Il 16 ottobre è una data che non può passare inosservata: in questo giorno dell'anno di grazia 1978 veniva eletto Papa il cardinal Karol Wojtyla (v. post pubblicato ieri); in questo stesso giorno del 1943 ci fu la deportazione degli ebrei di Roma. Di seguito riporto a proposito dalle edizione odierna de "L'Osservatore Romano".
* * *
(Giovanni Preziosi) Il 16 ottobre del 1943 è una data che non può passare inosservata perché rappresentò uno dei giorni più drammatici della storia del secolo scorso, segnato da un’onta d’infamia e di lutto, a causa del vile rastrellamento nel ghetto di Roma a opera della brigata s.s. Einsatzgruppen agli ordini del capitano Theodor Dannecker, che seguì l’esatto copione sperimentato con successo a Parigi nel luglio del 1942 in occasione di quella che passò tristemente alla storia come la rafle du Vél d’hiv, allorché la polizia arrestò 13.152 ebrei.
In realtà la decisione di estendere anche all’Italia la “soluzione finale”, così come stabilito nel corso della Conferenza di Wannsee del gennaio 1942, era stata presa a Berlino già dal 24 settembre 1943, quando fu emanato l’ordine perentorio di «catturare e trasferire nel Nord Italia», mediante un’azione a sorpresa, tutti «gli 8.000 ebrei che viv[evano] a Roma» per essere “liquidati”. Il 6 ottobre 1943, scrive infatti il comandante dell’Aussenkommando Rom der Sicherheitspolizei und des sd a Roma, Herbert Kappler, al suo diretto superiore Karl Wolff: «L’Ufficio Centrale per la Sicurezza del Reich ha mandato il capitano Dannecker per catturare tutti gli ebrei in un’azione lampo e spedirli in Germania. A causa dell’atteggiamento della città e di incerte condizioni, l’azione non può essere condotta a Napoli. I preparativi dell’ufficio per l’azione a Roma sono stati conclusi».
Dunque, come si evince da questo documento, nei piani accuratamente predisposti dai tedeschi il primo rastrellamento in grande stile doveva essere sferrato nel capoluogo partenopeo, ma ciò non fu possibile a «causa del clima ostile della città» e per il tempestivo ripiegamento delle truppe tedesche verso Nord ordinato dal colonnello Walter Schöll, che si rese indispensabile già a partire dal 30 settembre 1943 in seguito all’insurrezione della popolazione napoletana. Inoltre, l’11 ottobre successivo, i servizi segreti britannici intercettarono anche un messaggio radio criptato che il capo dell’Ufficio Centrale per la Sicurezza del Reich, Ernst Kaltenbrunner, aveva inviato a Kappler, per sollecitarlo a scatenare la spietata caccia agli ebrei. «È precisamente esattamente l’immediata e completa eliminazione degli ebrei in Italia — sosteneva l’alto ufficiale nazista — che è nell’interesse dell’attuale situazione politica e, in generale, della sicurezza in Italia. Rinviare l’espulsione degli ebrei fino al completamento delle operazioni di disarmo dell’Arma dei carabinieri e dell’esercito italiano, è un’ipotesi che non può essere presa più in considerazione, così come quella di destinarli sotto la direzione delle autorità italiane. Più a lungo si ritarderà e più gli ebrei — che sono indubbiamente al corrente delle misure previste per la loro deportazione — hanno l’opportunità di trasferirsi nelle case degli italiani filoebraici e di scomparire completamente. L’Italia è stata istruita a eseguire gli ordini del comandante delle ss, ovvero a procedere con gli arresti degli ebrei senza ulteriori ritardi».
Gli Alleati, dunque, avrebbero potuto avvertire tempestivamente gli ebrei italiani del pericolo che incombeva su di loro, ma non lo fecero perché altrimenti avrebbero irrimediabilmente compromesso la sofisticata rete spionistica che avevano infiltrato all’interno dell’intelligence nazista. A quel punto, dunque, la sorte degli ebrei romani era ormai segnata. Difatti, intorno alle 5.30 del mattino di quel triste sabato — mentre si accingevano a celebrare il terzo giorno della festa di Sukkot — 365 soldati tedeschi armati di tutto punto, al comando del capitano Theodor Dannecker, muniti di appositi elenchi con nomi e indirizzi delle famiglie ebree forniti dall’Ufficio demografia e razza del Ministero dell’interno, coadiuvati anche da circa venti agenti di pubblica sicurezza della Questura di Roma e da alcuni interpreti scelti tra i carcerieri di via Tasso, circondarono il Portico d’Ottavia dando il via a quella scellerata operazione denominata Judenaktion, durante la quale i militari tedeschi fecero irruzione in ogni casa dove secondo i loro schedari abitavano gli ebrei, prelevando intere famiglie in gran parte sorprese ancora nel sonno con una tale protervia e disprezzo della dignità umana da far rabbrividire. Non ebbero alcun riguardo neanche per gli infermi, come Beniamino Philipson che soffriva del morbo di Parkinson, il quale fu prelevato dalla sua abitazione in via Flavia 84 e trascinato via sulla sedia a rotelle. Nessun quartiere della città fu risparmiato: il maggior numero di arresti si registrò a Trastevere, Testaccio e Monteverde.
Appena terminata questa operazione capillare, alle 14.00 in punto, questi 1.259 malcapitati finiti nelle grinfie dei nazisti (363 uomini, 689 donne e 207 bambini) furono immediatamente condotti verso il centro di raccolta nei pressi dei ruderi del teatro Marcello, prima di essere trasferiti nel Palazzo Salviati, sede del cosiddetto collegio militare in via della Lungara, dove rimasero per trentasei ore. Quindi, dopo un esame minuzioso delle carte d’identità e di altri documenti, il capitano Dannecker decise di rilasciarne 237, tra cui i coniugi e i figli di matrimoni misti, i coinquilini e il personale di servizio non ebrei che al momento del rastrellamento si trovavano nelle case dei ricercati i quali, non credendo ai loro occhi per ciò che stava accadendo, in un lampo fecero ritorno alle loro abitazioni.
Alle prime luci dell’alba del 18 ottobre, in una livida giornata d’autunno, i 1.022 ebrei romani furono caricati su un convoglio ferroviario dato in consegna al macchinista Quirino Zazza che, verso le ore 14, lasciò Roma dalla Stazione Tiburtina diretto ad Auschwitz, dove giunse dopo sei giorni e sei notti di viaggio. Alla fine della guerra di tutte queste persone ne ritornarono, purtroppo, soltanto 16 tra cui: Sabatino Finzi, Leone Sabatello, Lello Di Segni, i fratelli Efrati e Settimia Spizzichino.
Qualcuno, tuttavia, durante la retata riuscì a salvarsi trovando rifugio nei vari istituti religiosi disseminati nei dintorni di San Bartolomeo all’Isola Tiberina, mentre altri, come Roberto Piperno e la sua famiglia, grazie alla generosità dei loro vicini non ebrei, furono ospitati provvisoriamente nelle loro abitazioni. Rievocando quei momenti così carichi di tensione, Piperno, attraverso il suo racconto, ci aiuta a comprendere meglio cosa significò per un bambino di appena cinque anni ritrovarsi all’improvviso nel bel mezzo della Shoah e vivere sulla propria pelle le nefandezze della persecuzione nazista. «Il ricordo di quei nove mesi è inciso stabilmente nel mio cuore e in parte nella mia memoria. A settembre del 1943 io avevo già compiuto cinque anni: troppo piccolo per comprendere ciò che stava avvenendo nella Storia, ma già abbastanza grande per partecipare a quelle esperienze. Rientrati a Roma da Frascati dove ci eravamo nascosti in un casolare di mio zio, mio padre trovò accoglienza per tutta la famiglia (io, mia sorella, mia madre e mio padre) presso un amico, nella speranza che l’esercito alleato arrivasse a Roma presto. Ma a ottobre, prima la raccolta dell’oro da parte dei nazisti e poi la razzia del 16 ottobre, cambiò la prospettiva. Il 16 ottobre noi eravamo nascosti nell’abitazione degli amici di mio padre, i signori Clelia e Alberto Ragionieri (insigniti, in seguito, dell’onorificenza di Giusti fra le Nazioni) in via Arno, ma i nonni (Angelo e Elena Disegni) erano nelle loro case, perché si pensava che i nazisti non erano interessati a prendere anziani che non erano in grado di lavorare. Fortunatamente il caso li salvò (...): i nazisti non passarono alla casa un po’ più isolata dei miei nonni materni, mentre mia nonna paterna fu salvata da una coinquilina che vide entrare i soldati nazisti, comprese il rischio, con l’ascensore salì da mia nonna al quarto piano e la nascose nel suo appartamento al secondo piano, mentre i soldati salivano le scale a piedi. Nell’appartamento dove viveva mia nonna trovarono la cognata, che era però l’unica cattolica della famiglia: i nazisti la portarono via al carcere di Regina Coeli, ma fortunatamente il parroco di San Crisogono (...) si precipitò là e riuscì a convincere i carcerieri che zia Giulia era cattolica e non ebrea: così la riportò a casa e si salvò. La sera stessa, come ben ricordo, i tre nonni (...) ci raggiunsero nella casa dove eravamo nascosti e così, la famiglia di quattro persone, che ci ospitava, si trovò ben sette persone da nascondere».
Tuttavia, visto che gli Alleati, dopo l’operazione Avalanche (che scattò sulle coste salernitane nel settembre 1943) non erano ancora riusciti a raggiungere la capitale, per non mettere in pericolo anche la famiglia che li ospitava, nel dicembre successivo fu escogitata un’altra soluzione. «Mio padre — racconta ancora Piperno — anche per il suo lavoro di commerciante di tessuti, aveva avuto frequenti contatti con il Vaticano e inoltre l’amico che ci ospitava era un buon cattolico. Così fu possibile ottenere che una parte della famiglia, cioè le donne, mia madre, mia sorella di tre anni più grande di me, le due nonne ed io, fosse ospitata presso il monastero delle suore bethlemite a piazza Sabazio, dove viveva la famiglia amica. Invece mio padre e mio nonno si trasferirono presso la basilica di San Giovanni. Poi fu deciso di ricongiungerci tutti a San Giovanni. Ma, proprio la stessa sera che noi arrivammo, si seppe che i nazisti erano entrati nella basilica di San Paolo e avevano portato via molte persone. Così dopo una notte insonne, sempre vestiti per fuggire, mio padre e mio nonno rientrarono nella casa della famiglia amica e noi ritornammo presso le suore bethlemite, dove trascorremmo tutti i successivi mesi fino alla liberazione del 4 giugno 1944, in uno scantinato presso il portone di accesso del monastero, dove dormivo stretto con mia madre e mia sorella, mentre sull’altro lato del locale c’erano altre due brande per le due nonne».
Subito dopo il loro arrivo presso questo istituto religioso, Alberto Ragionieri, su sollecitazione della madre superiora, suor Evelina Foligno, per celare la vera identità della famiglia Piperno e garantire loro un’adeguata sicurezza, riuscì a procurarsi dei documenti falsi sui quali fu impresso il nome di tal Pistolesi, grazie ai quali furono in grado di acquistare perfino gli alimenti di cui avevano bisogno. Per maggiore precauzione, e contenere i rischi, anche involontari, l’unica persona che ufficialmente era al corrente della vera identità della famiglia Piperno era la madre superiora, mentre per quasi tutte le altre suore erano degli sfollati provenienti da Napoli. «Prima di addormentarmi — ricorda Piperno — mia madre mi faceva ripetere ogni sera il mio nuovo nome: Roberto Pistolesi. Così prima di addormentarmi mi sdoppiavo ogni sera, ripetendo il mio nuovo cognome, da usare se fossi stato in contatto con altre persone. Naturalmente lo sdoppiamento della persona non era solo nel cognome, ma anche nel comportamento. Infatti, essendo noi, ufficialmente, degli sfollati napoletani cattolici, tutte le domeniche ci recavamo nella chiesa del monastero. Così dalle suore appresi via via le preghiere cattoliche e anche occasionalmente, mi pare a Pasqua, partecipai al breve corteo interno nella chiesa. (...) Ricordo in particolare, ancora con speciale simpatia, una giovane suora di nome Rita (ormai deceduta), con la quale con mia sorella ci incontravamo nel Monastero o nel giardinetto: era sempre così affettuosa ed umana. È stata l’unica persona con la quale una mattina di primavera sono uscito, dovendosi lei recare a fare alcuni acquisti nelle immediate vicinanze».
«Sono esperienze indimenticabili — conclude, con un filo di emozione, Roberto Piperno — tanto più che durarono tanti mesi, e dalle quali non ti liberi mai più. Sul piano dei rapporti umani non ho un ricordo triste del periodo trascorso nel monastero, che era tenuto bene dalle suore gentili, sorridenti e disponibili. Certamente il comportamento umano delle suore verso questo bambino (...) rese anche più accettabile quella continua condizione di prigionia e paura: e anche di questo sono ancora grato».
L'Osservatore Romano 16 otttobre 2012
Una giornata particolare.
Il 16 ottobre è una data che non può passare inosservata: in questo giorno dell'anno di grazia 1978 veniva eletto Papa il cardinal Karol Wojtyla (v. post pubblicato ieri); in questo stesso giorno del 1943 ci fu la deportazione degli ebrei di Roma. Di seguito riporto a proposito dalle edizione odierna de "L'Osservatore Romano".
(Giovanni Preziosi) Il 16 ottobre del 1943 è una data che non può passare inosservata perché rappresentò uno dei giorni più drammatici della storia del secolo scorso, segnato da un’onta d’infamia e di lutto, a causa del vile rastrellamento nel ghetto di Roma a opera della brigata s.s. Einsatzgruppen agli ordini del capitano Theodor Dannecker, che seguì l’esatto copione sperimentato con successo a Parigi nel luglio del 1942 in occasione di quella che passò tristemente alla storia come la rafle du Vél d’hiv, allorché la polizia arrestò 13.152 ebrei.
In realtà la decisione di estendere anche all’Italia la “soluzione finale”, così come stabilito nel corso della Conferenza di Wannsee del gennaio 1942, era stata presa a Berlino già dal 24 settembre 1943, quando fu emanato l’ordine perentorio di «catturare e trasferire nel Nord Italia», mediante un’azione a sorpresa, tutti «gli 8.000 ebrei che viv[evano] a Roma» per essere “liquidati”. Il 6 ottobre 1943, scrive infatti il comandante dell’Aussenkommando Rom der Sicherheitspolizei und des sd a Roma, Herbert Kappler, al suo diretto superiore Karl Wolff: «L’Ufficio Centrale per la Sicurezza del Reich ha mandato il capitano Dannecker per catturare tutti gli ebrei in un’azione lampo e spedirli in Germania. A causa dell’atteggiamento della città e di incerte condizioni, l’azione non può essere condotta a Napoli. I preparativi dell’ufficio per l’azione a Roma sono stati conclusi».
Dunque, come si evince da questo documento, nei piani accuratamente predisposti dai tedeschi il primo rastrellamento in grande stile doveva essere sferrato nel capoluogo partenopeo, ma ciò non fu possibile a «causa del clima ostile della città» e per il tempestivo ripiegamento delle truppe tedesche verso Nord ordinato dal colonnello Walter Schöll, che si rese indispensabile già a partire dal 30 settembre 1943 in seguito all’insurrezione della popolazione napoletana. Inoltre, l’11 ottobre successivo, i servizi segreti britannici intercettarono anche un messaggio radio criptato che il capo dell’Ufficio Centrale per la Sicurezza del Reich, Ernst Kaltenbrunner, aveva inviato a Kappler, per sollecitarlo a scatenare la spietata caccia agli ebrei. «È precisamente esattamente l’immediata e completa eliminazione degli ebrei in Italia — sosteneva l’alto ufficiale nazista — che è nell’interesse dell’attuale situazione politica e, in generale, della sicurezza in Italia. Rinviare l’espulsione degli ebrei fino al completamento delle operazioni di disarmo dell’Arma dei carabinieri e dell’esercito italiano, è un’ipotesi che non può essere presa più in considerazione, così come quella di destinarli sotto la direzione delle autorità italiane. Più a lungo si ritarderà e più gli ebrei — che sono indubbiamente al corrente delle misure previste per la loro deportazione — hanno l’opportunità di trasferirsi nelle case degli italiani filoebraici e di scomparire completamente. L’Italia è stata istruita a eseguire gli ordini del comandante delle ss, ovvero a procedere con gli arresti degli ebrei senza ulteriori ritardi».
Gli Alleati, dunque, avrebbero potuto avvertire tempestivamente gli ebrei italiani del pericolo che incombeva su di loro, ma non lo fecero perché altrimenti avrebbero irrimediabilmente compromesso la sofisticata rete spionistica che avevano infiltrato all’interno dell’intelligence nazista. A quel punto, dunque, la sorte degli ebrei romani era ormai segnata. Difatti, intorno alle 5.30 del mattino di quel triste sabato — mentre si accingevano a celebrare il terzo giorno della festa di Sukkot — 365 soldati tedeschi armati di tutto punto, al comando del capitano Theodor Dannecker, muniti di appositi elenchi con nomi e indirizzi delle famiglie ebree forniti dall’Ufficio demografia e razza del Ministero dell’interno, coadiuvati anche da circa venti agenti di pubblica sicurezza della Questura di Roma e da alcuni interpreti scelti tra i carcerieri di via Tasso, circondarono il Portico d’Ottavia dando il via a quella scellerata operazione denominata Judenaktion, durante la quale i militari tedeschi fecero irruzione in ogni casa dove secondo i loro schedari abitavano gli ebrei, prelevando intere famiglie in gran parte sorprese ancora nel sonno con una tale protervia e disprezzo della dignità umana da far rabbrividire. Non ebbero alcun riguardo neanche per gli infermi, come Beniamino Philipson che soffriva del morbo di Parkinson, il quale fu prelevato dalla sua abitazione in via Flavia 84 e trascinato via sulla sedia a rotelle. Nessun quartiere della città fu risparmiato: il maggior numero di arresti si registrò a Trastevere, Testaccio e Monteverde.
Appena terminata questa operazione capillare, alle 14.00 in punto, questi 1.259 malcapitati finiti nelle grinfie dei nazisti (363 uomini, 689 donne e 207 bambini) furono immediatamente condotti verso il centro di raccolta nei pressi dei ruderi del teatro Marcello, prima di essere trasferiti nel Palazzo Salviati, sede del cosiddetto collegio militare in via della Lungara, dove rimasero per trentasei ore. Quindi, dopo un esame minuzioso delle carte d’identità e di altri documenti, il capitano Dannecker decise di rilasciarne 237, tra cui i coniugi e i figli di matrimoni misti, i coinquilini e il personale di servizio non ebrei che al momento del rastrellamento si trovavano nelle case dei ricercati i quali, non credendo ai loro occhi per ciò che stava accadendo, in un lampo fecero ritorno alle loro abitazioni.
Alle prime luci dell’alba del 18 ottobre, in una livida giornata d’autunno, i 1.022 ebrei romani furono caricati su un convoglio ferroviario dato in consegna al macchinista Quirino Zazza che, verso le ore 14, lasciò Roma dalla Stazione Tiburtina diretto ad Auschwitz, dove giunse dopo sei giorni e sei notti di viaggio. Alla fine della guerra di tutte queste persone ne ritornarono, purtroppo, soltanto 16 tra cui: Sabatino Finzi, Leone Sabatello, Lello Di Segni, i fratelli Efrati e Settimia Spizzichino.
Qualcuno, tuttavia, durante la retata riuscì a salvarsi trovando rifugio nei vari istituti religiosi disseminati nei dintorni di San Bartolomeo all’Isola Tiberina, mentre altri, come Roberto Piperno e la sua famiglia, grazie alla generosità dei loro vicini non ebrei, furono ospitati provvisoriamente nelle loro abitazioni. Rievocando quei momenti così carichi di tensione, Piperno, attraverso il suo racconto, ci aiuta a comprendere meglio cosa significò per un bambino di appena cinque anni ritrovarsi all’improvviso nel bel mezzo della Shoah e vivere sulla propria pelle le nefandezze della persecuzione nazista. «Il ricordo di quei nove mesi è inciso stabilmente nel mio cuore e in parte nella mia memoria. A settembre del 1943 io avevo già compiuto cinque anni: troppo piccolo per comprendere ciò che stava avvenendo nella Storia, ma già abbastanza grande per partecipare a quelle esperienze. Rientrati a Roma da Frascati dove ci eravamo nascosti in un casolare di mio zio, mio padre trovò accoglienza per tutta la famiglia (io, mia sorella, mia madre e mio padre) presso un amico, nella speranza che l’esercito alleato arrivasse a Roma presto. Ma a ottobre, prima la raccolta dell’oro da parte dei nazisti e poi la razzia del 16 ottobre, cambiò la prospettiva. Il 16 ottobre noi eravamo nascosti nell’abitazione degli amici di mio padre, i signori Clelia e Alberto Ragionieri (insigniti, in seguito, dell’onorificenza di Giusti fra le Nazioni) in via Arno, ma i nonni (Angelo e Elena Disegni) erano nelle loro case, perché si pensava che i nazisti non erano interessati a prendere anziani che non erano in grado di lavorare. Fortunatamente il caso li salvò (...): i nazisti non passarono alla casa un po’ più isolata dei miei nonni materni, mentre mia nonna paterna fu salvata da una coinquilina che vide entrare i soldati nazisti, comprese il rischio, con l’ascensore salì da mia nonna al quarto piano e la nascose nel suo appartamento al secondo piano, mentre i soldati salivano le scale a piedi. Nell’appartamento dove viveva mia nonna trovarono la cognata, che era però l’unica cattolica della famiglia: i nazisti la portarono via al carcere di Regina Coeli, ma fortunatamente il parroco di San Crisogono (...) si precipitò là e riuscì a convincere i carcerieri che zia Giulia era cattolica e non ebrea: così la riportò a casa e si salvò. La sera stessa, come ben ricordo, i tre nonni (...) ci raggiunsero nella casa dove eravamo nascosti e così, la famiglia di quattro persone, che ci ospitava, si trovò ben sette persone da nascondere».
Tuttavia, visto che gli Alleati, dopo l’operazione Avalanche (che scattò sulle coste salernitane nel settembre 1943) non erano ancora riusciti a raggiungere la capitale, per non mettere in pericolo anche la famiglia che li ospitava, nel dicembre successivo fu escogitata un’altra soluzione. «Mio padre — racconta ancora Piperno — anche per il suo lavoro di commerciante di tessuti, aveva avuto frequenti contatti con il Vaticano e inoltre l’amico che ci ospitava era un buon cattolico. Così fu possibile ottenere che una parte della famiglia, cioè le donne, mia madre, mia sorella di tre anni più grande di me, le due nonne ed io, fosse ospitata presso il monastero delle suore bethlemite a piazza Sabazio, dove viveva la famiglia amica. Invece mio padre e mio nonno si trasferirono presso la basilica di San Giovanni. Poi fu deciso di ricongiungerci tutti a San Giovanni. Ma, proprio la stessa sera che noi arrivammo, si seppe che i nazisti erano entrati nella basilica di San Paolo e avevano portato via molte persone. Così dopo una notte insonne, sempre vestiti per fuggire, mio padre e mio nonno rientrarono nella casa della famiglia amica e noi ritornammo presso le suore bethlemite, dove trascorremmo tutti i successivi mesi fino alla liberazione del 4 giugno 1944, in uno scantinato presso il portone di accesso del monastero, dove dormivo stretto con mia madre e mia sorella, mentre sull’altro lato del locale c’erano altre due brande per le due nonne».
Subito dopo il loro arrivo presso questo istituto religioso, Alberto Ragionieri, su sollecitazione della madre superiora, suor Evelina Foligno, per celare la vera identità della famiglia Piperno e garantire loro un’adeguata sicurezza, riuscì a procurarsi dei documenti falsi sui quali fu impresso il nome di tal Pistolesi, grazie ai quali furono in grado di acquistare perfino gli alimenti di cui avevano bisogno. Per maggiore precauzione, e contenere i rischi, anche involontari, l’unica persona che ufficialmente era al corrente della vera identità della famiglia Piperno era la madre superiora, mentre per quasi tutte le altre suore erano degli sfollati provenienti da Napoli. «Prima di addormentarmi — ricorda Piperno — mia madre mi faceva ripetere ogni sera il mio nuovo nome: Roberto Pistolesi. Così prima di addormentarmi mi sdoppiavo ogni sera, ripetendo il mio nuovo cognome, da usare se fossi stato in contatto con altre persone. Naturalmente lo sdoppiamento della persona non era solo nel cognome, ma anche nel comportamento. Infatti, essendo noi, ufficialmente, degli sfollati napoletani cattolici, tutte le domeniche ci recavamo nella chiesa del monastero. Così dalle suore appresi via via le preghiere cattoliche e anche occasionalmente, mi pare a Pasqua, partecipai al breve corteo interno nella chiesa. (...) Ricordo in particolare, ancora con speciale simpatia, una giovane suora di nome Rita (ormai deceduta), con la quale con mia sorella ci incontravamo nel Monastero o nel giardinetto: era sempre così affettuosa ed umana. È stata l’unica persona con la quale una mattina di primavera sono uscito, dovendosi lei recare a fare alcuni acquisti nelle immediate vicinanze».
«Sono esperienze indimenticabili — conclude, con un filo di emozione, Roberto Piperno — tanto più che durarono tanti mesi, e dalle quali non ti liberi mai più. Sul piano dei rapporti umani non ho un ricordo triste del periodo trascorso nel monastero, che era tenuto bene dalle suore gentili, sorridenti e disponibili. Certamente il comportamento umano delle suore verso questo bambino (...) rese anche più accettabile quella continua condizione di prigionia e paura: e anche di questo sono ancora grato».
L'Osservatore Romano 16 otttobre 2012
Martedì della XXVIII settimana del Tempo Ordinario
Se io avessi capito, come oggi,
quale grande Re abitava in quel piccolo palazzo della mia anima,
non l'avrei lasciato da solo così spesso;
sarei rimasta di tanto in tanto accanto a lui,
e avrei fatto il necessario affinché il palazzo fosse meno sporco.
Il punto capitale è fargliene un dono assoluto e vuotarsi completamente,
affinché egli possa riempire o svuotare a suo piacimento,
come in una dimora che gli appartiene.
Se riempiamo il palazzo con gente volgare e ogni sorta di ninnoli,
come il sovrano, con la sua corte, potrebbe trovarvi posto?
È già molto che si degni di fermarsi qualche momento in mezzo a tanto ingombro.
Santa Teresa d'Avila, Cammino di perfezione
Dal Vangelo secondo Luca 11,37-41.
Dopo che ebbe finito di parlare, un fariseo lo invitò a pranzo. Egli entrò e si mise a tavola.
Il fariseo si meravigliò che non avesse fatto le abluzioni prima del pranzo.
Allora il Signore gli disse: «Voi farisei purificate l'esterno della coppa e del piatto, ma il vostro interno è pieno di rapina e di iniquità. Stolti! Colui che ha fatto l'esterno non ha forse fatto anche l'interno?
Piuttosto date in elemosina quel che c'è dentro, ed ecco, tutto per voi sarà mondo.
IL COMMENTO
La purezza assillava i farisei. Essere puri significava appartenere a Dio: Siate santi perchè io sono santo! Santo significa separato, per cui, in senso strettamente letterale, si potrebbe dire: siate separati perchè io sono separato. I farisei, separati secondo il significato originale del termine ebraico perushim, volevano vivere in pienezza l'elezione di Israele. Siate farisei come io sono fariseo, e non tradurremmo male. Il totalmente Altro, Adonai, l'Impronunciabile, eleggendo Israele lo ha attratto nella sua santità, separandolo così dal resto del mondo. I farisei si preoccupavano di "formare sulla terra una provincia di Dio, sulla quale fosse dato aspettare l'ampio Regno finale di Dio stesso" (C. Thoma). Essi estendevano così quanto i saggi di Israele dicevano per spiegare il precetto di costruire un santuario: "Essi mi faranno un santuario affinchè io possa abitare fra di loro" (Es. 25,8). "Il mondo intero era intriso di male a causa del peccato di Adamo. Quando scelse Israele, Dio gli disse di costruire un santuario in cui questo male non sarebbe dovuto penetrare. Il santuario doveva essere come un giardino dell'Eden in miniatura, dedicato totalmente al servizio di Dio, e ne sarebbe stata esclusa qualsiasi cosa appartenuta allo stato decadente dell'uomo" (A. Kaplan, Le acque dell'Eden).
In principio l'uomo era separato dal male, e, paradossalmente, proprio il divieto di appropriarsi del frutto dell'albero della conoscenza del bene e del male lo proteggeva da qualunque contaminazione. Mangiarne avrebbe significato morire, separarsi da Dio, entrare nell'impurità. Tutto ciò che è impuro infatti è di ostacolo al culto e impedisce la relazione con Dio. E' il culto di Caino, segnato dalla morte dell'invidia e della gelosia, sgradito a Dio e quindi incapace di salvarlo dal peccato: Caino infatti ucciderà Abele. Mangiando dell'albero, l'uomo ha varcato la siepe originaria che Dio aveva eretto a protezione della sua felicità, l'Albero piantato nel mezzo del giardino, sperimentando così la nudità della morte. Il cuore s'era irrimediabilmente ammalato, si era insinuato in esso uno Yetzer Harà, un impulso malvagio al quale nessuno può sfuggire. Unica salvezza quella offerta da Dio: "Io ho creato l'impulso malvagio, ma ho creato anche la Torah come suo rimedio". Dio ha fatto l'esterno e l'interno, la Torah per salvare e il cuore libero per accoglierla, e per rifiutarla.
Per questo nel cuore del santuario vi era la Torah, le tavole dell'Alleanza consegnate a Mosè custodite nell'Arca che divenne, una volta costruito il tempio, il Santo dei Santi, il separato dei separati. Ma Israele tradì e di nuovo scomparì dalla Terra quel frammento di Paradiso: fu il tempo dell'Esilio. Ma proprio sulle rive dei fiumi di Babilonia Dio purificò il suo Popolo. Israele aveva sperimentato le conseguenze dell'idolatria e dell'adulterio: "Ora invece, Signore, noi siamo diventati più piccoli di qualunque altra nazione, ora siamo umiliati per tutta la terra a causa dei nostri peccati. Ora non abbiamo più né principe, né capo, né profeta, né olocausto, né sacrificio, né oblazione, né incenso, né luogo per presentarti le primizie e trovar misericordia. Potessimo esser accolti con il cuore contrito e con lo spirito umiliato, come olocausti di montoni e di tori, come migliaia di grassi agnelli. Tale sia oggi il nostro sacrificio davanti a te e ti sia gradito, perché non c'è confusione per coloro che confidano in te. Ora ti seguiamo con tutto il cuore, ti temiamo e cerchiamo il tuo volto" (Dan. 3,37-41).
Nell'esilio, privato di tutto, Israele aveva imparato a mettere in gioco cuore e spirito; nella fornace ardente della Babilonia pagana, Dio lo aveva condotto a fare del proprio intimo la primizia e il luogo dove presentarla per trovare misericordia. La vita stessa diveniva il santuario, il frammento di Paradiso che Israele doveva testimoniare al mondo. Di ritorno da Babilonia, sotto Esdra "lo scrivano", la riscoperta della Torah ormai dimenticata e quasi sconosciuta, aveva dato origine alla halakah orale, la "tradizione dei Padri", considerata la "siepe della Torah" (Misnah Abot, 1,1b...); essa era una spiegazione e una sorta di codice di prevenzione volto a impedire la trasgressione della Torah biblica. I farisei accolgono la Tradizione orale e ne fanno il cuore della loro religiosità per divenire quel Paradiso incontaminato eletto da Dio. Per essere ammessi tra i farisei bisognava accettare di osservare in modo speciale i precetti della purificazione, particolarmente quelli del rituale del lavaggio delle mani e ai pasti, e una dettagliatissima osservanza del Decalogo. Questi doveri costituivano la siepe e il loro adempimento rendeva e custodiva puri, santi, separati. La "siepe" era così divenuta l'essenza della separazione e dello stesso essere farisei.
Le parole di Gesù hanno l'ardire di toccare questa siepe. Esse fanno appello alla radice della storia stessa dei farisei. Sono parole d'amore che chiamano a conversione, a ritornare alla propria esperienza. Esterno ed interno, l'al di quà e l'al di là della siepe è opera di Dio! Il male è opera del demonio. Non sono le forze dell'uomo che difendono la purezza. Per Gesù la stoltezza consiste proprio nel dimenticare l'esperienza del peccato e la dura verità di un cuore ormai capace del male. "Chi confida nel proprio cuore è uno stolto" (Pr. 28,26). Per questo la purezza che stringe nell'intimità con Dio è un cuore contrito e uno spirito umiliato che supplica misericordia. La purezza della Vergine Maria, l'umiliazione che Dio ha guardato con benevolenza facendone il grembo dove dar carne al suo Figlio, il Tempio santo che accoglie il Santo dei Santi. L'esilio aveva insegnato essenzialmente questo, preparando il cuore ad accogliere, nello stupore, l'opera di Dio impossibile agli uomini. La primogenitura compiuta in Gesù è un dono gratuito che viene dal Cielo. "Colui che evita il male in virtù di un precetto del Signore non è libero. All'opposto, chi evita il male perché è male, costui è libero. E' qui che opera lo Spirito Santo che perfeziona interiormente il nostro spirito comunicandogli un nuovo dinamismo, e così è per amore che egli non commette il male, e dunque è libero, non nel senso che egli non sia sottomesso alla legge divina, ma in quanto il suo dinamismo interiore lo porta a fare ciò che la legge divina prescrive" (San Tommaso).
Gesù oggi ci invita a riconoscerci peccatori, bisognosi del suo amore che rigenera e purifica quanto ferito e reso impuro dal demonio. Allora la siepe diverrà uno strumento di libertà, un aiuto a non cadere in tentazione; mostrando il cammino della vita ci spingerà a confidare in Lui, a seguirlo con tutto il cuore. Il Signore ci chiama ad essere autentici farisei, separati dal peccato, santi della sua santità, immersi completamente nel battesimo della sua misericordia. E' questa la vera purificazione che coinvolge tutta la nostra vita trasformandola in un'elemosina, misericordia pura offerta ogni giorno a Dio e ad ogni uomo, il dinamismo nuovo dell'amore. La siepe che Dio ha eretto è infatti in mezzo al Paradiso: è nel cuore che Dio pianta l'albero di vita, la Croce che purifica e ci fa uno con Lui per dare frutti di vita eterna al mondo. Crocifissi con Lui che purifica interno ed esterno, cuore e membra, si compie in noi la primogenitura nella quale siamo stati chiamati: essere il Cielo, la sposa di Cristo, pura e senza macchia, che dona se stessa per amore, nella libertà e nella gratuità.
Santa Teresa d'Avila (1515-1582), carmelitana, dottore della Chiesa
Il cammino di perfezione, cap. 28
« Colui che ha fatto l'esterno non ha forse fatto anche l'interno ? »
Se io avessi capito, come oggi, quale grande Re abitava in quel piccolo palazzo della mia anima, non l'avrei lasciato da solo così spesso ; sarei rimasta di tanto in tanto accanto a lui, e avrei fatto il necessario affinché il palazzo fosse meno sporco. Quanto è mirabile pensare che colui la cui grandezza potrebbe riempire mille mondi e anche molto di più, si rinchiude così in una così piccola dimora. È vero che, da una parte, essendo sovrano Signore, porta con lui la libertà, e dall'altra, essendo pieno di amore per noi, si fa alla nostra misura.
Sapendo bene che un'anima principiante potrebbe turbarsi al vedere se stessa, così piccola, destinata a contenere tanta grandezza, egli non si fa conoscere immediatamente; ma, poco a poco, fa crescere la capacità dell'anima, alla misura dei doni che egli si propone di collocare in essa. A motivo di questo suo potere di allargare il palazzo della nostra anima, ho detto che porta con lui la libertà. Il punto capitale è fargliene un dono assoluto e vuotarsi completamente, affinché egli possa riempire o svuotare a suo piacimento, come in una dimora che gli appartiene. A ragione, nostro Signore vuole che così sia; non rifiutiamoci. Egli non vuole forzare la nostra volontà; riceve quello che essa gli dà. Ma lui si dà interamente solo quando anche noi ci diamo interamente.
La cosa è certa, e ve la ripeto così spesso perché è importantissima. Finché l'anima non è interamente sua, sgombrata di tutto, egli non agisce in essa. Del resto, non so come potrebbe farlo, colui che ama tanto l'ordine perfetto. Se riempiamo il palazzo con gente volgare e ogni sorta di ninnoli, come il sovrano, con la sua corte, potrebbe trovarvi posto? È già molto che si degni di fermarsi qualche momento in mezzo a tanto ingombro.
Sant'Ambrogio (circa 340-397), vescovo di Milano e dottore della Chiesa
Commento sul vangelo di Luca 7, 100-102 ; SC 52, 44
« Colui che ha fatto l'esterno non ha forse fatto anche l'interno ? »
«Voi farisei purificate l'esterno della coppa e del piatto». Lo vedete, i nostri corpi sono designati qui coi nomi di oggetti di terra cotta e fragili, che una semplice caduta può spezzare. E i sentimenti intimi dell'animo sono designati con le espressioni e i gesti del corpo, come ciò che è racchiuso all'interno della coppa si fa vedere fuori… Vedete dunque che non l'esterno della coppa o del piatto ci rende impuri, ma l'interno.
Come un buon maestro, Gesù ci ha insegnato come si devono purificare le macchie del nostro corpo, dicendo: «Piuttosto date in elemosina quel che c'è dentro, ed ecco, tutto per voi sarà mondo». Vedete quanti sono i rimedi! La misericordia ci purifica. La parola di Dio ci purifica, come sta scritto: «Voi siete già mondi, per la parola che vi ho annunziato» (Gv 15, 3)…
È l'inizio di un bellissimo passaggio. Il Signore ci invita a cercare la semplicità e a non applicarci a ciò che è superfluo e terra terra. I farisei, a causa della loro fragilità, sono paragonati, e non senza ragione, alla coppa e al piatto: osservano regole provviste di alcuna utilità per noi, mentre trascurano quelle nelle quali sta il frutto della nostra speranza. Fanno dunque uno sbaglio madornale, nel disprezzare ciò che è il migliore. Eppure il perdono è promesso anche a questa colpa, se viene coperta dalla misericordia dell'elemosina.
Baldovino di Ford ( ?-circa 1190), abate cistercense
Omelia 6, sulla Lettera agli Ebrei, 4,12 ; PL 204, 466
« Purificate l'esterno… Colui che ha fatto l'esterno non ha forse fatto anche l'interno ? »
Il Signore conosce i pensieri e le intenzioni del nostro cuore. Indubbiamente, lui li conosce tutti ; noi invece conosciamo soltanto quelli che egli ci rende manifesti mediante la grazia del discernimento. Infatti lo spirito dell'uomo non sempre sa ciò che è dentro di lui ; persino quando si tratta dei propri pensieri, siano essi voluti o non voluti, si fa di essi un'idea che non sempre corrisponde alla realtà. Non può discernere con precisione neanche i pensieri che gli si presentano con evidenza allo sguardo dello spirito, tanto il suo sguardo è ottenebrato.
Spesso succede che, per un motivo umano o che dipende dal Tentatore, il nostro pensiero ci porti a ciò che è soltanto l'apparenza della pietà, che agli occhi di Dio non merita assolutamente la ricompensa promessa alla virtù. Infatti certe cose possono assumere l'aspetto di virtù vere, come pure di vizi, e ingannare gli occhi del nostro cuore. Con la seduzione possono turbare la vista della nostra intelligenza, così da farle spesso scambiare per bene delle realtà cattive e, viceversa, farle discernere il male là dove, in effetti, il male non c'è. Questo è un aspetto della nostra miseria e ignoranza, che bisogna deplorare e temere seriamente…
Chi può accertare se gli spiriti vengono da Dio, salvo aver ricevuto da Dio il discernimento degli spiriti ? … Tale discernimento infatti è all'origine di tutte le virtù.
S. AGOSTINO. DISCORSO 106 SULLE PAROLE DEL VANGELO DI LC 11, 39-42:
"ORA VOI, FARISEI, CHE LAVATE L'ESTERNO DEL BICCHIERE" ECC.
La purezza dei farisei era solo esteriore.
1. 1. Avete inteso alla lettura del santo Vangelo come Gesù nostro Signore, con ciò che diceva ai farisei ammoniva di certo i propri discepoli di non stimare che la giustizia consistesse nella purezza del corpo. I farisei infatti ogni giorno, prima di mangiare, si lavavano con l'acqua, come se la purezza del cuore potesse consistere nel lavarsi ogni giorno. Mostrò dunque che specie d'individui fossero quelli. Lo diceva proprio Colui il quale vedeva; egli infatti vedeva chiaramente non solo il loro volto ma anche il loro interno. Affinché dunque lo sappiate, quel fariseo, al quale rispose Cristo, aveva formulato un pensiero tra sé, senza esprimerlo con la sua voce, ma tuttavia Cristo l'aveva udito. Aveva biasimato tra sé Cristo Signore perché era andato al suo convito senza aver fatto le abluzioni. L'uno aveva pensato, l'altro aveva udito e perciò rispose. Che cosa dunque rispose? Ora voi, farisei, lavate l'esterno della coppa, ma all'interno siete pieni di cattiverie e di furti 1. Fu bello accettare l'invito a pranzo; ma come mai il Signore non fu indulgente verso colui che l'aveva invitato? Eppure il Signore gli usò più riguardo col rimproverarlo perché si correggesse e lo perdonasse nel giudizio. Che cosa inoltre ci ha voluto insegnare? Che anche il battesimo, il quale viene conferito una volta sola, ci purifica mediante la fede. La fede però è un fatto interiore, non esteriore. Ecco perché è detto e si legge negli Atti degli Apostoli che Dio purificava i loro cuori in virtù della fede 2. Anche l'apostolo Pietro così dice nella sua lettera: Così anche a voi ha dato un'immagine con l'arca di Noè, come cioè solo otto persone si salvarono passando attraverso l'acqua. E aggiunge: Così salverà anche voi il battesimo allo stesso modo: esso non è una lavanda destinata a togliere le sporcizie del corpo, ma la domanda d'una coscienza pura 3. I farisei disprezzavano questa domanda d'una coscienza pura e pulivano l'esterno delle stoviglie, ma nel loro interno erano quanto mai corrotti.
Può l'elemosina rendere puri senza la fede?
2. 2. Che cosa dice loro in seguito? Tuttavia fate elemosine e tutto sarà puro per voi. È lodata l'elemosina: fatela e sperimentate questa verità. Ma aspettate un poco: questa frase fu rivolta ai farisei. Questi farisei erano giudei, quella che si potrebbe dire l'aristocrazia dei giudei. Infatti i giudei di allora più nobili e istruiti si chiamavano farisei. Non erano stati purificati col battesimo di Cristo, non avevano ancora creduto in Cristo, Figlio unigenito di Dio, che camminava in mezzo a loro, ma da essi non era riconosciuto. Come mai dunque dice loro: Fate elemosine e per voi tutto sarà puro? Se i farisei gli avessero dato ascolto e avessero fatto elemosine, allora certo tutto per loro sarebbe stato puro; che bisogno ci sarebbe stato che credessero in lui? Se invece non avessero potuto essere purificati se non credendo in Colui che purifica il cuore mediante la fede, che significa: Fate elemosine e tutto sarà puro per voi? Consideriamo attentamente la cosa e forse ce ne darà la spiegazione lui stesso.
Le elemosine dei farisei erano insufficienti.
2. 3. Dopo ch'egli ebbe parlato in quel modo, senza dubbio essi immaginarono che adempivano il precetto di fare elemosine. Ma in qual modo le facevano? Davano la decima di tutte le loro cose, cioè toglievano la decima parte da tutte le loro cose e la davano [al tempio]. Non si troverebbe facilmente un cristiano che faccia così. Ecco ciò che facevano invece i giudei. Davano la decima parte non solo del grano, ma anche del vino e dell'olio; e non solo di ciò ma, in forza del precetto di Dio, anche di cose spregevoli, come il cumino, la ruta, la menta, l'aneto; di tutto davano la decima, cioè ne toglievano la decima parte e la davano in elemosina. Credo perciò ch'essi ricordarono ciò che facevano, e pensarono che Cristo Signore parlasse senza fondamento come a persone che trascurassero il dovere di fare elemosine, mentre essi erano consapevoli di quanto facevano, poiché prendevano le decime dei più minuti e spregevoli loro frutti e le davano in elemosina. Nel loro cuore schernirono Colui che diceva siffatte cose a persone che credeva non facessero elemosine.
2. 3. Ma il Signore, conoscendo questo loro pensiero, soggiunse immediatamente: Tuttavia guai a voi, scribi e farisei, che offrite la decima della menta, del cumino, della ruta e d'ogni specie d'ortaggi Sappiatelo, io conosco le vostre elemosine. Certamente queste sono le vostre elemosine, le vostre decime; offrite perfino le cose più minute e spregevoli dei vostri frutti, ma trascurate i precetti più gravi della Legge, la giustizia e la carità. Riflettete bene! Trascurate la giustizia e la carità e offrite la decima degli ortaggi. Non è questo fare elemosine. Bisogna fare - dice - anche queste cose, ma senza trascurare le altre. Quali cose bisogna fare? La giustizia e la carità, la giustizia e la misericordia, ma senza trascurare quelle altre. Fate quelle cose, ma preferite queste altre.
La vera elemosina che ci viene comandata.
4. 4. Se le cose stanno così, per qual motivo disse a quelli: Fate l'elemosina ed ecco che per voi tutto sarà puro 8? Che vuol dire: Fate elemosina? Praticate la misericordia. Che vuol dire: "Praticate la misericordia"? Se lo capisci, comincia da te. In qual modo infatti sarai misericordioso verso gli altri, se sarai crudele verso te stesso? Fate l'elemosina e tutto sarà puro per voi. Fate la vera elemosina. Che cos'è "l'elemosina"? La misericordia. Ascolta la Scrittura: Abbi pietà dell'anima tua col renderti grato a Dio. Fa' l'elemosina, cioè abbi pietà dell'anima tua rendendoti accetto a Dio. Chiede l'elemosina a te l'anima tua, rientra nella tua coscienza. Chiunque sia tu che vivi male, che vivi cioè in maniera infedele alla legge di Dio, rientra nella tua coscienza e lì troverai l'anima tua che ti chiede l'elemosina, la troverai bisognosa, povera, piena d'affanni, forse non la troverai neppure bisognosa, ma diventata muta per la miseria in cui versa. Poiché se chiede l'elemosina, ha fame della giustizia. Quando troverai l'anima ridotta in tale stato (è nell'interno del tuo cuore che si trovano questi affanni) falle prima l'elemosina, dalle il pane. Quale pane? Se il fariseo lo avesse chiesto al Signore, gli avrebbe risposto: "Fa' l'elemosina all'anima tua". Effettivamente gli disse proprio così, ma quello non capì, quando espose loro minutamente le elemosine che facevano mentre credevano che Cristo ne fosse all'oscuro; ma egli disse loro: "So che le fate, che offrite la decima della menta, dell'aneto, del cumino e della ruta, ma io parlo d'altre elemosine; voi invece trascurate la giustizia e la carità". Fa' l'elemosina all'anima tua con il praticare la giustizia e la carità. Che significa: "praticando la giustizia"? Rifletti bene e troverai; dispiaci a te stesso, condanna te stesso. E che cos'è la carità? Ama il Signore Dio, con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente; ama il tuo prossimo come te stesso, e così avrai fatto prima l'elemosina all'anima tua nella tua coscienza. Se invece tralascerai di fare questa elemosina, da' pure ciò che vuoi, offri pure tutto quel che vorrai, sottrai pure dai tuoi frutti non la decima parte ma la metà, da' pure nove parti e lasciane pure una sola per te, non farai nulla, dal momento che non fai l'elemosina a te e rimani povero con te stesso. È la tua anima che deve nutrirsi, per non perire di fame. Dalle il pane. "Quale pane?" mi si chiede. Il Signore stesso parla con te. Se tu lo ascoltassi e comprendessi e credessi al Signore, egli ti direbbe: Sono io il pane vivo disceso dal cielo. Non daresti forse prima questo pane all'anima tua e le faresti elemosina? Se dunque avrai fede, farai in modo di alimentare prima la tua anima. Credi in Cristo e sarà reso puro l'interno e sarà puro anche l'esterno. Rivolti al Signore, ecc.
"Belli dentro". "Star bene dentro". Slogan pubblicitari ad innescare sogni irrealizzabili. Siamo tutti prigionieri di un ego abnorme, s'annida nel nostro cuore il perfido veleno dell'ipocrisia, apparire mascherati e truccati per nascondere le macerie del nostro cuore.
A chi consegniamo l'intimo di noi stessi, a chi pieghiamo le ginocchia delle nostre ore, del nostro lavoro, dei pensieri, delle preoccupazioni? Quale totem oggi si erge maestoso al centro della nostra vita? Quante abluzioni per poter timbrare il biglietto e accedere alla tavola buona della società, degli amici, del mondo. E' la schiavitù dell'idolatria che ci opprime; anche quando non riusciamo a realizzare nulla bloccati dalla timidezza o dalle asperità del carattere, la questione non cambia. La tristezza che spesso riempie il nostro cuore è il segno di un intimo consegnato ad un idolo. E l'idolatria è sempre la madre dell'adulterio: nati per il Signore gli idoli ci spingono tra le braccia degli amanti. Come la Samaritana incontrata da Gesù, aveva avuto cinque mariti, e quello a cui era legata non lo era nemmeno.
L'idolatria si risolve nell'adulterio che è il padre dell'ipocrisia. L'adultero vive sempre mascherato, fingendo e mentendo. Fuori pulito, dentro un porcile. Quando il cuore è diviso, dissipato e lacerato dall'idolatria, si vive nell'angoscia di una doppia vita che conduce alla distruzione. Sogni, progetti, e poi affetti, ricordi, tutto può diventare oggetto di idolatria, e contaminare l'interno di ciascuno di noi dove appaiono rapina ed iniquità, relazioni violente come sotto la minaccia di una pistola, pensieri, parole e opere inique, prive dell'orizzonte soprannaturale della fede, una vita nascosta e senza la luce dell'amore di Dio.
La nostra vita inchinata dinnanzi agli idoli, stretta dall'avarizia insaziabile che, come scrive San Paolo, è idolatria. L'ipocrita è sempre avaro, di denaro, di sorrisi, di tempo; impaurito, difende quel poco che crede di avere. Ma non ha nulla, perchè la vita che conduce è falsa, ipocrita. Lucida l'esterno per nascondere il vuoto dell'interno. Apparire per non morire, il logo di questa società, e della nostra esistenza. Chi si allontana dalla fonte della vita per cercare pienezza e felicità tra gli idoli muti diviene come coloro ai quali inchina la testa e consegna il cuore: feticci senza vita. Il destino dell'ipocrita infatti è la morte, l'evaporare d'ogni menzogna che scopre il deserto della propria anima.
Per questo arriva oggi il Signore geloso e innamorato che ci ha comprato e riscattato al prezzo carissimo del suo sangue, e ci invita all'elemosina. Arriva lo Sposo, e allora via tutto. L'elemosina di quel che abbiamo nel cuore è puro amore; gettare via l'idolatria che si è annidata negli angoli nascosti del nostro intimo usurpando il posto del nostro Sposo. Dare in elemosina quel che ci corrompe e ci inchioda all'ipocrisia. Non ne siamo capaci, abbiamo timore di perdere quel brandello di identità che abbiamo messo in piedi con tanta fatica. Sappiamo che è pura ipocrisia, ma è qualcosa, è il nostro stare al mondo, ci siamo abituati. La stessa sofferenza, la stessa insoddisfazione spesso ci è così familiare che abbiamo paura di perderla e ce la stringiamo come una cara, vecchia amica.
Per questo, geloso e innamorato, giunge oggi il nostro Sposo, Colui per il quel siamo nati, ci siamo svegliati oggi. Le sue fruste, come quel giorno nel Tempio tra i banchi dei cambiavalute, vibrano anche oggi, e sono sibili d'amore a far pulizia. Quell'amicizia, quel lavoro, la salute, ogni idolo è scaraventato fuori. Il suo amore ci aiuta a dare in elemosina quel che asfissia il nostro cuore. Questa è la salvezza, il nostro cuore liberato dalle menzogne e abbandonato al Suo amore. Oggi il sangue di Cristo arriva di nuovo alla nostra vita per farci figli liberati nel Figlio libero. E il nostro sguardo finalmente purificato dalle idolatrie a scrutare in ogni evento della nostra vita le tracce del suo amore dolcissimo.
Lc 11,37-41
Cuando terminó de hablar, un fariseo lo invitó a cenar a su casa. Jesús entró y se sentó a la mesa. El fariseo se extrañó de que no se lavara antes de comer. Pero el Señor le dijo: «¡Así son ustedes, los fariseos! Purifican por fuera la copa y el plato, y por dentro están llenos de voracidad y perfidia. ¡Insensatos! El que hizo lo de afuera, ¿no hizo también lo de adentro? Den más bien como limosna lo que tienen y todo será puro.
COMENTARIO
"Bellos dentro." "Estar bien dentro." Esloganes publicitarios a cebar sueños irrealizables. Somos todos prisioneros de un ego anormal; se anida en nuestro corazón el pérfido veneno de la hipocresía, aparecer disfrazados y maquillados para esconder los derribos de nuestro corazón. A quien entregamos nuestro íntimo? A quien doblamos las rodillas de nuestras horas, de nuestro trabajo, de los pensamientos, de las preocupaciones? Cuál tótem hoy se yergue majestuoso al centro de nuestra vida?
Cuántas abluciones para poder sellar el billete y acceder a la mesa buena de la sociedad, de los amigos, del mundo. Es la esclavitud de la idolatría que nos oprime; también cuando no logramos realizar nada parados por la timidez o las asperezas del carácter, la cuestión no cambia. La tristeza que llena a menudo nuestro corazón es la señal de un íntimo remitido a un ídolo. Y la idolatría siempre es la madre del adulterio: nacidos para el Senor, los ídolos nos empujan entre los brazos de los amantes. Como la Samaritana que ha encontrado Jesus, tuvo cinco maridos y aquel con el cual estaba saliendo tampoco era su marido.
La idolatría se soluciona en el adulterio que es el padre de la hipocresía. El adúltero siempre vive disfrazado, fingiendo y mintiendo. Fuera limpios, dentro es una pocilga. Cuando el corazón es dividido, disipado y lacerado por la idolatría, se vive en la angustia de una doble vida que conduce a la destrucción. Sueños, proyectos, y luego afectos, recuerdos, todo puede convertirse en objeto de idolatría, y contaminar el interior de cada uno de nosotros; asì aparecen rapina y iniquidad, relaciones violentas como bajo la amenaza de una pistola, pensamientos, palabras y obras iniquas, es decir desenganchadas del horizonte sobrenatural de la fe, y una vida escondida y sin la luz del amor de Dios.
Nuestra vida arrodillada delante a los ídolos, apretada por la avaricia insaciable que, como San Paolo escribe, es idolatría. El hipócrita siempre es avaro, de dinero, de sonrisas, de tiempo; asustado, defiende aquel poco que cree de poseer. Pero no tiene nada, porque la vida que conduce es hipócrita y falsa. Lustra el exterior para esconder el vacío del interior. Aparecer para no morir, el logo de esta sociedad, y de nuestra existencia. Quien se aleja del manantial de la vida para buscar plenitud y felicidad entre los ídolos mudos se vuelve como aquellos a los cuales inclina la cabeza y entrega el corazón: fetiches sin vida. La suerte del hipócrita en efecto es la muerte, el evaporarse de cada mentira que descubre el desierto de la propia alma.
Por éso hoy llega el Senor celoso y enamorado; El nos ha comprado y rescatado al precio de su sangre, y nos invita a la limosna. Llega el Novio, y entonces todo por la borda. La limosna de lo que tenemos en el corazón es puro amor; echar fuera la idolatría que se ha anidado en los rincones escondidos de nuestro íntimo usurpando el sitio de nuestro Novio. Dar en limosna lo que nos corrompe y nos clava a la hipocresía. Pero no somos capaces de hacerlo, tenemos temor de perder aquel jirón de identidad que hemos puesto de pie con mucha fatiga. Sabemos que es pura hipocresía, pero es algo, es el nuestro estar al mundo, nos hemos acostumbrado. El mismo sufrimiento, la misma insatisfacción a menudo nos son tan familiares que tenemos miedo de perderlos y nos apretamos a ellos como a queridas, viejas amigas.
Por eso, celoso y enamorado, hoy llega nuestro Novio; para El hemos nacido, nos somos despertados hoy. Sus látigos como aquel día en el Templo entre los bancos de los cambistas, también vibran hoy, y son silbos de amor a hacer limpieza. Aquella amistad, aquel trabajo, la salud, cada ídolo es arrojado fuera. Su amor nos ayuda a dar en limosna lo que asfixia nuestro corazón. Ésta es la salvación, nuestro corazón liberado por las mentiras y abandonado a Su amor. Hoy la sangre de Cristo llega de nuevo a nuestra vida para hacernos hijos liberados en el Hijo libre. Y nuestra mirada por fin purificada de las idolatrías a escudriñar en todo evento de nuestra vida las huellas de su dulce amor. Para vivir como sensatos, descubriendo en nustras historias el sentido profundo que la ahce una maravillosa obra de arte.
Il più antico santuario della Spagna e forse della cristianità è quello della Beata Vergine del Pilar a Saragozza. In stile barocco, la costruzione è a forma rettangolare, divisa a tre navate e riccamente decorata e affrescata da Velázquez, Francisco de Goya, Ramon e Francisco Bayen. Lunga ben centotrentacinque metri e larga cinquantanove, ha quattro torri e undici cupole, di cui quella centrale, particolarmente imponente, svetta per ben ottanta metri.
Secondo la leggenda, la cappella primitiva sarebbe stata costruita da S. Giacomo il Maggiore verso l’anno 40, in ricordo della prodigiosa “Venuta” della Vergine da Gerusalemme a Saragozza per confortare l'apostolo assai deluso dei risultati negativi della sua predicazione. Il “Pilar” è appunto la colonna di alabastro su cui la Vergine avrebbe posato i piedi.
Alcuni mistici, come la venerabile Maria d’Agreda e Anna Caterina Emmerick,confermarono questa antichissima tradizione secondo le loro rivelazioni e visioni, ma già nel 1200 l’episodio è riportato in quello che è considerato il primo documento scritto sulla Madonna del Pilar.
Bisogna anche dire, per amore di verità storica, che la chiesa di “Sancta Maria intra muros” a Saragozza esisteva ancor prima della invasione araba, avvenuta nel 711. Il monaco Aimoinus, giunto in Spagna nell’anno 855 alla ricerca delle reliquie di S. Vincenzo, scrisse che “la chiesa dedicata alla Vergine a Saragozza era la madre di tutte le chiese della città, e che S. Vincenzo vi aveva esercitato le funzioni di diacono al tempo del vescovo Valerio”.
Nel 1118 Saragozza, liberata dal dominio dei musulmani, ritornò capitale del regno di Aragona e nel 1294 Santa Maria del Pilar venne restaurata per accogliere schiere sempre più numerose di pellegrini.
Al tempo dell’unificazione della Spagna (sec. XV) per opera del re di Aragona Ferdinando il Cattolico e della regina Isabella di Castiglia, sua sposa, il culto della Madonna del Pilar si affermò in campo nazionale. Con la scoperta dell’America tale culto raggiunse anche il Nuovo Mondo: nell’anno 1492 avveniva la cacciata definitiva dei Saraceni dalla Spagna, Cristoforo Colombo partiva con tre caravelle, di cui una si chiamava per l’appunto “Santa Maria”, e – fatto abbastanza curioso, se non addirittura strabiliante – la data della scoperta del continente americano coincideva proprio con la data della festa del Pilar, il 12 ottobre.
Forse per tutte queste circostanze, nel 1958, la festa “pilarica” del 12 ottobre fu dichiarata festa della hispanidad, cioè della Spagna e di tutte le nazioni di lingua e cultura spagnola.
Ma nel 1640 un miracolo spettacolare doveva rendere ancora più celebre il santuario. Un giovane di diciassette anni, Miguel-Juan Pellicer di Calanda, conducendo un giorno un carro aggiogato a due muli, cadde dalla cavalcatura e andò a finire sotto una ruota del carro, che gli spezzò e gli schiacciò nel mezzo la tibia della gamba destra. Trasportato in ospedale per le cure del caso, si ritenne urgente amputargli la gamba a circa quattro dita dalla rotula.
Prima dell’operazione, l’infelice si era recato al santuario del Pilar per farvi le sue devozioni e ricevervi i sacramenti. Dopo l'intervento, vi era tornato per ringraziare la Madonna di averlo conservato in vita. Ma,non potendo più lavorare, Miguel-Juan si era unito agli altri mendicanti che domandavano l’elemosina all’ingresso della basilica. Nel frattempo, ogni volta che veniva rinnovato l’olio delle 77 lampade d’argento, accese nella cappella della Vergine, egli vi strofinava le sue piaghe, benché il chirurgo glielo avesse sconsigliato in quanto l’olio ritardava la cicatrizzazione del moncherino.
Tornato infine a Calanda, con la gamba di legno e una gruccia cominciò a mendicare spingendosi fino ai paesi vicini. Ma, il 29 marzo 1640, rientrò a casa sua e, a sera, dopo aver invocato, come al solito, la Vergine del Pilar, si addormentò. Al mattino, svegliandosi, si ritrovò con due gambe ed avvertì così i suoi genitori che la gamba destra, amputata da due anni e cinque mesi, era segnata al polpaccio dalle stesse cicatrici di prima dell’infortunio.
Fu istituita subito una Commissione d’inchiesta, nominata dall’arcivescovo,e i suoi membri, nel corso di accurati accertamenti, con loro grande meraviglia non trovarono più la gamba di Miguel sepolta tempo prima nel cimitero dell’ospedale. La fama del miracolo corse per tutta la Spagna e fu la causa della realizzazione del grandioso santuario attuale, iniziato nel 1681 e consacrato il 10 ottobre 1872.
Nel santuario, all’inizio della navata centrale è situata la “santa cappella”, dove si venera una piccola statua della Vergine col Bambino del secolo XIV, che poggia i piedi sul “Pilar” ricoperto di bronzo e argento, e che viene rivestita con manti diversi a seconda dei tempi liturgici e delle circostanze.
Questa immagine fu incoronata il 20 maggio 1905, con una corona tempestata da circa diecimila perle preziose, e solennemente benedetta dal pontefice S. Pio X.
La Madonna del Pilar, come Patrona della Spagna, da secoli attrae masse imponenti di pellegrini appartenenti a ogni classe sociale: dai più umili contadini ai più grandi re di Spagna, da Ferdinando il Cattolico a Juan Carlos, dal cardinale di Retz nel 1654 al papa Giovanni Paolo II nel 1982.
I pellegrinaggi al santuario sono ininterrotti lungo tutto l’arco dell’anno e si svolgono con la partecipazione alla santa Messa, alla recita del Rosario, con canti mariani e con il bacio alla colonna sulla piccola parte scoperta, che, a causa di questa devozione, presenta un marcato solco prodotto proprio dall’usura.
Molte famiglie spagnole danno il nome di Pilar alle loro bambine e tengono ad avere la sacra immagine in casa; numerosi altari e cappelle, dedicati alla Madonna del Pilar, si trovano nella Spagna e nell’America Latina. C’è a tal proposito un canto popolare spagnolo il cui ritornello a suon di nacchere ripete giustamente questa semplice verità: “Es la Virgen del Pilar, la que màs altares tiene, y no hay un buen español, que en su pecho no la lleve”: “È la Vergine del Pilar, quella che ha più altari, né si trova uno spagnolo, che non la porti nel cuore”.
Secondo la leggenda, la cappella primitiva sarebbe stata costruita da S. Giacomo il Maggiore verso l’anno 40, in ricordo della prodigiosa “Venuta” della Vergine da Gerusalemme a Saragozza per confortare l'apostolo assai deluso dei risultati negativi della sua predicazione. Il “Pilar” è appunto la colonna di alabastro su cui la Vergine avrebbe posato i piedi.
Alcuni mistici, come la venerabile Maria d’Agreda e Anna Caterina Emmerick,confermarono questa antichissima tradizione secondo le loro rivelazioni e visioni, ma già nel 1200 l’episodio è riportato in quello che è considerato il primo documento scritto sulla Madonna del Pilar.
Bisogna anche dire, per amore di verità storica, che la chiesa di “Sancta Maria intra muros” a Saragozza esisteva ancor prima della invasione araba, avvenuta nel 711. Il monaco Aimoinus, giunto in Spagna nell’anno 855 alla ricerca delle reliquie di S. Vincenzo, scrisse che “la chiesa dedicata alla Vergine a Saragozza era la madre di tutte le chiese della città, e che S. Vincenzo vi aveva esercitato le funzioni di diacono al tempo del vescovo Valerio”.
Nel 1118 Saragozza, liberata dal dominio dei musulmani, ritornò capitale del regno di Aragona e nel 1294 Santa Maria del Pilar venne restaurata per accogliere schiere sempre più numerose di pellegrini.
Al tempo dell’unificazione della Spagna (sec. XV) per opera del re di Aragona Ferdinando il Cattolico e della regina Isabella di Castiglia, sua sposa, il culto della Madonna del Pilar si affermò in campo nazionale. Con la scoperta dell’America tale culto raggiunse anche il Nuovo Mondo: nell’anno 1492 avveniva la cacciata definitiva dei Saraceni dalla Spagna, Cristoforo Colombo partiva con tre caravelle, di cui una si chiamava per l’appunto “Santa Maria”, e – fatto abbastanza curioso, se non addirittura strabiliante – la data della scoperta del continente americano coincideva proprio con la data della festa del Pilar, il 12 ottobre.
Forse per tutte queste circostanze, nel 1958, la festa “pilarica” del 12 ottobre fu dichiarata festa della hispanidad, cioè della Spagna e di tutte le nazioni di lingua e cultura spagnola.
Ma nel 1640 un miracolo spettacolare doveva rendere ancora più celebre il santuario. Un giovane di diciassette anni, Miguel-Juan Pellicer di Calanda, conducendo un giorno un carro aggiogato a due muli, cadde dalla cavalcatura e andò a finire sotto una ruota del carro, che gli spezzò e gli schiacciò nel mezzo la tibia della gamba destra. Trasportato in ospedale per le cure del caso, si ritenne urgente amputargli la gamba a circa quattro dita dalla rotula.
Prima dell’operazione, l’infelice si era recato al santuario del Pilar per farvi le sue devozioni e ricevervi i sacramenti. Dopo l'intervento, vi era tornato per ringraziare la Madonna di averlo conservato in vita. Ma,non potendo più lavorare, Miguel-Juan si era unito agli altri mendicanti che domandavano l’elemosina all’ingresso della basilica. Nel frattempo, ogni volta che veniva rinnovato l’olio delle 77 lampade d’argento, accese nella cappella della Vergine, egli vi strofinava le sue piaghe, benché il chirurgo glielo avesse sconsigliato in quanto l’olio ritardava la cicatrizzazione del moncherino.
Tornato infine a Calanda, con la gamba di legno e una gruccia cominciò a mendicare spingendosi fino ai paesi vicini. Ma, il 29 marzo 1640, rientrò a casa sua e, a sera, dopo aver invocato, come al solito, la Vergine del Pilar, si addormentò. Al mattino, svegliandosi, si ritrovò con due gambe ed avvertì così i suoi genitori che la gamba destra, amputata da due anni e cinque mesi, era segnata al polpaccio dalle stesse cicatrici di prima dell’infortunio.
Fu istituita subito una Commissione d’inchiesta, nominata dall’arcivescovo,e i suoi membri, nel corso di accurati accertamenti, con loro grande meraviglia non trovarono più la gamba di Miguel sepolta tempo prima nel cimitero dell’ospedale. La fama del miracolo corse per tutta la Spagna e fu la causa della realizzazione del grandioso santuario attuale, iniziato nel 1681 e consacrato il 10 ottobre 1872.
Nel santuario, all’inizio della navata centrale è situata la “santa cappella”, dove si venera una piccola statua della Vergine col Bambino del secolo XIV, che poggia i piedi sul “Pilar” ricoperto di bronzo e argento, e che viene rivestita con manti diversi a seconda dei tempi liturgici e delle circostanze.
Questa immagine fu incoronata il 20 maggio 1905, con una corona tempestata da circa diecimila perle preziose, e solennemente benedetta dal pontefice S. Pio X.
La Madonna del Pilar, come Patrona della Spagna, da secoli attrae masse imponenti di pellegrini appartenenti a ogni classe sociale: dai più umili contadini ai più grandi re di Spagna, da Ferdinando il Cattolico a Juan Carlos, dal cardinale di Retz nel 1654 al papa Giovanni Paolo II nel 1982.
I pellegrinaggi al santuario sono ininterrotti lungo tutto l’arco dell’anno e si svolgono con la partecipazione alla santa Messa, alla recita del Rosario, con canti mariani e con il bacio alla colonna sulla piccola parte scoperta, che, a causa di questa devozione, presenta un marcato solco prodotto proprio dall’usura.
Molte famiglie spagnole danno il nome di Pilar alle loro bambine e tengono ad avere la sacra immagine in casa; numerosi altari e cappelle, dedicati alla Madonna del Pilar, si trovano nella Spagna e nell’America Latina. C’è a tal proposito un canto popolare spagnolo il cui ritornello a suon di nacchere ripete giustamente questa semplice verità: “Es la Virgen del Pilar, la que màs altares tiene, y no hay un buen español, que en su pecho no la lleve”: “È la Vergine del Pilar, quella che ha più altari, né si trova uno spagnolo, che non la porti nel cuore”.
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