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venerdì 4 maggio 2018

“Il paradosso dell’attesa”



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L’Osservatore Romano del 2 maggio 2018

Luciano Manicardi, priore del Monastero di Bose

“Il paradosso dell’attesa”

Anticipiamo quasi per intero l’intervento che il priore di Bose terrà alle 21 del 3 maggio inaugurando a Vicenza la quattordicesima edizione del Festival Biblico che si chiuderà il 27 maggio.
«L’attesa dice il futuro». E l’attesa prepara il futuro anticipandolo. Immaginandolo. L’attesa è una soglia. Soglia tra ora e dopo, tra oggi e domani, perfino, nell’attesa religiosa escatologica, tra tempo ed eternità. Nell’attesa il futuro, prossimo o remoto che sia, prende forma nell’immaginazione e già abita il presente almeno nella nostra mente, nel nostro spirito. Si tratti di attendere una persona cara che dovrebbe arrivare entro pochi minuti, o di attendere la fine di una guerra, o l’avvento del Regno di Dio, sempre l’attesa prepara il futuro intervenendo nel presente, operando mutazioni già nel presente.
Già queste annotazioni iniziali ci dicono il paradosso dell’attesa. Di essa abbiamo bisogno perché abbiamo bisogno di futuro. Ma oggi l’attesa è impopolare, è resa oscena, bandita dal nostro vivere, a causa delle nostre modalità patologiche di vivere il tempo segnate dall’accelerazione e dalla produttività. La tecnologia che regola il tempo e domina le nostre vite tende a creare una simultaneità perenne e una prossimità costante rendendo tutto disponibile immediatamente, qui e ora, abolendo l’attesa, giudicata «tempo morto», facendo scomparire spazi e tempi intermedi sicché vi sono soltanto due stati: il niente e il presente. Secondo questa mentalità, l’attesa è tempo non produttivo, dunque perso; l’accelerazione poi, fa scomparire i tempi intermedi di attesa necessari al superamento degli spazi intermedi così come produce l’annientamento dello spazio, la scomparsa delle distanze, della geografia. La modernità può essere letta come processo di abbreviazione dei tempi di attesa e di eliminazione di tempi e spazi intermedi.
L’attesa è poi sentita come insopportabile proprio in quanto soglia. Il “tra” che la contraddistingue è segnato da indeterminatezza, è abitato da speranza, ma anche da ansia o da angoscia se l’attesa si prolunga indefinitamente. L’attesa è anche tempo di sofferenza, di passione, di pazienza. E la pazienza è la forza nei confronti di noi stessi che ci consente di vivere l’incompiuto, di sopportare l’incompiuto che scopriamo in noi, negli altri, nella storia, nella Chiesa. L’attesa priva l’uomo del dominio e del controllo sul tempo: abituati a misurare il tempo con strumenti estremamente precisi e sofisticati che colgono anche le frazioni infinitesimali in cui si divide un secondo, cerchiamo di controllare il tempo, di possederlo, di averlo. Ma il tempo non è un possesso, non può essere complemento oggetto del verbo avere (anche se noi diciamo sempre che abbiamo o non abbiamo tempo) perché in verità nel tempo noi siamo. L’attesa ci sottrae il dominio sul tempo, e in questo è umanizzante, pur situandoci a volte nella speranza, a volte nell’angoscia, collocandoci nella soglia tra paradiso e inferno. È umanizzante perché ci libera dalla nevrosi del controllo del tempo e perché ci ricorda la nostra verità elementare: nel tempo noi siamo. La sapienza biblica esprime questa verità come affidamento al Signore: «Nelle tue mani sono i miei giorni» ( Salmi 31, 16).
Il sociologo Marc Augé ha intitolato un suo libro Che fine ha fatto il futuro? Per ritrovarlo dovremmo anche ritrovare la capacità di attendere. Che però vien messa fuori gioco, resa anacronistica, gettata fuori dal tempo, dalla nostra concezione del tempo che impone un totalitarismo del presente. La società pervasa dal dominus del consumo consuma anche il tempo. I prodotti vengono programmati per una rapida obsolescenza, per non avere durata, per essere consumati nell’oggi e per essere poi sostituiti. Il consumo rende il mondo autosufficiente: il mondo del consumo basta a se stesso, non ha bisogno di ieri né di domani, è tutto nell’oggi, nel momento stesso del consumo. Il presente è diventato egemonico. L’attesa è invece implorazione di altro e di oltre. L’attesa è preghiera.
Dove allora cercare il futuro? Il futuro forse non è così lontano da noi: c’è infatti una dimensione interiore del futuro. Se vi sono i fatti e gli eventi che rendono il futuro minaccioso e fonte di timore o addirittura ne occludono l’orizzonte, c’è anche un futuro che giace nell’interiorità, che è a portata di mano se solo si osa l’avventura della vita interiore, della conoscenza di sé, e dunque dell’educazione, del primato accordato ai valori umani. Occorre riscoprire l’otium, cioè un rapporto amicale con il tempo, e osare l’immaginazione e la creatività.
La parola latina negotium (occupazione) nega l’ otium: nec-otium. Il negotium è l’attività, il fare, ma esso è negazione del lavoro più degno che è l’attività spirituale. L’ozio, nel senso dell’otium antico, non è allora il padre dei vizi, ma della creatività. Così inteso, l’ otium non è spreco del tempo, ma rappresenta la possibilità di entrare in amicizia con il tempo, e dunque con se stessi, con la vita. L’ otium è attività personale, intellettuale, contemplativa, rapporto intenso con sé e con la realtà; non è pigrizia, ma lavoro interiore, costruzione del saldo fondamento su cui si può reggere una vita. Otium significa ritrovare e abitare il tempo. E ricordarsi che c’è una fecondità legata al non lavorare, al non fare, all’astenersi dall’agire, come nella parabola evangelica del seme che spunta da solo e che cresce, matura e porta frutto grazie sì al tempo del fare, ma anche a quello del non fare, dell’attesa, dell’assecondare i tempi della crescita (cfr. Marco 4, 26-29).
Come l’attesa, anche l’otium è inattuale, e quanto mai necessario oggi. Esso è alla sorgente di un atteggiamento contemplativo nei confronti della vita. Il consumo è l’esatto contrario della contemplazione. Il consumo non permette che ci si attardi nella contemplazione.
Solo con il coraggio di soffermarci sulle cose, di dare respiro al tempo, solo accogliendo l’invito del poeta Paul Celan quando invoca «è tempo che sia tempo», possiamo riscoprirci capaci di stupore, possiamo scoprire la durata del tempo e delle cose, possiamo legare esterno e interno, possiamo fare unità tra passato e presente, possiamo dare fiducia al futuro e fargli spazio. Solo con un atteggiamento ascetico verso il mondo e le cose queste possono consegnarci la loro bellezza.
L’immaginazione parte dalla realtà, ma combina in forme nuove elementi provenienti dall’esperienza dandone una nuova configurazione che è propriamente mentale. I prodotti dell’immaginazione, una volta che hanno preso forma, rientrano nella realtà come una nuova forza attiva e trasformatrice della realtà stessa. L’immaginazione crede al futuro: essa pensa, ipotizza e dà forma, almeno mentale, a ciò che non c’è ancora, a ciò che non è ancora. Il non ancora è proprio dell’immaginazione. Anche ciò che nel momento in cui è immaginato non può essere realizzato, comincia ad acquisire diritto e possibilità di esistenza. Comincia a entrare nel mondo abitandone il posto più importante: la mente dell’uomo. L’uomo ha mosso il primo passo sulla luna il 21 luglio 1969: sarebbe stato possibile questo evento se l’immaginazione umana non avesse già sognato e immaginato questo evento da secoli e millenni? Evento che solo a un certo punto ha potuto essere tecnicamente realizzato. Con l’immaginazione la mente umana ha potuto abituarsi pian piano a che l’impossibile divenisse possibile. L’immaginazione è creativa. Biblicamente, possiamo dire che l’uomo non è solo imago Dei, immagine di Dio, ma essendo immagine del Dio che ha immaginato e creato l’uomo e il mondo, è anche homo imaginans, dotato cioè della facoltà e della capacità di immaginare.
L’immaginazione è profetica e prepara e crea futuro. La lezione biblica qui è particolarmente interessante. I profeti hanno saputo, soprattutto nei momenti più bui della storia di Israele, immaginare un tempo futuro, il tempo messianico. Va evidenziato come già istituire l’attesa di questo futuro sia cambiare il presente aprendo orizzonti là dove prima vi era solo chiusura. Noi oggi viviamo ancora di molte di queste attese formulate dall’immaginazione profetica. Pensiamo al tempo in cui «non ci sarà più la morte» ( Apocalisse 21, 4; Isaia 25, 8); al tempo in cui «non si imparerà più a fare la guerra» ( Isaia 2, 4), ma gli uomini «forgeranno in strumenti di lavoro le loro armi» ( Michea 4, 3). C’è una grande capacità di futuro da parte delle sante Scritture dovute alla potenza dello Spirito che nutre l’immaginazione profetica e apre scenari inediti anche in momenti storici decisamente bui. In tempi in cui gli eventi, i fatti, le contingenze storiche — pensiamo all’epoca dell’esilio e della deportazione a Babilonia — chiudevano il futuro e impedivano la speranza.
Il futuro non è un fato ma una costruzione. Non potendo divinare o prevedere il futuro, occorre prepararlo. Certo, vi sono sempre l’imponderabile e l’imprevedibile, l’incertezza e l’alea, tuttavia il futuro è anche responsabilità di chi vive l’oggi, e, in particolare, responsabilità degli adulti verso i giovani, dei vecchi verso le giovani generazioni. Inutile ripetere la stanca retorica che i giovani sono il futuro del mondo e della società, se poi questo futuro viene loro negato da una società in cui gli anziani continuano a gestire il potere e non sanno né trasmettere né promettere. Promettere è dare forma di futuro al tempo suscitando un’attesa e una fiducia, perché chi fa una promessa, promette sempre se stesso, impegna se stesso. La promessa non mantenuta invece, genera sfiducia. Nella promessa si evidenzia il fatto che la responsabilità verso l’altro è anche direttamente responsabilità verso il futuro. Ecco allora il compito di padri e governanti, insegnanti e responsabili della cosa pubblica, adulti e anziani: promettere e mantenere le promesse. Così, nel contesto fiduciale creato, avverrà anche la trasmissione di esperienza che consente il travaso di autorità e il trapasso indolore tra le generazioni.
L’intera Bibbia cristiana si chiude con una promessa che in realtà apre la storia al futuro: «Sì, io vengo presto» ( Apocalisse 22, 20). E, in fondo l’intera Bibbia, è parola di promessa di Dio all’umanità. Nella Bibbia Dio si rivela come promessa.
 
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lunedì 18 dicembre 2017

L'urgenza di una vera “conversione pastorale”


AlzogliOcchiversoilCielo: 

Enzo Bianchi L'urgenza di una vera conversione


Vita Pastorale - novembre 2017
di ENZO BIANCHI
dal sito del Monastero di Bose

La chiesa di Dio che è in Italia vive un’ora che dovrebbe essere di scelte e decisioni molto importanti per il futuro della fede cristiana nella nostra terra.

Sarà capace di operare un mutamento profondo, impostole innanzitutto dalla fine di un mondo e dall’affacciarsi dei germogli di una nuova stagione? Sarà capace di quella “conversione pastorale” alla quale la chiama papa Francesco, conversione pastorale urgente perché la primavera inaugurata da papa Francesco ormai è attestata e il rischio grande è che finisca proprio per risultare estranea, anacronistica rispetto all’inedita situazione antropologica, sociale, culturale.

Sono ormai passati più di quattro anni dall’inizio del pontificato di papa Francesco: non sono pochi, considerando anche che questo papato non potrà essere lungo come quello di Paolo VI o di Giovanni Paolo II, con la conseguente possibilità di incidere per lungo tempo nella vita della chiesa cattolica. Tutti, così almeno sembra, sono convinti di questo cambiamento d’epoca, ma poi l’incamminarsi effettivo su nuovi sentieri, l’acconsentire al lutto della stagione passata, l’andare al largo su acque profonde, lasciando la calma delle baie è un’altra cosa ed è qui che a me sembra che prevalga l’inerzia, la logica del “si è sempre fatto così”, un facile provvidenzialismo scambiato per fede, il rifiuto della fatica a discernere i segni dei tempi.

Eppure papa Francesco si è rivolto alla chiesa italiana in modo puntuale e autorevole, chiedendole un mutamento preciso. Al convegno nazionale di Firenze, il 10 novembre 2015, due anni dopo la promulgazione dell’esortazione past-sinodale Evangelii gaudium, il papa ha detto: “Permettetemi solo di lasciarvi un’indicazione per i prossimi anni: in ogni comunità, in ogni parrocchia e istituzione, in ogni diocesi, in ogni regione cercate di avviare in modo sinodale un approfondimento della Evangelii gaudium, per trarre da essa criteri pratici e per attuare le sue disposizioni”. D’altronde, nell’esortazione stessa il papa aveva chiaramente manifestato il suo desiderio che fosse accolta come invito “a una nuova tappa evangelizzatrice marcata da questa gioia e indicare vie per il cammino della Chiesa nei prossimi anni” (EG 1)

Nonostante ciò, questi inviti pressanti e convinti paiono non aver avuto finora una risposta adeguata. In una recente intervista, il cardinal Bassetti ha confessato che in occasioni di due udienze il papa gli ha chiesto: “Ma l’Evangelii gaudium sta entrando nelle chiese italiane?”. Domanda imbarazzante, confessa il cardinale, alla quale ha risposto: “Un pochino...”. E il papa di rimando: “Non ho chiesto qualche rinnovamento della pastorale, vi ho chiesto una conversione pastorale!”. E qui non si può tacere l’ironia: la formula “conversione pastorale” è stata coniata proprio in Italia ed è presente in modo chiaro e significativo nel documento “Comunicare il Vangelo in un mondo che cambia”, emanato dal vescovi italiani all’inizio del terzo millennio. Perché tanta lentezza, allora? Viene da chiedersi: “Siamo ancora lì?”. Nella stessa intervista, il cardinal Bassetti dichiarava: “Nella chiesa italiana si registra una certa lentezza nella ricezione del progetto di papa Francesco e si osservano tanto chiusure!”. Giudizio pacato, ma espresso con parresia e che significativamente trova concordi altre voci nella chiesa che leggono la situazione in modo analogo. C’è un libro intelligente, molto coraggioso del biblista di Firenze Giulio Cirignano, ci sono articoli di don Giuliano Zanchi, liturgista bergamasco, di don Marcello Neri e di altri che denunciano questa situazione: il canto del gallo risuona, ma si continua a dormire. Cerchiamo di capire il perché.

Innanzitutto occorre rilevare che abbiamo alle spalle, dopo la primavera di Giovanni XXIII, del concilio e di Paolo VI, decenni in cui la chiesa italiana ha cercato sì di attuare il concilio, però non solo assecondandone un’interpretazione restrittiva, ma dimenticando l’evento concilio e lo spirito che lo animava. Per questo è stata una chiesa più impegnata ad autoconservarsi che non una chiesa estroversa, una chiesa autoreferenziale e non una in confronto fiducioso con l’umanità, una chiesa che ha tentato di far rivivere – fino a illudersi di esservi riuscita– una nuova forma di cristianità, giungendo persino negli anni attorno al 2000 a un’alleanza con il potere politico: una chiesa tentata di stemperare il cristianesimo in “religione civile”.

Don Giulio Cirignano così riassume: “Questi cinquant’anni dal concilio sono stati vissuti in Italia quasi come una mesta elaborazione del lutto”. Dal canto suo l’attuale presidente della CEI afferma che “il peccato originale è stato la poca ricezione del concilio Vaticano II nella chiesa italiana”. Così – mi sento di doverlo dire perché conosco bene e ascolto numerosi vescovi – l’episcopato italiano nella sua grande maggioranza non è ostile al papa, non lo contesterà mai, ma resta con un’altra sensibilità che gli impedisce un’obbedienza entusiasta alle sue richieste.

Tra i nuovi vescovi scelti da papa Francesco, ce ne sono alcuni che hanno inaugurato uno stile nuovo, ispirato sì dal papa, ma prima ancora dal Vangelo; tuttavia essi non sono in numero sufficiente per dare un nuovo volto all’insieme dell’episcopato italiano, anche perché continuano ad avvenire anche nomine di persone “in carriera” o impegnate soprattutto nell’attesa di una promozione. E il clero? In verità i preti sono affaticati, sempre meno numerosi e più anziani – almeno in Italia settentrionale e centrale – sovente in situazioni di povertà economica e umana: salvo alcuni, faticano ormai a entusiasmarsi per nuove forme di missione. Ecco perché è importante che ora con urgenza la chiesa italiana, a iniziare dai vescovi e dai presbiteri, assuma la responsabilità del mutamento che le è necessario per essere luce e sale in un mondo che è rimane sì indifferente al fatto religioso, ma che è anche sempre raggiungibile dal Vangelo, il quale, se ascoltato, provoca la fede.

Se si vogliono discernere e indicare le urgenze, bisogna riconoscere che sono molte, ma ve n’è una che non ho mai cessato di proclamare e che, significativamente, il presidente della CEI card. Bassetti ha evidenziato nella sua prolusione al consiglio permanente del 26 settembre scorso: l’urgenza che ogni parrocchia, comunità, chiesa locale, riconosca fattivamente la priorità, la centralità del Vangelo. Perché il Vangelo è Gesù Cristo e Gesù Cristo è il Vangelo. È il Vangelo che deve plasmare la vita del cristiano, è la vita umana di Gesù che deve ispirare la vita quotidiana del cristiano. Questo richiede che si viva un’assiduità personale con la parola di Dio e che tutto l’operare della chiesa sia obbedienza piena al Vangelo. Nella Evangelii gaudium questa egemonia del Vangelo è positivamente ossessiva perché il papa crede fermamente che “il Vangelo è potenza di Dio” (Rm 1,16), è l’energia assolutamente necessaria all’operare dei cristiani.

Questa non è teoria, non sta nel mondo delle idee astratte, ma è la condizione necessaria perché si possa evangelizzare nella compagnia degli uomini. E qui mi permetto di notare che significativamente proprio con il magistero di papa Francesco si svelano i pensieri di molti cuori: quelli dei cristiani del Vangelo e quelli dei cristiani del campanile, che al Vangelo preferiscono la tradizione culturale, l’identità cattolica. Ecco perché papa Francesco, accolto dagli italiani con entusiasmo e applausi, comincia a subire anche diffidenze e rifi
uti: perché “riguardo alla misericordia esagera”, perché “con questa accoglienza dei migranti esagera”, perché “con lui non si capisce più chi è fuori e chi è dentro la chiesa”. Parole che manifestano come la mente che le partorisce sia lontana dall’annuncio del Vangelo.

Da parte mia, mi sento di poter dire: “Finalmente assistiamo a una apocalisse!”, a un alzare il velo sulla realtà di molti che si sono sempre vantati di essere cristiani ed erano abituati ad affermarlo “contro” gli altri. Se il Vangelo torna a essere l’ispiratore della vita, allora le altre urgenze – quella di una chiesa sinodale, quella di una chiesa che includa i poveri, quella di una chiesa aperta a tutti, anche ai peccatori – saranno tenute in conto e realizzate. Allora la chiesa sarà missionaria o, meglio, ogni battezzato sarà evangelizzatore, capace di farsi ascoltare perché a propria volta esercitato all’ascolto del Vangelo e all’ascolto degli altri. Il mio vecchio e sapiente parroco, quando ancora si pregava in latino, al canto delle Lamentazioni in Settimana santa “Ierusalem, Ierusalem, convertere ad Dominum Deum tuum”, spiegava in italiano: “È l’invito rivolto alla chiesa, chiamata Gerusalemme: Chiesa di Dio, chiesa di Dio, convertiti al Signore tuo Dio!”.
L'urgenza di una vera conversione




Luciano Manicardi La vita interiore: è ancora possibile oggi?