Maria raccomanda che la S. Bibbia sia posta in casa in un posto prominente e che sia letta ogni giorno.
"Cari figli! In questo tempo in modo particolare vi invito: pregate col cuore. Figlioli, voi parlate tanto ma pregate poco. Leggete, meditate la Sacra Scrittura e le parole scritte in essa siano per voi vita. Io vi esorto e vi amo perché in Dio troviate la vostra pace e la gioia di vivere.
Grazie per aver risposto alla mia chiamata.
Messaggio da Medjugorje a Marija del 25/02/12.
Santa Maria,
...donna del primo sguardo, donaci la grazia dello stupore.
Incontro di spiritualità a Firenze con il Cardinale Gianfranco Ravasi, Presidente Pontificio Consiglio della cultura su Beatitudine: “Sperimentiamo la felicità solo quando siamo poveri nello spirito”.
Incontro promosso dall'Ufficio catechistico dell’Arcidiocesi di Firenze nell’ambito del consueto annuale ciclo per sacerdoti e laici che quest'anno hanno avuto come tema il discorso che Papa Francesco ha tenuto nella Cattedrale di Santa Maria del Fiore nel 2015 in occasione del quinto Convegno Ecclesiale che aveva come titolo "In Cristo il nuovo umanesimo".
"Una certa donna, di nome Marta, lo ricevette in casa sua. Or ella aveva una sorella che si chiamava Maria, la quale si pose a sedere ai piedi di Gesù, e ascoltava la sua parola. Ma Marta, tutta presa dalle molte faccende, si avvicinò e disse: «Signore, non t'importa che mia sorella mi abbia lasciata sola a servire? Dille dunque che mi aiuti». Ma Gesù, rispondendo, le disse: «Marta, Marta, tu ti preoccupi e ti inquieti per molte cose; ma una sola cosa è necessaria, e Maria ha scelto la parte migliore, che non le sarà tolta». E' un passo noto del Vangelo di San Luca (10,38-42) che mi fa meditare. Sono convinto che anche Maria cucinasse e servisse, ma aveva capito chi era Gesù. Quando Gesù torna da loro perché Lazzaro era morto, Marta è la prima che va incontro a Gesù e gli risponde correttamente sulla fede nella risurrezione dei morti, ma Gesù scoppia in pianto solo quando vede piangere Maria: un altro segno della sintonia fra Gesù e Maria. Racconta infine San Giovanni (12,1-3): "Gesù, sei giorni prima della Pasqua, si recò a Betania dove abitava Lazzaro, colui che era morto e che egli aveva risuscitato dai morti. E qui gli fecero un convito; Marta serviva e Lazzaro era uno di quelli che erano a tavola con lui. Maria allora prese una libbra di olio profumato di nardo autentico di gran prezzo, ne unse i piedi di Gesù e li asciugò con i suoi capelli". La differenza fra Marta e Maria non sta nella maggiore attitudine di Marta al lavoro ma nella sensibilità di Maria che capisce che "una sola cosa è necessaria". Non basta che io faccia cose buone. Devo dedicare a Gesù l'amore e l'attenzione che merita. A Marta il rimprovero di Gesù ha fatto bene.
del film Gesù di Nazareth, grande capolavoro di Zeffirelli, Matteo va ad incontrare Gesù, ma viene respinto da Pietro perché è diventato un pubblicano, un esattore delle tasse che ha tradito il proprio popolo; Gesù chiede allora a Matteo se può essere ospite a casa sua e Pietro rimane scandalizzato; Ma Gesù ha un motivo per farlo... redimere e salvare Matteo e gli altri peccatori, e, aprire gli occhi anche a Pietro e agli altri "giusti" per riconciliarli.
Questo ovviamente non vuol dire che allora uno può essere "libero di peccare tranquillamente..."
La parabola più bella, la storia di un padre e dei suoi due figli, così unici, così diversi.
Come figlio ho già dato, e allora oggi studio da padre.
Guardo il quadro di Rembrandt, guardo quel padre e imparo. La divinità del nostro Dio sta tutta nella sua umanità, si, un tutt’uno divino-umano, stupefacente! Un povero vecchio, dalla barba lunga, dai bei vestiti ricamati, col suo mantello porpora, mezzo cieco. Nel suo volto non si può non notare il suo sguardo socchiuso, quasi sognante. Ebbene si, i suoi occhi sono “dentro”, la sua vista è eterna, spazia sull’umanità intera, che sa vedere ognuno di noi, in ognuno di noi un figlio, un figlio da comprendere con compassione…solo con compassione. Ma quanto è pazzo un padre che piange tanto da consumarsi gli occhi, pur di lasciare andare un figlio incontro alla sua vita! “L’amore lascia liberi” assume in questa parabola il suo aspetto divino, e mai più si potrà pensare diversamente, mai più. Ma questo è amore…divino, così diverso dal nostro umano, sempre a cercar conferme, a legare a se, a forzare e costringere… Scendi ora da quel volto divino-umano e soffermati a guardare le sue mani: siamo al centro del dipinto e sembra che gli occhi del padre siano un tutt’uno con quelle mani, e lì la luce si ferma, quasi a dipingere due arcobaleni con quelle braccia. Ma l’arcobaleno del perdono divino non ha fine, contrariamente ai nostri. La luce ha preso casa in quelle mani e non ha idea di andarsene, perché in quelle mani il perdono si dipinge indelebilmente nella storia. In quelle mani un padre e un figlio sembrano riposare insieme: la sinistra è forte e muscolosa, mano d’uomo che incoraggia, che infonde forza con quelle sue dita aperte quasi a coprire l’intera spalla: non pare anche a te che quella mano non solo tocchi, ma quasi sorregga la spalla? Quella destra invece è delicata, raffinata, quasi una piuma posata sul centro della schiena, vicino al cuore. Mano di donna, di madre, di amante, che accarezza, consola, calma. Chissà quale delle due trasmette vera fortezza (in pranoterapia è la mano destra che trasmette energia, mentre la sinistra la riceve solo: ma la vera energia di cui ha bisogno un figlio sperduto qual’ è se non l’amore incondizionato!) Ali di chioccia, si ali rosse, del colore che ha la lunghezza d’onda più lunga di tutti gli altri colori, il colore primario più vivo, quello della passione, del cuore, del sangue: ecco il mantello del padre. Che bello dev’essere poter star accucciati all’ombra di tal mantello, cuore di Dio che avvolge nel suo abbraccio, sangue dello stesso sangue che ridona vita con tutta la sua passione. Imparerò da questo padre…imparerò!
Fra Giorgio Bonati
Aforisma del giorno
L’uomo alla ricerca di sé domanda spazi di silenzio per divenire in definitiva egli stesso oasi di silenzio.
Si avvicinava la Pasqua e Gesù salì a Gerusalemme. Trovò nel tempio gente che vendeva buoi, pecore e colombe e, là seduti, i cambiamonete. Allora fece una frusta di cordicelle e scacciò tutti fuori dal tempio, con le pecore e i buoi; gettò a terra il denaro dei cambiamonete e ne rovesciò i banchi, e ai venditori di colombe disse: «Portate via di qui queste cose e non fate della casa del Padre mio un mercato!». I suoi discepoli si ricordarono che sta scritto: Lo zelo per la tua casa mi divorerà. Gv 2, 13-25Ogni volta che la casa del Padre si trasforma in piazza di mercato, egli la distrugge per crearne una più corrispondente alla verità e grandezza della coscienza umana che, pur vivendo nel tempo, è chiamata a vivere nell’eternità. L’episodio della purificazione del tempio è emblematico di quello che i credenti sono chiamati a compiere nel loro tempio personale prima, e in quello comunitario dopo. Poniamoci davanti al nostro tempio: le nostre convinzioni, lo stato della nostra coscienza, le nostre più segrete ambizioni, le nostre chiusure di mente e di cuore, e abbattiamo quanto in noi nasce dalla carne e dal sangue. In mezzo alle macerie vedremo la mano di Cristo eliminare quanto è stato manipolato dall’uomo e sostituirlo con nuovi materiali che lui solo edifica. In questa ricongiunzione del nostro essere personale con la Parola eterna che costruisce il suo tempio tra i figli dell’uomo, vivremo, sperimentandole nella nostra carne, le energie del Risorto.
Uno dei brani del Vangelo di Luca più toccante e più rappresentato, ad esempio in pittura, è indubbiamente il passaggio della cena ad Emmaus. Due discepoli lungo la strada da Gerusalemme a Emmaus, che nella Bibbia è indicata come una località a sette miglia (e non sette km) dalla città Santa si imbattono in Cristo risorto. Non lo riconoscono e lo invitano a fermarsi con loro per la notte. Nel momento in cui l'ospite spezza il pane viene immediatamente riconosciuto, ma scompare.Tratto dall'omonimo romanzo di Pino Farinotti, il film di Claudio Malaponti prende le mosse dal suddetto passaggio di fondamentale importanza per il mondo cristiano, ma attualizzandolo e collocandolo ai giorni nostri. Alessandro Forte è un pubblicitario che attraversa una profonda crisi interiore e sulla via di Emmaus si imbatte proprio in Gesù, che si offre di guidarlo e di prenderlo come nuovo discepolo, affidandogli una serie di missioni. Siccome la comunicazione è tutto al giorno d'oggi Gesù appare nella forma stabilizzata dalla tradizione, come un uomo barbato dai lineamenti delicati e vestito di tonaca, un tipo di rappresentazione che aveva una forte attrattiva nel mondo greco-giudaico proto-cristiano, perché coincideva con la figura del rabbino/filosofo
Il rischio dell'indifferenza, che è il marchio della società contemporanea, è quello di ignorare, di rimanere inerti. L'assenza di Dio è vissuta con turbamento e travaglio anche dal credente. Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato? (Salmo 22). La fede comprende anche l'assenza, il silenzio, lo sconcerto.
È certamente la proposta di lettura biblica più ampia tra quelle finora suggerite in questa rubrica. La stiamo dedicando già dalla scorsa settimana a Qohelet - Ecclesiaste, il sapiente dell’Antico Testamento che fa balenare idealmente davanti ai nostri occhi sette malattie dello spirito che sono ancor oggi attuali. La prima riguarda il linguaggio: «Tutte le parole sono logore e l’uomo non può più usarle» (1,8). L’idea è straordinariamente moderna, se pensiamo all’attuale crisi del linguaggio, alle parole “malate”, a quelle “nere”, cioè prive di senso e abusate, alle ragnatele della chiacchiera e dei luoghi comuni. In ebraico, però, considerata l’efficacia del termine, debarim, “parole”, significa anche “fatti”: le cose sono stanche, si disfanno, «tutto nella vita diventa logoro: parole e situazioni. Tutte le parole sono già state dette» - così il romanziere ebreo austriaco Joseph Roth nel Mercante dei coralli. E la parola stampata corre lo stesso rischio: «Si fanno libri e libri senza fine» (12,12). Lo scrittore ebreo di lingua tedesca Elias Canetti nel suo romanzo "Auto da fé" introduce Qohelet: «Una voce annuncia - questa voce sa tutto ed è la voce di Dio -: Qui non ci sono libri. Tutto è vanità». Persino il linguaggio visivo e musicale si stempera: «Mai l’occhio è sazio di vedere, mai l’orecchio è sazio di sentire. Eppure quel che è stato sarà, quel che si è fatto si rifarà: assolutamente niente di nuovo sotto il sole!» (1,8-9). La seconda malattia è quella del fare o, come ama dire Qohelet, dell’amai, del “faticare”, per cui il lavoro è labor, cioè “fatica”, alienazione, travaglio (il travail francese!). Siamo ben lontani dall’entusiasmo mostrato dalla sapienza biblica tradizionale nel descrivere le capacità eccezionali dell’uomo lavoratore. La domanda d’avvio del libro è lapidaria: «Quale valore ha tutta la fatica che affatica l’uomo sotto il sole?» (1,3). Sembra di sentire il Petrarca del Trionfo della morte: «O ciechi, e il tanto affaticar che giova?». Di nuovo in 2,18: «Io ho in odio ogni fatica di cui io ho faticato sotto il sole», parole messe in bocca a Salomone! E poche righe dopo: «Io ho il cuore invaso dalla disperazione per tutta la fatica con cui ho faticato sotto il sole» (2,20), fatica destinata a dissolversi nello spreco degli eredi. E ancor più forte la domanda diviene in 5,15: «Che valore ha faticare per il vento?». A confessarlo è Salomone, delle cui spoglie si ammanta Qohelet, che aveva fatto «opere magnifiche, si era eretto palazzi, si era piantato vigne, preparato giardini e parchi, piantandovi alberi dai mille frutti, si era scavato canali d’acqua per irrigare quelle piantagioni lussureggianti, si era allevato mandrie di buoi e di pecore più numerose di tutte quelle dei suoi predecessori in Gerusalemme, aveva accumulato anche argento e oro, tesori di regni e di province» (2,4-8). Terza malattia: la crisi dell’intelligenza. Qohelet è un sapiente, uno scriba, un intellettuale, come dice anche l’epigrafe finale (12,9-10), disprezza la stupidità; per ben ottantacinque volte introduce le sue riflessioni in prima persona, consapevole di una sua originalità di pensiero. Eppure il risultato finale del conoscere è amaro: «La mia mente è penetrata profondamente nella sapienza e nella scienza. Sì, la mia mente è penetrata nella sapienza e nella scienza, nella follia e nella stupidità e ho capito che anche questo è fame di vento. Infatti, grande sapienza è grande tormento; chi più sa più soffre»(1,16-18).
Più di 1500 versetti dell'Antico Testamento sono "bagnati" dalle acque e per 397 volte è jam, il "mare", a dilagare. Tuttavia sbaglierebbe chi volesse mettersi davanti alle pagine sacre marine con quell'atteggiamento di serena contemplazione, di requie, di pace che forse alcuni nostri lettori stanno sperimentando lungo una spiaggia mentre scorrono queste righe.il Mare e la Bibbia (in www.vatican.va)più di 1500 versetti dell'Antico Testamento sono "bagnati" dalle acque e per 397 volte è jam, il "mare", a dilagare. Tuttavia sbaglierebbe chi volesse mettersi davanti alle pagine sacre marine con quell'atteggiamento di serena contemplazione, di requie, di pace che forse alcuni nostri lettori stanno sperimentando lungo una spiaggia mentre scorrono queste righe. È questo un equivoco in cui sono caduti molti esegeti che hanno ricondotto il tema del mare al bacino semantico più vasto delle "acque", in ebraico majim (582 volte nell'Antico Testamento). Emblematico è, ad esempio, lo sterminato Grande Lessico del Nuovo Testamento che nella sua quindicina di volumi non trova spazio per la voce thálassa, "mare", e si accontenta di hydor, "acqua". Al massimo ci s'interessa del mar Rosso o mar delle Canne, del mar Morto, del mare di Galilea (il lago di Tiberiade), del "Mare" per eccellenza che è il Mediterraneo (nella Bibbia la locuzione "verso il mare" sta per "occidente"), del "mare di bronzo", il grande bacino di acqua lustrale del tempio di Salomone (80.000 litri di capacità). E se è robusta la bibliografia sull'acqua biblica, segno vitale e catartico, per il mare dobbiamo in pratica ancor oggi far riferimento solo al saggio di Otto Kaiser, intitolato Die mythische Bedeutung des Meeres in Ägypten, Ugarit und Israel, pubblicato a Berlino nel 1959 e riedito nel 1962. Sì perché il mare per l'antico Vicino Oriente è stato prima di tutto e sopra tutto un grandioso simbolo negativo, una categoria espressa con un vocabolo che a Ugarit, celebre città cananea della Siria, era il nome stesso di una divinità, Jamn appunto, che attentava allo splendore del cosmo e duellava col dio della creazione Baal. In questa linea si collocano i sinonimi come tehom, l'abisso acquatico primordiale da cui era sbocciata la terra, o le "molte acque", majim rabbim che trascinavano con sé diluvio e morte. Difficile è, perciò, per l'uomo biblico sostare davanti al mare su un litorale e cantare, come fa Luzi, "il mare fermo sotto il volo dei gabbiani sfrangiato appena tra gli scogli dell'isola, dove una terra nuda si fa ombra con le sue gobbe". Un'eccezione c'è ed è nello stupendo "cantico delle creature" del Salmo 104, da alcuni raccordato all'Inno ad Aton del faraone "monoteista" solare Akhnaton. In un bozzetto di straordinaria intensità pittorica anche i famosi mostri marini come Leviatan (o Rahab o Behemot o Tannin), simboli del caos e del nulla, partecipano a una festa di vita e di pace: "Ecco il mare ampio e spazioso, là brulicano innumerevoli animali piccoli e grandi; là passano le navi e il Leviatan che hai plasmato per tuo divertimento" (versetti 25-26). In questo spirito nel corale cosmico del Salmo 148, intonato da 22 creature tante quante sono le lettere dell'alfabeto ebraico anche il mare è invitato a intonare il suo halleluia: "Lodate il Signore mostri marini e voi tutti abissi!" (versetto 7).Ma questa è una piacevole eccezione. Nella Bibbia il mare incombe arcigno, come nel tempestoso canto V dell'Odissea, allorché "si sciolsero a Odisseo le ginocchia e il cuore" o come nella turbinosa scena del I canto dell'Eneide (versi 81-123) o come in tanti altri passi "procellosi" della letteratura classica. Tutto era cominciato con la creazione allorché "Dio Disse: Le acque che sono sotto il cielo si raccolgono in un solo luogo e appaia l'asciutto. E così avvenne. Dio chiamò l'asciutto terra e la massa delle acque mare" (Genesi 1,9-10). La bellezza del mondo ("Dio vide che era cosa buona e bella") riposa su questo equilibrio instabile, frutto dell'atto creativo, tra la terraferma e il mare che è visto come un'esplosione in superficie del grande abisso sotterraneo, il tehom appunto (la divinità Tiamat negativa mesopotamica), che è il sottofondo "infernale" della mappa cosmologica biblica. Il Creatore ha steso una frontiera tra i due esseri in tensione, mare e terra: è la battigia del litorale. Lo dice in modo superbo Dio stesso nel libro di Giobbe, comparando il mare a un bimbo turbolento stretto nelle fasce delle nubi e a un prigioniero inchiavardato in un carcere di massima sicurezza: "Chi serrò tra due battenti il mare quando erompeva a fiotti dal suo grembo materno, quando gli davo per manto le nubi e per fasce la foschia, quando spezzavo il suo slancio imponendogli confini, spranghe e battenti, e gli dicevo: Fin qui tu verrai e non oltre, qui si abbasserà l'arroganza delle tue onde?" (38,8-11). Un'idea, questa, ripetuta nel canto autocelebrativo che la Sapienza divina creatrice proclama nel capitolo 8 del libro dei Proverbi: "Quando stabiliva al mare i suoi confini sicché le sue acque non oltrepassassero la spiaggia io ero con lui (il Creatore)", (versetti 29-30). Dante nel Convivio parafraserà il testo: "Quando (Dio) circuiva lo suo termine al mare e poneva legge a l'acque che non passassero li suoi confini con lui io era" (III, 15,16). Stare, perciò, sul bagnasciuga vuol dire per l'antico ebreo vivere un'esperienza simile a quella di chi s'affaccia su un cratere vulcanico, colto quasi da vertigine. Esperienza ben diversa da chi ora sta ammirando il giuoco delle onde, come aveva fatto Montale in un suo bel distico: "Una carezza disfiora la linea del mare e la scompiglia". Il diluvio nel libro della Genesi è, allora, visto come lo scardinamento di quell'equilibrio cosmico perché alle acque celesti si incrociano quelle del mare, lasciato libero da Dio di impazzare sulla terra: "e ruppero tutte le sorgenti del grande abisso e le cateratte del cielo si aprirono" (7,11). È per questo che il mare viene iscritto nella panoplia con cui il Dio giudice condanna l'umanità peccatrice: "È lui che comanda alle acque del mare, dichiara il profeta Amos (5,8) e le spande sulla terra". Gli fa eco Geremia: "Il Signore degli eserciti solleva il mare e ne fa mugghiare le onde" (31,35). In versetti e versetti della Bibbia la potenza divina si dispiega in tutta la sua infinità proprio dominando il mare e tenendo saldo l'organico della creazione, con la terra come una piattaforma sospesa su colonne sopra l'abisso caotico marino. È per questo che nell'esodo d'Israele dall'Egitto Dio prima impone al mare di bloccarsi come muraglia, obbedendo al suo potente imperativo (Esodo 14,22), e poi scatenandolo come arma del suo giudizio sugli oppressori egiziani: "Al soffio della tua ira si accumularono le acque, si alzarono le onde come un argine, si rappresero gli abissi in fondo al mare. Soffiasti col tuo alito: il mare li coprì, sprofondarono come piombo in acque profonde" (Esodo 15,8.10). Suggestiva è la rielaborazione poetica dell'evento offerta dal Salmo 114: "Il mare vide e si ritrasse indietro.. Che hai tu, mare, per fuggire?" (versetti 3,5). Esemplare è, al riguardo, la scena evangelica della tempesta sedata ove Cristo, identificato ormai col Signore Creatore, attacca il mare come se fosse un essere diabolico, riprendendo una classica concezione mitica, e lo sottopone a un esorcismo: "Sgridò il vento e disse al mare: Taci, calmati! Furono presi da grande timore e si dicevano l'un l'altro: Chi è costui al quale anche il vento e il mare obbediscono?" (Marco 4,39. 41). Se noi, dunque, ci tuffiamo in mare come in una specie di grembo sereno, l'uomo biblico vi penetra con terrore sentendolo quasi come il sudario della morte. Dio solo può strapparlo da quelle fauci, come canta Davide nel Salmo 18: "Stese la mano dall'alto, mi afferrò, mi sollevò dalle grandi acque mi portò al largo, mi liberò perché mi vuol bene" (versetti 17 e 20). Dio solo può "con una minaccia prosciugare il mare: i suoi pesci, per mancanza d'acqua, restano all'asciutto, muoiono di sete" (Isaia 50,2). A questa ripulsa nei confronti del mare contribuì, certo, anche la configurazione della costa palestinese piuttosto rettilinea: solo Salomone organizzò una flotta di bandiera, usando tecnici fenici, la cui competenza era celebre in tutto il Mediterraneo.Israele fu, infatti, un popolo di santi, di eroi, di poeti ma non di navigatori. Se ne ricordano di famosi solo tre e tutti sfortunati. C'è innanzitutto Giona il profeta renitente alla sua missione, che si imbarca su una nave fenicia diretta a Tarshish (forse Gibilterra o la Sardegna) per sfuggire all'ordine divino che lo invia all'antipodo, cioè a Ninive, e che incappa in un terribile fortunale.Il delizioso racconto, una specie di favola morale di taglio universalistico comprende, come è noto, anche il ricorso ai mostri oceanici mitici, l'enorme pesce che inghiotte il misero per tre notti e tre giorni. Dal ventre del mostro Giona riesce anche a cantare un salmo "marino": "Mi hai gettato nell'abisso, nel cuore del mare, tutti flutti e le onde sono passate sopra di me. Le acque mi hanno sommerso fino alla gola, l'abisso mi ha avvolto, l'alga si è avvinta al mio capo" (2,4.6.).Sarà l'Onnipotente a comandare al cetaceo di vomitare Giona su una spiaggia. Su una spiaggia, quella di Malta, andrà ad approdare coi suoi compagni di avventura anche Paolo, al termine di un uragano scatenatosi sul Mediterraneo mentre veniva trasferito a Roma per il processo d'appello. Chi ama racconti di mare alla Conrad dovrebbe leggere il capitolo 27 degli Atti degli Apostoli con la sua pittoresca descrizione della vicenda vissuta da Paolo su una nave oneraria romana. Lo stesso Apostolo confesserà di "aver fatto naufragio tre volte e di aver trascorso un giorno e una notte in balia delle onde" (2 Corinzi 11,25). Ma è con un terzo navigatore, questa volta anonimo, che vogliamo concludere il nostro breve viaggio sui flutti marini della Bibbia. Nel Salmo 107 entrano in scena quattro personaggi che nel tempio di Gerusalemme stanno sciogliendo i loro voti. C'è un carovaniere che aveva smarrito la pista nel deserto e l'aveva ritrovata, c'è un carcerato liberato, c'è un malato grave guarito. Alla fine si alza a pronunciare il suo ex-voto un marinaio e il suo è il racconto più emozionante. Il Siracide, sapiente biblico del II secolo a.C., riconosceva che "i naviganti parlano dei pericoli del mare e a sentirli coi nostri orecchi restiamo stupiti" (43,24).Ascoltiamo anche noi il marinaio devoto. "Coloro che solcavano il mare sulle navi facendo commerci sulle acque immense, videro le opere del Signore e i suoi prodigi nelle profondità marine. Egli parlò e fece levare un vento tempestoso che sollevò le onde. Salivano al cielo, scendevano negli abissi, il respiro veniva meno per il pericolo. Ballavano e barcollavano come ubriachi, tutta la loro perizia era svanita. Nell'angoscia gridarono al Signore ed egli li estrasse da quell'angustia. Ridusse la tempesta alla calma, s'acquetarono le onde del mare. Giorino per la bonaccia ed egli li guidò al porto sospirato" (versetti 23-30). Théophile Briant nella sua antologia Les plus beaux textes sur la Mer, pubblicato a Parigi nel 1951, ha inserito questa strofa accanto ai classici delle tempeste marine, dai citati Omero e Virgilio, ad Alceo e Ovidio. Potremmo pensare anche all'Ulisse dantesco: "Un turbo nacque, e percosse del legno il primo canto. Tre volte il fe' girar con tutte l'acque; a la quarta levar la poppa in suso e la prora ire in giù, com'Altrui piacque, infin che 'l mar fu sopra noi rinchiuso" (Inferno XXVI, 137-142). Ma per la Bibbia, come si è ripetuto, non c'è solo il terrore primordiale dell'uomo di fronte alle energie scatenate della natura.Non c'è solo l'esperienza fisica dello stordimento e del mal di mare, usata tra l'altro dal libro di Proverbi per dipingere ironicamente l'ondeggiare dell'ubriaco: "Sarai come chi giace in mezzo al mare, come chi siede sull'albero maestro" (23,24). C'è, invece, l'emozione tutta metafisica dell'incontro col nulla; c'è la sensazione raggelante dell'abbraccio con gli inferi e con la morte.È per questo che nella nuova e perfetta creazione escatologica il mare scomparirà: "Vidi un nuovo cielo e una nuova terra, annota Giovanni nell'Apocalisse perché il cielo e la terra di prima erano scomparsi e il mare non c'era più". (21,1) [cardinale, Prefetto Biblioteca Ambrosiana, Milano Il mare e la Bibbia http://www.cercasiunfine.it/meditando/scelti-da-noi/sul-tema-mare-n.-71-di-cercasi-un-fine
Vedi anche
Diventare uomini diventare cristiani
Sorella Alessandra Buccolieri http://irc2.vicenza.chiesacattolica.it/documenti/didattica/documentiamoci/Relazione%20sr.%20Buccolieri.pdf
Dopo tanti anni avere ancora tante cose da dirsi, dalle più futili alle più gravi, senza andare a sceglierle, senza il desiderio di meravigliare o di essere ammirati. Che meraviglia! È a c c a d u t o spesso anche a m e , c o m e a molti miei lettori, d i i n c o n t r a r e coppie anziane che hanno alle s p a l l e a n c h e mezzo secolo di matrimonio, che h a n n o a t t r a v e r s a t o prove di ogni genere, ma che c o n s e r v a n o intatta la gioia di stare insieme, di c o n d i v i d e r e piccole e grandi cose, di sentirsi completi solo se l'altro è accanto a sé. Li vediamo passeggiare nei parchi cittadini sostenendosi con p r e m u r a reciproca, pronti a condividere n o n s o l o l e p a r o l e m a anche i silenzi. E' q u e s t a l a «meraviglia» che d i p i n g e l o scrittore francese François Mauriac (1885-1970) nel suo Diario. Una meraviglia ben d i v e r s a e g r a n d i o s a rispetto a quella delle nozze di divi, calciatori o principi, alonate di pubblicità, di r i c c h e z z a , d i sguaiata allegria. S i è t a l o r a pessimisti ai nostri giorni riguardo al matrimonio e alla sua tenuta, e anche a ragione. M a q u e s t o accade perché e s s o n o n è costruito sulle fondamenta rocciose, a cui alludeva Gesù in una celebre parabola, bensì sulla sabbia dell'immediatezza dei sentimenti, dei contatti dei corpi, della superficialità delle relazioni. Eppure sono tante le coppie serie e generose che testimoniano le parole di Mauriac con la loro vita. Anzi, in quella pagina lo scrittore continuava con un'altra osservazione che è consolante (basta solo aver occhi attenti per trovarne conferma): «L'amore coniugale che persiste attraverso mille vicissitudini, mi sembra il più bello dei miracoli, benché sia anche il più comune».
I primi a credere nella resurrezione di Gesù
sono stati due innamorati:
Maria Maddalena
e Giovanni, il discepolo che Gesù amava
Leggerezza è un atto di Fede,
in Qualcuno che non consegna
nessuna delle tue cose al caso,
e se ti toglie qualcosa,
ti rende qualcos’altro di egual valore.
Leggerezza è un atto di Amore,
è permettere a qualcun altro
di amarti e di aver cura di te.
Leggerezza è un atto di Speranza,
è quando non sei definito dagli errori del passato,
né dai problemi del presente,
né dal futuro che ti aspetta e che aspetti.
Non ho più dimenticato un bellissimo dialogo tra la giornalista Oriana Fallaci e Alekos Panagulis, che lei ricordava così: Alekos credeva in Dio.Una volta io gli dissi: “Dio è un punto interrogativo”e lui mi rispose: “No, un punto esclamativo”È il punto esclamativo dello stupore, della meraviglia verso Qualcuno che ci affascina. È il punto esclamativo sulla vita e sui giorni che sa mettere chi si sente amato e ama, chi spera nonostante tutto, chi è capace di condivisioni generose e apparentemente assurde, appassionate e temerarie, di chi mette al centro la sapienza insieme a un pizzico di follia. È il punto esclamativo per il nostro Dio … Dio è proprio là dove non sembrerebbe a nessuno di doverlo trovare:Dio è là dove non sembra essere Dio: come sulla Croce! È proprio lui, quando pare impossibile che sia lui. (Alessandro Pronzato)Ci lasciamo educare allora da alcuni punti esclamativi che abbiamo la fortuna e la gioia di poter sperimentare nel mese di novembre. LA FOLLIA DELLE BEATITUDINIIl primo novembre la liturgia ci fa ricordare solennemente Tutti i Santi, quei santi che non hanno nome, ma che nella loro vita hanno creduto, amato, sperato, vissuto il Vangelo quotidianamente. Non sono solo i santi del passato, ma anche quelli del presente: molti di loro sono qui in mezzo a noi oggi, li conosciamo e riconosciamo perché sanno vivere la “follia” delle Beatitudini, quel brano di Vangelo (Matteo 5,1-12) che ogni primo novembre si proclama durante la S. Messa. Leonardo Sciascia scriveva: “Io mi aspetto che i cristiani qualche volta accarezzino il mondo in contro pelo”. Per abitare la terra i cristiani hanno accettato il manifesto più stravolgente e contro mano che si possa immaginare: “Beati i poveri, felici gli inermi, i miti, i perseguitati, i misericordiosi, i puri” … costa fatica seguirlo, ma produce speranza.(Ermes Ronchi) Santi sono coloro che sanno farci intravedere l'eternità malgrado l'opacità del tempo. Assomigliano a vetrate colorate che rivelano tutta la loro bellezza non solo quando c’è il sole, ma anche quando cala l’oscurità perché hanno luce dentro. Santi sono coloro che si fidano di Gesù e del suo Vangelo e lo cantano con la loro vita. ...oggi leggo le beatitudini... leggo, non predico. Le beatitudini non si predicano: non sono per gli altri. Nessuno può darle a parole. Se le predico, tutti notano che io ne sono fuori. Cristo no, lui solo parla dal di dentro di ogni beatitudine: lui povero, mite, pacifico, misericordioso, lui il percosso, il morente... Che non si possano predicare l'ho capito bene in un lontano Ognissanti, quando mi fu imposto dietro minaccia: Tu prete oggi non predicherai... E quel giorno il prete ha letto soltanto: ma nel leggere egli piangeva e gli altri piangevano. Le parole che hanno la virtù di far piangere, o di gioia o di vergogna, non si predicano...(don Primo Mazzolari) UN DUELLO CHE SI FA ABBRACCIOIl calendario corre e subito dopo il giorno dei Santi, la Liturgia ci chiede un salto, che sembra essere un salto nel vuoto, nell’abisso. Ci chiede di far memoria dei Defunti. Di colpo siamo spinti a pensare ad un eterno duello: quello fra la vita e la morte, dove sembra sempre la morte a vincere, dove vincono le lacrime … L'antico salmista ebreo cantava: «Le mie lacrime, o Dio, nell'otre tuo raccogli: non sono forse scritte nel tuo libro?» (Salmo 56,9). Dio è raffigurato come un pastore che avanza nel deserto tenendo sulle spalle un otre, «il pozzo portatile» come lo chiamano i beduini, con la riserva d'acqua che permette di sopravvivere prima di raggiungere l'oasi. È, quindi, uno scrigno di vita, prezioso e custodito con cura. Ebbene, il Signore nel suo otre raccoglie le nostre lacrime, spesso ignorate dagli altri e ignote ai più. Esse non cadono nella polvere del deserto della storia, dissolvendosi nel nulla. C'è Dio che le depone nel suo otre conservandole come fossero perle. (mons. Gianfranco Ravasi) Il duello tra la vita e la morte si può trasformare in un abbraccio in cui a vincere è la vita, è il bene: questa è la forza della speranza cristiana. Vedi, oggi pomeriggio un caro amico mi accompagnerà a fare una passeggiata. Io non sto mica a chiedergli dove andremo, non sto mica a farmi spiegare cosa troverò. Così penso all’incontro con Dio. È un amico. E io mi fido di lui.(Arturo Paoli) IL DESIDERIO DELL’INCONTROTempo di Avvento e ci si rimette in cammino per la visita natalizia alle famiglie. Ci si rimette in cammino con tanti desideri in cuore, soprattutto con il desiderio dell’incontro. Con uno stile che amo “rubare” all’episodio di Mosè e del roveto ardente narrato nel libro dell’Esodo. A Mosè è chiesto di togliersi i calzari davanti a quel luogo sacro. Nell’avvicinarsi agli altri è chiesto lo stesso atteggiamento alla Chiesa e a ogni cristiano: togliersi i calzari. Perché ogni uomo, in qualunque situazione, è un “luogo sacro” e Dio è già in ogni uomo ben prima del nostro arrivo. Con uno stile che ci insegna quotidianamente papa Francesco: imparare a vedere ogni persona come Dio la vede, imparando a curvarsi sulle ferite, a condividere le speranze, i sogni, il bisogno di giustizia e insieme di tenerezza, imparando a dare tempo … Amare significa anche avere tempo.Chi ama, non tiene il proprio tempo solamente per sé;nel suo tempo si inserisce l'altro.Chi ama ha, per così dire, un'agenda, uno scadenziario particolare.Vuole avere più tempo possibile per l'altro.(Klaus Hemmerle) ïïïïïHo scelto per la copertina dell’informatore un quadro del pittore surrealista polacco Rafal Olbinski. È un paesaggio impossibile e chissà quale significato vuole comunicare... Quando l’ho visto ho pensato così: chi ha nelle proprie radici, nel più profondo del proprio essere, un “amore che canta”, come gli uccellini del quadro, chi da dentro “punti esclamativi” porta in dono a tutti frutti speciali, porta luce … don Mirko Bellorawww.donmirkobellora.it