Santa Maria,

Santa Maria,
...donna del primo sguardo, donaci la grazia dello stupore.

venerdì 30 gennaio 2015

Prepararsi alla Domenica (IV T.O.)

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4ª Domenica del Tempo Ordinario (B)

Mc 1,21-28

Pietro Paolo Rubens Cristo al banchetto, 1618-20, Hermitage San Pietroburgo.

Parole dette dall’autorità o parole che hanno dentro un’autorità?

Commento di don Angelo Casati.
È il primo dei segni di Gesù nel vangelo di Marco, il primo dei segni che noi siamo soliti chiamare “miracoli”. Ed è un segno, un miracolo, senza gesti: basta una parola, una sola parola: “Taci, esci”. “Dì una sola parola, una sola parola, Signore, e io sarò salvato”. Non so se sbaglio, ma ho come l’impressione che al centro di questo racconto del vangelo di Marco ci sia la parola: e tutti nella sinagoga affascinati, sorpresi e anche imbrividiti da quella parola nuova, la parola di Gesù.
All’inizio del brano: “…ed erano stupiti del suo insegnamento”. E alla fine: “…tutti furono presi da timore, tanto che si chiedevano a vicenda: “Che è mai questo? Una dottrina nuova insegnata con autorità”. Mi incuriosiva, leggendo il testo, il connubio, o il divorzio, di questi due termini: “parola” e “autorità”. Mi incuriosiva perché il nostro mondo si segnala per un eccesso di parole, un’invasione di parole: ma ti fanno sussultare come davanti a qualcosa di nuovo? Hanno dentro -le parole- un’autorità? E quando le parole hanno dentro un’autorità?
Pensate quante persone erano entrate, durante gli anni, di sabato, nella sinagoga di Cafarnao. Ogni sabato qualcuno si alzava, prendeva il rotolo, lo apriva, leggeva, insegnava. Ma quel sabato nella sinagoga fu una cosa diversa: “erano stupiti perché insegnava loro come uno che ha autorità e non come gli scribi”. Eppure gli scribi erano un’autorità. Avevano il “ruolo” dell’autorità, ma il loro insegnamento non stupiva nessuno. Erano fermi alle leggi, all’interpretazione delle leggi, all’enunciazione delle leggi. Erano parole vecchie, logore, che non mettevano in moto nessuno: un diluvio di parole da cui salvarsi.
Parole da cui salvarsi o parole che ci salvano? Questo è il problema. Enorme la differenza. Parole dette dall’autorità o parole che hanno dentro un’autorità? Autorità nel senso di “augere”, di “aumentare”, di espandere, di promuovere, di aprire inizi nuovi, di suscitare energie nuove, possibilità nuove.
Pensate come spesso abbiamo appiattito l’immagine dell’autorità nell’immagine del contenere, del frenare, del mettere i paletti, del dire il codice, le cose di sempre. Parole stanche, dilavate, senza sussulti. E come si potrebbe fremere o stupirsi? Parole senza brividi di profezia. Elenchi di cose. Parole da cui salvarsi e non parole che salvano.
Nelle parole di Gesù c’era il brivido della profezia, la passione del profeta. Parlare come i profeti. I profeti non sono aridi e lontani elencatori di norme. Sono dentro il cammino di un popolo, dentro la storia degli uomini e delle donne del loro tempo. Le parole che i profeti dicono non sono parole che battono l’aria, sono parole accompagnate da un cammino.
Per questo il libro del Deuteronomio chiama Mosè profeta: Mosè non era solo parole, era cammino. I suoi occhi non erano pallidi come quelli di coloro che sdottorano da lontano, erano occhi rossi di sabbia e di fatica. Parole con autorità e cioè parole che aprivano piste nuove, suscitavano energie, sostenevano un cammino, parole che liberavano.
Così Gesù. La meraviglia della gente – e anche il brivido – era per quella sua parola, una semplice parola, una sola: “Taci, esci da quell’uomo”, che era accaduta. Era accaduta! La gente, quella gente, aveva passato anni a sentire parole dopo le quali non accadeva mai niente, ed ecco la sorpresa del Rabbì di Nazaret e di quelle sue parole che accadono: “comanda agli spiriti immondi e gli ubbidiscono”. Parole che non si perdono nell’aria, ma accadono.
E accade la liberazione. Quando la parola è profezia, è parola di Dio, accade la liberazione. Liberazione da tutto ciò che reprime dentro gli umani. E non sempre è il demonio che soffoca la nostra umanità. Spesso sono cose più vicine: la sete di potere, di denaro, di successo. A volte è il nodo delle nostre depressioni, delle nostre paure.
A volte è il tumulto delle parole di coloro che hanno un intento preciso, quello di portarti nel gregge. E gridano e gridano e gesticolano, come il demonio del vangelo. E Gesù zittisce: “Taci”. Zittisce quelli che ti gridano intorno. E nel silenzio, nel silenzio del tuo cuore, ti restituisce nella tua dignità, ti ridona un cuore di uomo e donna liberi.

La giornata di Cafarnao
Commento al Vangelo di Enzo Bianchi
Dopo il racconto della vocazione dei primi quattro discepoli (cf. Mc 1,16-20), Marco sottolinea che Gesù non è più solo. Ormai c’è una piccola comunità alla sequela di questo rabbi venuto in Galilea dalle rive del Mar Morto in seguito all’arresto del suo maestro e profeta Giovanni il Battista, e questa piccola comunità crescerà e accompagnerà Gesù, coinvolta nella sua vita fino alla fine.
L’evangelista ci presenta dunque una giornata-tipo vissuta da Gesù e dai suoi discepoli: la “giornata di Cafarnao” (cf. Mc 1,21-34), una città situata a nord del mare di Galilea, luogo di passaggio tra Palestina, Libano e Assiria, città con gente composita, scelta da Gesù come “residenza”, come luogo in cui egli e la sua comunità avevano una casa (cf. Mc 1,29.35, ecc.) dove sostavano di tanto in tanto, nelle pause dei loro itinerari in Galilea e in Giudea. Com’era vissuta da Gesù una giornata? Egli predicava e insegnava, incontrava delle persone liberandole dal male e curandole, pregava. Vi erano poi certamente un tempo e uno spazio per mangiare con i suoi, per stare con la sua comunità e per insegnare a essa come occorreva vivere per accogliere il regno di Dio veniente.
Ecco allora che il vangelo ci narra questa giornata di Gesù. È un sabato, il giorno del Signore, in cui l’ebreo vive il comandamento di santificare il settimo giorno (cf. Es 20,8-11; Dt 5,12-15) e va alla sinagoga per il culto. Anche Gesù e i suoi discepoli si recano alla sinagoga di Cafarnao dove, dopo la lettura di un brano della Torà di Mosè (parashà) e di una pericope dei Profeti (haftarà), un uomo adulto poteva prendere la parola e commentare quanto era stato proclamato. Gesù è un semplice credente del popolo di Israele, è un laico, non un sacerdote, ed esercita questo diritto. Va all’ambone e fa un’omelia, di cui però Marco non ci dice il contenuto, a differenza di quanto fa Luca riguardo all’omelia tenuta da Gesù nella sinagoga di Nazaret (cf. Lc 4,16-21).
Accade allora quello che qualche volta succede anche a noi: chi tiene l’omelia ha la capacità di tenerci svegli e in ascolto di lui, ha una parola che ci raggiunge nelle nostre profondità, accompagna le domande che ciascuno di noi sente emergere dal proprio cuore, fa intravedere una risposta vera. Insomma, Gesù mostra di avere un’”autorevolezza” (exousía) inedita, rara. La sua non è una parola come quella dei professionisti religiosi, dei molti scribi incaricati di studiare e spiegare le sante Scritture. Che cosa c’è di diverso nel suo predicare? Possiamo almeno dire che c’è una parola che viene dalle sue profondità, una parola che sembra nascere da un silenzio vissuto, una parola detta con convinzione e passione, una parola detta da uno che non solo crede a quello che dice, ma lo vive. È soprattutto la coerenza vissuta da Gesù tra pensare, dire e vivere a conferirgli questa autorevolezza che si impone ed è performativa. Attenzione: Gesù non è uno che seduce con la sua parola elegante, erudita, letterariamente cesellata, ricca di citazioni culturali; non appartiene alla schiera dei predicatori che seducono tutti senza mai convertire nessuno. Egli invece sa andare al cuore di ciascuno dei suoi ascoltatori, i quali sono spinti a pensare che il suo è “un insegnamento nuovo”, sapienziale e profetico insieme, che scuote, “ferisce”, convince.
Lo sappiamo bene: tutti noi desideriamo un tale predicatore nelle nostre liturgie domenicali, ma a volte rimaniamo delusi. D’altronde chi predica nelle nostre assemblee non è il Figlio di Dio fattosi uomo, a volte e stanco e anche frustrato nella propria vocazione, a volte è talmente costretto a ripetere riti e parole che non gli sono più possibili né convinzione né passione. Eppure io credo che, anche in questa situazione di povertà, se uno ha il cuore aperto e desideroso di ascoltare la parola di Dio, qualche suo frammento lo raggiunge sempre…
L’autorevolezza di Gesù si mostra subito dopo in un atto di liberazione. Nella sinagoga c’è un uomo tormentato da uno spirito impuro, un uomo in cui il demonio è all’opera. Non soffermiamo la nostra attenzione sulla violenza e sul frastuono con cui quest’uomo si esprime, secondo la descrizione tipica dello stile orientale, immaginifico. Andiamo alla sostanza: c’è un uomo in cui il demonio opera in modo particolare, in cui la forza che si oppone a quella di Dio ha preso un grande spazio; in questa persona c’è uno spirito impuro che si oppone allo Spirito santo di Dio. La presenza di Gesù nella sinagoga è una minaccia per questa forza demoniaca, ed ecco allora che la verità viene gridata: “Che c’è tra noi e te, Gesù Nazareno? Sei venuto a rovinarci? Io so chi tu sei: il Santo di Dio!”. Ma Gesù innanzitutto gli intima di tacere, poi libera l’uomo da quella presenza. Il segno della liberazione avvenuta è un grande urlo: “lo spirito impuro, straziandolo e gridando forte, uscì da lui”.
Si noti l’imposizione del silenzio da parte di Gesù: il grido dell’indemoniato è ortodosso, perché egli è il Santo di Dio, ma questa identità non può essere proclamata troppo facilmente. Lungo tutto il vangelo secondo Marco è testimoniata questa preoccupazione di Gesù circa la manifestazione della propria identità: non si deve divinizzare Gesù troppo velocemente, non si deve farlo perché incantati dai prodigi da lui compiuti, né si deve farlo perché ci si entusiasma di lui. Lo si potrà fare solo quando lo si vedrà appeso alla croce. Solo allora – attesta il vangelo – la confessione del lettore può essere vera, fatta con intelligenza e conoscenza profonde, insieme al centurione che, vedendo Gesù appeso al legno, proclama: “Davvero quest’uomo era Figlio di Dio!” (Mc 15,39). Il miglior commento è una parola di un monaco del XII secolo, Guigo I il Certosino: “Nuda e appesa alla croce deve essere adorata la verità”.

Quel Dio che s’immerge nelle nostre ferite.
Ermes Ronchi.
Ed erano stupiti del suo insegnamento. Lo stupore, quella esperienza felice che ci sorprende e scardina gli schemi, che si inserisce come una lama di libertà in tutto ciò che ci saturava: rumori, parole, schemi mentali, abitudini, che ci fa entrare nella dimensione della passione, quella che smuove anche le montagne.
Salviamo lo stupore, la capacità di incantarci ogni volta che incontriamo qualcuno che ha parole che trasmettono la sapienza del vivere, che toccano il centro della vita perché nate dal silenzio, dal dolore, dal profondo, dalla vicinanza al Roveto di fuoco.
La nostra capacità di provare gioia è direttamente proporzionale alla nostra capacità di meravigliarci. Gesù insegnava come uno che ha autorità. Autorevoli sono soltanto le parole che nutrono la vita e la fanno fiorire; Gesù ha autorità perché non è mai contro l’uomo ma sempre in favore dell’uomo, e qualcosa dentro chi lo ascolta lo sa. Autorevoli e vere sono soltanto le parole diventate carne e sangue, come in Gesù: la sua persona è il messaggio, l’intera sua persona.
Come emerge dal seguito del brano: C’era là un uomo posseduto da uno spirito impuro. Il primo sguardo di Gesù si posa sempre sulle fragilità dell’uomo e la prima di tutte le povertà è l’assenza di libertà, come per un uomo «posseduto», prigioniero di uno più forte di lui. E vediamo come Gesù interviene: non fa discorsi su Dio, non cerca spiegazioni sul male, Gesù mostra Dio che si immerge nelle ferite dell’uomo; è Lui stesso il Dio che si immerge, come guarigione, nella vita ferita, e mostra che «il Vangelo non è un sistema di pensiero, non è una morale, ma una sconvolgente liberazione» (G. Vannucci).
Lui è il Dio il cui nome è libertà e che si oppone a tutto ciò che imprigiona l’uomo. I demoni se ne accorgono: che c’è fra noi e te Gesù di Nazaret? Sei venuto a rovinarci? Sì, Gesù è venuto a rovinare tutto ciò che rovina l’uomo, a demolire prigioni; a portare spada e fuoco per tagliare e bruciare tutto ciò che non è amore. A rovinare il regno dei desideri sbagliati che si impossessano e divorano l’uomo: denaro, successo, potere, egoismi.
A essi, padroni del cuore, Gesù dice due sole parole: taci, esci da lui. Tace e se ne va questo mondo sbagliato. Va in rovina, come aveva sognato Isaia, vanno in rovina le spade e diventano falci, si spezza la conchiglia e appare la perla. Perla della creazione è l’uomo libero e amante. Posso diventarlo anch’io, se il Vangelo diventa per me passione e incanto. Patimento e parto. Allora scopro «Cristo, mia dolce rovina» (Turoldo), che rovina in me tutto ciò che non è amore, che libera le mie braccia da tutte le cose vuote, e che dilata gli orizzonti che respiro.
Il Vangelo, a cura di Ermes Ronchi.
Avvenire 29/01/2015

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