Si può amare anche senza essere amati
La Stampa, 1 settembre 2013
L’amore è l’esperienza umana più coinvolgente e più decisiva nella nostra vita. Forse è l’unica esperienza in cui ci sentiamo un po’ redenti, in cui sentiamo di salvare le nostre povere vite. Per questo cerchiamo l’amore, lo attendiamo, lo bramiamo, e quando si accende la possibilità della storia d’amore tutte le nostre attenzioni sono trascinate nel suo nascere, sbocciare, crescere… Vorrebbe essere eterno l’amore, ed è vero che, solo se è amore fino alla fine e nonostante il rifiuto, vince la morte; ma in realtà a noi umani non è possibile un amore portato a pienezza.
L’amore di fatto conosce, anche se non lo vogliamo, tante contraddizioni: difficoltà, conflitti, deperimenti, infedeltà e forse anche – ma non ne sono sicuro – la morte. Per questo l’amore non coinvolge nessuno senza esporlo al dolore e senza che debbano consumarsi perdite di se stessi; nell’amore c’è la sofferenza, il dolore per queste contraddizioni ma anche per le inadeguatezze, per la nostra incapacità di amare: quanta disciplina occorre per amare in modo autentico, per amare di desiderio sì, ma in una relazione sinfonica e piena di rispetto l’uno per l’altro, senza diffidenza tra gli amanti, accettandosi reciprocamente, tesi verso un rapporto che renda entrambi più buoni, più umanizzati.
Nell’amore, soprattutto nella fase dell’innamoramento, c’è qualcosa di adolescenziale che sempre si rinnova a ogni inizio: si desidera la fusione che chiede di stare sempre insieme, di pensare le stesse cose, di gioire insieme delle stesse realtà; in una parola, di non lasciare all’altro la distanza che gli è necessaria per essere altro e se stesso, di fronte a me. L’amore dunque richiede una lotta perché, quando amiamo, in noi si fa prepotente il desiderio di possesso, di vantare pretese sull’altro. C’è una difficoltà, quasi un’impossibilità dell’amore autentico: più amiamo, più desideriamo, e più desideriamo, più siamo tentati di disporre dell’altro, fino a farne un nostro possesso.
Siamo intessuti d’amore, mendicanti d’amore, abitiamo la contraddizione di avere necessità dell’amore il quale però necessità della libertà. Per un po’ d’amore siamo anche tentati di prostituzione; per non perdere l’amore siamo tentati di costruire attorno all’altro un recinto; per non soffrire il tradimento nell’amore siamo portati alla violenza, al fare tutto senza più cogliere la differenza dell’altro, le sue motivazioni, la sua via, buona o cattiva che sia. È difficile coniugare amore e libertà, acconsentire nella storia d’amore alla libertà dell’altro, riconoscere che l’alterità è impossibilità all’uguale, al medesimo, e che deve rimanere differenza.
Questa sofferenza si fa ben più acuta ed evidente quando il nostro amore è rifiutato, non corrisposto, non desta il contraccambio. Se leggessimo per una volta i racconti evangelici in modo da scorgere in essi semplicemente i sentimenti, il vissuto dei protagonisti ci accorgeremmo, per esempio, che quando Gesù incontra un giovane (cf. Mc 10,17-22 e par.) che lo interroga sulla vita eterna e gli chiede di parlargli di Dio, egli lo fissa nel volto, lo guarda negli occhi e lo ama: Gesù ama gratuitamente un giovane capitato sulla sua strada… Quello di Gesù è uno sguardo d’amore, che non deve essere colto solo come una vocazione affinché quel tale lo segua. Non si tratta di una tattica vocazionale attuata da Gesù per accalappiare adepti per la sua comunità. Il suo è uno sguardo che dice come Gesù si sia sentito attratto e interpellato da quel giovane, come verso di lui abbia provato un sentimento di affetto. Era un giovane amabile, forse bello, forse così trasparente che a Gesù risultava amabile; a lui egli rivolge uno sguardo lungo, profondo, preciso, di elezione della sua persona tra gli altri.
Ma nonostante questa simpatia, questo sguardo su chi era amabile, la relazione non si accende e lo sguardo di Gesù rimane senza risposta. Sì, il giovane se ne andò triste, ma forse che Gesù se ne sarà andato contento? Siamo sicuri che, fatto il suo dovere, quasi l’avesse amato solo per chiamarlo, Gesù non si sia rattristato per il rifiuto della sua offerta d’amore? Ecco una debolezza anche dell’amore più forte: l’amore di Gesù non è stato compreso, il giovane che ai suoi occhi era amabile non gli ha permesso di amarlo. È un enigma accompagnato da tristezza, nostalgia, sofferenza: il no dell’altro, per noi amabile, al nostro sguardo, al nostro amore, è una sofferenza acuta che continua almeno per un certo tempo. È la necessitas amoris, inscritta nell’amore: l’amore si rivolge alla libertà dell’altro, e così nella relazione può accadere anche il diniego, il rifiuto, il no all’amore. E l’amante, dall’amore nato dal suo sguardo riceve sofferenza per il no opposto al suo amore; l’amante è sempre esposto al rischio che l’amato non diventi amante, che l’amato se ne vada, che non riconosca l’amore di chi lo ama.
Ma di chi sto parlando? Di me e dei miei dati autobiografici? Di Gesù che “narra” Dio? Non sto forse leggendo tutta la vicenda di Dio e dell’uomo? Non sto sintetizzando la Bibbia come storia d’amore? Sì, il nostro Dio, che ci ha creati per avere con noi una relazione d’amore, per avere davanti a sé qualcuno a cui offrire i suoi doni meravigliosi – come affermava Ireneo di Lione –, il Dio che il Nuovo Testamento, dopo il racconto fattone da Gesù, definisce “agápe, amore” (1Gv 4,8.16), non è soprattutto il partner nella storia d’amore con noi, con l’umanità? Che storia! Una storia d’amore in cui ci sono misconoscimenti, tradimenti, conflitti, negazioni; una storia in cui il Dio creatore, il Dio donatore di tutto si fa mendicante d’amore presso il suo popolo che lo tradisce e che giunge a prostituirsi, ad avere altri amanti. In questa storia il Dio creatore è vulnerabile: soffre per l’amore non corrisposto, è frustrato dalle non risposte del partner amato, è geloso di questo amato così litigioso e pronto all’infedeltà, un amato che non corrisponde. È una storia in cui ci sono state le stagioni dell’amore c’è stata la primavera, l’innamoramento; poi la stagione dell’amplesso, dell’unione dei partner e della celebrazione nell’alleanza dell’amore; ma poi anche la lunga stagione dell’infedeltà, dell’aridità dell’amore e delle passioni dell’amato per nuovi amanti.
L’amore basta all’amore? Cioè all’amante basta amare anche senza reciprocità, anche senza il contraccambio da parte dell’amato? L’amore si sostiene anche quando l’amato rifiuta di essere trasfigurato dall’amore dell’amante? L’amore contiene in sé il riconoscimento della libertà dell’altro e continua nel suo ardere anche quando dall’altro giunge il diniego? Se è vero amore, sì! Proprio perché l’amore basta all’amore, perché l’amore non può mai essere meritato ma sta nello spazio della gratuità e della libertà, perché non solo Dio è amore ma l’amore, se è vero, diventa divino, cioè racconta sempre Dio.
"Le lacrime di Maria ci guariscono dalla cecità della pigrizia, dell'impazienza e della tristezza"
Di seguito l’omelia tenuta questa sera a Siracusa dal Cardinale Tarcisio Bertone, Segretario di Stato uscente, per il 60° anniversario del prodigio della Madonna delle Lacrime.
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Sono lieto di rivolgere il mio saluto a tutti voi cari fedeli qui riuniti, ed in particolare ai confratelli Vescovi che numerosi circondano questo altare. Saluto con deferenza e stima le Autorità civili e militari ringraziandole per la loro presenza.
Ho accettato volentieri di presiedere questa celebrazione avendo in me ancor vivo il ricordo dell’emozione provata 60 anni fa, di fronte all’evento della lacrimazione dell’effige della Madonna; evento che ha toccato non solo il cuore dei siracusani, ma di tutta la Chiesa sia in Italia che altrove.
La tormentata vita dell’umanità in questa “valle di lacrime” offre anche oggi immagini dolorose che attraggono gli occhi misericordiosi della nostra madre celeste. Sono immagini che Papa Francesco, pronunciando un forte appello per la pace in Siria al termine della preghiera dell’Angelus di domenica scorsa, ha definito come scenari di “violenza tra fratelli” e di “stragi e atti atroci”. Uniamo la nostra preghiera a quella del Papa e poniamola nelle mani di Maria.
Ora, meditando le letture bibliche di questa celebrazione eucaristica cogliamo l’opportunità di una appropriata riflessione per sottolineare come la presenza mistica di Maria, che qui volle lasciare il segno della sua compassione per le sofferenze umane, sostiene lungo i secoli la fede, la speranza e la carità del popolo cristiano, accompagna il cammino dei suoi figli nella storia e condivide il loro pianto.
Prendiamo in considerazione innanzitutto il brano del Vangelo che abbiamo ascoltato. Giovanni, l’unico degli Apostoli che fu sul Calvario nel momento della crocifissione, testimonia che «presso la croce di Gesù stava sua madre» (Gv 19,25). Giovanni documenta nel suo racconto che Maria non era da sola; con lei c’erano alcune donne, coraggiose discepole di Gesù. Ciò che l’evangelista dice di Maria è importante, ma è altrettanto importante ciò che di lei non dice: non sappiamo, infatti, se ella pronunciò delle parole, ma sicuramente versò le lacrime in quell’ora, in cui anche il suo cuore fu trafitto.
La fermezza di Maria, il suo “stabat” è come la conferma del “fiat” pronunciato al momento dell’annuncio dell’Angelo. Con uguale convinzione e coraggio, con identica, anzi con accresciuta consapevolezza rimane fedele anche sotto la croce. In questo modo Maria realizza il comando di Gesù: «Rimanete in me e io in voi. Come il tralcio non può far frutto da se stesso se non rimane nella vite, così anche voi se non rimanete in me» (Gv 15,4). Mariarimane, e perciò porta molto frutto in una nuova maternità: diventa la Madre della Chiesa.
Un altro atteggiamento di Maria sotto la croce è l’ascolto. Ascolta le parole del suo Figlio, come una fedele discepola ai piedi della cattedra del Maestro. Così ha fatto sempre, per tutta la vita, non lasciando cadere una sola delle sue parole. Maria ascolta le ultime parole di Gesù prima di morire e le custodisce meditandole nel suo cuore di Madre.
Maria è anche un esempio di accoglienza. Accoglie il discepolo Giovanni come suo figlio, e si lascia accogliere da lui. E’ la consegna di Gesù morente. Per questo accetta la sostituzione del figlio divino e, obbediente al comandamento dell’amore, ama i nuovi figli che Gesù le ha affidato, e si lascia amare da loro. Papa Francesco nella sua omelia nella festa del Sacro Cuore ha osservato acutamente quanto non sia facile lasciarsi amare: «più difficile che amare Dio – da detto - è lasciarsi amare da Lui! E’ questo il modo per ridare a Lui tanto amore: aprire il cuore e lasciarsi amare». Maria si lascia amare e proprio per questo si lascia accogliere dal discepolo amato da Gesù.
In questi tre atteggiamenti: rimanere, ascoltare e accogliere, si riassume l’esistenza di Maria, la sua vocazione, la sua missione. E poiché Maria è la madre e il modello della Chiesa, questi sono anche i verbi che segnano la sequela Christi: la comunità dei discepoli di Gesù è chiamata a rimanere ancorata a Lui, al suo Mistero di salvezza; è chiamata ad ascoltare le Parole di grazia del Vangelo; è chiamata ad accogliere ogni uomo e a lasciarsi accoglierenella famiglia della Chiesa.
In questi tre verbi è tratteggiato anche il dinamismo della consolazione di Dio: Dio rimaneaccanto, anzi, direi “dentro” le croci degli uomini, portandole insieme con noi; Dio ascolta il grido di aiuto degli afflitti e decide di intervenire con la sua potenza d’amore; Dio accoglie e si lascia accogliere da chi confida in Lui e compie grandi cose nella sua vita.
Per questo è molto appropriata la Parola che abbiamo ascoltato poco fa nella prima Lettura, tratta dal Libro dei Proverbi: «Figlio mio, osserva il comando di tuo padre e non disprezzare l’insegnamento di tua madre. Fissali sempre nel tuo cuore» (Pr 6,20-21). Dobbiamo lasciare che Dio incida nelle pareti più interne del cuore il comando della misericordia e l’insegnamento della consolazione, la legge della libertà e il precetto della carità, proprio come ha fatto con Maria. Lei stessa come Madre ci educa a questo.
Qui, in questa antica e splendida città di Siracusa, 60 anni or sono Maria pianse lacrime umane da un semplice quadretto di gesso raffigurante il suo Cuore Immacolato. Pianto umano mosso da compassione, linguaggio del cuore non sempre facile da comprendere, misterioso segno della cura e della misericordia di Dio, un segno da meditare in profondità, da cui lasciarsi interrogare. Maria, Assunta nella gloria, vive ormai nella Città del Cielo, dove Dio ha asciuga ogni lacrima dagli occhi degli uomini (cfr Ap 21,1-5) – è la seconda Lettura di oggi.
Da questo Santuario, «sorto per ricordare alla Chiesa il pianto della Madre» - sono parole del Beato Giovanni Paolo II – proviene un messaggio di consolazione e di speranza. Attraverso questo pianto di Maria, Dio ci dice che Lui partecipa alle «gioie e alle speranze, alle tristezze e alle angosce degli uomini» (Gaudium et spes, 1).
Quello delle lacrime è un linguaggio universale, che manifesta la compassione di Dio. E la Chiesa, che riceve da Maria questo messaggio, è chiamata a diventarne ambasciatrice, come scrive l’apostolo Paolo: «In nome di Cristo siamo ambasciatori: per mezzo nostro è Dio stesso che esorta» (2 Cor 5,20).
Papa Francesco ama utilizzare immagini semplici ed efficaci per parlarci di Dio e del suo amore. Alcune di queste vorrei riprenderle per declinarle in questo contesto dell’evento straordinario che stiamo commemorando. Il pianto di Maria è come il “collirio della memoria” contro l’idolatria del presente, un collirio che ci aiuta ad avere uno sguardo pieno di speranzaverso il futuro; uno sguardo pieno di fede, per essere pronti alla conversione e docili allo Spirito.
Le lacrime di Maria ci guariscono dalla cecità della pigrizia, dell’impazienza e della tristezza. Sono lacrime di compassione, che ci impediscono di passare oltre indifferenti, quando vediamo una persona in difficoltà, e ci spingono a farci prossimo.
Il pianto di Maria è infine espressione della “tenerezza di Dio”, e proprio per questo le sue lacrime sono portatrici della vera consolazione che non inganna e non delude. La Madonna è una Madre buona; in lei c’è un cuore vivo, pulsante, un cuore di carne, che gioisce con chi è nella gioia e piange con chi è nel pianto. Così dev’essere il cuore di una comunità cristiana, che cammina nella verità e nella carità.
Cari fratelli e sorelle, in questa città di Siracusa, la presenza di Maria irraggiata da questo Santuario a lei dedicato, incoraggia il popolo fedele. Per tutti voi, in modo particolare, la sua consolazione è un dono e una responsabilità. Lasciate dunque che la tenerezza di Dio penetri profondamente il vostro cuore, perché anche voi, alla scuola di Maria, possiate essere strumento di consolazione gli uni verso gli altri. Così sia.
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