Santa Maria,

Santa Maria,
...donna del primo sguardo, donaci la grazia dello stupore.

lunedì 8 ottobre 2012

Da Il Vangelo del Giorno di oggi ..." Invece un Samaritano"


Lunedì della XXVII^ settimana del Tempo Ordinario



E chi è quel Samaritano se non lo stesso Salvatore? 
O chi fa maggiore misericordia a noi, 
quasi uccisi dalle potenze delle tenebre 
con ferite, paure, desideri, furori, tristezze, frodi, piaceri? 
Di queste ferite solo Gesù è medico; 
egli solo sradica i vizi dalle radici

Clemente Alessandrino, Quis dives 29



Dal Vangelo secondo Luca 10,25-37. 

Un dottore della legge si alzò per metterlo alla prova: «Maestro, che devo fare per ereditare la vita eterna?». 
Gesù gli disse: «Che cosa sta scritto nella Legge? Che cosa vi leggi?». 
Costui rispose: «Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua forza e con tutta la tua mente e il prossimo tuo come te stesso». 
E Gesù: «Hai risposto bene; fa' questo e vivrai». 
Ma quegli, volendo giustificarsi, disse a Gesù: «E chi è il mio prossimo?». 
Gesù riprese: «Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico e incappò nei briganti che lo spogliarono, lo percossero e poi se ne andarono, lasciandolo mezzo morto. 
Per caso, un sacerdote scendeva per quella medesima strada e quando lo vide passò oltre dall'altra parte. 
Anche un levita, giunto in quel luogo, lo vide e passò oltre. 
Invece un Samaritano, che era in viaggio, passandogli accanto lo vide e n'ebbe compassione. 
Gli si fece vicino, gli fasciò le ferite, versandovi olio e vino; poi, caricatolo sopra il suo giumento, lo portò a una locanda e si prese cura di lui. 
Il giorno seguente, estrasse due denari e li diede all'albergatore, dicendo: Abbi cura di lui e ciò che spenderai in più, te lo rifonderò al mio ritorno. 
Chi di questi tre ti sembra sia stato il prossimo di colui che è incappato nei briganti?». 
Quegli rispose: «Chi ha avuto compassione di lui». Gesù gli disse: « Va' e anche tu fa' lo stesso ». 




L'uomo, pur osservando le condizioni, 
non può obbligare Dio ad assolvere la sua promessa, 
l'unica garanzia è che Dio mantiene la sua parola. 

E. Kutsch 



IL COMMENTO

Nel Vangelo di oggi Gesù risponde, attraverso una famosa parabola, alla domanda più importante:  facendo cosa (secondo la traduzione letterale del testo che prevede un gerundio) erediterò la vita eterna?  La forma verbale usata da Luca esprime l'attualità del fare, lo scorrere dell'operare nel tempo, orientando la domanda del Dottore della Legge sulla questione fondamentale: in quale attività sperimenterò una vita che non si esaurisce, in che modo usare del tempo perchè esso non divori il mio fare? Che cos'è che mi consente l'accesso all'eredità della vita eterna, l'eredità di un compimento della mia vita, del mio agire in questa vita, che non sfugga più dalle mani? Che cosa è incorruttibile, non marcisce, non evapora?  

Una lettura affrettata, sentimentalistica o moralistica del brano lo può depotenziare, issandolo su un piedistallo ideale e, così, tagliarla fuori dalla concreta vita dell'uomo: magari facessi così anche io, ma Lui era Gesù, i santi sono santi e io sono un povero disgraziato. Ma chiudere così la partita significa escludere Cristo dalla propria vita, perchè è Lui che annuncia la parabola. E' quanto si ritrova a fare il Dottore della Legge che avvicina Gesù per tentarlo, per scovare in Lui un errore e un capo d'accusa; e non si accorge che, così facendo, mentre cerca di mettere in difficoltà si ritrova egli stesso a doversi giustificare. Ecco descritto l'atteggiamento di chi, pur ferrato nelle Scritture e nelle cose di Dio, si accosta a Gesù solo per metterlo alla prova, per trovare in Lui giustificazione al proprio operare, per non lasciarsi mettere in discussione da Lui; per carpirne qualcosa a proprio favore, la perversione di una relazione che, pur mossa dalla ricerca della verità, è macchiata dalla malizia.

Il brano è una lunga inclusione tra la prima domanda del Legista e l'ultima affermazione di Gesù che ne diviene la risposta: "facendo cosa erediterò la vita eterna?".... " e fa anche tu lo stesso". Ma l'eredità non è qualcosa da conquistare, essa è un diritto naturale, spetta al figlio come un dono dell'amore paterno. Per un dotto israelita doveva essere chiaro che l'eredità consisteva nella Terra ed era il frutto di una promessa compiuta da Dio. Essa si poteva solo perdere, perchè era il compimento dell'Alleanza stretta da Dio all'inizio con Abramo, riconfermata poi con Isacco e Giacobbe, e infine stipulata con Mosè e con il popolo d’Israele sul monte Sinai. Ma essa, in un senso più generale, risale ancor più indietro nel tempo, a Noè: "Quando l'arco sarà sulle nubi io lo guarderò per ricordare l'alleanza eterna tra Dio ed ogni essere che vive in ogni carne che è sulla terra" (Gen. 9,16). Dio guarda e ricorda, ed è  un ricordo "potente, operativo, che penetra nella storia e alla fine condurrà il mondo alla salvezza" (F. Mussner, Il popolo della promessa). Un'Alleanza che, proprio come un arcobaleno disteso tra la terra ed il cielo, ha percorso l'intera storia dell'umanità e rivelata, per un'elezione del tutto gratuita e "missionaria", al Popolo di Israele. L'alleanza è dunque la storia d'amore di Dio con l'uomo, manifestata in modo del tutto speciale a Israele. Lui l'ha inaugurata, Lui l'ha realizzata giorno dopo giorno, Lui l'ha rivelata; il Popolo l'ha accolta per poi però infrangerla ripetutamente. E Dio ha perdonato, una, mille volte. 

Alleanza, berit, è un vocabolo che forse deriva dalla radice brh che significa "vedere, scegliere, selezionare". Al centro non vi è un rapporto bilaterale ma una elezione, una scelta: Dio ha visto quel manipolo di uomini che non erano neanche un popolo, i più poveri, e li ha messi da parte per sé, li ha amati e ne ha fatto il Popolo Santo. Solo come frutto di questa elezione, dell'esperienza dell'amore con il quale Dio lo ha liberato, salvato, curato, custodito mantenendo ogni promessa, solo quando, in questa alleanza d'amore quel gruppo di uomini ha scoperto di essere diventato un Popolo, ciascuno di loro ha potuto alzare lo sguardo e scoprire la fonte di tanto amore e consegnargli la propria vita. "Se volessimo esprimere il senso originale del dialogo sulla base di Es 34,10 poremmo dire che il popolo aderisce ad un rapporto non con Jhwh, ma davanti a Jhwh che è il protagonista e l'attore principale" (G. Ravasi). L'Alleanza del Sinai è il paradigma nel quale Israele ha letto la sua nascita e l'intera sua storia successiva. Essa è proprio un giuramento unilaterale e gratuito di Dio che, come un innamorato, ha rivelato all'amata ogni sua dote, ogni suo fascino, ogni sua capacità pur di farla innamorare. "Anche i verbi che sostengono il termine berit stanno su questa linea: Dio dà (ntn) l'allenza, giura (shb') l'alleanza, pone stabilmente (qùm) l'alleanza, taglia (krt) l'alleanza con l'allusione all'automaledizione simboleggiato negli animali squartati (Gen 15,7 ss; cfr Es 34,10.27). Dio, il "fedele" per eccellenza (1 Tess 5,24), restaurerà sempre il rapporto d'alleanza, raccogliendo le debolezze dell'uomo purificato attraverso il suo giudizio (Noè e il diluvio in Gen 6-9) e il suo intramontabile amore" (G. Ravasi) .

Alleanza dunque è molto più che un contratto, è un legame sponsale, un divenire l'uno parte dell'altro: l'Alleanza è amore! Anche la traduzione che ne è derivata, testamento, rimanda all'idea di una eredità. Ma, compresa nel contesto nuziale, l'eredità acquista i connotati della dote, del dono che, in questo caso lo sposo, fa alla sposa per le nozze nozze. Quante pagine nella Scrittura descrivono la tenera relazione tra due fidanzati per esprimere l'Alleanza di Dio con il suo Popolo. Il Cantico dei Cantici è un Cantico dell'Alleanza, al punto che per Israele lo stesso matrimonio è detto berit.  

Nel Libro dell'Esodo leggiamo come avvenne concretamente l'Alleanza del Sinai: "Mosè quindi prese il libro dell'alleanza e lo lesse alla presenza del popolo. Dissero: «Quanto il Signore ha ordinato, noi lo faremo e lo ascolteremo!». Allora Mosè prese il sangue e ne asperse il popolo, dicendo: «Ecco il sangue dell'alleanza, che il Signore ha concluso con voi sulla base di tutte queste parole!». Contro i privilegiati degli Israeliti non stese la mano: essi videro Dio e tuttavia mangiarono e bevvero" (Es. 23). Il Signore ha parlato, ed era la Parola creatrice, quella che aveva tratto il Popolo dalla schiavitù e lo aveva condotto sino alle falde del monte. Era la voce dell'innamorato che, sulla sommità del Sinai, aveva rivelato il suo tesoro più prezioso, regalandolo alla sua amata: la Torah, la gioia e la vita, il cammino da intraprendere per essere proprietà dell'Amato, la Parola da fare e ascoltare per essere sua sposa. Fare ed ascoltare, la contraddizione è solo apparente, come quella che traspare nella domanda del Dottore della Legge, fare per avere l'eredità: il fare è amare, e amare è la condizione per ascoltare. 

Si comprende allora perchè Gesù inviti il suo interlocutore ad aprire la Torah e a cercarvi la risposta: il facendo cosa è tra quelle pagine. E, subito, di getto, il Dottore della Legge proclama un versetto tratto dallo Shemà unendolo ad un altro del Levitico, dal cosiddetto codice di santità. Ha risposto bene, è questo amore la sintesi della Torah, il fare per ereditare. Ma, abbiamo visto, nell'Alleanza e nella stessa parola dello Shemà, il fare è legato indissolubilmente all'ascoltare. Si ascolta quando si ama, altrimenti le parole di chi ci parla non ci coinvolgono, restano suoni lontani, che non hanno nulla da dirci. Amare Dio è ascoltarlo, perchè la sua Parola ha il potere di compiere e rinnovare l'Alleanza; ascoltarlo è accogliere il suo amore. E' stata questa l'esperienza di Israele, e per questo il Signore ripete al Dottore della Legge le stesse parole dello Shemà: "Fa questo e vivrai!". 

Ma proprio in questo si rivela l'inciampo dell'interlocutore di Gesù: egli lo mette alla prova, non lo ama. Non comprende di essere dinanzi all'Amato, all'Autore dell'Alleanza, all'eredità fatta carne, alla stessa vita eterna che cercava di ottenere. Esperto della Torah non aveva riconosciuto di trovarsi, in quel momento ed in quel luogo, al cospetto di quel Profeta che sarebbe dovuto arrivare e annunciato proprio da Mosè: "Il Signore, tuo Dio, susciterà per te, in mezzo a te, tra i tuoi fratelli, un profeta pari a me. A lui darete ascolto. Io susciterò loro un profeta in mezzo ai loro fratelli e gli porrò in bocca le mie parole ed egli dirà loro quanto io gli comanderò" (Dt. 18,15 ss). Ora quel profeta annunziato era lì, davanti a lui, e lui scappa cercando di giustificare se stesso, di farsi giusto continuando a mettere alla prova il Signore con la domanda "e chi è il mio prossimo?". 

"I Farisei tendevano ad escludere i non farisei; gli esseni pretendevano che si odiassero tutti i "figli delle tenebre"; i rabbini dichiaravano che si dovevano "sotterrare" tutti gli eretici, i delatori e gli apostati e non estrarli da sotto terra, e un proverbio popolare molto conosciuto escludeva dal comandamento dell'amore il nemico personale" (J. Jeremias, Le parabole di Gesù). Nell'antropologia giudaica il prossimo (reah) era chiunque non faceva parte del proprio nucleo familiare; Per il Libro del Levitico il prossimo sono "i figli del tuo popolo" (Lv. 19, 18). Il concetto viene poi esteso ai ger, agli stranieri avventizi residenti sul territorio. Nella traduzione della LXX ger è reso con proselito, e così si comprende quanto il concetto di prossimo fosse ristretto. Inoltre "era dato per scontato che i samaritani, che a Gerusalemme, pochi anni prima (tra il 6 e il 9 dopo Cristo) avevano contaminato la piazza del tempio proprio nei giorni della Pasqua spargendovi ossa umane, non erano «prossimi»" (Benedetto XVI, Gesù di Nazaret, vol. I). Il Dottore della Legge tende una trappola a Gesù per vedere chi egli consideri come prossimo: se segue la tradizione di Israele oppure trasgredisce, allarga i confini minando così l'unità e la specificità del Popolo. In altre parole il Dottore della Legge per mostrarsi giusto (giustificarsi, che non significa discolparsi), osservante della Legge e quindi in diritto di ereditare la vita eterna, sembra dire a Gesù, esattamente come il giovane ricco che, non a caso, sottopone al Signore la stessa questione circa l'eredità della vita eterna: "Io ho compiuto la Legge. Amo Dio e il mio prossimo, quindi l'eredità è mia...", per poi aggiungere tra le righe: "ma tu Maestro? Chi è il prossimo per te? Quello che dice essere la Legge o anche qualcun altro?". Per farsi giusto cerca di rendere ingiusto Gesù, di metterlo fuori dal Popolo, di farne un eretico.

Così si comprende il senso profondo della parabola con la quale il Signore risponde. Ed è un midrash, una catechesi sullo Shemà nella sua completezza, e non solo sull'amore del prossimo. Gesù si identifica con il samaritano, con l'eretico, e prepara così la risposta che spiazzerà l'interlocutore. Gesù fa una rivelazione di se stesso, e, nel contesto proprio dello Shemà e dell'Alleanza, si presenta come Dio e, follia estrema, presenta Dio come un eretico! La domanda che fa al termine del racconto è la chiave di tutto il brano: "Chi di questi tre ti sembra sia stato il prossimo di colui che è incappato nei briganti?". Non dobbiamo dimenticare che questa costituisce la risposta alla domanda precedente su chi fosse il mio prossimo. Il prossimo è proprio il samaritano, è Lui da amare come se stessi! E non si tratta di una contraddizione. Il samaritano eretico è il prossimo! Sì, Gesù rompe gli schemi, e risuonano in questo le parole del discorso della montagna sull'amore al nemico. Nella domanda-risposta di Gesù dobbiamo leggervi queste stesse parole: "Hai udito che fu detto: Amerai il tuo prossimo e odierai il tuo nemico. Ma io vi dico: amate i vostri nemici e pregate per quelli che vi perseguitano, fate del bene a quelli che vi maltrattano....". Il Rabbino "Neusner afferma che un tale insegnamento non concorda con la Torah perché "è un dovere religioso resistere al male, combattere per il bene, amare Dio e combattere quelli che diventeranno nemici di Dio... La Torah richiede sempre dall'Eterno Israele di combattere per la causa di Dio; la Torah ammette la guerra, riconosce l'uso legittimo della forza". Più in generale, le antitesi del discorso della montagna appaiono intollerabili al Rabbino: "La frase di Gesù ‘voi avete inteso che fu detto... ma io vi dico' si pone in aperto contrasto con la frase di Mosè sul monte Sinai". "Solo Dio può esigere da me quello che sta chiedendo Gesù... In discussione è la rivendicazione di autorità da parte di Gesù". Il nocciolo della questione è dunque questo: "Cristo prende il posto della Torah". La conclusione del Rabbino Neusner è tranciante: "Un grande maestro non è colui che dice qualcosa di nuovo, ma colui che dice quello che è vero". Perciò Gesù non è per lui un maestro credibile e la differenza con la fede del popolo eletto è radicale: "Il messaggio della Torah riguarda sempre l'Eterno Israele, mentre il messaggio di Gesù riguarda quelli che lo seguono" (B. Forte).

In queste parole del Rabbino possiamo intravvedere le obiezioni del Dottore della Legge. In questione è l'autorità di Gesù, il suo farsi Dio, e, per giunta, facendo di Dio un eretico. Ma è proprio questo il punto centrale, la Buona Notizia che nè il Dottore della Legge, nè il Rabbino Neusner hanno colto: Se Dio si è fatto samaritano, eretico, è per puro amore. E' per pura compassione, quella che illumina tutta la parabola. Senza compassione la Legge rimane lettera morta, un rivestimento, un timbro sul passaporto che decreti un'appartenenza che giustifichi e legittimi l'eredità. Ma questo, in ultima analisi, sconfessa la stessa Torah, il cui frutto più squisito sono proprio le viscere di misericordia di Dio, viscere materne capaci di rigenerare. Il Dottore della Legge non comprende che il Popolo cui appartiene, e quindi egli stesso, è rappresentato da quell'uomo gettato mezzo morto dai briganti. Israele aveva tutto, ma, come il figlio prodigo, ha voluto per sè l'eredità e l'ha dilapidata prostituendosi e adulterando. E' la storia che emerge dalla stessa Torah, ed è, per questo, storia di amore testardo, di un'Alleanza invincibile, sempre rinnovata, ogni volta che il Popolo si è fatto eretico. I samaritani, oggetto di predilezione del Signore non a caso, sono una parola di Dio per Israele. Si può sempre dimenticare l'amore di Dio e infrangere l'Alleanza in nome della propria ragione allontanatasi dalla fede. Si può essere infedeli. 

Per questo Gesù, identificando il samaritano con il prossimo da amare, sta dicendo al dottore della Legge e a ciascuno di noi, che Dio ci ha amato al punto da farsi maledizione, e morire come un bestemmiatore ed eretico. Lo ha fatto per amore nostro, incappati nei briganti e spogliati di tutto, lasciati mezzo morti sul ciglio della avita. Per noi che abbiamo perduto l'eredità a causa dei nostri peccati. "Questo Samaritano non discende da Gerusalemme a Gerico, come il sacerdote e il levita, e se discende, discende per salvare il moribondo e vegliare su di lui. A lui i Giudei hanno detto: «Tu sei un samaritano e un posseduto dal demonio»; e Gesù, mentre ha negato di essere posseduto dal demonio, non ha voluto negare di essere samaritano, in quanto sapeva di essere buon «guardiano» (significato della parola «samaritano»)" (Origene). “All’uomo che giaceva in tali condizioni portò aiuto il nostro Samaritano, cioè Gesù, che i Giudei chiamarono Samaritano, che significa «custode»; egli che mosso da misericordia, discendeva per quella via, cioè si è incarnato per morire lui giusto per i nostri peccati, sollevò da terra l’uomo giacente” (S. Agostino).

Il sacerdote ed il levita, guide del popolo, non si avvedono delle sofferenze dei propri fratelli. Loro, che dovrebbero custodire, formare, condurre il popolo non riconoscono lo stato in cui è ridotto. Non comprendono che quell'uomo è immagine di ogni loro fratello, straziato dai soprusi dei romani, ma molto più quasi ucciso dall'inganno del demonio. Sono dei mercenari, utilizzano il loro stato, e le cose sante, e la Legge per se stessi; quando vedono il lupo scappano, quando vedono il male avventarsi e ferire il popolo loro affidato non hanno forza, nè spirito per farsi prossimo a quel dolore; non hanno parole, non sanno ascoltare il grido, nè amore per chinarsi e portare in salvo. 

Il samaritano invece sì, conosce il dolore dal di dentro, sa che cosa significa essere rifiutato, percosso, gettato fuori mezzo morto. Conosce il dolore ed il male, per averlo sperimentato. E' Lui, è Gesù il Samaritano che si è fatto peccato, che ha conosciuto sino in fondo le conseguenze del male e può avere compassione, essendo stato provato in tutto. Per questo "gli si spezza il cuore; il Vangelo usa la parola che in ebraico indicava in origine il grembo materno e la dedizione materna. Vedere l'uomo in quelle condizioni lo prende «nelle viscere», nel profondo dell'anima. «Ne ebbe compassione», traduciamo oggi indebolendo l'originaria vivacità del testo. In virtù del lampo di misericordia che colpisce la sua anima diviene lui stesso il prossimo, andando oltre ogni interrogativo e ogni pericolo" (Benedetto XVI, ibid.). E' Lui dunque che si china come il buon pastore, conosce la sua pecora e se la carica sulle sue spalle, e la riconduce all'ovile, la locanda della parabola, e si prende cura di lui, attraverso le sue stesse ferite, le piaghe dalle quali siamo stati redenti: il vino, il sangue sgorgato dalle sue membra crocifisse, e l'olio, il suo Spirito vivificante effuso spirando sulla Croce. E' Lui che paga il prezzo del nostro riscatto con la sua stessa vita, i suoi averi, le sue grazie, le monete lasciate al locandiere. E' Lui che ci affida alle cure della Chiesa, la madre premurosa che ci accompagna nel cammino di conversione e risurrezione. E' Gesù, il samaritano che ha visto il Popolo schiavo in Egitto, che ha udito il suo grido, ed è sceso a liberarlo. E' solo Lui, l'unico Dio, in mezzo a tanti dei stranieri falsi e ingannatori, identificati, con la durezza della verità, nel sacerdote e nel levita: sono loro i veri eretici, le monete false che non salvano nessuno, i mercenari che le pecore del Signore non seguiranno, i falsi profeti che nessuno amerà. E' Gesù che ha visto l'uomo, ogni uomo della storia, come Adamo gettato fuori dalla Vita: "I Padri vedono la parabola in dimensione di storia universale: l'uomo che lì giace mezzo morto e spogliato ai bordi della strada non è un'immagine di «Adamo», dell'uomo in genere, che davvero «è caduto vittima dei briganti»? Non è vero che l'uomo, questa creatura che è l'uomo, nel corso di tutta la sua storia si trova alienato, martoriato, abusato?... La teologia medievale ha interpretato i due dati della parabola sullo stato dell'uomo depredato come fondamentali affermazioni antropologiche. Della vittima dell'imboscata si dice, da un lato, che fu spogliato (spoliatus); dall'altro lato, che fu percosso fin quasi alla morte (vulneratus). Gli scolastici riferirono questi due participi alla duplice dimensione dell'alienazione dell'uomo. Dicevano che è spoliatus supernaturalibus e vulneratus in naturalibus: spogliato dello splendore della grazia soprannaturale, ricevuta in dono, e ferito nella sua naturaSe la vittima dell'imboscata è per antonomasia l'immagine dell'umanità, allora il samaritano può solo essere l'immagine di Gesù Cristo. Dio stesso, che per noi è lo straniero e il lontano, si è incamminato per venire a prendersi cura della sua creatura ferita. Dio, il lontano, in Gesù Cristo si è fatto prossimo. " (Benedetto XVI, ibid.). 

Gesù, il Dio fattosi carne, fattosi l'unico ultimo, l'unico disprezzato, l'uno che doveva morire per il Popolo, è adonai ehad, adonai elohenu, l'unico Dio, l'unico Signore, che non si può non amare con tutto il cuore, con tutta la mente, e con tutte le forze. E perchè unico Dio e unico Signore si è fatto prossimo per salvarci pieno di compassione. Amando Lui nel suo amore si eredita la vita eterna, perchè essa non è altro che questo amore senza limiti, che supera le barriere della morte, che rende ogni istante, ogni pensiero, ogni moto del cuore, ogni opera delle nostre forze un frammento eterno incastonato nel suo eterno amore. In Lui ogni uomo diviene prossimo e l'amore a Cristo si traduce spontaneamente, per la nuova natura di chi è rinato in Cristo, in amore all'uomo. "Il grande tema dell'amore, che è l'autentico punto culminante del testo, raggiunge così tutta la sua ampiezza. Ora, infatti, ci rendiamo conto che noi tutti siamo «alienati» e bisognosi di redenzione. Ora ci rendiamo conto che noi tutti abbiamo bisogno del dono dell'amore salvifico di Dio stesso, per poter diventare anche noi persone che amano... ogni persona è «alienata», estraniata proprio dall'amore (che è appunto l'essenza dello «splendore soprannaturale» di cui siamo stati spogliati); ogni persona deve dapprima essere guarita e munita del dono" (Benedetto XVI, ibid.). Il dono di un amore senza distinzioni, senza barriere, che raggiunge anche il nemico. Perchè l'amore che eredita la vita eterna è pura gratitudine che sgorga da un cuore amato senza condizioni e senza limiti, quello di un'amata che, stordita da tanto amore, apre il suo cuore e lo consegna all'amato innamorato: "Noi amiamo perché egli ci ha amati per primo. Se uno dice: «Io amo Dio» e odia suo fratello, è un bugiardo. Chi infatti non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede. E questo è il comandamento che abbiamo da lui: chi ama Dio, ami anche suo fratello"(1 Gv. 4, 19-21).

Gesù è il samaritano ebbro d'amore che scende nel suo giardino alla ricerca dell'amata. "Mentre il Re è nel suo recinto, il mio nardo spande il suo profumo" (Ct 1,12). Il famoso Rabbi Juda ben Ilai, verso il 150, interpretava così questo versetto: "Mentre il Re dei re, il Santo - benedetto egli sia! - sedeva alla sua mensa nel firmamento, Israele emise la sua fragranza davanti al monte Sinai e disse: Quanto il Signore ha detto, noi lo faremo e lo ascolteremo" (Cantica Rabah 1,12.1). E' paradossale, ma da quelle ferite e da quella estrema debolezza vicina alla morte, quell'uomo ha emesso la sua fragranza davanti al Re dei Re: di quella povertà Egli si è innamorato, di quell'uomo sfinito e incapace di tutto si è caricato. E lui, proprio perchè mezzo morto, ha potuto fare e ascoltare, perchè caricato sull'unico che ha compiuto sino in fondo lo Shemà realizzando la Nuova ed eterna Alleanza. Sulle spalle di Gesù possiamo amare, spandere le fragranze della nostra esistenza e vederle trasformate nel buon profumo di Cristo. Come la peccatrice che, all'estremo dei suoi peccati, schiava incapace di uscirne, ha effuso la fragranza delle sue lacrime sui piedi di Gesù: ed è diventata l'unica dalla quale, nel Vangelo, Gesù riconosce di essere amato: " le sono perdonati i suoi molti peccati, poiché ha molto amato. Invece quello a cui si perdona poco, ama poco" (Lc. 7,47). Rispondendo alla domanda «Chi è Gesù per me?» Madre Teresa rispondeva: "Gesù è la parola da pronunciare, è la vita da vivere, è l'amore da amare, è la gioia da condividere, è il sacrificio da offrire, è la pace da portare, è il pane di vita da mangiare. Gesù è l'affamato da saziare, l'assetato da dissetare, il nudo da vestire, il senza tetto da accogliere, l'ammalato da curare e la persona sola da amare". Gesù è il prossimo ed il prossimo è Gesù, e l'amore con amor si paga, come diceva San Giovanni della Croce.


Sono io il misero... 

Sono io il misero che i ladri assalirono 
e ladri sono i miei pensieri 
che mi colpiscono e feriscono. 
Ma chinati su di me, Cristo Salvatore, 
e guariscimi. 
Misericordia di me, o Dio, misericordia di me.  
Mi scorse il sacerdote 
e da me gli occhi distolse. 
Nudo e dolorante mi vide il levita 
e affrettò oltre il passo. 
Ma tu, Gesù, da Maria nato, 
accanto a me ti arresti 
e il soccorso mi presti. 
Misericordia di me, o Dio, misericordia di me. 
Agnello di Dio 
che del peccato del mondo ti carichi 
il greve peso del mio peccato 
togli dalle mie spalle 
e nel tuo grande amore 
avvolgimi nel tuo perdono. 
Misericordia di me, o Dio, misericordia di me.
Ai tuoi piedi mi getto, Gesù, 
contro il tuo amore ho peccato. 
Liberami da questo troppo greve peso 
e nella tua misericordia accoglimi. 
Misericordia di me, o Dio, misericordia di me. 
Contro di me non intentare processi, 
non svelare le mie azioni 
né moventi soppesa e desideri. 
Ma nella tua misericordia, Onnipotente, 
gli occhi distogli dai miei peccati 
e salvami. 
Misericordia di me, o Dio, misericordia di me.
È tempo di pentimento e a te vengo. 
Liberami dal greve peso dei miei peccati e fammi dono, 
nel tuo tenero amore, di lacrime di pentimento. 
Misericordia di me, o Dio, misericordia di me. 


Andrea di Creta, Il Grande Canone, I, 16-20



Sant'Efrem (circa 306-373), diacono in Siria, dottore della Chiesa 
Commento sul Diatessaron, XVI, 9-23 ; SC 121


Cristo viene in soccorso dell'umanità ferita

        « Maestro, qual è il più grande comandamento della Legge? »  Gesù gli rispose : « Amerai il Signore Dio tuo...e il prossimo tuo come te stesso » (Mt 22,36-39). L'amore di Dio ci risparmia la morte, e l'amore dell'uomo il peccato,  poiché nessuno pecca contro la persona amata. Ma qual è il cuore che possa possedere la pienezza di amore per i suoi?  Qual è l'anima che possa far crescere in essa, sotto gli occhi di tutti, l'amore seminato in lei da questo precetto: « Ama il prossimo tuo come te stesso»? I nostri mezzi non possono, da soli, essere gli strumenti di questa volontà rapida e ricca di Dio : basta solo il frutto della carità seminato da Dio stesso.

        Dio può, grazie alla sua natura, compiere tutto ciò che vuole; ora Egli vuole dare la vita agli uomini. Gli angeli, i re e i profeti... sono passati, ma gli uomini non sono stati salvati fino a quando non è sceso dai cieli Colui che ci tiene per mano e che ci risuscita.


Benedetto XVI. La parabola del buon samaritano. Da "Gesù di Nazaret" Vol. I

 Al centro della storia del buon samaritano vi è la domanda fondamentale dell'uomo. È un dottore della Legge, quindi un maestro dell'esegesi, che la pone al Signore: «Maestro, che devo fare per ereditare la vita eterna?» (10,25). Luca aggiunge che il dottore avrebbe fatto quella domanda a Gesù per metterlo alla prova. Egli personalmente, in quanto dottore della Legge, conosce la risposta che a essa dà la Bibbia, ma vuole vedere che cosa dice al riguardo quel profeta digiuno di studi biblici. Il Signore lo rimanda molto semplicemente alla Scrittura che questi, appunto, conosce e lascia che sia lui stesso a dare la risposta. Il dottore della Legge risponde con esattezza mettendo insieme Deuteronomio 6,5 e Levitico 19,18: «Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua forza e con tutta la tua mente e il prossimo tuo come te stesso» (Lc 10,27). Riguardo a questa domanda Gesù non insegna cose diverse dalla Torah, il cui intero significato è unito in questo duplice comandamento. Ora, però, quest'uomo dotto, che da sé conosce benissimo la risposta alla sua domanda, deve giustificarsi: la parola della Scrittura è indiscussa, ma come essa debba essere applicata nella pratica della vita solleva questioni che sono molto dibattute nella scuola (e anche nella vita stessa).
La domanda, nel concreto, è: chi è «il prossimo»? La risposta abituale, che poteva poggiarsi anche su testi delle Scritture, affermava che «prossimo» significava «connazionale». Il popolo costituiva una comunità solidale, in cui ognuno aveva delle responsabilità verso l'altro, in cui ogni individuo era sostenuto dall'insieme e quindi doveva considerare l'altro, «come se stesso», parte di quell'insieme che gli assegnava il suo spazio vitale. Gli stranieri allora, le persone appartenenti a un altro popolo, non erano «prossimi»? Ciò, però, andava contro la Scrittura, che esortava ad amare proprio anche gli stranieri ricordando che in Egitto Israele stesso aveva vissuto un'esistenza da forestiero. Tuttavia, dove porre i confini restava argomento di discussione. In generale si considerava appartenente alla comunità solidale e quindi «prossimo» solo lo straniero che si era stanziato nella terra d'Israele. Erano diffuse anche altre limitazioni del concetto di «prossimo». Una dichiarazione rabbinica insegnava che non bisognava considerare «prossimo» eretici, delatori e apostati (Jeremias, p. 170). Inoltre era dato per scontato che i samaritani, che a Gerusalemme, pochi anni prima (tra il 6 e il 9 dopo Cristo) avevano contaminato la piazza del tempio proprio nei giorni della Pasqua spargendovi ossa umane (Jeremias, p. 171), non erano «prossimi».
Alla domanda, resa in questo modo concreta, Gesù risponde con la parabola dell'uomo che sulla strada da Gerusalemme a Gerico viene assalito dai briganti che lo abbandonano ai bordi della via, spogliato e mezzo morto. È una storia assolutamente realistica, perché su quella strada assalti simili accadevano regolarmente. Passano sulla medesima strada un sacerdote e un levita — conoscitori della Legge, esperti circa la grande domanda della salvezza di cui erano al servizio per professione — e vanno oltre. Non dovevano essere necessariamente uomini particolarmente freddi; forse hanno avuto paura anche loro e hanno cercato di arrivare più presto possibile in città; forse erano maldestri e non sapevano da che parte cominciare per prestare aiuto – tanto più che, comunque, sembrava che non ci fosse più molto da aiutare. Poi sopraggiunge un samaritano, probabilmente un mercante che deve percorrere spesso quel tratto di strada ed evidentemente conosce il padrone della locanda più vicina; un samaritano — quindi uno che non appartiene alla comunità solidale di Israele e non è tenuto a vedere nella persona assalita dai briganti il suo «prossimo».
Bisogna qui ricordare che, nel capitolo precedente, l'evangelista ha raccontato che Gesù, in cammino verso Gerusalemme, aveva mandato avanti dei messaggeri che erano giunti in un villaggio di samaritani e volevano preparare per Lui un alloggio: «Ma essi non vollero riceverlo, perché era diretto verso Gerusalemme» (9,52s). Infuriati, i figli del tuono — Giacomo e Giovanni — dissero allora a Gesù: «Signore, vuoi che diciamo che scenda un fuoco dal cielo e li consumi?». Il Signore li rimproverò. Si trovò poi alloggio in un altro villaggio.
Ed ecco ora apparire il samaritano. Che cosa farà? Egli non chiede fin dove arrivino i suoi doveri di solidarietà e nemmeno quali siano i meriti necessari per la vita eterna. Accade qualcos'altro: gli si spezza il cuore; il Vangelo usa la parola che in ebraico indicava in origine il grembo materno e la dedizione materna. Vedere l'uomo in quelle condizioni lo prende «nelle viscere», nel profondo dell'anima. «Ne ebbe compassione», traduciamo oggi indebolendo l'originaria vivacità del testo. In virtù del lampo di misericordia che colpisce la sua anima diviene lui stesso il prossimo, andando oltre ogni interrogativo e ogni pericolo. Pertanto qui la domanda è mutata: non si tratta più di stabilire chi tra gli altri sia il mio prossimo o chi non lo sia. Si tratta di me stesso. Io devo diventare il prossimo, così l'altro conta per me come «me stesso».
Se la domanda fosse stata: «È anche il samaritano mio prossimo?», allora nella situazione data la risposta sarebbe stata un «no» piuttosto netto. Ma ecco, Gesù capovolge la questione: il samaritano, il forestiero, si fa egli stesso prossimo e mi mostra che io, a partire dalmio intimo, devo imparare l'essere- prossimo e che porto già dentro di me la risposta. Devo diventare una persona che ama, una persona il cui cuore è aperto per lasciarsi turbare di fronte al bisogno dell'altro. Allora trovo il mio prossimo, o meglio: è lui a trovarmi.Helmut Kuhn, nella sua interpretazione della parabola, va certamente oltre il senso letterale del testo e tuttavia individua correttamente la radicalità del suo messaggio quando scrive: «L'amore politico dell'amico si fonda sull'uguaglianza dei partner. La parabola simbolica del samaritano, invece, sottolinea la radicale disuguaglianza: il samaritano, che non appartiene al popolo d'Israele, sta di fronte all'altro, a un individuo anonimo, egli che aiuta di fronte alla vittima inerme dell'attacco dei briganti. L'agape, così ci fa intendere la parabola, attraversa ogni tipo di ordinamento politico in cui domina il principio del 
do ut des, superandolo e caratterizzandosi in questo modo come soprannaturale. Per principio essa si colloca non solo al di là di questi ordinamenti, ma si comprende anzi come il loro capovolgimento: i primi saranno ultimi (cfr. Mt 19,30). E i miti erediteranno la terra (cfr. Mt 5,5)» (p. 88s). Una cosa è evidente: si manifesta una nuova universalità, che poggia sul fatto che io intimamente già divengo fratello di tutti quelli che incontro e che hanno bisogno del mio aiuto.L'attualità della parabola è ovvia. Se la applichiamo alle dimensioni della società globalizzata, vediamo come le popolazioni dell'Africa che si trovano derubate e saccheggiate ci riguardano da vicino. Allora vediamo quanto esse siano «prossime» a noi; vediamo che anche il nostro stile di vita, la storia in cui siamo coinvolti li ha spogliati e continua a spogliarli. In questo è compreso soprattutto il fatto che le abbiamo ferite spiritualmente. Invece di dare loro Dio, il Dio vicino a noi in Cristo, e accogliere così dalle loro tradizioni tutto ciò che è prezioso e grande e portarlo a compimento, abbiamo portato loro il cinismo di un mondo senza Dio, in cui contano solo il potere e il profitto; abbiamo distrutto i criteri morali così che la corruzione e una volontà di potere priva di scrupoli diventano qualcosa di ovvio. E questo non vale solo per l'Africa.
Sì, dobbiamo dare aiuti materiali e dobbiamo esaminare il nostro genere di vita. Ma diamo sempre troppo poco se diamo solo materia. E non troviamo anche intorno a noi l'uomo spogliato e martoriato? Le vittime della droga, del traffico di persone, del turismo sessuale, persone distrutte nel loro intimo, che sono vuote pur nell'abbondanza di beni materiali. Tutto ciò riguarda noi e ci chiama ad avere l'occhio e il cuore di chi è prossimo e anche il coraggio dell'amore verso il prossimo. Perché — come detto — il sacerdote e il levita passarono oltre forse più per paura che per indifferenza. Dobbiamo, a partire dal nostro intimo, imparare di nuovo il rischio della bontà; ne siamo capaci solo se diventiamo noi stessi interiormente «buoni», se siamo interiormente «prossimi» e se abbiamo poi anche lo sguardo capace di individuare quale tipo di servizio, nel nostro ambiente e nel raggio più esteso della nostra vita, è richiesto, ci è possibile e quindi ci è anche dato per incarico.I Padri della Chiesa hanno dato alla parabola una lettura cristologica. Qualcuno potrebbe dire: questa è allegoria, quindi un'interpretazione che allontana dal testo. Ma se consideriamo che in tutte le parabole il Signore ci vuole invitare in modi sempre diversi alla fede nel regno di Dio, quel regno che è Egli stesso, allora un'interpretazione cristologica non è mai una lettura completamente sbagliata. In un certo senso corrisponde a una potenzialità intrinseca del testo e può essere un frutto che si sviluppa dal suo seme. I Padri vedono la parabola in dimensione di storia universale: l'uomo che lì giace mezzo morto e spogliato ai bordi della strada non è un'immagine di «Adamo», dell'uomo in genere, che davvero «è caduto vittima dei briganti»? Non è vero che l'uomo, questa creatura che è l'uomo, nel corso di tutta la sua storia si trova alienato, martoriato, abusato? La grande massa dell'umanità è quasi sempre vissuta nell'oppressione; e da altra angolazione: gli oppressori — sono essi forse le vere immagini dell'uomo o non sono invece essi i primi deformati, una degradazione dell'uomo? Karl Marx ha descritto in modo drastico l'«alienazione» dell'uomo; anche se non ha raggiunto la vera profondità dell'alienazione, perché ragionava solo nell'ambito materiale, ha tuttavia fornito una chiara immagine dell'uomo che è caduto vittima dei briganti.
La teologia medievale ha interpretato i due dati della parabola sullo stato dell'uomo depredato come fondamentali affermazioni antropologiche. Della vittima dell'imboscata si dice, da un lato, che fu spogliato (spoliatus); dall'altro lato, che fu percosso fin quasi alla morte (vulneratus: cfr. Lc 10,30). Gli scolastici riferirono questi due participi alla duplice dimensione dell'alienazione dell'uomo. Dicevano che è spoliatus
supernaturalibus e vulneratus in naturalibus: spogliato dello splendore della grazia soprannaturale, ricevuta in dono, e ferito nella sua natura. Ora, questa è allegoria che certamente va molto oltre il senso della parola, ma rappresenta pur sempre un tentativo di precisare il duplice carattere del ferimento che grava sull'umanità. La strada da Gerusalemme a Gerico appare quindi come l'immagine della storia universale; l'uomo mezzo morto sul suo ciglio è immagine dell'umanità. Il sacerdote e il levita passano oltre — da ciò che è proprio della storia, dalle sole sue culture e religioni, non giunge alcuna salvezza. Se la vittima dell'imboscata è per antonomasia l'immagine dell'umanità, allora il samaritano può solo essere l'immagine di Gesù Cristo. Dio stesso, che per noi è lo straniero e il lontano, si è incamminato per venire a prendersi cura della sua creatura ferita. Dio, il lontano, in Gesù Cristo si è fatto prossimo. Versa olio e vino sulle nostre ferite — un gesto in cui si è vista un'immagine del dono salvifico dei sacramenti — e ci conduce nella locanda, la Chiesa, in cui ci fa curare e dona anche l'anticipo per il costo dell'assistenza.I singoli tratti dell'allegoria, che sono diversi a seconda dei Padri, possiamo lasciarli serenamente da parte. Ma la grande visione dell'uomo che giace alienato e inerme ai bordi della strada della storia e di Dio stesso, che in Gesù Cristo è diventato il suo prossimo, la possiamo tranquillamente fissare nella memoria come una dimensione profonda della parabola che riguarda noi stessi. Il possente imperativo contenuto nella parabola non ne viene infatti indebolito, ma è anzi condotto alla sua intera grandezza. Il grande tema dell'amore, che è l'autentico punto culminante del testo, raggiunge così tutta la sua ampiezza. Ora, infatti, ci rendiamo conto che noi tutti siamo «alienati» e bisognosi di redenzione. Ora ci rendiamo conto che noi tutti abbiamo bisogno del dono dell'amore salvifico di Dio stesso, per poter diventare anche noi persone che amano. Abbiamo sempre bisogno di Dio che si fa nostro prossimo, per poter diventare a nostra volta prossimi.
Le due figure, di cui abbiamo parlato, riguardano ogni singolo uomo: ogni persona è «alienata», estraniata proprio dall'amore (che è appunto l'essenza dello «splendore soprannaturale» di cui siamo stati spogliati); ogni persona deve dapprima essere guarita e munita del dono. Ma poi ogni persona deve anche diventare samaritano — seguire Cristo e diventare come Lui. Allora viviamo in modo giusto. Allora amiamo in modo giusto, se diventiamo simili a Lui, che ci ha amati per primo (cfr. 1 Gv 4,19).

domenica 7 ottobre 2012

XXVII Domenica del Tempo Ordinario "Beata Maria Vergine del Rosario"



Oggi 7 OTTOBRE celebriamo la Memoria della
BEATA VERGINE MARIA DEL ROSARIO (*)
Nel medioevo, i vassalli usavano offrire ai loro sovrani delle corone di fiori in segno di sudditanza. I cristiani adottarono questa usanza in onore di Maria, offrendole la triplice «corona di rose» che ricorda la sua gioia, i suoi dolori, la sua gloria nel partecipare ai misteri della vita di Gesù suo figlio. Inizialmente questa festa si chiamò di «Santa Maria della vittoria» per celebrare la liberazione dei cristiani dagli attacchi dei Turchi, nella vittoria navale del 7 ottobre 1571 a Lepanto (Grecia). Poiché in quel giorno, a Roma, le Confraternite del Rosario celebravano una solenne processione, san Pio V attribuì la vittoria a «Maria aiuto dei Cristiani» e in quel giorno ne fece celebrare la festa nel 1572. Dopo le altre vittorie di Vienna (1683) e di Peterwaradino (1716), papa Clemente XI istituì la festa del Rosario nella prima domenica di ottobre. Ora, la memoria è intitolata «Beata Maria Vergine del Rosario».

Noi ci rivolgiamo a Maria, meditando e pregando, perché ci aiuti a partecipare ai misteri della vita, morte, risurrezione di Cristo. Sono i misteri che si attualizzano a nostra salvezza nella celebrazione eucaristica e noi chiediamo alla sua materna intercessione che si compiano in pienezza «nell’ora della nostra morte».


(*): V.a. in questo blog il post:
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sabato 6 ottobre 2012

Da il Vangelo del giorno di oggi "RALLEGRATEVI ..."



Sabato della XXVI settimana del Tempo Ordinario


Dovevano cambiare la loro idea sul potere, su Dio e sull’uomo 
e, facendo questo, dovevano anche cambiare sé stessi. 
Ora vedevano: il potere di Dio è diverso dal potere dei potenti del mondo. 
Il modo di agire di Dio è diverso da come noi lo immaginiamo 
e da come vorremmo imporlo anche a Lui. 
Dio in questo mondo non entra in concorrenza con le forme terrene del potere. 
Non contrappone le sue divisioni ad altre divisioni. 
A Gesù, nell’Orto degli ulivi, Dio non manda dodici legioni di angeli per aiutarlo. 
Egli contrappone al potere rumoroso e prepotente di questo mondo 
il potere inerme dell’amore, 
che sulla Croce – e poi sempre di nuovo nel corso della storia – soccombe, 
e tuttavia costituisce la cosa nuova, divina 
che poi si oppone all’ingiustizia e instaura il Regno di Dio. 
Dio è diverso – è questo che ora riconoscono. 
E ciò significa che ora essi stessi devono diventare diversi, 
devono imparare lo stile di Dio.

Benedetto XVI, Colonia, 2005






Dal Vangelo secondo Luca 10,17-24. 


I settantadue tornarono pieni di gioia dicendo: «Signore, anche i demòni si sottomettono a noi nel tuo nome». 
Egli disse: «Io vedevo satana cadere dal cielo come la folgore. Ecco, io vi ho dato il potere di camminare sopra i serpenti e gli scorpioni e sopra ogni potenza del nemico; nulla vi potrà danneggiare. Non rallegratevi però perché i demòni si sottomettono a voi; rallegratevi piuttosto che i vostri nomi sono scritti nei cieli». 
In quello stesso istante Gesù esultò nello Spirito Santo e disse: «Io ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra, che hai nascosto queste cose ai dotti e ai sapienti e le hai rivelate ai piccoli. Sì, Padre, perché così a te è piaciuto. Ogni cosa mi è stata affidata dal Padre mio e nessuno sa chi è il Figlio se non il Padre, né chi è il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio lo voglia rivelare». 
E volgendosi ai discepoli, in disparte, disse: «Beati gli occhi che vedono ciò che voi vedete. Vi dico che molti profeti e re hanno desiderato vedere ciò che voi vedete, ma non lo videro, e udire ciò che voi udite, ma non l'udirono». 


IL COMMENTO


La gioia più grande, i nostri nomi scritti in Cielo. La gioia vera scaturisce solo dalla certezza che nulla di noi andrà perduto. Il nome nella Scrittura rappresenta la persona, e tutto ciò che la costituisce, la sua storia, i suoi affetti, anche gli aspetti più piccoli, nulla escluso. Tutto di noi è già scritto in Cielo, registrato nel cuore di Dio, come nell'inventario delle sue cose più preziose. Per questo siamo nati, scelti da prima della creazione del mondo: per essere santi e immacolati nell'amore al cospetto di Cristo. 


Gli apostoli sono le primizie della nuova creazione, il destino di ogni uomo posto sul candelabro perchè chiunque possa alzare lo sguardo, vederlo, e convertirsi. I nomi scritti in Cielo e la vita qui sulla terra, gli apostoli sono come angeli che salgono e scendono sulla scala della Croce per mostrare il volto di Cristo risorto; in loro si sprigiona il suo potere vittorioso sui serpenti, su satana, sul peccato e sulla morte. Camminano su serpenti e scorpioni senza che questi li possano danneggiare, ed è il segno che le porte del Paradiso, già sprangate e difese dai cherubini, sono state riaperte e tutti vi possono tornare. Dio infatti, aveva creato l'uomo a sua immagine conferendogli il potere su ogni altra creatura, donandogli di condividere il suo stesso potere, ma come un dono, una grazia: "Facciamo l’uomo a nostra immagine, secondo la nostra somiglianza: dòmini sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo, sul bestiame, su tutti gli animali selvatici e su tutti i rettili che strisciano sulla terra". Simile a Dio l'uomo ne condivide il potere a patto di conservare la consapevolezza di essere la sua creatura, depositaria della sua eredità, bisognosa di Lui, dipendente e quindi obbediente. L'inganno di satana ha poi sospinto l'uomo a volersi fare come Dio, a dimenticare la sua identità originaria: e così, invece di diventare come il Creatore, si è ritrovato a perdere la grazia che lo faceva a Lui somigliante, il potere sugli animali, l'essere cioè al di sopra della semplice natura. L'uomo cui era stato dato il potere di dominare sui serpenti e ogni rettile ha fato la dura esperienza di essere da loro dominato: il serpente aveva vinto e l'uomo ha perduto il Paradiso.


Si comprende allora perchè i discepoli tornano dalla missione pieni di gioia: essa era stata come ritornare a casa, a quel paradiso perduto di cui, con ogni uomo, portavano dentro la struggente nostalgia. Avevano sperimentato il potere che Dio aveva dato ai progenitori, segno del progetto originario su ogni uomo; avevano vissuto nella volontà di Dio, nel compimento della vita cui ogni fibra dell'uomo tende irresistibilmente e che non può raggiungere. Avevano visto quello che Profeti e Re hanno desiderato ardentemente, il giorno del Messia, quello in cui sarebbe stato ristabilito il Regno, l'Eden perduto, ed in esso la libertà, la pace, l'armonia. Nella missione i discepoli hanno sperimentato che il Maestro era stato con loro perchè il suo potere era divenuto il loro. Nel nome del Signore i demoni si erano sottomessi, il principe di questo mondo, il potere più grande che distrugge e getta nel dolore, era sconfitto dall'unico potere più grande, quello di Dio. Dio era sceso sulla terra per piantarvi il suo paradiso. Per questo il nome di Gesù nelle labbra degli apostoli sconfigge satana, lo precipita dal Cielo dove si era stabilito per usurpare il posto di Dio e degli uomini sua immagine. Nella missione i discepoli avevano ritrovato il posto preparato per loro, ed erano una primizia, una profezia della nuova creazione che Dio avrebbe operato in suo Figlio.


Salvare, sanare, strappare dalla schiavitù e dal dolore, portare la Pace ed ogni dono messianico, ecco la missione della Chiesa e dei suoi apostoli; annunciare il nome di Gesù, renderne attuale la presenza perchè sia Lui stesso a operare i prodigi del suo amore. Ogni volta che si annuncia il Vangelo si aprono le porte del Paradiso, e l'uomo ritrova la sua dignità, può convertirsi, tornare a casa, al paradiso per il quale è stato creato. L'annuncio del Vangelo riorienta la vita, qui ed ora, libera dalla schiavitù al potere del serpente, cancella la menzogna di satana dal cuore dell'uomo per illuminare la Verità, il Destino cui egli è chiamato. L'annuncio del Vangelo ha il potere di salvare un matrimonio, di fare casto un fidanzamento, di accendere nel cuore il perdono, di sanare ogni ferita. Il nome di Gesù, il Vangelo sulle labbra degli apostoli ha il potere di scacciare satana dal cuore e deporvi l'amore autentico, quello che conduce ad offrire la vita, anche per i nemici.  


Eppure non è per tutto questo che occorre rallegrarsi. Non è il potere sul mondo, il peccato, satana e la morte che colma la vita, che ne conferisce senso e gioia. La sconfitta di satana è solo il segno di qualcosa di ancora più grande: che i nomi degli apostoli sono scritti in Cielo, che sono sono ormai passati all'altra riva, che vivono nascosti con Cristo in Dio. Fermarsi all'opera dimenticando l'Autore è cadere nel peccato dei giudei che, saziati dei pani, cercano Gesù solo per essere di nuovo saziati. No, la gioia non è neanche nella missione! Per questo San Paolo dirà che anche se percorressimo il mondo intero per convertire un solo uomo, senza l'amore sarebbe pura vanità. L'amore! La gioia è autentica, piena e incorruttibile solo nell'amore di Cristo. Questo significa rallegrarsi perchè i nomi sono scritti in Cielo. Lui ha scritto con il suo sangue ogni istante della nostra esistenza sul Libro della vita: nel suo amore ogni peccato è trasformato in luce di misericordia, ogni momento buttato è riscattato, come ogni angoscia, tradimento, menzogna, cupidigia, concupiscenza; tutto di noi, ma proprio tutto, lavato nel sangue del Signore, splende già ora nel Cielo, scritto per l'eternità con caratteri d'oro, quello purificato nel fuoco sette volte, e per questo incorruttibile.


E' un mistero sul quale è inutile indagare, ed è la nostra elezione. Si può solo intuire la ragione per la quale noi, e non altri, siamo stati scelti: perchè siamo i più piccoli, perchè la storia ci fa piccoli consegnandoci all'ultimo posto della terra. Ed è così perchè il Padre ha deciso, e resta  un mistero. La sproporzione tra l'elezione e la grandezza della missione e la nostra totale inadeguatezza e indegnità ci atterrisce; spesso diviene scandalo in noi stessi, e fonte di dubbi e di crisi. Ma Dio è così, sceglie il peggio perchè non esista nessuno da scartare. A noi non è dato altro che godere di una beatitudine che ci ha raggiunti per pura Grazia, e i nostri occhi possono vedere e i nostri orecchi udire quello che profeti e re hanno desiderato vedere e udire ma non hanno potuto. Possiamo vedere e ascoltare Dio, il Padre e il Figlio, e il sussurro d'amore dello Spirito in ogni istante. La sapienza mondana e carnale ha altri criteri, e lo vediamo ogni giorno. Al mondo, a quello che vale secondo gli uomini, sono nascoste "queste cose", i misteri del Regno, quelli che si possono captare solo dal basso della polvere, della miseria, della debolezza. Perchè quello che per il mondo è sapienza, e articoli di fondo, e pensiero unico, e titoli accademici, e talk show, è, per Dio, pura stoltezza. La stoltezza dei piccoli invece, quella che prende su di se l'ingiustizia e i peccati degli altri, che perdona e si apre alla vita, che vive abbandonata alla provvidenza, è, per Dio, la vera sapienza. Ed in essa consiste la beatitudine, la gioia autentica, ed è un segno per ogni uomo. Tutto di noi è santo, prezioso, strappato alla corruzione. Il nome di Cristo ha potere su ogni parola, pensiero, azione. Lui è in ogni relazione, in famiglia, a scuola, al lavoro, con gli amici e la fidanzata. La gioia è vivere nel suo amore incorruttibile, che dà senso e pienezza ad ogni istante, che ne fa un frammento di Cielo offerto ad ogni uomo. La gioia che è la certezza che nulla e nessuno potrà mai separarci dall'amore di Dio. La gioia di Cristo, quella che nessuno potrà più toglierci, la sua stessa esultanza come quando c'è un gol allo stadio. Al vederci di ritorno dalla missione, dai giorni spesi per il suo Nome, Gesù prorompe di gioia, perchè siamo noi la sua gioia. Proprio perchè piccoli, proprio perchè suoi. Come non potrà essere Lui la nostra gioia?  






San Giovanni Crisostomo (c. 345-407), sacerdote ad Antiochia poi vescovo di Costantinopoli, dottore della Chiesa 
Omelia n°1 sulla prima lettera ai Tessalonicesi


« Gesù esultò nello Spirito Santo »


        « Voi siete diventati imitatori del divin Maestro » dice Paolo. In che modo? « Avendo accolto la parola con la gioia dello Spirito Santo anche in mezzo a grande tribolazione » (1Ts 1,6)... La prova riguarda la parte materiale del nostro essere; la gioia splende nelle altezze spirituali. Mi spiego: gli incidenti della vita sono tristi e dolorosi, ma i risultati sono gioiosi; è in questo modo che vuole lo Spirito. È dunque possibile non essere contenti quando si soffre, se si soffre per i propri peccati, ma, anche se flagellati, si può essere lieti per amore del nome di Gesù (cf. At 5,41).
        
        È qui che l'apostolo chiama la « gioia dello Spirito » ; la si respira in ciò che la natura rigetta con orrore. Avete fatto fronte a mille pene, dice, avete subito la persecuzione, ma lo Spirito non via ha abbandonati in queste prove. Come i tre giovani erano avvolti da una dolce rugiada nella fornace (Dn 3), anche voi lo siete nella prova. Sicuramente questo non dipendeva dalla natura del fuoco e non poteva avere come causa che il soffio dello Spirito. Non è nemmeno nella natura della prova di donarvi la gioia, e questa gioia non può venire che da una sofferenza patita per il Cristo, dalla divina rugiada dello Spirito che trasforma in un luogo di riposo la fornace delle prove.  « Con gioia» dice, e non con una gioia qualunque ma con una gioia inesauribile; è questo che bisogna capire, quando lo Spirito Santo ne è l'autore.

venerdì 5 ottobre 2012

Da Il Vangelo del giorno di oggi "santa MARIA FAUSTINA KOWALSKA"

Venerdì della XXVI settimana del Tempo Ordinario


Che ho io perché la mia amicizia chiedi?
Che vantaggio ti viene, Gesù mio,
Che alla mia porta, asperso di rugiada,
Passi le notti dell’inverno oscure?

Quanto furono dure le mie viscere
A non aprirti! Che delirio insano,
Se il freddo gelo della mia apatia
Seccò le piaghe alle tue piante pure!

L’angelo, quante volte mi diceva:
“Anima, affacciati ora alla finestra,
Vedrai con quanto amore insiste e chiama!”.

E quante volte, altissima bellezza,
“Domani gli apriremo”, rispondevo,
Per rispondere lo stesso l’indomani!

Lope Feliz De Vega Carpio




Dal Vangelo secondo Luca 10,13-16
Guai a te, Corazin, guai a te, Betsàida! Perché se in Tiro e Sidone fossero stati compiuti i miracoli compiuti tra voi, gia da tempo si sarebbero convertiti vestendo il sacco e coprendosi di cenere. Perciò nel giudizio Tiro e Sidone saranno trattate meno duramente di voi. E tu, Cafarnao, sarai innalzata fino al cielo? Fino agli inferi sarai precipitata! 
Chi ascolta voi ascolta me, chi disprezza voi disprezza me. E chi disprezza me disprezza colui che mi ha mandato». 


Il commento  

Dio è da sempre innamorato di noi, la sua opera più «bella». Eppure non ci basta. Soffocati dalla superbia come Lucifero, l'angelo «perfetto in bellezza» che ci ha ingannati, rifiutando il Figlio di Dio precipitiamo (1) anche noi lontano dall'amore di Dio. Così, nella storia di ogni giorno, il molto bello diventa il molto brutto. Corazin e Betsaida sono le nostre storie ricche di miracoli; Cafarnao è la nostra città, dove il Signore abita con noi in chi ci è accanto; rifiutando perversamente il Creatore, le nostre giornate e i nostri luoghi scendono nella morte. Il «disprezzo» della Grazia infatti, conduce sempre a cadere rovinosamente nei peccati. Abbiamo giudicato un fratello, nonostante la Parola e il soffio dello Spirito Santo ci abbiano suggerito di scusare e pensar bene? Siamo già precipitati negli inferi della lussuria. 

Sidone e Tiro, città pagane lontane da Dio, sono invece immagine di quanti, umiliati dai propri peccati, attendono con ansia un amore che li tratti «meno duramente» della giustizia del mondo. All'annuncio del Vangelo esse si convertirebbero senza indugio accogliendo la misericordia di Dio, perché il suo giudizio d'amore ha inizio proprio con la predicazione. E Dio non si arrende mai, con nessuno. Innamorato perdutamente, con i suoi «guai» profetici ci apre gli occhi sulla «cenere» in cui è ridotta la nostra vita, per suscitare in noi l'umile attesa del suo perdono. Anche ora Gesù è alla porta e bussa. Il Cielo si gioca sulla soglia del cuore. Basta pochissimo, una fessura non più grande della cruna di un ago (2)l'umiltà di chi ha già sofferto abbastanza, anche solo il desiderio di desiderarlo, e la nostra vita tornerà ad essere l'opera più bella di Dio, tanto bella da divenire la sua immagine somigliante, Gesù incarnato e annunciato in noi.

1) «Come mai sei caduto dal cielo? Come mai sei stato gettato a terra? Eppure tu pensavi nel tuo cuore: “Salirò in cielo, dimorerò nella dimora divina, mi farò uguale all’Altissimo”. E invece sei stato precipitato negli inferi!» (Is. 14, 12-17).
2) «La voce del mio amato mi chiama: Aprimi una fessura non più grande della cruna di un ago, e io ti aprirò le porte celesti» (Midrash Rabbà).


APPROFONDIMENTI


La superbia e la caduta di Lucifero

Isaia (14,11-21) e Ezechiele (28,11-19) dipingono il suo ritratto prima della sua ribellione. E' una creatura grandiosa, "un cherubino ad ali spiegate a difesa” incaricato da Dio a sorvegliare il Suo stesso trono. Le Bibbia ce lo descrive come un essere “pieno di sapienza, perfetto in bellezza” (Ez 28,12), “coperto di ogni pietra preziosa” (Ez 28, 13), “perfetto nella condotta” (Ez 28,15). Per San Tommaso d'Aquino e diversi Padri della Chiesa, in principio Dio avrebbe voluto provare l'umiltà degli angeli offrendogli di adorare la Seconda Persona della Trinità - Gesù Cristo, il figlio dell'Eterno Padre - che si sarebbe fatto uomo. La reazione di Lucifero - superiore agli uomini per natura - fu puro orgoglio e rifiutò anche solo l'idea di doversi umiliare dinanzi a un uomo, anche se Figlio di Dio. Conseguenza di ciò fu la sua caduta, che i Padri vedono descritta nella caduta della stella del mattino (in latino "Lucifer") che appare nel capitolo 14 del Libro del profeta Isaia: "Come mai sei caduto dal cielo, astro del mattino, figlio dell’aurora? Come mai sei stato gettato a terra, signore di popoli? Eppure tu pensavi nel tuo cuore: “Salirò in cielo, sopra le stelle di Dio innalzerò il mio trono, dimorerò sul monte dell’assemblea, nella vera dimora divina. Salirò sulle regioni superiori delle nubi, mi farò uguale all’Altissimo”. E invece sei stato precipitato negli inferi, nelle profondità dell’abisso!" (Is. 14, 12-17).


Giovanni Paolo II. La caduta

"Questa "caduta", che presenta il carattere del rifiuto di Dio con il conseguente stato di "dannazione", consiste nella libera scelta di quegli spiriti creati, che hanno radicalmente e irrevocabilmente rifiutato Dio e il suo regno, usurpando i suoi diritti sovrani e tentando di sovvertire l'economia della salvezza e lo stesso ordinamento dell'intero creato. Un riflesso di questo atteggiamento lo si ritrova nelle parole del tentatore ai progenitori: "diventerete come Dio" o "come dèi". Così lo spirito maligno tenta di trapiantare nell'uomo l'atteggiamento di rivalità, di insubordinazione e di opposizione a Dio... l'atteggiamento di antagonismo che satana vuole comunicare all'uomo per portarlo alla trasgressione... La Chiesa, nel Concilio Lateranense IV (1215), insegna che il diavolo (o satana) e gli altri demoni "sono stati creati buoni da Dio ma sono diventati cattivi per loro propria volontà". Infatti leggiamo nella Lettera di san Giuda: "...gli angeli che non conservarono la loro dignità ma lasciarono la loro dimora, il Signore li tiene in catene eterne, nelle tenebre, per il giudizio del gran giorno" (Gd 6). Similmente nella seconda Lettera di san Pietro si parla di "angeli che avevano peccato" e che Dio "non risparmiò, ma... precipitò negli abissi tenebrosi dell'inferno, serbandoli per il giudizio" (2 Pt 2, 4)... In questo senso scrive san Giovanni che "il diavolo è peccatore fin dal principio . . ." (1 Gv 3, 8). E "sin dal principio" egli è stato omicida e "non ha perseverato nella verità, perché non vi è verità in lui" (Gv 8, 4). Questi testi ci aiutano a capire la natura e la dimensione del peccato di satana, consistente nel rifiuto della verità su Dio, conosciuto alla luce dell'intelligenza e della rivelazione come Bene infinito, Amore e Santità sussistente... Respingendo la verità conosciuta su Dio con un atto della propria libera volontà, satana diventa "menzognero" cosmico e "padre della menzogna" (Gv 8, 4)... satana tenta di trasmettere ai primi rappresentanti del genere umano: Dio sarebbe geloso delle sue prerogative e imporrebbe perciò delle limitazioni all'uomo. Satana invita l'uomo a liberarsi dell'imposizione di questo giogo, rendendosi "come Dio". In questa condizione di menzogna esistenziale satana diventa - secondo san Giovanni - anche "omicida", cioè distruttore della vita soprannaturale che Dio sin dall'inizio aveva innestato in lui e nelle creature, fatte a "immagine di Dio": satana vuol distruggere la vita secondo la verità, la vita nella pienezza del bene, la soprannaturale vita di grazia e di amore" (Giovanni Paolo II, Catechesi del 13 agosto 1986)


Guai a te!

Guai a te, un sinistro presagio. I "guai" annunciati dai profeti nel corso della storia di Israele, costituiscono sempre annunci di calamità e catastrofi, frutto malato del rifiuto. Anche il Profeta di Nazaret rimprovera le città che non hanno accolto la predicazione, per annunciarne l'imminente rovina. Come Lucifero, anche Cafarnao, eletta da Gesù a sua seconda patria, città potente e ricca, luogo dove il suo amore creativo aveva mostrato più volte la sua bellezza, è attesa da una tragica caduta. In essa è apparsa la potenza di Gesù, il demonio è stato più volte sconfitto, eppure non è bastato. La superbia ha generato il rifiuto, e la sorte della città è segnata. Come Lucifero anche Cafarnao non ha piegato le ginocchia dinanzi al Dio fatto uomo: non poteva accettare che vi fosse qualcuno più grande di lei, un potere e un amore da accogliere umilmente. Cafarnao era sazia, impossibile aprire il cuore e ricevere qualcosa di cui non sentiva alcun bisogno. Per questo, sulla collina che la domina dall'alto, Gesù tuonò parole di fuoco verso tutte le Cafarnao che avvelenano il cuore dell'uomo: "Ma guai a voi, ricchi, sazi, che ora ridete... Guai, quando tutti gli uomini diranno bene di voi. Allo stesso modo infatti agivano i loro padri con i falsi profeti". Guai a voi che non avete bisogno di nulla, che pensate di aver capito tutto. Guai a voi che vi illudete di esservi arrampicati sino al Cielo, orgogliosi della vostra torre di Babele, eretta per farvi un nome, un'identità, un peso nella storia. Guai a voi che vi illudete d'essere ormai diventati come Dio, autosufficienti e sazi, e non vi accorgete di essere più poveri e vuoti che mai. Guai a ciascuno di noi quando opponiamo un rifiuto all'amore che ci visita: ci aspetta una dolorosa caduta. Dietro ad ogni peccato vi è sempre la loro madre, la superbia. Essa è la "regina dei vizi, appena ha conquistato il cuore, subito lo consegna per la devastazione come a suoi dipendenti, ai sette vizi capitali, da cui deriva tutta la moltitudine dei vizi" (S. Gregorio Magno). Il rifiuto della Grazia che reca la visita del Signore - sia essa nella predicazione, nella Scrittura, nei Sacramenti, negli ammonimenti dei fratelli, nei suggerimenti intimi dello Spirito Santo - conduce sempre a cadere rovinosamente nei peccati. La lussuria ad esempio è, nella Tradizione della Chiesa, una manifestazione della superbia celata. Abbiamo giudicato un fratello, nonostante la Parola e il soffio dello Spirito Santo ci abbiano suggerito di scusare e pensar bene? Siamo già precipitati negli inferi della lussuria. Continuiamo a coltivare un rancore nonostante la predicazione ci abbia toccato il cuore? In breve tempo ci ritroveremo nel bel mezzo di un tradimento. Su questo non si scherza.


Annunciatori liberati
Il Signore invia i discepoli come poveri, gli ultimi della terra. Per facilitare l'accoglienza, per intercettare le povertà e i fallimenti, gli unici capaci di aprire il cuore allo stupore e a ricevere un amore tanto grande. Per questo Gesù è sceso, gettato sino agli inferi dal rifiuto, per raccogliere, in un estremo atto d'amore, le vite frantumate e corrotte di tutte le Cafarnao della storia, di ogni peccatore indurito nel suo rigetto. Ed è questa anche la nostra missione, inscritta in una storia d'amore che ci raggiunge, seduce e ci lancia nel mondo ad esserne i testimoni e gli annunciatori. La nostra salvezza e quella di tanti che Dio ha voluto legare a noi dipendono dalla nostra libertà. Accogliere l'annuncio del Vangelo significa divenirne automaticamente gli apostoli. Accogliere Cristo significa essere trasformati in Lui, ed essere inviati, poveri e ultimi, ad annunciare il suo amore; a prendere il rifiuto, a stendere le braccia e offrire la propria vita perchè, anche nell'anfratto più oscuro della terra, nel rifiuto più duro, possa esservi deposta la sua misericordia.

Oggi .... su Kairòs

Faustina Kowalska - Biografia, Testi della Messa e Omelia della Canonizzazione



Oggi 5 ottobre celebriamo la festa liturgica di
santa MARIA FAUSTINA KOWALSKA (1905-1938)
vergine, delle Suore della Beata Vergine Maria della Misericordia (*)
 

Suor Maria Faustina, l'apostola della Divina Misericordia, appartiene oggi al gruppo dei santi della Chiesa più conosciuti. Attraverso di lei il Signore manda al mondo il grande messaggio della Misericordia Divina e mostra un esempio di perfezione cristiana basata sulla fiducia in Dio e sull'atteggiamento misericordioso verso il prossimo.
Suor Maria Faustina nacque il 25 agosto 1905, terza di dieci figli, da Marianna e Stanislao Kowalski, contadini del villaggio di Głogowiec. Al battesimo nella chiesa parrocchiale di  e Ostrówek, per mantenersi e per aiutare i genitori.Fin dal settimo anno di vita sentiva nella sua anima la vocazione religiosa, ma non avendo il consenso dei genitori per entrare in convento, cercava di sopprimerla. Sollecitata poi da una visione di Cristo sofferente, partì per Varsavia dove il 1 agosto del 1925 entrò nel convento delle Suore della Beata Vergine Maria della Misericordia. Col nome di Suor Maria Faustina trascorse in convento tredici anni nelle diverse case della Congregazione, soprattutto a Cracovia, Vilno e Płock, lavorando come cuoca, giardiniera e portinaia.All'esterno nessun segno faceva sospettare la sua vita mistica straordinariamente ricca. Svolgeva con diligenza tutti i lavori, osservava fedelmente le regole religiose, era concentrata, silenziosa e nello stesso tempo piena di amore benevolo e disinteressato. La sua vita apparentemente ordinaria, monotona e grigia nascondeva in sé una profonda e straordinaria unione con Dio.
Alla base della sua spiritualità si trova il mistero della Misericordia Divina che essa meditava nella parola di Dio e contemplava nella quotidianità della sua vita. La conoscenza e la contemplazione del mistero della Misericordia di Dio sviluppavano in lei un atteggiamento di fiducia filiale in Dio e di misericordia verso il prossimo. Scriveva: O mio Gesù, ognuno dei Tuoi santi rispecchia in sé una delle Tue virtù; io desidero rispecchiare il Tuo Cuore compassionevole e pieno di misericordia, voglio glorificarlo. La Tua misericordia, o Gesù, sia impressa sul mio cuore e sulla mia anima come un sigillo e ciò sarà il mio segno distintivo in questa e nell'altra vita.(Q. IV, 7).
Suor Maria Faustina fu una figlia fedele della Chiesa, che essa amava come Madre e come Corpo Mistico di Cristo. Consapevole del suo ruolo nella Chiesa, collaborava con la Misericordia Divina nell'opera della salvezza delle anime perdute. Rispondendo al desiderio e all'esempio di Gesù offriva la sua vita in sacrificio. La sua vita spirituale si caratterizzava inoltre per l'amore all'Eucarestia e per una profonda devozione alla Madre di Dio della Misericordia.
Gli anni della sua vita religiosa abbondarono di grazie straordinarie: le rivelazioni, le visioni, le stigmate nascoste, la partecipazione alla passione del Signore, il dono dell'ubiquità, il dono di leggere nelle anime umane, il dono della profezia e il raro dono del fidanzamento e dello sposalizio mistico. Il contatto vivo con Dio, con la Madonna, con gli angeli, con i santi, con le anime del purgatorio, con tutto il mondo soprannaturale fu per lei non meno reale e concreto di quello che sperimentava con i sensi. Malgrado il dono di tante grazie straordinarie era consapevole che non sono esse a costituire l'essenza della santità. Scriveva nel «Diario»: Né le grazie, né le rivelazioni, né le estasi, né alcun altro dono ad essa elargitola rendono perfetta, ma l'unione intima della mia anima con Dio. I doni sono soltanto un ornamento dell'anima, ma non ne costituiscono la sostanza né la perfezione. La mia santità e perfezione consiste in una stretta unione della mia volontà con la volontà di Dio (Q. III, 28).
Il Signore scelse Suor Maria Faustina come segretaria e apostola della sua misericordia per trasmettere, mediante lei, un grande messaggio al mondo. Nell'Antico Testamento mandai al Mio popolo i profeti con i fulmini. Oggi mando te a tutta l'umanità con la Mia misericordia. Non voglio punire l'umanità sofferente, ma desidero guarirla e stringerla al Mio Cuore misericordioso (Q.V,155).
La missione di Suor Maria Faustina consisteva in tre compiti:
– Avvicinare e proclamare al mondo la verità rivelata nella Sacra Scrittura sulla Misericordia di Dio per ogni uomo.
– Implorare la Misericordia Divina per tutto il mondo, soprattutto per i peccatori, in particolar modo con le nuove forme di culto della Divina Misericordia indicate da Gesù: l'immagine di Cristo con la scritta: Gesù confido in Te, la festa della Divina Misericordia nella prima domenica dopo Pasqua, la coroncina della Divina Misericordia e la preghiera nell'ora della Divina Misericordia (ore 15). A queste forme di culto e anche alla diffusione dell'adorazione della Misericordia il Signore allegava grandi promesse a condizione dell'affidamento a Dio e della prassi dell'amore attivo per il prossimo.
– Ispirare un movimento apostolico della Divina Misericordia con il compito di proclamare e implorare la Misericordia Divina per il mondo e di aspirare alla perfezione cristiana sulla via indicata da Suor Maria Faustina. Si tratta della via che prescrive un atteggia-mento di fiducia filiale, l'adempimento della volontà di Dio e un atteggiamento di misericordia verso il prossimo.
Oggi questo movimento riunisce nella Chiesa milioni di persone di tutto il mondo: le congregazioni religiose, gli istituti secolari, i sacerdoti, le confraternite, le associazioni, le diverse comunità degli apostoli della Divina Misericordia e le persone singole che intraprendono i compiti che il Signore ha trasmesso a Suor Maria Faustina.
La missione di Suor Maria Faustina è stata descritta nel «Diario» che lei redigeva seguendo il desiderio di Gesù e i suggerimenti dei padri confessori, annotando fedelmente tutte le parole di Gesù e rivelando il contatto della sua anima con lui. Il Signore diceva a Faustina: Segretaria del Mio mistero più profondo, ... il tuo compito più profondo è di scrivere tutto ciò che ti faccio conoscere sulla Mia misericordia, per il bene delle anime che leggendo questi scritti proveranno un conforto interiore e saranno incoraggiate ad avvicinarsi a Me (Q. VI, 67). Quest'opera infatti avvicina in modo straordinario il mistero della Misericordia Divina; «Il Diario» affascina non soltanto la gente comune ma anche i ricercatori che scoprono in esso una fonte supplementare per le loro ricerche teologiche. «Il Diario» è stato tradotto in varie lingue, tra cui inglese, francese, italiano, tedesco, spagnolo, portoghese, russo, ceco, slovacco e arabo.
Suor Maria Faustina, distrutta dalla malattia e dalle varie sofferenze che sopportava volentieri come sacrificio per i peccatori, nella pienezza della maturità spirituale e misticamente unita a Dio, morì a Cracovia il 5 ottobre 1938 all'età di appena 33 anni. La fama della santità della sua vita crebbe insieme alla diffusione del culto alla Divina Misericordia sulla scia delle grazie ottenute tramite la sua intercessione. Negli anni 1965-67 si svolse a Cracovia il processo informativo relativo alla sua vita e alle sue virtù e nel 1968 iniziòa Roma il processo di beatificazione che si concluse nel dicembredel 1992. Fu beatificata da Giovanni Paolo II in piazza San Pietro a Roma, il 18 aprile 1993. Le reliquie di Suor Faustina si trovano nel santuario della Divina Misericordia a Cracovia-Łagiewniki.

giovedì 4 ottobre 2012

Da il Vangelo del Giorno di oggi San Francesco d'Assisi

Da Il Vangelo del giorno
4 Ottobre. San Francesco d’Assisi
Pregando il beato Francesco sul fianco del monte della Verna,

vide Cristo in aspetto di Serafino crocefisso;
il quale gl’impresse nelle mani e nei piedi
e anche nel fianco destro
le stimmate della Croce dello stesso Signore Nostro Gesù Cristo. 
San Bonaventura


Dal Vangelo secondo Matteo 11,25-30.

In quel tempo Gesù disse: «Ti benedico, o Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai tenuto nascoste queste cose ai sapienti e agli intelligenti e le hai rivelate ai piccoli. Sì, o Padre, perché così è piaciuto a te. Tutto mi è stato dato dal Padre mio; nessuno conosce il Figlio se non il Padre, e nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio lo voglia rivelare. Venite a me, voi tutti, che siete affaticati e oppressi, e io vi ristorerò. Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per le vostre anime. Il mio giogo infatti è dolce e il mio carico leggero».

IL COMMENTO
Il riposo appartiene ai piccoli. La Terra del compimento delle promesse, lo shabbat e la pienezza della vita sono di chi è stato privato di tutto: Beati i poveri perchè di essi è il Regno dei Cieli. Noi invece ci ritroviamo sempre stanchi sotto il «giogo» della carne, nervosi, insoddisfatti. Chi di noi oggi, dinanzi a se stesso, al passato, al presente, al futuro, non si sente un «pitocco», piccolo e nullatenente? Come San Francesco al tramonto della sua vita; la stessa «fatica» e «oppressione», l’angoscia nel timore di aver sbagliato tutto, di aver capito male… L’Ordine sembrava sbriciolarsi, e quella parola ascoltata un giorno era ormai una chimera. Solo, con quell’infinito dolore, mentre il fisico indebolito e stremato pareva rimproverarlo di averlo strapazzato per nulla. Aveva inseguito un sogno, che superava di gran lunga le proprie forze. Era la notte della fede, sperimentata dai santi, noti o sconosciuti, la notte delle stimmate.
Prima o poi essa ci avvolge tutti: «affaticati» come gli ebrei schiavi in Egitto, «oppressi» come «una bestia da soma». Eppure è la notte più santa, la Pasqua dove il Signore ci ha dato appuntamento, come a San Francesco su La Verna. La fatica e l’oppressione sono la sua voce che ci sussurra «venite a me»; raggiunge la nostra carne, debole ma preparata dalla storia ad accogliere le sue stimmate, le ferite capaci di trasformarla in sangue di vita da offrire. I «sapienti» e gli «intelligenti» non conoscono «queste cose», le piaghe del dolore sono scandalo e stoltezza da combattere e sfuggire. Ma il Signore ha «voluto rivelare» a San Francesco e a ciascuno di noi il mistero del suo amore celato nella Croce. Le umiliazioni sono l’anello che ci sposa con Cristo, i dardi  che ci insegnano la sua «umiltà» e la sua «mitezza» imprimendoli nel profondo della nostra anima. E’ pura Grazia da accogliere ogni giorno prendendo su di noi il suo «giogo leggero»: le cose che sono aspre per coloro che provano affanno, si addolciscono per quelli che amano (S. Agostino).