Santa Maria,

Santa Maria,
...donna del primo sguardo, donaci la grazia dello stupore.

domenica 15 settembre 2013





M. Chagall. Il ritorno del figlio prodigo


Un giorno stavo parlando con uno studente nel mio studio, e sul cavalletto avevo appena finito di dipingere un volto di Cristo di grandi dimensioni. Era il periodo in cui mi avvicinavo ad una interpretazione bizantina della figura di Cristo, quindi si trattava di un volto luminoso, sofferto, ma maestoso, con due grandi occhi di compassione. Noi due eravamo seduti, ciascuno ad un lato del cavalletto. Ho chiesto allo studente:
- Secondo te, chi guarda Cristo?
- Guarda me.
Poi gli ho detto di alzarsi, di continuare a guardare Cristo e, passo per passo, lentamente, venire dalla mia parte. Gli ho di nuovo chiesto: 
- Adesso sei da solo, hai la testa piena di pensieri cattivi, violenti. E Cristo?
- Mi guarda, risponde.
Al passo successivo gli dico: - Sei con i tuoi amici, ubriaco, di sabato sera. E Cristo?
- Mi guarda, risponde ancora.
Ancora un altro passo e gli chiedo: - Ora sei con la tua fidanzata, e vivi la sessualità nel modo in cui mi hai parlato, che ti turba la memoria. E Cristo?
- Mi guarda con la stessa benevolenza.
Quando stava già per arrivare dalla mia parte, dico: 
- E ora sei in chiesa, a messa, e leggi le letture. E Cristo?
- Mi guarda con grande compassione.
- Ecco gli dico, quando sentirai addosso in tutte le circostanze della tua vita questo sguardo compassionevole e misericordioso di Cristo, sarai una persona veramente spirituale, sarai di nuovo completamente integro, vicino a ciò che possiamo chiamare pace interiore, serenità dell’anima, felicità di vita. 
Quando scoprirai nel suo sguardo misericordioso e sentirai che l’Amore ti avvolge come un balsamo, cambieranno tutte le tue situazioni che abbiamo menzionato adesso. 
L’uomo cambia a causa dell’amore che gli inonda il cuore. 
Egli pecca infatti per la mancanza di amore, 
o meglio, per la non accettazione dell’amore che lo attende nel cuore.


Da un dialogo del Padre Marko Rupnik










Dal Vangelo secondo Luca 15,1-32

In quel tempo, si avvicinavano a Gesù tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo. I farisei e gli scribi mormoravano dicendo: «Costui accoglie i peccatori e mangia con loro». 
Ed egli disse loro questa parabola: «Chi di voi, se ha cento pecore e ne perde una, non lascia le novantanove nel deserto e va in cerca di quella perduta, finché non la trova? Quando l’ha trovata, pieno di gioia se la carica sulle spalle, va a casa, chiama gli amici e i vicini e dice loro: “Rallegratevi con me, perché ho trovato la mia pecora, quella che si era perduta”. Io vi dico: così vi sarà gioia nel cielo per un solo peccatore che si converte, più che per novantanove giusti i quali non hanno bisogno di conversione.
Oppure, quale donna, se ha dieci monete e ne perde una, non accende la lampada e spazza la casa e cerca accuratamente finché non la trova? E dopo averla trovata, chiama le amiche e le vicine, e dice: “Rallegratevi con me, perché ho trovato la moneta che avevo perduto”. Così, io vi dico, vi è gioia davanti agli angeli di Dio per un solo peccatore che si converte».
Disse ancora: «Un uomo aveva due figli. Il più giovane dei due disse al padre: “Padre, dammi la parte di patrimonio che mi spetta”. Ed egli divise tra loro le sue sostanze. Pochi giorni dopo, il figlio più giovane, raccolte tutte le sue cose, partì per un paese lontano e là sperperò il suo patrimonio vivendo in modo dissoluto. Quando ebbe speso tutto, sopraggiunse in quel paese una grande carestia ed egli cominciò a trovarsi nel bisogno. Allora andò a mettersi al servizio di uno degli abitanti di quella regione, che lo mandò nei suoi campi a pascolare i porci. Avrebbe voluto saziarsi con le carrube di cui si nutrivano i porci; ma nessuno gli dava nulla. Allora ritornò in sé e disse: “Quanti salariati di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame! Mi alzerò, andrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi salariati”. Si alzò e tornò da suo padre.
Quando era ancora lontano, suo padre lo vide, ebbe compassione, gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò. Il figlio gli disse: “Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio”. Ma il padre disse ai servi: “Presto, portate qui il vestito più bello e fateglielo indossare, mettetegli l’anello al dito e i sandali ai piedi. Prendete il vitello grasso, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa, perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”. E cominciarono a far festa.
Il figlio maggiore si trovava nei campi. Al ritorno, quando fu vicino a casa, udì la musica e le danze; chiamò uno dei servi e gli domandò che cosa fosse tutto questo. Quello gli rispose: “Tuo fratello è qui e tuo padre ha fatto ammazzare il vitello grasso, perché lo ha riavuto sano e salvo”. Egli si indignò, e non voleva entrare. Suo padre allora uscì a supplicarlo. Ma egli rispose a suo padre: “Ecco, io ti servo da tanti anni e non ho mai disobbedito a un tuo comando, e tu non mi hai mai dato un capretto per far festa con i miei amici. Ma ora che è tornato questo tuo figlio, il quale ha divorato le tue sostanze con le prostitute, per lui hai ammazzato il vitello grasso”. Gli rispose il padre: “Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo; ma bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”».




Il commento


"Bisognava far festa". Ma dov'è la festa nella nostra vita? Shows televisivi, discoteche, e alcool e droghe, e fine settimana sulla neve, e le liturgie delle domeniche allo stadio, e compleanni per stupire, e molto altro per ritrovarsi a festeggiare senza festa, mentre la vita rimane un angolo buio rischiarato ad intermittenza. L'incombere della fine, della morte, infatti, non ci abbandona neanche nei momenti più lieti: "Ora, soltanto se c’è una risposta alla morte, l’uomo può essere veramente contento. Ma, se esiste questa risposta, allora è essa l’effettiva e valida autorizzazione alla gioia, ciò che può veramente costituire il fondamento di una festa" (Joseph Ratzinger).


Proprio la risposta alla morte è il cuore del vangelo di questa domenica: Cristo è risorto! È un annuncio che significa qualcosa di reale, come la gioia del Padre nel ritrovare suo figlio. Cristo è risorto per me e per te, perché possiamo davvero “ritornare in vita”. Ma occorre comprendere di essere morti; occorre la luce della Parola che illumini il cammino con cui ci siamo allontanati sino a “perderci”, per schiuderci il cammino opposto di ritorno e conversione. E’ necessaria la Buona Notizia di oggi per passare dalla morte alla vita.


Il figlio più giovane cercava la pienezza della vita; per questo, ingannato dal demonio come Adamo ed Eva, ha allungato la mano verso l’autonomia, ha tagliato con suo padre e si è allontanato dalla sua casa. Ma, quanto più si allontanava più “si perdeva”, esaurendo così l'eredità ricevuta. Con essa ha perduto la sua identità, al punto di non riconoscersi più neanche come figlio. In casa lo era, poteva aprire il frigorifero e mangiare a sazietà; la sua dignità di figlio ne costituiva l'essere e il ruolo, era ed ora non è più. E' morto, è fuori del Paradiso, è lontano da casa, l'unico luogo dove esiste la festa perché esiste la gioia dell'amore del Padre. Non lo siamo oggi anche noi, lontani da nostra moglie? Non lo è nostro figlio schiavo del suo egoismo?


Ma quello che a prima vista sembra un esito tragico e definitivo, si rivela il momento decisivo per il cuore inquieto del figlio prodigo. La ricerca della felicità si era infranta sulla rivelazione cruda e amara della menzogna che lo aveva sedotto. Ritrova così un brandello della propria dignità, e una consapevolezza misteriosa lo fa sperare d'essere riaccolto. E così “rientra in se stesso”. La misericordia di Dio non lo aveva abbandonato, era stata sempre accanto a lui; Dio non lo aveva limitato, aveva rispettato la sua libertà, anche a costo di vederlo precipitare nell'inferno. 


Il Padre non aveva smesso un istante di essere padre, anche mentre il figlio aveva rifiutato di essere figlio; ma, per quanto egli si fosse allontanato sfigurando la somiglianza con lui, era comunque rimasto suo figlio: proprio perché libero era figlio, anche se ha usato la libertà per farsi e fare del male: figlio libero di un Padre libero. Questo è il più grande paradosso che rivela l'essenza del cristianesimo: nell'abisso del male provocato dalla perversione della libertà, appare più fulgido l'immutabile amore di Dio.


Se l'uomo è stato libero di rivolgersi contro il suo Creatore, Dio è libero di amarlo ancor di più, di guardarlo con una più grande misericordia, e con essa, strapparlo al destino di morte che si è preparato. Lo sguardo del padre che, nell’attesa di un ritorno che non aveva smesso di dubitare, scrutava alla finestra per vedere se appariva il figlio prodigo, era andato ben oltre l'orizzonte dove giunge l'occhio umano. Come la nube della Presenza-shekinà di Dio aveva accompagnato il Popolo sui sentieri dell'esilio, quello sguardo d'amore e gravido di misericordia aveva accompagnato il figlio sin dentro la sua discesa e il suo traviamento, con una pazienza a noi sconosciuta.


La misericordia di Dio, infatti, non ha misura, supera infinitamente quella dei farisei, i più puri e intransigenti religiosi, ai quali la parabola era rivolta. E scuote oggi i nostri cuori, probabilmente impigliati nel perbenismo ipocrita che stenta a credere nell’amore gratuito di Dio. Esso risplende negli occhi del Padre che erano sempre stati fissi su quel suo figlio perduto, sino a farsi in lui memoria e nostalgia proprio mentre scendeva in quel letamaio dove era precipitata la sua vita. "Rientrando in se stesso" il figlio ritrova la traccia di quell'amore; ancora un'ombra forse, di quello sguardo paterno che lo attirava a sé.


Confuso nel deserto della sua anima, il ragazzo percepisce la voce paterna che parla al suo cuore e lo fa "levare", risuscitare secondo l'originale greco, per tornare da lui. Non si riconosce più come figlio, ma riconosce suo Padre. Di se stesso aveva ritrovato solo quell'ultimo brandello di dignità che lo legava alla vita, ma tanto è bastato. Non era importante chi e che cosa egli fosse diventato, quanto chi era suo Padre. Risuscitato dall'inferno il figlio si pone allora in cammino, sospinto nella conversione dalla memoria paterna riaccesa in lui dalla Grazia. E in quel cammino, a che punto non ci è dato sapere perché diverso per ciascun uomo, il Padre accorre ad abbracciare e accogliere "il figlio smarrito e ritrovato, morto e ritornato in vita". In quell'abbraccio di misericordia si compie e materializza quello invisibile che lo aveva accompagnato istante dopo istante, impercettibile perché rispettoso della libertà del figlio.

La parabola illumina il nostro cammino quotidiano di conversione, spingendoci nella stanchezza e nella prova, nella certezza che, proprio sui passi del ritorno a casa, molto prima di quanto potremmo immaginare, sentiremo posarsi sulle nostre spalle le braccia del Padre che sigilleranno il ritrovamento e la misericordia. In essa siamo stati creati, ad essa anela il nostro spirito, anche nei momenti più dolorosi, e si fa nostalgia più intensa e struggente proprio nell'angoscia figlia del peccato. Così è e sarà per nostro figlio, oggi forse più indurito che mai.


La misericordia di Dio è l'unica e reale origine della festa, mistero che attira e muove il cuore alla conversione. In essa siamo chiamati a vivere, oggetti e annunciatori di quello che il mondo non conosce. E' la pedagogia di Dio che non si pente di aver creato l'uomo libero, ma che lo segue con pazienza sulle tracce dei suoi fallimenti, perché in essi intercetti la bellezza e pienezza originarie della libertà compiuta in amore: Dio scende con ogni uomo nella schiavitù, per riaccendere in lui la luce della verità, strappando la libertà alla perversione e così orientarla di nuovo alla giustizia, alla comunione con il Padre, all'amore. Scendiamo anche noi con nostro figlio, con il prossimo che si perde senza frustrare la sua libertà? Lo seguiamo con speranza invincibile, pregando e offrendo le nostre sofferenze perché “rientri in se stesso”? Si sene accompagnato dalla nostra misericordia che non giudica e non esige, ma che, pur dicendo la verità, non smette un istante di guardare con tenerezza?


La vicenda del figlio prodigo rivela come la misericordia di Dio conduce e accompagna l'uomo nella sua discesa all'acqua battesimale; in essa, nudo d'ogni ipocrisia e schiavitù della carne, seppellisce l'uomo vecchio e ritrova la dignità perduta; risorto a vita nuova può "rivestirsi della veste più bella", la veste bianca di lino, che risplende del candore sfolgorante di Cristo risorto; e rinnovare, per pura Grazia, l'alleanza spezzata nel tradimento orgoglioso, e ricevere "l'anello" della nuova ed eterna alleanza sigillata nel sangue preziosissimo di Cristo. Nell'incontro con il Padre si compie per il figlio la Pasqua, il banchetto celeste che può gustare solo chi è ritornato a casa, dove mangiare "il vitello grasso" riservato per i momenti indimenticabili. 


Il "figlio maggiore", rimasto in casa senza amare e conoscere realmente suo padre, è incapace di far festa. Non a caso, nella parabola appare anche lui fuori di casa. Anche a lui il Padre è andato incontro... non si rende conto di essere anche lui andato lontano, lavorando, "obbedendo", compiendo la legge, ma non trova nella sua vita alcuna ragione per gioire, perché non ha sperimentato il perdono. Come tanti che sono chiamati a vivere nell'intimità di Dio, che stanno nella Chiesa e passano il tempo a mormorare, schiavi della carne più subdolamente e più pericolosamente del "figlio minore", peccatore smascherato e, per questo, umiliato e aperto alla conversione. Tutti noi - preti, religiosi o consacrate, catechisti o impegnati in parrocchia, cristiani - corriamo il pericolo di vivere senza conoscere Colui che pensiamo di servire.


In fondo siamo mercenari, e riteniamo che le Grazie siano dei diritti a cui neanche facciamo più caso. Dio non ci basta, Gesù non colma di allegria e pace la nostra vita, perché non abbiamo ancora sperimentato il suo amore. Ci riteniamo giusti, peccatori da poco in confronto a chi ci è accanto, cominciando dalla moglie e dal marito, per passare ai figli e giungere a colleghi e conoscenti. Mentre il legalismo ci ha indurito il cuore, e buttiamo le giornate nell'invidia sottile e perniciosa dei peccatori da molto: in fondo, pensiamo che se la godano più di noi, perché siamo stoltamente ignari della morte che accompagna il peccato.


E invece, anche se non abbiamo rubato, violentato, ucciso, proprio perché il nostro cuore desidera nascostamente il peccato, siamo esattamente come "il figlio minore", o forse peggio: nel segreto dell'interno albergano la rapina e l'iniquità dei farisei che hanno tagliato con Dio ogni relazione d'amore. Anche se all'esterno appariamo onesti e inappuntabili, anche se ci battiamo il petto, e ci indigniamo e pontifichiamo, senza rendercene conto, siamo usciti dalla casa di nostro Padre anche noi, con il cuore lontano da Dio.


Questo accade quando, magari nascosti dietro lo schermo di un computer, ci saziamo di pornografia e di perversioni come e più dei fratelli che peccano apertamente. Quanti peccati si nascondono nei nostri cuori… Quanti giudizi truccati con sorrisi di circostanza. Quante volte abbiamo guardato con desiderio la segretaria commettendo adulterio con lei nel nostro cuore. Quante cose degli altri abbiamo avidamente desiderato… E restiamo ancora più insoddisfatti del fratello che ha dilapidato tutto e si è trovato senza nulla da mangiare, condividendo lo stesso esito fallimentare, senza però “rientrare in noi stessi”. Siamo, infatti, illusi di non esserci mai perduti, e quindi non pensiamo minimamente di dover tornare da dove crediamo di non essere mai usciti.


Per questo, ciechi sul fatto che se non abbiamo consumato certi peccati è stato solo per paura, vigliaccheria e opportunismo, giudichiamo e disprezziamo. Padri, madri, mariti e mogli, preti ed educatori, spesso ci issiamo sul piedistallo di fumo della nostra pretesa giustizia, dimenticando la misericordia che ci ha salvati, quando eravamo “perduti” anche noi. A differenza del Padre, per noi anche il perdono ha un prezzo, la promessa di cambiare almeno... Il «pareggio di bilancio» noi l’abbiamo approvato senza che ce lo imponesse l’Unione Europea...


Ma Dio no, Lui ha sempre i conti in rosso. «Lascia» i guadagni sicuri di «novantanove pecore» e si lancia alla ricerca di una, una sola pecora che s'è smarrita. Probabilmente la peggiore, la più egoista, una di quelle che è meglio perderle che trovarle. E gioisce per lei, più che per le altre. Il folle cuore di Dio non può rallegrarsi sino a che l’ultimo dei peccatori non sia stato «ritrovato» e «accolto». Nessuno di noi farebbe lo stesso. A scuola, nei posti di lavoro, tra gli amici, accade l’esatto contrario. Le teste calde sono espulse ancor prima di perdersi.

Ma proprio i peccati e le loro conseguenze ci hanno resi «unici» agli occhi di Dio, come la “dramma” e la “pecora”. “Unici” perché segno e primizia di ogni altro uomo. Le parabole ci svelano infatti che, “perduti” con il figlio, la pecora e la dramma, vi sono anche il fratello maggiore, le altre dramme e le atre novantanove pecore… “Unici” non a caso, perché profezia dell’ “Unico” che è morto per tutti, perché «tutti hanno peccato». Nella pecora smarrita della parabola, infatti, è adombrato Gesù, l’Agnello di Dio, l’unico «perduto» nella morte per riscattare le altre novantanove che si credevano «giuste», mentre invece vagavano «sperdute» nel «deserto». Nel sepolcro il Padre ha «ritrovato» suo Figlio, lo ha risuscitato «prendendolo sulle sue spalle» e lo ha riportato «a casa»; qui, nella gioia straripante e coinvolgente della Pasqua, è apparso agli «amici» che lo avevano tradito; con il perdono di ogni peccato nella carne li ha inviati ad annunciare ai «vicini» lo stesso perdono e la «conversione», la gioia di lasciarsi amare.


Così, nella Chiesa, siamo chiamati ogni giorno a «cercare» la «dramma perduta», il fratello più debole e difficile, che la carne vorrebbe dimenticare. Con la «lucerna» della fede accesa nelle tenebre della menzogna, possiamo «cercarlo con cura» e pazienza, «spazzando» via la polvere e l’immondizia che il tempo perduto nei peccati ha lasciato, per riconoscere il volto di Cristo che risplende in lui. Anche se “perduto”, con il Signore “ritroveremo” nostro figlio; e così il dialogo d’amore con nostra moglie e la relazione con il genero. Proprio nello sconforto, può vibrare il cuore di gioia purissima per l'incontro di due così diversi eppure fatti l'uno per l'altro: "Ossa delle mie ossa, carne della mia carne", sono queste le parole del Pastore al ritrovare la sua amata pecora smarrita, possono essere le nostre nel ritrovare il fratello che s’era perduto.




Hieronymus Bosch – Il figliol prodigo


Ora andar via da questo grumo torbido 
ch’è nostro e tuttavia non ci appartiene; 
che come acqua in antiche fonti trema 
specchiandoci e l’immagine sfigura; 
da tutte queste cose che ogni volta 
si riaggrappano a noi come spine andarsene, 
e l’una o l’altra cosa che più non vedevamo 
tanto era quotidiana e abituale, 
all’improvviso, quasi fosse un principio, 
da vicino guardarla, concilianti e dolci, in viso; 
e comprendere come impersonale, 
come di là da tutti era la pena 
onde la nostra infanzia fino all’orlo era piena. 
Pure, andar via, mano da mano, 
come riaprendo una piaga già guarita; 
andarsene; ma dove? 
Nell’incerto, a una calda, lontana, estranea plaga, 
come una quinta dietro ad ogni gesto indifferente: parete o giardino; 
e andarsene: perché? 
Per impulso o natura, per impazienza, 
per attesa oscura, per l’Incompreso e per l’Incomprensibile. 
Prendere tutto questo su di sé 
e forse invano lasciar cadere il nostro dalle dita 
per morir soli e non saper perché. 
Questo è l’ingresso in una nuova vita?


Rainer Maria Rilke

XXIV domenica del Tempo Ordinario


XXIV DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO
Anno C

MESSALE
Antifona d'Ingresso  Cf Sir 36,15-16
Da', o Signore, la pace a coloro che sperano in te;
i tuoi profeti siano trovati degni di fede;
ascolta la preghiera dei tuoi fedeli
e del tuo popolo, Israele.

Colletta

O Dio, che hai creato e governi l'universo, f
a' che sperimentiamo la potenza della tua misericordia, per dedicarci con tutte le forze al tuo servizio. Per il nostro Signore...
Oppure:
O Dio, che per la preghiera del tuo servo Mosè non abbandonasti il popolo ostinato nel rifiuto del tuo amore, concedi alla tua Chiesa per i meriti del tuo Figlio, che intercede sempre per noi, di far festa insieme agli angeli anche per un solo peccatore che si converte. Egli è Dio...


LITURGIA DELLA PAROLA

Prima Lettura  Es 32, 7-11. 13-14
Il Signore si pentì del male che aveva minacciato di fare al suo popolo.

Dal libro dell'EsodoIn quei giorni, il Signore disse a Mosè: «Va’, scendi, perché il tuo popolo, che hai fatto uscire dalla terra d’Egitto, si è pervertito. Non hanno tardato ad allontanarsi dalla via che io avevo loro indicato! Si sono fatti un vitello di metallo fuso, poi gli si sono prostrati dinanzi, gli hanno offerto sacrifici e hanno detto: “Ecco il tuo Dio, Israele, colui che ti ha fatto uscire dalla terra d’Egitto”».
Il Signore disse inoltre a Mosè: «Ho osservato questo popolo: ecco, è un popolo dalla dura cervìce. Ora lascia che la mia ira si accenda contro di loro e li divori. Di te invece farò una grande nazione».
Mosè allora supplicò il Signore, suo Dio, e disse: «Perché, Signore, si accenderà la tua ira contro il tuo popolo, che hai fatto uscire dalla terra d’Egitto con grande forza e con mano potente? Ricòrdati di Abramo, di Isacco, di Israele, tuoi servi, ai quali hai giurato per te stesso e hai detto: “Renderò la vostra posterità numerosa come le stelle del cielo, e tutta questa terra, di cui ho parlato, la darò ai tuoi discendenti e la possederanno per sempre”».
Il Signore si pentì del male che aveva minacciato di fare al suo popolo.
 

Salmo Responsoriale
  Dal Salmo 50
Ricordati di me, Signore, nel tuo amore.
Pietà di me, o Dio, nel tuo amore;
nella tua grande misericordia
cancella la mia iniquità.
Lavami tutto dalla mia colpa,
dal mio peccato rendimi puro.

Crea in me, o Dio, un cuore puro,
rinnova in me uno spirito saldo.
Non scacciarmi dalla tua presenza
e non privarmi del tuo santo spirito.

Signore, apri le mie labbra
e la mia bocca proclami la tua lode.
Uno spirito contrito è sacrificio a Dio;
un cuore contrito e affranto tu, o Dio, non disprezzi.
 

Seconda Lettura
   1 Tm 1, 12-17
Cristo è venuto per salvare i peccatori.

Dalla prima lettera di san Paolo apostolo a TimoteoFiglio mio, rendo grazie a colui che mi ha reso forte, Cristo Gesù Signore nostro, perché mi ha giudicato degno di fiducia mettendo al suo servizio me, che prima ero un bestemmiatore, un persecutore e un violento. Ma mi è stata usata misericordia, perché agivo per ignoranza, lontano dalla fede, e così la grazia del Signore nostro ha sovrabbondato insieme alla fede e alla carità che è in Cristo Gesù.
Questa parola è degna di fede e di essere accolta da tutti: Cristo Gesù è venuto nel mondo per salvare i peccatori, il primo dei quali sono io. Ma appunto per questo ho ottenuto misericordia, perché Cristo Gesù ha voluto in me, per primo, dimostrare tutta quanta la sua magnanimità, e io fossi di esempio a quelli che avrebbero creduto in lui per avere la vita eterna.
Al Re dei secoli, incorruttibile, invisibile e unico Dio, onore e gloria nei secoli dei secoli. Amen.


Canto al Vangelo
   2 Cor 5,19
Alleluia, alleluia.

Dio ha riconciliato a sé il mondo in Cristo,
affidando a noi la parola della riconciliazione.

Alleluia.

  
  
Vangelo  Lc 15, 1-32
Ci sarà gioia in cielo per un solo peccatore che si converte.

Dal vangelo secondo Luca
In quel tempo, si avvicinavano a Gesù tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo. I farisei e gli scribi mormoravano dicendo: «Costui accoglie i peccatori e mangia con loro».
Ed egli disse loro questa parabola: «Chi di voi, se ha cento pecore e ne perde una, non lascia le novantanove nel deserto e va in cerca di quella perduta, finché non la trova? Quando l’ha trovata, pieno di gioia se la carica sulle spalle, va a casa, chiama gli amici e i vicini e dice loro: “Rallegratevi con me, perché ho trovato la mia pecora, quella che si era perduta”. Io vi dico: così vi sarà gioia nel cielo per un solo peccatore che si converte, più che per novantanove giusti i quali non hanno bisogno di conversione.
Oppure, quale donna, se ha dieci monete e ne perde una, non accende la lampada e spazza la casa e cerca accuratamente finché non la trova? E dopo averla trovata, chiama le amiche e le vicine, e dice: “Rallegratevi con me, perché ho trovato la moneta che avevo perduto”. Così, io vi dico, vi è gioia davanti agli angeli di Dio per un solo peccatore che si converte».
Disse ancora: «Un uomo aveva due figli. Il più giovane dei due disse al padre: “Padre, dammi la parte di patrimonio che mi spetta”. Ed egli divise tra loro le sue sostanze. Pochi giorni dopo, il figlio più giovane, raccolte tutte le sue cose, partì per un paese lontano e là sperperò il suo patrimonio vivendo in modo dissoluto. Quando ebbe speso tutto, sopraggiunse in quel paese una grande carestia ed egli cominciò a trovarsi nel bisogno. Allora andò a mettersi al servizio di uno degli abitanti di quella regione, che lo mandò nei suoi campi a pascolare i porci. Avrebbe voluto saziarsi con le carrube di cui si nutrivano i porci; ma nessuno gli dava nulla. Allora ritornò in sé e disse: “Quanti salariati di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame! Mi alzerò, andrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi salariati”. Si alzò e tornò da suo padre.
Quando era ancora lontano, suo padre lo vide, ebbe compassione, gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò. Il figlio gli disse: “Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio”. Ma il padre disse ai servi: “Presto, portate qui il vestito più bello e fateglielo indossare, mettetegli l’anello al dito e i sandali ai piedi. Prendete il vitello grasso, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa, perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”. E cominciarono a far festa.
Il figlio maggiore si trovava nei campi. Al ritorno, quando fu vicino a casa, udì la musica e le danze; chiamò uno dei servi e gli domandò che cosa fosse tutto questo. Quello gli rispose: “Tuo fratello è qui e tuo padre ha fatto ammazzare il vitello grasso, perché lo ha riavuto sano e salvo”. Egli si indignò, e non voleva entrare. Suo padre allora uscì a supplicarlo. Ma egli rispose a suo padre: “Ecco, io ti servo da tanti anni e non ho mai disobbedito a un tuo comando, e tu non mi hai mai dato un capretto per far festa con i miei amici. Ma ora che è tornato questo tuo figlio, il quale ha divorato le tue sostanze con le prostitute, per lui hai ammazzato il vitello grasso”. Gli rispose il padre: “Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo; ma bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”». 

*

Il Commento

"La pedagogia di Dio che non si pente di aver creato l'uomo libero"


"Bisognava far festa". Ma dov'è la festa nella nostra vita? Shows televisivi, discoteche, e alcool e droghe, e fine settimana sulla neve, e le liturgie delle domeniche allo stadio, e compleanni per stupire, e molto altro per ritrovarsi a festeggiare senza festa, mentre la vita rimane un angolo buio rischiarato ad intermittenza. L'incombere della fine, della morte, infatti, non ci abbandona neanche nei momenti più lieti: "Ora, soltanto se c’è una risposta alla morte, l’uomo può essere veramente contento. Ma, se esiste questa risposta, allora è essa l’effettiva e valida autorizzazione alla gioia, ciò che può veramente costituire il fondamento di una festa" (Joseph Ratzinger).
Proprio la risposta alla morte è il cuore del vangelo di questa domenica: Cristo è risorto! È un annuncio che significa qualcosa di reale, come la gioia del Padre nel ritrovare suo figlio. Cristo è risorto per me e per te, perché possiamo davvero “ritornare in vita”. Ma occorre comprendere di essere morti; occorre la luce della Parola che illumini il cammino con cui ci siamo allontanati sino a “perderci”, per schiuderci il cammino opposto di ritorno e conversione. E’ necessaria la Buona Notizia di oggi per passare dalla morte alla vita.
Il figlio più giovane cercava la pienezza della vita; per questo, ingannato dal demonio come Adamo ed Eva, ha allungato la mano verso l’autonomia, ha tagliato con suo padre e si è allontanato dalla sua casa. Ma, quanto più si allontanava più “si perdeva”, esaurendo così l'eredità ricevuta. Con essa ha perduto la sua identità, al punto di non riconoscersi più neanche come figlio. In casa lo era, poteva aprire il frigorifero e mangiare a sazietà; la sua dignità di figlio ne costituiva l'essere e il ruolo, era ed ora non è più. E' morto. Non lo siamo oggi anche noi, lontani da nostra moglie? Non lo è nostro figlio schiavo del suo egoismo?
Ma quello che a prima vista sembra un esito tragico e definitivo, si rivela il momento decisivo per il cuore inquieto del figlio prodigo. La ricerca della felicità si era infranta sulla rivelazione cruda e amara della menzogna che lo aveva sedotto. Ritrova così un brandello della propria dignità, e una consapevolezza misteriosa lo fa sperare d'essere riaccolto. E così “rientra in se stesso”. La misericordia di Dio non lo aveva abbandonato, era stata sempre accanto a lui; Dio non lo aveva limitato, aveva rispettato la sua libertà, anche a costo di vederlo precipitare nell'inferno. 
Il Padre non aveva smesso un istante di essere padre, anche mentre il figlio aveva rifiutato di essere figlio; ma, per quanto egli si fosse allontanato sfigurando la somiglianza con lui, era comunque rimasto suo figlio: proprio perché libero era figlio, anche se ha usato la libertà per farsi e fare del male: figlio libero di un Padre libero. Questo è il più grande paradosso che rivela l'essenza del cristianesimo: nell'abisso del male provocato dalla perversione della libertà, appare più fulgido l'immutabile amore di Dio.
Se l'uomo è stato libero di rivolgersi contro il suo Creatore, Dio è libero di amarlo ancor di più, di guardarlo con una più grande misericordia, e con essa, strapparlo al destino di morte che si è preparato. Lo sguardo del padre che, nell’attesa di un ritorno che non aveva smesso di dubitare, scrutava alla finestra per vedere se appariva il figlio prodigo, era andato ben oltre l'orizzonte dove giunge l'occhio umano. Come la nube della Presenza-shekinà di Dio aveva accompagnato il Popolo sui sentieri dell'esilio, quello sguardo d'amore e gravido di misericordia aveva accompagnato il figlio sin dentro la sua discesa e il suo traviamento, con una pazienza a noi sconosciuta.
La misericordia di Dio, infatti, non ha misura, supera infinitamente quella dei farisei, i più puri e intransigenti religiosi, ai quali la parabola era rivolta. E scuote oggi i nostri cuori, probabilmente impigliati nel perbenismo ipocrita che stenta a credere nell’amore gratuito di Dio. Esso risplende negli occhi del Padre che erano sempre stati fissi su quel suo figlio perduto, sino a farsi in lui memoria e nostalgia proprio mentre scendeva in quel letamaio dove era precipitata la sua vita. "Rientrando in se stesso" il figlio ritrova la traccia di quell'amore; ancora un'ombra forse, di quello sguardo paterno che lo attirava a sé.
Confuso nel deserto della sua anima, il ragazzo percepisce la voce paterna che parla al suo cuore e lo fa "levare", risuscitare secondo l'originale greco, per tornare da lui. Non si riconosce più come figlio, ma riconosce suo Padre. Di se stesso aveva ritrovato solo quell'ultimo brandello di dignità che lo legava alla vita, ma tanto è bastato. Non era importante chi e che cosa egli fosse diventato, quanto chi era suo Padre. Risuscitato dall'inferno il figlio si pone allora in cammino, sospinto nella conversione dalla memoria paterna riaccesa in lui dalla Grazia. E in quel cammino, a che punto non ci è dato sapere perché diverso per ciascun uomo, il Padre accorre ad abbracciare e accogliere "il figlio smarrito e ritrovato, morto e ritornato in vita". In quell'abbraccio di misericordia si compie e materializza quello invisibile che lo aveva accompagnato istante dopo istante, impercettibile perché rispettoso della libertà del figlio. 
La parabola illumina il nostro cammino quotidiano di conversione, spingendoci nella stanchezza e nella prova, nella certezza che, proprio sui passi del ritorno a casa, molto prima di quanto potremmo immaginare, sentiremo posarsi sulle nostre spalle le braccia del Padre che sigilleranno il ritrovamento e la misericordia. In essa siamo stati creati, ad essa anela il nostro spirito, anche nei momenti più dolorosi, e si fa nostalgia più intensa e struggente proprio nell'angoscia figlia del peccato. Così è e sarà per nostro figlio, oggi forse più indurito che mai.
La misericordia di Dio è l'unica e reale origine della festa, mistero che attira e muove il cuore alla conversione. In essa siamo chiamati a vivere, oggetti e annunciatori di quello che il mondo non conosce. E' la pedagogia di Dio che non si pente di aver creato l'uomo libero, ma che lo segue con pazienza sulle tracce dei suoi fallimenti, perché in essi intercetti la bellezza e pienezza originarie della libertà compiuta in amore: Dio scende con ogni uomo nella schiavitù, per riaccendere in lui la luce della verità, strappando la libertà alla perversione e così orientarla di nuovo alla giustizia, alla comunione con il Padre, all'amore. Scendiamo anche noi con nostro figlio, con il prossimo che si perde senza frustrare la sua libertà? Lo seguiamo con speranza invincibile, pregando e offrendo le nostre sofferenze perché “rientri in se stesso”? Si sene accompagnato dalla nostra misericordia che non giudica e non esige, ma che, pur dicendo la verità, non smette un istante di guardare con tenerezza?
La vicenda del figlio prodigo rivela come la misericordia di Dio conduce e accompagna l'uomo nella sua discesa all'acqua battesimale; in essa, nudo d'ogni ipocrisia e schiavitù della carne, seppellisce l'uomo vecchio e ritrova la dignità perduta; risorto a vita nuova può "rivestirsi della veste più bella", la veste bianca di lino, che risplende del candore sfolgorante di Cristo risorto; e rinnovare, per pura Grazia, l'alleanza spezzata nel tradimento orgoglioso, e ricevere "l'anello" della nuova ed eterna alleanza sigillata nel sangue preziosissimo di Cristo. Nell'incontro con il padre si compie per il figlio la Pasqua, il banchetto celeste che può gustare solo chi è ritornato a casa, dove mangiare "il vitello grasso" riservato per i momenti indimenticabili. 
Il "figlio maggiore", rimasto in casa senza amare e conoscere realmente suo padre, è incapace di far festa; non trova nella sua vita alcuna ragione per gioire, perché non ha sperimentato il perdono. Come tanti che sono chiamati a vivere nell'intimità di Dio, che stanno nella Chiesa e passano il tempo a mormorare, schiavi della carne più subdolamente e più pericolosamente del "figlio minore", peccatore smascherato e, per questo, umiliato e aperto alla conversione. Tutti noi  - preti, religiosi o consacrate, catechisti o impegnati in parrocchia, cristiani - corriamo il pericolo di vivere senza conoscere Colui che pensiamo di servire.
In fondo siamo mercenari, e riteniamo che le Grazie siano dei diritti a cui neanche facciamo più caso. Dio non ci basta, Gesù non colma di allegria e pace la nostra vita, perché non abbiamo ancora sperimentato il suo amore. Ci riteniamo giusti, peccatori da poco in confronto a chi ci è accanto, cominciando dalla moglie e dal marito, per passare ai figli e giungere a colleghi e conoscenti. Mentre il legalismo ci ha indurito il cuore, e buttiamo le giornate nell'invidia sottile e perniciosa dei peccatori da molto: in fondo, pensiamo che se la godano più di noi, perché siamo stoltamente ignari della morte che accompagna il peccato.
E invece, anche se non abbiamo rubato, violentato, ucciso, proprio perché il nostro cuore desidera nascostamente il peccato, siamo esattamente come "il figlio minore", o forse peggio: nel segreto dell'interno albergano la rapina e l'iniquità dei farisei che hanno tagliato con Dio ogni relazione d'amore. Anche se all'esterno appariamo onesti e inappuntabili, anche se ci battiamo il petto, e ci indigniamo e pontifichiamo, senza rendercene conto, siamo usciti dalla casa di nostro Padre anche noi, con il cuore  lontano da Dio.
Questo accade quando, magari nascosti dietro lo schermo di un computer, ci saziamo di pornografia e di perversioni come e più dei fratelli che peccano apertamente. Quanti peccati si nascondono nei nostri cuori… Quanti giudizi truccati con sorrisi di circostanza. Quante volte abbiamo guardato con desiderio la segretaria commettendo adulterio con lei nel nostro cuore. Quante cose degli altri abbiamo avidamente desiderato… E restiamo ancora più insoddisfatti del fratello che ha dilapidato tutto e si è trovato senza nulla da mangiare, condividendo lo stesso esito fallimentare, senza però “rientrare in noi stessi”. Siamo, infatti, illusi di non esserci mai perduti, e quindi non pensiamo minimamente di dover tornare da dove crediamo di non essere mai usciti.
Per questo, ciechi sul fatto che se non abbiamo consumato certi peccati è stato solo per paura, vigliaccheria e opportunismo, giudichiamo e disprezziamo. Padri, madri, mariti e mogli, preti ed educatori, spesso ci issiamo sul piedistallo di fumo della nostra pretesa giustizia, dimenticando la misericordia che ci ha salvati, quando eravamo “perduti” anche noi. A differenza del Padre, per noi anche il perdono ha un prezzo, la promessa di cambiare almeno... Il «pareggio di bilancio» noi l’abbiamo approvato senza che ce lo imponesse l’Unione Europea...
Ma Dio no, Lui ha sempre i conti in rosso. «Lascia» i guadagni sicuri di «novantanove pecore» e si lancia alla ricerca di una, una sola pecora che s'è smarrita. Probabilmente la peggiore, la più egoista, una di quelle che è meglio perderle che trovarle. E gioisce per lei, più che per le altre. Il folle cuore di Dio non può rallegrarsi sino a che l’ultimo dei peccatori non sia stato «ritrovato» e «accolto». Nessuno di noi farebbe lo stesso. A scuola, nei posti di lavoro, tra gli amici, accade l’esatto contrario. Le teste calde sono espulse ancor prima di perdersi.
Ma proprio i peccati e le loro conseguenze ci hanno resi «unici» agli occhi di Dio, come la “dramma” e la “pecora”. “Unici” perché segno e primizia di ogni altro uomo. Le parabole ci svelano infatti che, “perduti” con il figlio, la pecora e la dramma, vi sono anche il fratello maggiore, le altre dramme e le atre novantanove pecore… “Unici” non a caso, perché profezia dell’ “Unico” che è morto per tutti, perché «tutti hanno peccato». Nella pecora smarrita della parabola, infatti, è adombrato Gesù, l’Agnello di Dio, l’unico «perduto» nella morte per riscattare le altre novantanove che si credevano «giuste», mentre invece vagavano «sperdute» nel «deserto». Nel sepolcro il Padre ha «ritrovato» suo Figlio, lo ha risuscitato «prendendolo sulle sue spalle» e lo ha riportato «a casa»; qui, nella gioia straripante e coinvolgente della Pasqua, è apparso agli «amici» che lo avevano tradito; con il perdono di ogni peccato nella carne li ha inviati ad annunciare ai «vicini» lo stesso perdono e la «conversione», la gioia di lasciarsi amare.
Così, nella Chiesa, siamo chiamati ogni giorno a «cercare» la «dramma perduta», il fratello più debole e difficile, che la carne vorrebbe dimenticare. Con la «lucerna» della fede accesa nelle tenebre della menzogna, possiamo «cercarlo con cura» e pazienza, «spazzando» via la polvere e l’immondizia che il tempo perduto nei peccati ha lasciato, per riconoscere il volto di Cristo che risplende in lui. Anche se “perduto”, con il Signore “ritroveremo” nostro figlio; e così il dialogo d’amore con nostra moglie e la relazione con il genero. Proprio nello sconforto, può vibrare il cuore di gioia purissima per l'incontro di due così diversi eppure fatti l'uno per l'altro: "Ossa delle mie ossa, carne della mia carne", sono queste le parole del Pastore al ritrovare la sua amata pecora smarrita, possono essere le nostre nel ritrovare il fratello che s’era perduto.
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COMMENTO DELLA CONGREGAZIONE PER IL CLERO

Nella domenica in cui leggiamo le celebri parabole lucane della misericordia, l’insieme delle tre letture bibliche della Liturgia della Parola ci permette una speciale applicazione di tale insegnamento alla figura ed al ministero del sacerdote.
Il brano evangelico, innanzitutto, introduce la figura del pastore che va in cerca della pecora smarrita nel deserto, rivelazione della misericordia del Padre in Cristo, ma anche indicazione chiara dell’attitudine di ogni sacerdote, chiamato a cercare e a trovare coloro che si allontanano dal gregge della salvezza. La parabola successiva non fa che ripetere lo stesso insegnamento.
Nella seconda parte del brano evangelico, Gesù narra la più bella delle sue parabole: quella del padre misericordioso e del figlio prodigo. Di essa notiamo soltanto un aspetto: il figlio prodigo è in casa del padre, ma non vuole vivere da figlio, vuole sostituirsi al padre: per questo gli chiede di poter gestire la sua fetta di patrimonio e, ottenutala, parte per poter vivere da padrone di se stesso e anche di coloro che incontrerà, sui quali eserciterà il proprio influsso utilizzando a sproposito la ricchezza ricevuta. Però, mentre egli era in casa, sotto la sapiente guida del padre, poteva usufruire di tutti i vantaggi della sua posizione di figlio; ora invece dilapida tutto, finisce in miseria e i presunti amici e compagni lo abbandonano, perché erano legati a lui solo dal proprio tornaconto, di poter sfruttare ciò che il figlio prodigo aveva tra le mani.
È questa l’amara vicenda anche di ogni sacerdote che nella casa di Dio, che è la Chiesa, vuole agire non da figlio, ma da padrone. Il figlio prodigo è immagine – come è chiaro – di ogni peccatore e, tra questi, è inclusa anche la figura del sacerdote che non si ritiene e non si comporta come ministro di Dio (minister, in latino, vuol dire servo). Così egli vuole tenere il potere nelle sue mani: lui decide! E magari potrà anche far sì che una parte delle persone si leghi a lui, per qualunque ragione, eccetto quella giusta: camminare insieme verso il Signore. Ma, alla fine, cosa resta nelle mani di un sacerdote che imposta la sua vita in questo modo? La miseria di una vita e di un ministero falliti. Egli deve allora rinsavire e tornare dal Padre, per essere suo figlio e suo servo. Deve rimanere nella casa, sottomesso a Dio, e solo così potrà far fruttificare i beni di famiglia e prosperare.
Già nella prima lettura tale insegnamento è adombrato. Il popolo pecca e Dio, forse per mettere alla prova Mosè, gli dice: «Il tuo popolo, che hai fatto uscire dalla terra d’Egitto, si è pervertito». Dinanzi a questa situazione, Mosè avrebbe potuto decidere di risolvere la questione da sé, con le proprie forze e con decisioni autonome: “ho fatto uscire questo popolo dall’Egitto, ora esso non ha ascoltato le mie indicazioni, risolverò il problema in questo modo...”.
Ma Mosè è uomo di Dio e servo di Dio: egli sa che il popolo non è suo; egli sa di essere un mediatore tra Dio e il popolo, un ministro di Dio presso il popolo, che è e resta del Signore e non suo. Perciò risponde: «Perché, Signore, si accenderà la tua ira contro il tuo popolo, che hai fatto uscire dalla terra d’Egitto con grande forza e con mano potente?». Mosè risponde bene: è stato Dio a fare uscire il popolo, non lui; ed il popolo stesso è del Signore e non suo. A seguito di questa saggia risposta, Dio interviene. Siccome il popolo è suo, Egli correggerà l’errore, perdonerà il peccato e indicherà la strada per ricominciare il cammino verso la terra promessa.
Il sacerdote non è padrone, ma servo del gregge: le pecorelle sono di Dio, appartengono a Lui e il Signore le guida, anche se si degna di farlo concedendo una vera autorità ai suoi ministri sulla terra, che per questa ragione meritano di essere ascoltati, obbediti e anche riveriti. Tutto ciò non implica, tuttavia, che essi possano orgogliosamente ergere se stessi su un ideale piedistallo e ritenere di possedere quelle chiavi della scienza, a motivo delle quali essi non entrano e non lasciano entrare nemmeno quelli che lo vorrebbero (cf. Lc 11,52).
Ciò che aiuta molto il sacerdote a rimanere umile e a riconoscere la grandezza del dono ricevuto senza indulgere ad alcuna superbia, è la costante meditazione sulla propria pochezza umana, la regolare e attenta analisi della propria coscienza e la pratica regolare della Confessione sacramentale, la quale, anche in assenza di peccati gravi, è da raccomandare come antidoto alla superficialità ed alla supponenza. Nella seconda lettura S. Paolo accusa se stesso come peccatore, proprio nel momento in cui riconosce la grandezza del carisma apostolico ricevuto da Cristo: «Rendo grazie a colui che mi ha reso forte, Cristo Gesù Signore nostro, perché mi ha giudicato degno di fiducia mettendo al suo servizio me, che prima ero un bestemmiatore, un persecutore e un violento. [...] Cristo Gesù è venuto nel mondo per salvare i peccatori, il primo dei quali sono io». È di fondamentale importanza che il sacerdote ripeta spesso queste o simili parole: “Cristo mi manda a trovare le pecorelle smarrite, a salvare i peccatori, ma di questi il primo sono io! Siccome mi è stata usata misericordia, anche io andrò incontro ai fratelli portando con me la misericordia del Signore”.
Alla luce della odierna Parola di Dio, rinnoviamo il nostro impegno di preghiera fervente e continua per i sacerdoti, perché, consapevoli sia della pochezza umana che dello straordinario dono di grazia ricevuto, cerchino sempre con zelo affascinato le pecorelle del gregge di Cristo e le conducano ai pascoli sempreverdi della vita immortale.

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Tre aggettivi per un solo Amore...




Monsignor Francesco Follo, osservatore permanente della Santa Sede presso l'UNESCO a Parigi, offre oggi la seguente riflessione sulle letture liturgiche per la XXIV.ma domenica del Tempo Ordinario – Anno C.
Di consueto, il presule propone anche una lettura patristica.
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LECTIO DIVINA
Tre aggettivi per un solo Amore: insensato umanamente, sollecito maternamente, paterno divinamente.
Rito romano
XXIV Domenica del Tempo Ordinario – Anno C – 15 settembre 2013.
Es. 32, 7-11, 13-14; 1Tim 12-17; Lc. 15, 1-32
Trovati da Dio
1) La misericordia pastorale.
Le parabole di Gesù oltre a darci il suo insegnamento profondo e bello ci mostrano il punto di vista di Dio. E così succede nelle tre parabole di oggi, in cui Cristo parla della pecorella smarrita, della moneta perduta e del figlio prodigo, mettendo in evidenza il “cuore del Vangelo” cioè l’amore misericordioso.
Già nella prima parabola si vede un modo di agire non umano o, per lo meno, insensato dal punto di vista umano. In effetti, alla domanda del “Quale uomo tra voi, avendo cento pecore e perduta una di esse, non abbandona le novantanove nel deserto e (non) va verso quella perduta, finché non l'abbia trovata?” (Lc 15,4), verrebbe da rispondere: “Nessuno”, perché chi è l’uomo di buon senso che lascia le 99 pecore nel deserto e non nell’ovile, e che di notte va alla ricerca della smarrita, sfidando i pericoli del deserto?
I pericoli del deserto sono fame, sete, caldo, predoni, belve, perdita dell’orientamento soprattutto con il buio, che rende pressoché impossibile continuare la ricerca nell’oscurità della notte. Ma Cristo, buon Pastore divino è mosso da un amore umanamente insensato, ma divinamente logico e va alla ricerca.
Si può dire che continua la ricerca che Lui fa dell’uomo da quando questo si era nascosto nel paradiso terrestre fino agli inferi, ci rivela che per lui noi valiamo più di Lui, tant’è vero che poi è morto al nostro posto dando la vita per noi.
Si può dire che la nostra ricerca di Dio inizia quando Dio ha terminato la sua, trovandoci e perdonandoci e facendo festa con noi.
Nella parabola della pecora perduta e ritrovata, si annota che il pastore non interrompe la sua ricerca finché non la trova: dunque una ricerca ostinata, perseverante, per nessun motivo disposto ad abbandonare la pecora al suo destino. Allora comprendiamo che la decisione del Pastore non fu poi così insensata, fu coraggiosa e frutto di intelligenza ardita e di un cuore che ama perdutamente.
Questo mi permette di fare notare che questa parabola, come pure le due che seguono, termina parlando della gioia di Dio per il ritrovamento qui della pecora, poi della moneta e del figlio: «Così, vi dico, c'è gioia davanti agli occhi di Dio per un solo peccatore che si converte» (Lc 15,10).
Si possono ricavare due insegnamenti. Uno esplicito: agli occhi di Dio l’uomo anche e, forse, proprio perché peccatore ha un valore immenso. L’altro implicito: con la gloria recuperata di un unico peccatore “aumenta” la Gioia divina.
2) La misericordia materna
Analoga nella sostanza è la seconda parabola: quella della dracma[1] perduta.
Anche qui la ricerca per trovare ciò che si è smarrito è fatta in modo accurato, oggi diremmo scientifico. La padrona di casa accenda la lampada, che mette in un punto strategico, poi scopa lentamente, attentamente l’intera casa, cerca con cura[2],  finché trova la moneta perduta. Trovatala, chiama le amiche e le vicine e le interpella per gioire insieme sulla “dracma perduta e ritrovata” (v.9). Se la prima parabola parla del Pastore, che nel mondo ebraico di allora indicava pure il Re, vediamo l’amore “pastorale” di chi guida, nella seconda vediamo l’amore “sollecito” della madre di famiglia che mette a soqquadro il “mondo”[3] per cercare il “tesoro” che è la ragione della sua vita: il figlio.
Una donna, una madre sa molto bene il valore di un figlio e in questa parabola vediamo che essa rappresenta Dio che, con amore infinito di padre e di madre, “si affanna” nel ricercare la preziosa moneta smarrita.
In ciò ci sono di esempio le Vergini consacrate che sono chiamate ad “affannarsi” maternamente mendicando nella preghiera il perdono per i  peccatori, offrendo la loro preghiera di intercessione (RCV 28) per gli smarriti soprattutto per coloro che hanno perso la fiducia nella misericordia divina, e trasferendo nei luoghi dove vivono e lavorano l’amore di Dio che sempre perdona.
3) La misericordia paterna.
E qui subentra la terza parabola. Se per una moneta e per una pecora prima si fa festa in cielo, immagiate che festa fa Dio quando “realtà ritrovata” è un uomo: un figlio perdutosi e ritrovato.
Questo figlio, che è chiamato prodigo perché ha sperperato l’eredità paterna nei vizi, e si è ridotto all’estrema miseria e alla fame, si è “perduto”: ha smarrito la consapevolezza della bellezza della propria identità. Ha smarrito la gioiosa memoria del volto del Padre e della sua misericordia. 
Questa pagina del Vangelo quindi è un annuncio apportatore di gioia per noi: quando sperimentiamo di esserci "persi", affidiamoci a colui che è venuto a cercarci e confidiamo nel suo grande amore. E' questa la volontà del Padre. Noi siamo preziosi ai suoi occhi.
In questo contesto comprendiamo il senso del testo dell'Esodo (prima lettura “romana”), dove il popolo d'Israele, liberato dalla schiavitù, si dimentica spesso di Dio, tanto che costruisce l'idolo del vitello d'oro. Meriterebbe per questo il castigo, ma il Signore lo perdona per la commossa e profonda preghiera di intercessione di Mosè. 
Così pure l'apostolo Paolo (seconda lettura) afferma che Gesù è venuto nel mondo per salvare i peccatori, e lui si sente tanto peccatore... ma ha ottenuto misericordia.
La misericordia esprime l'onnipotenza di Dio, l'amore infinito, tenero ed adulto, carezzevole ed esigente: è il volto di Dio.
Accostiamoci spesso al Sacramento della Riconciliazione o Penitenza, che altro non è che attuare in noi il ritorno a casa del figlio prodigo.
L'esperienza del peccato, che è questo “perdersi”, diventa occasione per un incontro più duraturo e autentico con questo Dio che ci “perseguita”[4] con il suo amore misericordioso e fa festa perché ci ha ritrovati.
PS: Si veda anche il commento fatto allo stesso vangelo in occasione della IV domenica di Quaresima 10 marzo 2013.
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LETTURA PATRISTICA 
San Leone Magno[5], (ca 390 -461)
Papa e Dottore della Chiesa
Sulla misericordia e la verità.
Sermo 45,2, PL 54,289‑290.
“La regola di vita dei credenti scaturisce dallo stile stesso con cui Dio opera. L’Altissimo, infatti, esige che quelli ch’egli ha creato a sua immagine e somiglianza si sforzino di imitarlo.
Non potremo ottenere le ricchezze della gloria divina se la misericordia e la verità non avranno in noi dimora. Mediante queste vie, infatti, il Signore e venuto verso quelli che avrebbe salvato; e per tali sentieri i salvati devono affrettarsi a incontrare colui che li ha redenti. Così la misericordia di Dio ci rende misericordiosi e la verità ci fa essere veritieri.
L’anima retta cammina per la via della verità come l’anima intrisa di bontà avanza per la via della misericordia.
Eppure questi due sentieri non si separano mai; non si tratta infatti di tendere verso scopi diversi per vie differenti; e crescere nella misericordia non è diverso dal progredire nella verità. Difatti, chi manca di verità non e misericordioso, e chi e privo di bontà non e capace di rettitudine. Non essere ricchi di entrambe queste due virtù, significa l’impossibilita di praticare sia l’una che l’altra.
La carità è la forza della fede e la fede e la fortezza della carità. Ognuna di esse merita il suo nome e porta frutto soltanto se un legame inscindibile le unisce.
Dove non sono presenti insieme, lì anche mancano entrambe, giacché si Offrono aiuto e luce a vicenda fin quando la ricompensa della visione colmerà la brama della fede e senza mutazioni vedremo e ameremo quello che ora non possiamo amare senza la fede né credere senza l’amore.
Fede e carità non permettono di soccombere sotto il peso di basse sollecitazioni, perché come ali possenti sollevano a volo il cuore puro fino all’amicizia e alla visione di Dio.”
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NOTE
[1] Una dramma era il salario giornaliero di un contadino od operaio al tempo di Gesù Cristo.
[2]  In greco ἐπιμελῶς che si legge epimelòs e che significa “diligentemente, attentamente, accuratamente”.
[3] Guardata con gli occhi di Dio la Terra è una casa neppure tanto grande in rapporto all’Universo intero.
[4] Dal verbo “perseguire” dal latino PERSEQUI composto dalla particella intensiva “PER” e “SEQUI” = seguire, dunque tener dietro con costanza e ardore. Significato derivato “perseguitare”, “persecuzione”.
[5] Primo Vescovo di Roma a portare il nome di Leone, adottato in seguito da altri dodici Sommi Pontefici, è anche il primo Papa di cui ci sia giunta la predicazione, da lui rivolta al popolo che gli si stringeva attorno durante le celebrazioni.
Celebre è rimasto soprattutto un episodio della vita di San Leone Magno. Esso risale al 452, quando il Papa a Mantova, insieme a una delegazione romana, incontrò Attila, capo degli Unni, e lo dissuase dal proseguire la guerra d’invasione con la quale già aveva devastato le regioni nordorientali dell’Italia. E così salvò il resto della Penisola. Questo importante avvenimento divenne presto memorabile, e rimane come un segno emblematico dell’azione di pace svolta dal Pontefice.
Conosciamo bene l’azione di Papa Leone, grazie ai suoi bellissimi sermoni e grazie alle sue lettere, circa centocinquanta. In questi testi il Pontefice appare in tutta la sua grandezza, rivolto al servizio della verità nella carità, attraverso un esercizio assiduo della parola, che lo mostra nello stesso tempo teologo e pastore. Leone Magno, costantemente sollecito dei suoi fedeli e del popolo di Roma, ma anche della comunione tra le diverse Chiese e delle loro necessità, fu sostenitore e promotore instancabile del primato romano, proponendosi come autentico erede dell’apostolo Pietro: di questo si mostrarono ben consapevoli i numerosi Vescovi, in gran parte orientali, riuniti nel Concilio di Calcedonia (451).

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