Adalberto Mainardi San Sergio di Radonež
In occasione dei 700 anni dalla nascita del grande santo russo
pubblichiamo il saggio inviatoci
da Frate Adalberto Mainardi della
Comunità di Bose.
La biografia di san Sergio di Radonež (1314 ca.-1392)* è inseparabilmente intrecciata agli eventi che nel XIV secolo segnarono il sorgere dell’egemonia moscovita tra i principati russi, e il nascere di una nuova coscienza nazionale russa (1): la vittoria del gran principe di Mosca Dmitrij sul tataro Mamaj a Kulikovo (1380) diverrà l’emblema del riscatto della Rus’ dal giogo straniero.
Ma l’epoca di san Sergio è anche un momento di eccezionale fioritura nelle arti figurative e in letteratura (la cosiddetta “seconda influenza slavo-meridionale”) ed è soprattutto l’inizio di un vasto movimento di rinascita della vita monastica, che troverà in san Sergio la guida e un saldo punto di riferimento. Se per certi aspetti possiamo senz’altro collocarne l’opera nel solco della tradizione del monachesimo kieviano, in Sergio emerge unnovum che fa di lui “il primo santo russo che possa definirsi mistico, nel senso ortodosso della parola, in quanto portatore di una particolare, segreta vita spirituale”(2) .
Una rilettura delle fonti, soprattutto della Vita di Epifanio il Saggio (Sergio stesso non scrisse nulla), che tenga presenti l’iconografia dell’epoca e la vita liturgica (la dedicazione del monastero assume così un rilievo particolare) permette d’individuare i momenti in cui l’insegnamento di Sergio segna una svolta nella storia della spiritualità russa, e ne fissa alcune costanti.
Nella tipologia agiografica, Sergio, “angelo terrestre e uomo celeste”(3), assume i tratti dell’eletto sin dal grembo materno. L’insistenza di Epifanio sui richiami trinitarii nei miracoli che hanno preceduto e accompagnato la nascita del santo(destinato a essere “servitore e dimora della Santa Trinità”) offre già un’indicazione di quello che veniva ormai recepito come un aspetto precipuo della sua eredità spirituale: la centralità del mistero trinitario nella vita del cristiano (Epifanio scrive intorno al 1417, nel 1422 Andrej Rublev dipinge l’icona della Trinità “a lode del nostro padre Sergio”(4) ).
Dopo esser vissuto alcuni anni nel silenzio e nella solitudine della foresta di Makovec, a qualche decina di chilometri da Radonež, il giovane Bartolomeo riceve l’abito monastico e il nome di Sergio dall’igumeno Mitrofane (1337):
Il nostro santo padre non prese l’abito angelico, fino a quando non ebbe imparato tutte le opere dei monaci ... e sempre, in ogni tempo, con grande zelo e desiderio e tra le lacrime egli pregava Dio che lo rendesse degno di vestire l’abito angelico e avvicinarsi all’ordine dei monaci” (5)
Alcuni anni più tardi il metropolita Teognosto farà consacrare la chiesetta di legno costruita da Sergio nel bosco, e dedicata – novità assoluta nella Rus’ – alla Vivificante Trinità.
La Vita si sofferma sull’accanita lotta che il giovane monaco, come gli antichi padri del deserto, conduce contro i demoni (“Fuggi, fuggi da questo luogo ... non siamo noi che ti muoviamo guerra, ma sei stato tu ad assalirci!” (6)), vincendoli con l’invocazione del “nome della santa Trinità”(7) .
Il modello agiografico antico, ben presente nella filigrana della Vita di san Sergio, non impedisce a Epifanio di offrire una vivace “attualizzazione” delle tentazioni del santo: il velo della convenzione letteraria non è ancora così fitto da non lasciar scorgere il senso spirituale reale della prova dell’“uomo di Dio”. Sergio rivive le tentazioni di Cristo nel deserto: la sua vittoria è meno il trionfo dell’ascesi umana, che l’abbassamento a immagine del Servo del Signore in Isaia 53, che rinuncia a compiere la volontà propria per rimettere la vita nelle mani di Dio. Nella consegna di sé, il santo scorge una discendenza numerosa: è il senso dell’episodio bellissimo della visione degli uccelli. Mentre veglia nella notte in preghiera per i fratelli (i primi che lo hanno raggiunto nella foresta), Sergio vede “una grande luce nel cielo, e tutta la tenebra della notte fu cacciata”. Dalla luce sente una voce, che gli annuncia che la sua preghiera è stata accolta, e lo invita a guardare “la moltitudine dei monaci che nel nome della santa Trinità principio di vita si sono raccolti nel gregge” che egli guida: e Sergio vede un gran numero di “uccelli bellissimi che volavano non solo sul monastero, ma anche attorno al monastero”. Allo stesso modo, promette la voce, si moltiplicheranno i discepoli di Sergio, che “vorranno seguirne le orme”(8) .
San Sergio è sicuramente anche l’erede della tradizione monastica che risale a Teodosio di Kiev (9). Il tentativo di sintesi operato nel monachesimo kieviano tra rigorismo ascetico (la tradizione siriaco-egiziana) e la misura di misericordia necessaria nella vita cenobitica, tra fuga mundi e servizio agli uomini – ma anche tra vita comune e le spinte centrifughe dell’eremitismo, trova in Sergio il suo punto di massimo equilibrio. Tra le fonti della Vita di san Sergio, scritta da Epifanio il Saggio, un posto particolare occupa la Vita di Teodosio di Nestor, inclusa nel Paterik della lavra delle Grotte di Kiev (xi sec.). La distanza dal modello è evidente nello stile letterario (Epifanio espande l’ingenua linearità di Nestor con raffinati e intraducibili “intrecci di parole”), ma l’intenzione spirituale sembra la medesima: la vigilanza, l’amore e la misericordia, e non la meccanica osservanza della Regola, sono il sostegno della vita comunitaria. Può essere utile il raffronto di due passi tratti dalle due Vite relativi all’abitudine dell’ispezione notturna dell’igumeno, che “si prende cura non solo del corpo, ma anche dell’anima dei suoi fratelli”(10):
Quando [Teodosio] sentiva qualcuno conversare, essendosi riuniti insieme due o tre dopo la preghiera serale, allora, dopo aver bussato con la sua mano alla porta, si allontanava, avendo segnalato in quel modo la sua venuta. Il mattino chiamava il fratello, senza però biasimarlo subito. Correggeva questi monaci prendendo spunto da una parabola e diceva loro che voleva rendersi conto del loro zelo per il Signore. Se il fratello era mite e limpido di cuore e ardente nell’amore di Dio, comprendeva subito la propria colpa, si prostrava a terra e domandava di ricevere il perdono di Teodosio. Ma se il fratello era nel suo cuore oscurato dalle tenebre diaboliche, rimaneva in piedi, pensando che Teodosio stesse parlando di un altro, considerando se stesso senza colpa. Alla fine il beato lo smascherava e, impostagli una penitenza, lo congedava (11).Se Sergio sentiva qualcuno chiacchierare, in gruppetti di due o tre, o ridere, ne era molto contrariato, e non sopportandolo assolutamente, batteva la mano sulla porta o bussava alla finestra e se ne andava. In questo modo faceva loro sapere della sua venuta e della sua visita e con l’invisibile visita troncava le vane chiacchiere. Il giorno dopo, al mattino, chiamava a sé i colpevoli; ma anche qui non proibiva subito loro di chiacchierare, e non li smascherava con ira, e non li puniva, ma da lontano, pian piano e con dolcezza, quasi come raccontando una parabola, parlava con loro, desiderando conoscerne lo zelo e la premura per Dio. E se il fratello era ubbidiente, e umile, e ardente nella fede e nell’amore per Dio, allora subito, compresa la sua colpa, con umiltà cadeva in ginocchio davanti a Sergio, pregando di perdonarlo ecc... (12)
In Sergio l’umiltà e la dolcezza, che lo collocano accanto a Teodosio, si approfondiscono sempre più, attingono al loro fondamento cristologico: “sempre più debolmente si manifesta il rigore dell’ascesi, ma sempre più forte si avverte quella disarmata mitezza, che arriva nell’igumeno quasi all’impotenza”(13) .
Alla minuscola comunità che dal 1340 si raccoglie intorno a lui, Sergio indicherà come modello delle relazioni fraterne l’umiltà e la sottomissione reciproca:
Fate attenzione, fratelli, imploro voi tutti; abbiate anzitutto il timore di Dio, la purezza del cuore e un amore sincero; e con questo l’ospitalità, l’umiltà che viene dalla sottomissione, l’ascesi e la preghiera (14).
Dietro queste parole che la tradizione ama ripetere, sta la grande intuizione di Sergio: il mistero della Trinità è mistero di comunione profonda nella vita dei credenti, e l’amore nella vita comune dei fratelli è l’icona della vita trinitaria di Dio. L’agape nelle relazioni comunitarie è il riflesso del movimento ineffabile d’amore del Padre verso il Figlio, e che attraverso il Figlio, nello Spirito santo, ci è stato rivelato e comunicato: “Come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch’essi in noi una cosa sola ... perché il mondo sappia che tu mi hai mandato e li hai amati come hai amato me” (Gv 17, 21 e 23). San Sergio riconduce al cuore della Trinità, che si autorivela nell’economia di salvezza, quel mistero di sottomissione e abbassamento che contempliamo nel Figlio: prima del monaco Andrej, che la dipinse, Sergio vide l’identità dell’ora di Gesù del quarto evangelo con la gloria dell’Unigenito nel seno del Padre: “Padre, è giunta l’ora, glorifica il Figlio tuo, perché il Figlio glorifichi te ... E ora, Padre, glorificami davanti a te, con quella gloria che avevo presso di te prima che il mondo fosse” (Gv 17,1 e 5) (15) .
Su questo aspetto “giovanneo”, che la spiritualità di san Sergio condivide con la pittura di Rublev, dovremo tornare tra poco. Vorrei considerare ora più da vicino i tratti del volto di Cristo che traspaiono dalla Vita di san Sergio.
Epifanio si sofferma a lungo a descrivere l’infaticabile zelo di Sergio nel compiere i lavori più umili e faticosi a servizio dei fratelli
Senza pigrizia [il beato], come un servo comprato, serviva i fratelli: per tutti, come si diceva, tagliava la legna, trebbiava il grano e con le macine lo macinava, cuoceva il pane e cucinava la pietanza e preparava l’altro cibo di cui i fratelli avevano bisogno; tagliava e cuciva calzature e vestiti; attingeva acqua dalla fonte ch’era là con due secchi e li portava in alto sulle spalle, e versava l’acqua nella cella di ogni fratello. Trascorreva la notte in preghiera vegliando, si nutriva solo con pane e acqua, e anche di questo prendeva poco, e non stava mai un’ora inoperoso (16) .
Il senso cristologico preciso di queste notazioni emerge dal confronto con l’episodio in cui Sergio conosce la solitudine e l’incomprensione dei fratelli, la notte in cui l’amico tradisce. Epifanio racconta senza reticenze quello che dovette essere uno dei momenti più difficili della vita di san Sergio, una vera e propria lacerazione nel tessuto dei rapporti comunitari (17):
Un giorno – era un sabato – cantavano l’ufficio di vespro; l’igumeno Sergio era all’altare, vestito dei paramenti del celebrante. Stefano, suo fratello, stava nel coro di sinistra, e chiese al canonarca: “Chi ti ha dato questo libro?”. Il canonarca rispose: “Me lo ha dato l’igumeno”. E Stefano disse: “Chi è igumeno in questo posto: non sono forse venuto prima io in questo posto?”. E pronunciò altre parole indecorose. Il santo sentì tutto ciò dall’altare ma non disse nulla. E quando uscirono dalla chiesa, il santo non andò in cella, ma subito abbandonò il monastero e andò solo per via … e scese la notte (18).
L’immagine del Cristo che Sergio ci consegna è soprattutto quella del servo, del Figlio dell’uomo che è venuto “non per essere servito ma per servire” (Mc 10, 42-45)(19) . Sergio mostra di aver compreso – realizzandolo nella sua vita – che nello spogliamento secondo la forma di servo è contenuto un magistero: il luogo bassissimo in cui il Cristo si colloca determina la qualità delle relazioni nella comunità dei discepoli, e il senso del ministero che vi si esercita. Ma questa kenosi del Cristo è colta all’interno del respiro trinitario: colui che non ha considerato un “possesso geloso” la sua uguaglianza con Dio, ma ha assunto la forma di servo, facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce (Fil 2,6-8), è uno della Santa Trinità. Di qui l’ubbidienza, l’umiltà e l’umiliazione di Sergio. Ma, anche, la conoscenza del mistero di Dio. L’acconsentimento al sacrificio è incomprensibile al di fuori del mistero inenarrabile di amore delle Tre Persone.
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È con Andrej Rublev che l’icona della filoxenía di Abramo diventa definitivamente icona della Trinità veterotestamentaria: le figure di Abramo e Sara scompaiono, la tavola imbandita si ridimensiona, non resta che una coppa al centro di uno spazio spoglio, la tavola stessa diviene un altare (e un sepolcro: il mistero del seppellimento). L’apertura visibile sotto la coppa è il vano dell’altare (verso Oriente) dove erano poste le reliquie dei martiri. I tre angeli sono attorno alla mensa eucaristica, ma chi guarda (le chiese sono orientate, e l’iconostasi si affaccia a ovest) vede raffigurato il lato dell’altare che solitamente rimane nascosto. La figura centrale (che sembra rivolgersi a occidente), è in realtà rivolta a oriente. È il Sacerdote unico che si accosta al sacrificio, contemplando l’icona vediamo il mistero che si compie al di là della barriera che separa il presbiterio dalla navata; ma in profondità l’iconografo ha contemplato il mistero dell’incarnazione, morte e resurrezione del Verbo nel Consiglio eterno della Trinità. La consegna del Figlio è la consegna della comunione dell’amore trinitario all’uomo, è sempre anche discesa dello Spirito. Ancora una volta un tema giovanneo: sulla croce Gesù “consegna” (parédoken) lo Spirito (Gv 19,30). La Trinità di Rublev era collocata a destra delle porte regali dell’iconostasi del Troickij sobor [Cattedrale della Trinità], là dove normalmente si trova l’icona di Cristo: colui che vede l’icona è colui che si accosta all’eucarestia. L’immagine narra figurativamente l’evento che si compie nella liturgia. La natura antinomica dell’icona (rappresenta l’irrappresentabile) affonda nel mistero stesso dell’inattingibile – “Nessuno mai ha visto Dio” (1 Gv 4,12) – che si è reso accessibile: “In questo si è manifestato l’amore di Dio per noi: Dio ha mandato il suo unigenito Figlio nel mondo, perché noi avessimo la vita per lui” (1 Gv 4, 9); “Da questo si conosce che noi rimaniamo in lui ed egli in noi: egli ci ha fatto dono del suo Spirito” (1 Gv 4, 13). Nel dono di sé Dio trascende la propria trascendenza, l’invisibile si fa presenza, l’illimitato limitato, l’impartecipabile partecipabile, sensibilmente. Questa dedizione incondizionata allo sguardo è la bellezza. Per chi l’accoglie è la salvezza del mondo.
“San Sergio di Radonez con scene di vita” di Dionisij (XV sec. ) |
L’intuizione di Rublev presuppone la mistica di san Sergio. E – occorre notarlo – è una mistica che nella persona trova il suo punto focale. Non solo, per la prima volta, è raggiunto un perfetto equilibrio tra la tradizione iconografica che si concentrava sull’uguaglianza della natura (raffigurando tre angeli identici) e quella che privilegiava una lettura cristologica dell’incontro di Mamre (Gen 18,1-15), dando un netto risalto all’angelo centrale (come Teofane il Greco); ma per la prima volta le tre figure sono colte nel loro essere persona, di pari onore e dignità, e tuttavia con tratti unici e inconfondibili (i volti, la gestualità, le vesti, la simbologia dello sfondo: la casa, l’albero, la roccia), secondo un ordine (la monarchia del Padre, la figura di sinistra, verso cui sono dolcemente inclinate le altre due).
La stessa prospettiva inversa coinvolge l’orante – il modo di guardare l’icona è la preghiera – all’interno del mistero contemplato (non lo proietta verso un irraggiungibile punto di fuga all’infinito). L’apofatismo dell’esperienza mistica in oriente è un apofatismo della persona (20) , è il silenzio degli sguardi dei tre angeli che si incrociano e conversano della coppa al centro dello spazio dell’icona (le linee delle figure disegnano un calice); e nella coppa, in cui si sprofonda lo sguardo dell’angelo di destra (“Egli mi glorificherà, perché prenderà del mio e ve lo annunzierà” Gv 16,14), affiora il santo Volto. I Tre sono immagine l’uno dell’altro.
In san Sergio si profila con nettezza il fondamento e il tratto specifico della mistica ortodossa russa, che è essenzialmente un cammino verso l’unione con Dio quali figli amati nel Figlio e a lui resi somigliantissimi nello Spirito santo. Se non è possibile accedere al Padre se non per mezzo del Figlio, osservava Paul Evdokimov, solo lo Spirito santo permette di conoscere il Figlio. L’epiclesi dello Spirito santo presiede ogni comunicazione con il Cristo e il Padre: “Tra la Parola di Dio e la risposta umana, tra Dio e l’uomo si pone lo Spirito checristifica, che attinge ‘indietro’, presso il Figlio, per annunciare ‘in avanti’ (cfr. Gv 16,15)” (21).
La vita di un santo è sempre di nuovo questa apocalissi nello Spirito del Volto di Cristo. C’è un’altra icona trinitaria che completa questa “rivelazione” del Cristo al cuore stesso della tradizione monastica russa: quella della Trasfigurazione. Il Rito della benedizione e santificazione dell’icona della Trinità santissima e vivificante, accanto all’immagine veterotestamentaria, riconosce tre manifestazioni trinitarie nel Nuovo Testamento: Battesimo, Trasfigurazione e Pentecoste.
Come rivela l’Antico Testamento, la Tua apparizione sotto la forma di tre angeli al glorioso patriarca Abramo ; e nella nuova Grazia … sul monte Tabor il Padre si è manifestato ai tre apostoli attraverso la voce, lo Spirito santo in una nube, il Figlio nella luce sopraluminosa.
La tradizione patristica e la liturgia orientale concordano in questa lettura trinitaria della Trasfigurazione: il Tabor è insieme una Cristofania, dove l’umanità di Cristo viene rivestita di quella gloria che Gesù aveva prima che il mondo fosse (Gv 17,5), e dove la divinità si rivela nella carne umana, senza separazione né confusione; ma è anche una pneumatofania, perché è lo Spirito che risplende “con la nuvola luminosa, mostrando la comunione di natura del Figlio, in rapporto a Lui e al Padre, e l’unità della luce” (22). Ed è infine una teofania, perché è il Padre, che nessuno ha mai visto (Gv 1, 18), ad attestare “con la sua voce che quello era il suo Figlio prediletto”(23). Non è un caso che la Trasfigurazione sia la festa più caraalla tradizione monastica, soprattutto in Oriente, che vi scorge il fondamento della divinizzazione per grazia:
I tre discepoli, saliti con Gesù al Tabor, han visto la sua gloria, la sua luce e la sua santità nella misura in cui erano essi stessi gloria, luce e santità. Non c’è contemplazione senza partecipazione, perché il Cristo, illuminando la natura umana di Adamo, la divinizza, trasferendo l’esistenza umana, intessuta di miseria, nella dimensione gloriosa (24).
Se in qualche misura è possibile parlare dell’esicasmo di san Sergio e della prima generazione dei suoi discepoli (indipendentemente dalle controversie palamitiche), sarà allora con riferimento a questa esperienza della luce taborica, di cui già gli iconografi antichi coglievano il riflesso raffigurando il volto del santo (25) . Ma è un’esperienza custodita dal silenzio. I due racconti che Epifanio ci ha lasciato della “visione della luce” in san Sergio, sono significativamente due eventi liturgici, l’eucarestia è il vero protagonista, e la manifestazione sensibile della grazia diviene un’occasione d’insegnamento ai discepoli che ne sono testimoni. Isacco il Silenzioso e Mitrofane vedono l’angelo di fuoco che celebra con il santo, Simeone vede il fuoco divino che dopo aver avvolto il celebrante si immerge nel calice a cui Sergio comunica. Sergio risponde con toccante semplicità al turbamento dei discepoli, consegnandosi al loro silenzio:
“O figli amati! Posso forse io nascondervi quello che il Signore vi ha rivelato(26)? Colui che avete visto è l’angelo del Signore: e non solo oggi, ma sempre, per l’accondiscendenza divina, mi è dato, indegno come sono, di celebrare con lui. Ma voi, quello che avete visto, non raccontatelo a nessuno, finché io sono in questa vita”. E i discepoli furono pieni di stupore (27).
E a Simone:
“Figlio! Perché il tuo spirito è turbato?” E quegli rispose: “Signore! Ho veduto una visione prodigiosa, la grazia dello Spirito santo che agiva in te”. Il santo gli proibì di parlare, e disse: “Non raccontare a nessuno ciò che hai visto, fino a quando il Signore non mi farà partire da questa vita”. E così insieme innalzarono una lode a Dio(28).
Il silenzio impedisce la cosificazione del segno, ne mantiene tutta la tensione alla Verità, alla pienezza di senso che deve manifestarsi alla resurrezione dei morti (cf. Mc 9, 9-10; Mt 17, 9).
Sergio vive della fede nel Risorto, e avendo conosciuto “il mistero del seppellimento, della morte e della Resurrezione, conosce anche la ragione segreta di tutte le cose” (Massimo il Confessore), le colloca nella prospettiva sofianica per cui esse riacquistano la bontà e la finalità per cui erano state create. Allo stesso modo, nella foresta di Makovec l’orso e le fiere da presenze diaboliche si erano trasformate, per le preghiere di Sergio, in amici silenziosi con cui il giovane eremita divideva il pane. E questo è anche il senso profondo dell’ascesi cristiana, che va oltre l’ascetismo antico “e inizia all’arte della resurrezione (Gv 5,14)” (29). I miracoli narrati dall’agiografo sono più che mai i segni che accompagnano l’avvento degli ultimi tempi, in cui l’evangelo è annunciato ad ogni creatura (Mc 16,15-18). Attorno a Sergio i morti ritornavano alla vita, “gli spiriti immondi erano scacciati … i malati erano guariti e i ciechi vedevano” (30).
Emblematico, in questo senso, è l’episodio in cui la preghiera di Sergio risuscita un fanciullo (lo vediamo raffigurato in tutte le icone del santo con scene della vita). “Nessuno può risorgere fino alla resurrezione dei morti”, ripete san Sergio al padre a cui ha restituito il figlio, imponendogli il silenzio. E questi, che “non poteva tacere e non osava parlare”, “rimase stupito, levando una lode a Dio che ha fatto cose meravigliose e gloriose, che i nostri occhi – come sta scritto – hanno veduto” (31) . Sergio è qui veramente “l’uomo di Dio” nel quale il Regno si è avvicinato, sul quale finalmente e compiutamente Dio regna, rivelandosi agli uomini.
NOTE
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