La fede
In tutta questa esperienza c’è molto Dio. Pierre Piccinin è un credente. Io sono un credente. La mia è una fede molto semplice, la fede delle preghiere di quando ero bambino, dei preti che quando andavo a trovare mia nonna in campagna incrociavo mentre raggiungevano in bicicletta delle piccole parrocchie con gli scarponi da operaio e la borsa attaccata alla canna della bici, e portavano estreme unzioni, benedivano le case, con la fede dei preti di Bernanos, semplice ma profonda. La mia fede è darsi, io non credo che Dio sia un supermercato, non vai al discount a chiedere la grazia, il perdono, il favore. Questa fede mi ha aiutato a resistere.È la storia di due cristiani nel mondo di Maometto e del confronto di due diverse fedi: la mia fede semplice, che è darsi, è amore, e la loro fede che è rito. Avevo anche un mio bloc notes e ogni giorno segnavo ciò che succedeva.L’avevo quasi finito, mancavano due pagine. L’ultimo giorno me l’hanno preso. Mi è servito soprattutto a tenere il conteggio dei mesi, dei giorni,perché se uno perde il senso del tempo affonda in un pozzo da cui non esce più.
“Io, tra bombe, fughe e umiliazioni”
La prigionia lunga 152
giorni:
«Credevo mi avrebbero ucciso,
la Siria è in mano al demonio»
domenico quirico
La notte era dolce come
il vino: l’8 aprile ad al Qusayr, Siria, per raccontare un altro capitolo della
guerra siriana, dove la Primavera della rivoluzione sembrava poter durare per
sempre e capovolgere il mondo. E invece sono stati 152 giorni di prigionia,
piccole camere buie dove combattere contro il tempo e la paura e le umiliazioni,
la fame, la mancanza di pietà, due false esecuzioni, due evasioni fallite, il
silenzio; di Dio, della famiglia, degli altri, della vita. Ostaggio in Siria,
tradito dalla rivoluzione che non è più ed è diventata fanatismo e lavoro di
briganti. L’ostaggio piange e qui tutti ridono del suo dolore, considerato come
prova di debolezza. La Siria è il Paese del Male; dove il Male trionfa, lavora,
inturgidisce come gli acini dell’uva sotto il sole d’Oriente. E dispiega tutti
i suoi stati; l’avidità, l’odio, il fanatismo, l’assenza di ogni misericordia,
dove persino i bambini e i vecchi gioiscono ad essere cattivi. I miei
sequestratori pregavano il loro Dio stando accanto a me, il loro prigioniero
dolente, soddisfatti, senza rimorsi e attenti al rito: cosa dicevano al loro
Dio?
Il racconto integrale
Siamo entrati in Siria il 6 aprile con il consenso e
sotto la protezione dell’Armata siriana libera, come tutte le volte precedenti.
Ho cercato di raggiungere Damasco e di verificare di persona le notizie sulla battaglia
decisiva di questa guerra civile, come faccio sempre. Ma ci hanno detto che
avremmo dovuto aspettare alcuni giorni prima di poter raggiungere la capitale
siriana e così abbiamo accettato la proposta di andare in una città che si
chiama Al Qusayr, vicina al confine libanese, che in quei giorni era assediata
da Hezbollah, fedele alleato del regime di Assad.
Siamo arrivati ad Al Qusayr con un convoglio di
rifornimenti della stessa Armata siriana libera, un lungo viaggio nella notte a
fari spenti passando sulle montagne perché il regime controllava la strada.
Siamo stati bombardati da un Mig vicino a un Ticunin, un mulino dell’epoca
bizantina. Eravamo sul fiume Oronte, in una zona in cui nella storia gli imperi
si sono costruiti ma si sono anche sgretolati. Lì si è combattuta la battaglia
fra Ramses II e gli Ittiti. Lì la storia è ovunque, nelle colline, nelle
pietre. La città era già devastata e distrutta dai bombardamenti dell’aviazione
e così la sera successiva abbiamo deciso di tornare dal luogo in cui eravamo
partiti per sapere se era possibile intraprendere il viaggio verso Damasco.
fidati. Invece probabilmente sono stati loro a tradirci e a venderci.
All’uscita della città siamo stati affrontati da due pick-up con a bordo uomini
con il viso coperto. Ci hanno fatto salire sui loro mezzi, poi ci hanno portato
in una casa e ci hanno picchiato sostenendo di essere uomini della polizia di
regime. Nei giorni successivi invece abbiamo scoperto che non era vero, perché
erano dei ferventi islamisti che pregavano cinque volte al giorno il loro Dio
in modo flautato e dotto. Poi, il venerdì hanno ascoltato la predica di un
predicatore che sosteneva la jihad contro Assad. Ma la prova decisiva l’abbiamo
avuta quando siamo stati bombardati dall’aviazione: era chiaro che quelli che
ci tenevano in ostaggio erano ribelli.
L’emiro Abu Omar
L’ideatore e capo del gruppo che ci teneva prigionieri
era un sedicente emiro che si chiama, anzi, si fa chiamare, Abu Omar, un
soprannome. Ha formato la sua brigata reclutando gente della zona, più banditi
che islamisti o rivoluzionari. Questo Abu Omar copre con una vernice islamista
i suoi traffici, le sue attività illecite, e collabora con il gruppo che
successivamente ci ha preso in carico, Al Faruk. Al Faruk è una brigata molto
nota della rivoluzione siriana, fa parte del Consiglio nazionale siriano, e i
suoi rappresentanti incontrano i governi europei. È stato creata da un generale
ribelle che ha arruolato combattenti fra la gente più povera di Homs, fra i più
dimenticati dalla mafia di regime. L’Occidente si fida di loro ma ho imparato a
mie spese che si tratta anche di un gruppo che rappresenta un fenomeno nuovo e
allarmante della rivoluzione: l’emergere di gruppi banditeschi di tipo somalo,
che approfittano della vernice islamista e del contesto della rivoluzione per
controllare parte del territorio, per taglieggiare la popolazione, fare
sequestri e riempirsi le saccocce di denaro.
La prima prigione
Inizialmente ci hanno tenuto in una casa di campagna
alla periferia della città di Al Qusayr. Siamo rimasti lì per una ventina di
giorni. Poi è accaduto il primo fatto terribile di quella che io chiamo la
matrioska di questa storia, un evento all’interno di un altro evento: Hezbollah
ha attaccato le posizioni dei ribelli e l’edificio in cui eravamo prigionieri è
diventato la prima linea. È stato bombardato e attaccato. A quel punto ci hanno
portato in un’altra casa, all’interno della città. Ma era come se il destino si
accanisse contro di noi e continuamente ci ponesse nuovi terribili scenari,
come se ci ricacciasse sempre indietro, sempre più lontano dalla prospettiva di
essere liberati. Alla fine anche questa casa è stata attaccata e per una
settimana siamo stati affidati ad una brigata di Jabat Al Nusra, l’Al Qaeda
siriana. È stato l’unico momento in cui siamo stati trattati come esseri umani,
per certi aspetti persino con simpatia: ad esempio ci hanno dato da mangiare le
stesse cose che mangiavano loro. I qaedisti in guerra fanno una vita molto
ascetica e sono dei guerrieri radicali, islamisti fanatici che si propongono di
costruire uno stato islamico in Siria e poi in tutto il Medio Oriente, ma nei
confronti dei loro nemici - perché noi, cristiani, occidentali, siamo loro
nemici - hanno un senso di onore e di rispetto. Al Nusra è nell’elenco delle
organizzazioni terroristiche degli americani ma sono gli unici che ci hanno
rispettato. Poi siamo tornati nelle mani di Abu Omar.
La fuga da Al Qusayr
Al Qusayr era sotto assedio e diventava ogni giorno
sempre più piccola, veniva demolita mattone su mattone. All’inizio di giugno
l’assedio stava per finire con la vittoria degli Hezbollah. Intorno al 9 del
mese tutte le varie fazioni della ribellione (fra cui anche la «katiba» di Abu
Omar), hanno deciso di sfondare le linee nemiche insieme alla popolazione per
provare a fuggire in un altro luogo della Siria. Incredibilmente ce l’hanno, ce
l’abbiamo, fatta. È stata un’epopea straordinaria e terribile, con uomini,
donne, bambini, handicappati e vecchi che hanno marciato a piedi per dodici ore,
per due notti consecutive, attraverso la campagna. Erano 5-6 mila persone.
Durante la marcia sui ciottoli questa folla faceva un rumore sordo, come se a
spostarsi fosse un unico corpo. Quando i razzi lanciati dai soldati del regime
per permettere all’artiglieria e alle mitragliatrici di colpirli illuminavano
la scena, la campagna diventava abbagliante e tutte queste migliaia di persone
si gettavano a terra improvvisamente creando un silenzio incredibile. Subito
dopo, quando i razzi, che scendono lentissimi, si spegnevano per terra, tutta
la folla si rialzava e riprendeva il cammino lasciando dietro di sé la catena
dei morti.
Pesche acerbe
Alla fine della prima notte l’esercito è riuscito a
bloccare l’avanzata e tutte queste persone si sono disperse nei frutteti e nei
campi, senz’acqua e senza cibo, aspettando un’altra notte per tentare di
proseguire. Non c’era nulla da mangiare. C’erano solo le pesche degli alberi,
che essendo giugno erano ancora lontane dall’essere mature. Ci siamo nutriti
schiacciandole e mangiando la parte più interna e il nocciolo, che erano
abbastanza molli. C’erano anche alcuni vecchi personaggi omerici che si
avviavano da soli verso le linee dell’esercito di Bashar e venivano falciati
dalle mitragliatrici. Ma la cosa più straordinaria è stata che all’imbrunire,
quando è scesa la sera, tutto questo popolo si è fermato e ha pregato. E gli
uomini di Abu Omar hanno incrociato due kalashnikov davanti alle fila dei
combattenti per intonare una preghiera della guerra. Il canto modulato si è
levato sui campi sui boschi per chiedere a Dio di vincere la guerra, di
uccidere i loro nemici. Dopodiché questa gente si è avviata verso il nemico, ha
sfondato le linee e incredibilmente è avanzata oltre i soldati.
Verso Homs
Siamo scesi verso Homs dall’altopiano. Io credo di
aver pensato di sognare, che non fosse una scena reale. Nella notte stavamo
camminando verso questa grande città, la città nella quale è iniziata la
rivoluzione. Una parte della città era già stata distrutta dai bombardamenti ed
era vuota, l’altra parte invece era ancora abitata e i combattimenti
continuavano. Per uno strano e incredibile effetto ottico l’immensa distesa di
queste case bianche si proiettava al contrario verso il cielo: una parte,
quella distrutta, aveva la fissità e il silenzio di un cimitero, di una tomba,
l’altra invece era tutta luce, scoppi, razzi e rumori. Siamo scesi verso la
pianura di Homs. Camminavamo in mezzo a due colonne di fuoco circondati da
ombre: la gente correva tenendosi bassa perché le mitragliatrici tiravano ad
altezza uomo, inciampavamo sui morti, finché alla fine non siamo arrivati in
una piccola città di cemento, una delle tante piccole orribili città della
Siria, mal costruite, approssimative.
Come Ulisse
Come Ulisse
Dopo quella notte ci hanno riportato nella città in
cui era iniziato il nostro viaggio, come in una sorta di Odissea. Ulisse va
verso Itaca, vede la sua casa, la sua isola là in fondo, ma il Dio feroce,
implacabile, il destino, si accanisce contro di lui e una tempesta lo ricaccia
indietro e quella è la sua condanna. A noi è successa la stessa cosa. Tornati a
Reabruc, la città da cui eravamo partiti, ci hanno venduto al gruppo di Al
Faruk. Il vortice è ripreso perché dopo due giorni ci hanno detto che ci
avrebbero portato verso nord, verso il confine con la Turchia, e che ci
avrebbero liberato. Abbiamo trascorso due notti in viaggio su questi pick-up
sulle strade di montagna, con gli autisti che ogni tanto guardavano con il
cannocchiale a infrarossi se i militari preparassero agguati sulla strada. Dopo
la seconda notte di viaggio al freddo dentro il cassone del pick-up, ricoperti
di polvere, siamo arrivati nella zona di Idlib, dove ci hanno tenuto per altre
tre o quattro settimane in una base militare. Eravamo sul fiume Oronte, in una
zona in cui nella storia gli imperi si sono costruiti ma si sono anche
sgretolati come quello degli Ittiti... Il capo dei sequestratori si faceva
chiamare Abu Omar. Copre con una vernice islamista i suoi traffici, le sue
attività illecite Noi lo chiamavamo l’infame.
La telefonata
Dopo il primo giorno di marcia questo Abu Omar era
seduto come un pascià sotto un albero circondato dalla sua piccola corte di
guerriglieri. Mi ha chiamato perché voleva che mi sedessi accanto a lui, voleva
fingere di essere nostro amico per ingannare un po’ anche la gente che era lì
intorno e che si chiedeva chi fossero questi due occidentali malvestiti e
distrutti dopo due mesi di prigionia. Gli ho chiesto il telefono per chiamare
casa, dicendo che i miei probabilmente pensavano che io fossi morto e che stava
distruggendo la mia vita, la mia famiglia. Lui rideva. E mi mostrava il suo
telefonino mentendo e dicendo che non c’era campo, che non si poteva
telefonare. Non era vero. In quel momento un soldato dell’Esercito siriano
libero, ferito alle gambe, ha tirato fuori dalla tasca dei suoi pantaloni un
telefonino e me l’ha dato davanti a lui. È stato l’unico gesto di pietà umana
che ho ricevuto nei 152 giorni. Nessuno ha avuto verso di me una manifestazione
di quella che noi chiamiamo pietà, misericordia, compassione. Persino i vecchi
e i bambini hanno cercato di farci del male. Lo dico forse in termini un po’
troppo etici, ma veramente in Siria io ho incontrato il paese del Male. Sono
riuscito a chiamare a casa solamente per 20 secondi, dopo quell’urlo disperato
che ho sentito dall’altra parte, la linea è caduta.
La prigionia
Ci tenevano come animali, costretti in piccole stanze
con le finestre chiuse nonostante il terribile caldo, gettati su dei
pagliericci, ci davano da mangiare i resti dei loro pasti. Nella mia vita, nel
mondo occidentale, non ho mai provato cos’è l’umiliazione quotidiana nelle cose
semplici come il non poter andare alla toilette, il dover chiedere tutto e
sentirsi sempre dire no. Credo che c’era una soddisfazione evidente in loro nel
vedere l’occidentale ricco ridotto come un mendicante, come un povero.
I tentativi di fuga
La prima volta, il nostro custode probabilmente quella
sera si era addormentato, siamo usciti dalla casa e ci siamo diretti verso
delle luci,pensavamo fosse AlQusayr. Dopo duecento metri ci hanno ricatturati.
La seconda volta invece, eravamo in un’altra località, nell’ultimo periodo
della nostra detenzione. Abbiamo approfittato della distrazione di questi
quattro ragazzi, che la sera spesso non badavano alle loro cose, ai loro
giubbotti con i caricatori, ai kalashnikov, abbandonati vicino alla nostra
stanza. Abbiamo preso due granate, pensando di utilizzarle per aprirci la
strada. Le ho nascoste sotto un sofà distrutto. Pensavamo di sorprenderli, prender
loro un telefonino, telefonare a casa, in Italia, per farci guidare in questa
fuga. Purtroppo, o per fortuna, perché credo che un simile tentativo mi avrebbe
creato enormi problemi morali, la cosa non è andata in porto. Ma una sera non
hanno chiuso con la catena la porta della casa, siamo usciti, dopo aver preso i
due kalashnikov, siamo fuggiti verso il confine di Bab al Hawa. Conoscevo
quella zona, perché ci ero stato a gennaio.
Ridotto a merce Ci siamo nascosti in una specie di
rudere nella campagna. Abbiamo cercato di attraversare il confine di notte, ma
abbiamo scoperto che c’erano i campi minati. Siamo arrivati fino al filo
spinato e siamo dovuti tornare indietro. Abbiamo fermato un’auto col
kalashnikov, abbiamo chiesto al guidatore di portarci in un villaggiolì vicino.
Ma c’era un posto di blocco.Ci hanno sparato, fermato e riportato verso la casa
dove ci tenevano e ci hanno consegnato ai carcerieri per punirci. Ci hanno
chiuso in una specie di sgabuzzino con le mani legate dietro la schiena, quasi
incaprettati e ci hanno tenuti così per tre giorni. Il nostro valore era quello
di una mercanzia. Non si può distruggere la mercanzia, se no si rischia di non
ottenere più il suo prezzo. E ti senti veramente come un sacco di grano, un
oggetto che vale in quanto vendibile. Ti possono prendere a calci ma non ti
possono ammazzare perché se ti guastano troppo, o definitivamente, non ti
possono più vendere. È l’orribile legge dell’ostaggio.
Le cose semplici della vita
Una volta ho parlato con Georges Malbrunot,
giornalista del «Figaro» che è stato forse uno dei più celebri ostaggi, molti
anni fa, durante la guerra Iraq-Iran. Credo che sia stato ostaggio quattro
mesi, in condizioni forse addirittura peggiori delle mie, in una grotta. E
raccontava questa depauperizzazione di tutto ciò che uno è, che sono le scarpe,
i vestiti... Io sono stato cinque mesi senza scarpe, camminando a piedi nudi.
Per cinque mesi il mio ritmo di vita è diventato il sole che spunta e il sole
che tramonta. E poi l’impossibilità di fare tutte le cose che costituiscono la
vita: camminare, muoversi, incontrare altre persone, scrivere leggere, guardare
il paesaggio, sognare di fare delle cose che poi magari non fai, che sono il
tuo modo di vivere. Io per cinque mesi ho vegetato, nel senso stretto della
parola, cinque mesi in cui mi è stata succhiata la vita ed è stata sostituita
con qualche cosa di artificiale, che è essere un oggetto e lottare contro il
tempo. Ho imparato il carattere straordinario di alcune cose semplici, come un
bicchiere d’acqua fresca. E poi vedere il sole, perché le finestrelle erano
piccole e spesso c’era l’oscurità totale. Camminare, parlare con qualcuno che
non fosse sempre questo mio compagno di sventura. E meno male che c’era, perché
altrimenti sarei impazzito.
I carcerieri Erano di un gruppo che si professa
islamista ma in realtà è formato da giovani sbandati che sono entrati nella
rivoluzione perché la rivoluzione oramai è di questi gruppi che sono a metà tra
il banditismo e il fanatismo. Seguono chi gli promette un futuro, gli dà le
armi, la forza, gli versa il denaro per comprarsi i telefonini, computer,
vestiti. Le Adidas sono estremamente diffuse in Siria, tutti hanno magliette
Adidas, scarpe Adidas, sembra una specie di sponsorizzazione. Questi ragazzi
vivono una vita di maschi, senza femmine, comunitaria in cui non fanno nulla e
passano la giornata sdraiati sui materassi a bere mate. Credevo fosse una cosa
sudamericana invece è estremamente diffuso in alcune zone della Siria. E fumano
Marlboro originali americane che fanno arrivare dalla Turchia. Io sembravo più
islamista di molti di loro perché non fumo e non bevo. E guardavano la
televisione ma l’informazione era l’ultima cosa che gli interessava. Solo
filmetti vagamente osé della televisione del Qatar o vecchi film egiziani
sentimentali degli anni 50 in bianco e nero o gare di lotta, il wrestling
americano oppure una terribile forma di lotta praticata nei paesi arabi in cui
tutto è permesso...
Le finte esecuzioni
Per due volte hanno finto di mettermi al muro. Eravamo
dalle parti di Al Qusayr. Uno si è avvicinato con la pistola e mi ha fatto
vedere che la pistola era carica poi mi ha detto di mettere la testa contro al
muro, mi ha avvicinato la pistola alla tempia. Lunghi momenti in cui ti
vergogni... io mi ricordo la finta esecuzione di Dostoevskij... ti viene una
rabbia perla paura che hai, senti che l’uomo che è vicino a te respira, trasuda
il piacere di avere nelle sue mani un altro uomo e sentire che tu hai paura, e
ti viene la rabbia perché tu hai paura. È un po’ come quando i bambini, che
sono spesso terribilmente crudeli, strappano la coda alla lucertola o le zampe
alle formiche. La stessa ferocia terribile.
Le trattative Per ridere di noi i nostri carcerieri
ogni tanto ci dicevano «due o tre giorni, una settimana, e poi via liberi in
Italia» per vedere poi la nostra disperazione... perché aggiungevano una
parola... Inshallah... che è il loro modo di mentire senza avere il senso di
mentire, inshallah, è successo... Dicevano continuamente «bukrah» che vuole
dire domani... poi l’indomani non partiva nessuno. Un gioco veramente crudele,
ma negli ultimi tempi quando ci dicevano così noi a nostra volta rispondevamo:
«inshallah...» per far capire che avevamo capito. Alla fine, domenica, ho
sentito che sarebbe stata la volta buona. Forse per bruciare le piste, abbiamo
praticamente attraversato tutto il paese, fin quasi a Deir Azor, nel grande
deserto siriano. Ci siamo fermati in una città di cui non saprei dire il nome e
poi siamo tornati indietro rifacendo la stessa strada. Una sorta di
depistaggio. E poi siamo stati liberati. E questa volta non era Inshallah. Ci
hanno fatto scendere dalle macchine dall’altra parte del confine, dicendo di
camminare. Confesso di aver pensato che ci avrebbero sparato nella schiena, era
buio, era notte, domenica dopo il tramonto. Ho pensato che se avessi sentito il
rumore del caricatore mi sarei buttato per terra. Ero sicuro che mi avrebbero
eliminato, avevamo visto le loro facce, sapevamo i loro nomi. E invece nessuno
ha caricato il kalashnikov. E poi ho sentito voci italiane. Inshallah, questa
volta era la volta buona.
I libri
Io viaggio sempre con i libri, piuttosto rinuncio a
tre ricambi di magliette. Questa volta ne avevo quattro. Due libri di un autore
che sciaguratamente oggi è stato dimenticato, Erich Maria Remarque, due opere
forse un po’ minori «Tempo di vivere, tempo di morire» e «La via del ritorno»
che è la storia del ritorno di alcuni reduci tedeschi alla fine della prima
guerra mondiale. Un po’ il simbolo anche della mia via del ritorno che non
riuscivo a trovare. Norman Mailer, «Il nudo e il morto» e poi «Delitto e
castigo» di Dostoevskij. Li ho letti e riletti. Posso raccontare tutti i
personaggi, recitarli all’indietro. Li ho portati dietro di me con fatica
perché pesavano, ho marciato con loro per due notti e per due giorni durante la
ritirata di Al Qusayr. Me li hanno sequestrati l’ultimo giorno. I libri ti
parlano. Ma per un certo periodo non mi hanno parlato più, scorrevano le
parole, le storie i personaggi... Se farò altri viaggi del genere mi porterò
sempre la «Recherche» di Proust, il «Don Chisciotte», libri lunghi, molto
lunghi... aiuta.
La fede
In tutta questa esperienza c’è molto Dio. Pierre
Piccinin è un credente. Io sono un credente. La mia è una fede molto semplice,
la fede delle preghiere di quando ero bambino, dei preti che quando andavo a
trovare mia nonna in campagna incrociavo mentre raggiungevano in bicicletta
delle piccole parrocchie con gli scarponi da operaio e la borsa attaccata alla
canna della bici, e portavano estreme unzioni, benedivano le case, con la fede
dei preti di Bernanos, semplice ma profonda. La mia fede è darsi, io non credo
che Dio sia un supermercato, non vai al discount a chiedere la grazia, il
perdono, il favore. Questa fede mi ha aiutato a resistere.È la storia di due
cristiani nel mondo di Maometto e del confronto di due diverse fedi: la mia
fede semplice, che è darsi, è amore, e la loro fede che è rito. Avevo anche un
mio bloc notes e ogni giorno segnavo ciò che succedeva.L’avevo quasi finito,
mancavano due pagine. L’ultimo giorno me l’hanno preso. Mi è servito
soprattutto a tenere il conteggio dei mesi, dei giorni,perché se uno perde il
senso del tempo affonda in un pozzo da cui non esce più.
DI DOMENICO QUIRICO lastampa.it
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