potere e oscurare così l’unica signoria di Gesù: “Un apostolo non è più grande di chi l’ha inviato”, dice Gesù ai suoi discepoli subito dopo aver loro lavato i piedi durante l’ultima cena (Gv 13,16).
Ecco dunque la situazione, paradossale ma salvifica, in cui è posto il missionario, l’apostolo nella comunità cristiana: la sua autorità riposa interamente sul suo essere inviato come servo (Lc 17,7; At 20,19), per lavorare il campo di Dio (1Cor 3,5 ss.), per arare (Lc 17,7; 1Cor 9,10) o pascolare (Lc 17,7; At 20,28; 1Cor 9,7). La sua autorità riposa sulla sua obbedienza alla Parola del Signore (Lc 17,10). Ed ecco la coscienza con cui il servo è chiamato a esercitare il suo ministero: l’inutilità. Non che il suo spendersi sia inutile, ma la coscienza che anima l’apostolo è liberante e liberata quando egli compie tutto senza nulla far risalire a se stesso, ma tutto rinviando al Signore che è all’origine della sua chiamata e di ogni fecondità apostolica. Paolo, dopo aver ricordato di aver “servito il Signore con tutta umiltà” (At 20,19), dice: “La mia vita non è meritevole di nulla, purché conduca a termine la mia corsa e il servizio che mi è stato affidato dal Signore Gesù” (At 20,24).
Nel vangelo si tratta della fede come realtà non quantificabile, ma qualitativa, caratterizzata dalla relazione di abbandono fiducioso del servo al suo Signore.
Di fronte alle parole di Gesù che parlano di perdono fino a sette volte al giorno nei confronti del fratello che pecca (cf. Lc 17,3-4), gli apostoli pregano Gesù di accrescere la loro fede (cf. Lc 17,5). Essi mostrano così di aver ben capito che il perdono non è solo un gesto etico, ma è evento escatologico, dono dello Spirito santo, irruzione del Regno di Dio nella vita degli uomini. Mostrano di aver capito che la comunione nella comunità cristiana – comunione a cui è essenziale il perdono – è possibile solo grazie alla fede, al far regnare la signoria di Dio. Ma chiedendo la fede essi mostrano anche di aver compreso che la fede è dono che trova nel Signore stesso la sua origine e la sua fonte. E mostrano di aver capito che della fede – propria e altrui – non si è padroni e non la si può imporre, ma solo la si può accogliere con gratitudine e nutrire con la preghiera. E ancora che anche per loro, “gli apostoli” (Lc 17,5), i Dodici scelti direttamente da Gesù, la fede non è una realtà scontata. Anzi la fede è sempre “poca” e i discepoli sono sempre “uomini di poca fede”, ovvero incapaci di quella relazione di abbandono pieno e fiducioso, gratuito e convinto, umile e perseverante, dolce e robusto, in una parola, di quell’amore che è alla base della potenza della fede.
La fede e null’altro è alla base dell’autorità degli apostoli: questo è sottolineato da Luca con l’annotazione che, se avessero fede quanto un minuscolo granello di senape, potrebbero farsi “obbedire” (verbo hypakoúein: Lc 17,6) anche da un albero a cui viene ordinata una cosa folle. Solo la fede consente al predicatore, al missionario, all’apostolo di farsi eco – con la propria azione e la propria parola – dell’azione e della Parola di Dio e di suscitare nel destinatario l’adesione teologale, non un’appartenenza alla propria persona.
Nel detto parabolico dei vv. 7-10 Gesù prima paragona gli apostoli a dei padroni che hanno dei servi, poi direttamente a dei servi, e per di più, inutili. L’autorità nella chiesa si declina come servizio ed esclude ogni rapporto di forza e di dominio. Il passaggio dall’“avere un servo” (cf. Lc 17,7) all’“essere servi” (cf. Lc 17,10) è significativo: nella comunità cristiana non vi sono padroni e servi, ma vi sono dei fratelli che sono dei servi dell’unico Signore e maestro (cf. Mt 23,8-10). L’autorità nella chiesa deve passare attraverso il vaglio dell’umiltà e del servizio per non esprimersi come potere e oscurare così l’unica signoria di Gesù: “Un apostolo non è più grande di chi l’ha inviato”, dice Gesù ai suoi discepoli subito dopo aver loro lavato i piedi durante l’ultima cena (Gv 13,16).
Ecco dunque la situazione, paradossale ma salvifica, in cui è posto il missionario, l’apostolo nella comunità cristiana: la sua autorità riposa interamente sul suo essere inviato come servo (Lc 17,7; At 20,19), per lavorare il campo di Dio (1Cor 3,5 ss.), per arare (Lc 17,7; 1Cor 9,10) o pascolare (Lc 17,7; At 20,28; 1Cor 9,7). La sua autorità riposa sulla sua obbedienza alla Parola del Signore (Lc 17,10). Ed ecco la coscienza con cui il servo è chiamato a esercitare il suo ministero: l’inutilità. Non che il suo spendersi sia inutile, ma la coscienza che anima l’apostolo è liberante e liberata quando egli compie tutto senza nulla far risalire a se stesso, ma tutto rinviando al Signore che è all’origine della sua chiamata e di ogni fecondità apostolica. Paolo, dopo aver ricordato di aver “servito il Signore con tutta umiltà” (At 20,19), dice: “La mia vita non è meritevole di nulla, purché conduca a termine la mia corsa e il servizio che mi è stato affidato dal Signore Gesù” (At 20,24).
LUCIANO MANICARDI
7. di Ermes Ronchi
La fede, un «niente» che può «tutto»
In quel tempo, gli Apostoli dissero al Signore: «Accresci in noi la fede!». Il Signore rispose: «Se aveste fede quanto un granello di senape, potreste dire a questo gelso: “Sràdicati e vai a piantarti nel mare”, ed esso vi obbedirebbe. Chi di voi, se ha un servo ad arare o a pascolare il gregge, gli dirà, quando rientra dal campo: “Vieni subito e mettiti a tavola”? Non gli dirà piuttosto: “Prepara da mangiare, stríngiti le vesti ai fianchi e sérvimi, finché avrò mangiato e bevuto, e dopo mangerai e berrai tu”? Avrà forse gratitudine verso quel servo, perché ha eseguito gli ordini ricevuti? Così anche voi, quando avrete fatto tutto quello che vi è stato ordinato, dite: “Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare”».
Fonte: avvenire
8.Vangelo del 6/10/2013 *Luca 17, 5-10 da RadioLaghiInBlu
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