EDIZIONI QIQAJON COMUNITÀ DI BOSE 1988
PREMESSA
Gesù ha insegnato ai discepoli a rivolgersi a Dio come al Padre, e la Chiesa a sua volta ci ha trasmesso il Padre Nostro, preghiera che ci fa entrare nella preghiera stessa di Gesù. In essa è raccolta tutta la ricchezza liturgica della Chiesa, l'intero suo patrimonio ascetico e spirituale, segno del nostro incontro con Cristo e della nostra vita in Lui.
Olivier Clément è nato in un ambiente scristianizzato del Sud della Francia e ha ricevuto il battesimo in età adulta nella Chiesa Ortodossa dopo una lunga ricerca attraverso l'ateismo. È autore di numerose opere consacrate alla storia e al pensiero della Chiesa Ortodossa, alle fonti della Chiesa indivisa, e alla testimonianza dell'Evangelo nella cultura contemporanea.
Benoit Standaert, monaco benedettino di St. André di Bruges, è attualmente uno dei più preparati esegeti di Nuovo Testamento. A una profonda conoscenza delle lingue e degli ambienti biblici unisce un acume spirituale e una fede nel Cristo risorto che trasformano i suoi commenti esegetici in eco fedeli dell'unica Parola di vita.
A questi due uomini di preghiera, animati dal medesimo Spirito, ci siamo affidati perchè ci introducessero a una lettura orante del Padre Nostro, attraverso due itinerari avvincenti per la loro forza interiore e per l'apertura del cuore che producono. Il Padre Nostro cessa di essere una semplice formula di preghiera e diventa il gemito dello Spirito in noi, la chiave di lettura dell'intera vicenda umana alla luce della volontà di Dio.
Il Padre Nostro è la preghiera
che Gesù ha trasmesso ai suoi discepoli,
e che la chiesa, a sua volta, ci trasmette.
Abbiamo così accesso alla preghiera di Gesù,
che ne costituiva l'essere stesso.
Bisogna infatti rendersi conto
che tutta la ricchezza liturgica della chiesa,
l'intero suo patrimonio ascetico e spirituale,
non sono altro che il simbolo
del nostro incontro con Cristo
e della nostra vita in Cristo.
La chiesa non ci trattiene per sé,
ci conduce a Cristo.
E Cristo non ci trattiene per sé,
ci conduce al Padre.
Benoit Standaert
LA PREGHIERA AL PADRE
INTRODUZIONE
Prima di sottoporre a un' analisi critica il testo più antico conservatoci per il Padre Nostro, è bene presentare brevemente un modello di lettura giudaico. Il modello è stato elaborato nel medioevo ma è molto probabilmente di stampo ancora più antico (1). Nella lettura vengono distinti quattro livelli, seguendo le quattro consonanti della parola PaRaDiSo - in ebraico: PaRDeS -. "Pardes" è un antico termine persiano che significa "giardino" (cf. Qo 2.5). Chi oltrepassa i quattro livelli arriva in paradiso! Si trova nel giardino dove fiorisce "l'albero della conoscenza"! Riceve quindi la vera conoscenza, quella dei primordio I quattro livelli si strutturano pertanto come una scala che dà accesso a una comprensione più alta, più profonda, più vasta, tanto del senso delle Scritture quanto del senso dell'esistenza e dell'intera creazione.Pshat: è il livello del senso letterale, chiamato anche il senso storico. Qui si cercano i referenti fattuali del testo. La loro verità è situata all' esterno del testo ed è questa che si cerca di cogliere: come un fatto oggettivo, un dato. O c'è o non c'è. Vero o falso, sì o no; o anche, nel linguaggio estremamente ridotto di un computer: 0 o 1.Remez: significa accenno, allusione, rimando. Un testo ne evoca un altro, una parola un' altra citazione. La memoria si arricchisce, le associazioni hanno libero corso, e il campo evocato da un testo viene in tal modo a formare un tutto coerente. Qui hanno il loro posto le letture strutturaliste. Figure, strutture, patterns e il gioco di relazioni reciproche appartengono a questo livello di lettura.Darash: significa letteralmente: cercare. Qui compare per la prima volta un soggetto, un cercante che interrogando incalza il testo, e si lascia interrogare dal testo. Il vero livello di questo tipo di cercare - chiamato anche midrash - è etico. L'interrogare è in funzione del corretto agire all'interno della reciproca relazione tra i due.Sod è poi il quarto e ultimo livello: il mistero. Qui entriamo in un rovesciamento di prospettive: il cercante riconosce di essere un cercato; un altro Soggetto sembra essere già prima il soggetto cercante. Il conoscere è un essere conosciuto nel profondo.Pshat, Remez, Darash e Sod sono quattro diverse forme di libertà e un massimo di controllo. Nel Sod il rapporto è inverso: un massimo di libertà senza il minimo controllo. Si narra di Rabbi Akiba che tre dei suoi scolari riuscirono ad arrivare fin dentro il Sod: il primo però - rapito in estasi vi perse la vita; il secondo divenne pazzo - perse la ragione -; il terzo diventò un eretico - perse la retta fede -. Il primo uscì dalla comunità dei vivi; il secondo lasciò la compagnia della sana ragione e il terzo oltrepassò i limiti della comunità dell'ortodossia. Questo per illustrare che il Sod è un livello particolare, dove il pericolo di perdere ogni controllo è reale! Solo R. Akiba entrò nel Pardes e ne tornò indietro vivo, con le sue facoltà intellettuali e in conformità con la retta fede! Resta la domanda: come gli riuscì?Nello Pshat ci si trova per lo più dinanzi a un'alternativa: ciò che è così non può essere diversamente: bianco o nero. Si deve essere rigorosi e alla fine arrivare a un "tutto o niente". Una cosa è accaduta o non è accaduta. Nel Sod non c'è nulla che sia solo ciò che è. C'è sempre molto di più di tutto ciò che si possa pensare o immaginare (cf. Ef 3.20).Luca è il maestro del Remez. Benché in lui si trovino anche gli altri tre livelli, egli brilla soprattutto là dove comunica allusivamente il suo messaggio. Il discorso di Stefano in Atti 7 raggiunge forse una vetta in questo genere: egli non dice nulla di suo, le sue parole sono tutte prese a prestito. Chi ha orecchi, intenda! Matteo esercita come nessun altro il livello del Darash. Ciò è evidente in particolare nel racconto dell'infanzia; ma soprattutto dove egli unisce al suo racconto citazioni scritturistiche c'è spazio per un midrash penetrante. In Giovanni tutto è guidato da un Sod comunicato nel prologo: "La Parola è divenuta carne" . Senza questa chiave, molto di ciò che Giovanni ha da dire suona in qualche modo vuoto, estraneo, astratto. Illuminato dall'interno da questa unica intuizione, ogni mezzo versetto è un intero annunzio. E Marco? il rabbino che ci propose queste prime tre identificazioni esitò un attimo. Marco sembra essere puro Pshat e a prima vista unicamente fattualità storica, ma la diretta percezione di un grande mistero - Sod - attraversa il suo racconto e precede ogni comunicazione. In ogni tratto l'evangelista ci annunzia la pienezza dell'irruzione messianica.Questo modello ebraico di lettura è prezioso ogniqualvolta si legge un testo o ci si pone un problema. Ora che vogliamo studiare criticamente il Padre Nostro, ed eserciteremo piuttosto largamente lo Pshat, non dobbiamo perdere d'occhio la ricca sensibilità per gli altri livelli. C'è verità a ogni livello, però in maniera ogni volta diversa!
I CINQUE PADRE NOSTRO
Intendiamo innanzitutto risalire, nella misura del possibile, all' origine di questa preghiera. Per continuare a dire questa preghiera, dobbiamo avere un'idea precisa della funzione che aveva quando fu composta e delle modifiche nelle funzioni cui ha potuto andare soggetta nella sua trasmissione. La ricerca dell' origine è qui rivolta in primo luogo all' atto stesso del pregare. Come dobbiamo pregare queste parole: come un salmo? come un inno? come una preghiera liturgica introduttiva? come una giaculatoria per uso privato? La questione della situazione linguistica iniziale e del relativo genere letterario è d'importanza capitale per poter continuare a pronunziare oggi questa preghiera con autenticità e fedeltà.Matteo e Luca
Padre nostro che sei nei cieli
sia santificato il tuo Nome
venga il tuo Regno
sia fatta la tua volontà come
in cielo così anche in terra
il nostro pane, l'epiousion,
da' a noi oggie rimetti a noi i nostri debiti
come anche noi li rimettiamo
ai nostri debitorie non farci entrare nella Prova
ma liberaci dal Maligno.
Padre
sia santificato il tuo Nome
venga il tuo Regnoil nostro pane, l'epiousion,
continua a darci
ogni giorno di nuovo
e rimetti a noi i nostri peccati
anche noi infatti sempre li
rimettiamo a chiunque
ci è debitoree non farci entrare nella Prova.
Ogni analisi storico-critica del Padre Nostro comincia con la comparazione delle due versioni: quella di Matteo (6.9-13) e quella di Luca (11.2-4).* Dove Matteo scrive: "Padre nostro che sei nei cieli", Luca ha solo: "Padre".* La prima e la seconda richiesta si presentano in entrambi rigorosamente identiche: "Sia santificato il tuo Nome, venga il tuo Regno (2).* La terza richiesta: "Sia fatta la tua volontà, come in cielo così anche in terra" non ha parallelo in Luca.* La quarta e quinta richiesta matteana presentano alcune leggere differenze tra i due. "Il pane nostro, 1'epiousion, dacci oggi", scrive Matteo, dove il verbo ("da' "), all' aoristo, esprime in certo qual modo un pressante appello: dacci immediatamente, "oggi". In Luca la stessa parola si trova nella forma greca del presente ("continua a darci"), il che esprime una sfumatura di estensione nel tempo; e qui Luca non reca "oggi", ma "ogni giorno di nuovo". La forma del presente conviene bene a questa espressione temporale distributiva (cf. Lc 19.47; At 17.11). Per il resto entrambe le versioni hanno gli stessi termini, tra cui anche il misterioso "epiousion" che provvisoriamente non tentiamo ancora di tradurre.Nella preghiera successiva Matteo parla di "debiti", laddove Luca reca "peccati". "Debito" è una metafora; "peccato" è un termine puramente religioso. Il secondo membro di questa preghiera viene elaborato sintatticamente dalle due versioni in maniera abbastanza diversa. In Matteo la costruzione sintattica è più spedita: "come anche noi li rimettiamo...". In Luca questa diventa una frase subordinata, causale: "perché anche noi li rimettiamo...". L'idea di debito fa la sua comparsa anche in Luca in questa parte di frase, ma in una forma stilistica alquanto diversa: "a chiunque ci è debitore (di qualcosa)", laddove Matteo più semplicemente scrive: "ai nostri debitori".
* La sesta richiesta è rigorosamente parallela nelle due tradizioni: "e non farci entrare nella Prova"* La settima invece è attestata solo in Matteo: "ma liberaci dal Maligno".* In molti, ma recenti manoscritti del vangelo di Matteo si trova a conclusione del Padre Nostro la nota dossologia: "perché Tuo è il Regno e la potenza e la gloria nei secoli. Amen" (cf. 1Cr 29.11-12; Sal 22.28-29) (3).Ciò che più colpisce nella comparazione è certo il fatto che tre elementi compaiono nell'uno e non nell' altro: "sia fatta la tua volontà come in cielo così anche in terra"; "e liberaci dal Maligno"; e nell'invocazione: "(Padre) nostro che sei nei cieli". La differenza fa del Padre Nostro una preghiera costituita nell'uno da sette invocazioni, mentre l'altro ne conta solo cinque. In entrambi i casi il numero forma una cifra "tonda": cinque come le cinque dita di una mano (i cinque libri della T 0rah; le cinque parti del salterio; i cinque rotoli delle feste (più tardivi); ecc.); sette come i sette giorni della settimana (i sette doni dello Spirito in Is 11.1 ss.; i sette spiriti dell'Apocalisse, Ap 4.5; 5.6; il candelabro a sette bracci per la preghiera nel T empio, ecc.).D'altra parte la struttura e il movimento del tutto non vengono fondamentalmente modificati dalle omissioni o dalle aggiunte. Tanto in Matteo che in Luca incontriamo quattro elementi:
a. l'invocazione
b. richieste nella forma di desideri che concernono in primo luogo la natura e l'azione proprie di Dio (tre in Matteo; due in Luca)
c. richieste nella forma di una preghiera di domanda che stanno direttamente in connessione con la vita degli oranti stessi (due in Matteo; due in Luca)
d. appello finale come un grido di estrema miseria (in forma doppia in Matteo; semplice in Luca).
Le relativamente numerose piccole differenze tra le due versioni e la struttura fondamentale comune permettono di concludere che entrambi i testi attuali in uno stadio anteriore devono essere derivati da una formula comune. Della versione matteana possediamo un parallelo da non trascurare nel Padre Nostro quale lo ha trasmesso la Didachè (cf. n. 3). Con la dossologia conclusiva questa versione costituisce un formulario costruito in maniera equilibrata e matura, adatto per una preghiera delle ore, tre volte al giorno. La versione di Luca non sembra essere una forma consapevolmente abbreviata di una composizione più lunga come quella trasmessa da Matteo. Con le sue cinque richieste si presenta anch'essa come un tutto equilibrato, ma sorprendentemente conciso e diretto. Dal punto di vista del contenuto, trovano indubbiamente espressione alcuni dei tratti più essenziali della predicazione di Gesù e dell'identità cristiana: il nome Padre, il Regno, il pane e il perdono, la liberazione escatologica. L'ultima richiesta resta in qualche modo sorprendente: la preghiera non viene conclusa da una lode o da un ringraziamento, ma resta sospesa in un pressante grido di miseria.A questo punto dell'analisi - un'impresa orientata essenzialmente allo Pshat! - si può porre la domanda: chi ha composto il testo originario che sta alla base delle due versioni? Abbiamo qui a che fare con una ben ponderata composizione di alcune richieste essenziali, realizzata dai primi cristiani stessi, mediante la quale cercavano appoggio in Gesù per la predicazione e la preghiera? O è veramente una formula di preghiera consegnata da Gesù ai suoi discepoli, organicamente composta da lui stesso?
Rileviamo ancora tre punti.
1. La libertà con cui la tradizione rappresentata dal vangelo di Matteo tratta il modello originario fa riflettere. La formula tramandata appariva suscettibile di completamento e miglioramento, il che lascia intravedere che la sua riconosciuta autorità non dev'essere stata assoluta."Abba, Padre,tutto è possibile per Te allontana da me questo calice
2. La parola epiousion che le due versioni hanno in comune è in greco un termine estremamente ricercato. Viste le molte differenze tra i due testi, è difficile supporre che Luca abbia conosciuto Matteo o viceversa. Se si suppone che le due versioni fossero reciprocamente indipendenti, allora il testo base comune dev'essere stato anch'esso in greco. Il testo è solo una traduzione di una preghiera ebraico-aramaica? Oppure una comunità di lingua greca è responsabile di questo antichissimo formulario per la preghiera in cinque richieste?
3. Le dichiarazioni introduttive al Padre Nostro tanto in Luca che in Matteo (e così pure nella Didachè!) indicano che la formula di preghiera che viene trasmessa deve distinguere i discepoli da altri raggruppamenti religiosi. In Matteo la contrapposizione riguarda in particolare i pagani e il giudaismo farisaico. Nel contesto siriaco per il quale è stato scritto il vangelo di Matteo, questa duplice distinzione è oltremodo pertinente. In Luca si accenna all'ambiente dei discepoli di Giovanni Battista. In entrambi i casi, alla formula presa in sé viene pertanto riconosciuta una funzione sociologica. Quando è diventato d'importanza vitale questo bisogno di distinguersi da altri gruppi giudaici? Già al tempo di Gesù, oppure nelle prime generazioni in cui si formarono le comunità cristiane? Gesù, preoccupato di riunire tutte le tribù d'Israele - ne è testimone l'istituzione dei Dodici durante la sua vita non pare raffigurarsi i suoi discepoli come un nuovo gruppo all'interno d'Israele. Anche nel primo gruppo giudeo-cristiano una tendenza del genere non è riconoscibile. Questa non orienta nella direzione dei primi credenti "ellenisti" e della loro organizzazione in qualche modo appartata (cf. soprattutto At 6.1 ss.)?
Su questa questione di Pshat vogliamo ora fare dei passi avanti esercitando un po' di Remez. Il confronto con una serie di passi paralleli in Marco e Giovanni e l'analisi dell'invocazione "Abba" nell'epistolario di Paolo possono aiutarci a mettere ulteriormente a fuoco la questione.
Marco In nessun passo del vangelo di Marco Gesù dà ai discepoli qualcosa di simile a una formula esemplare di preghiera. Tuttavia il noto Padre Nostro di Matteo e Luca echeggia anche nel testo di Marco. Oppure l'eco che dobbiamo percepire va proprio nel senso contrario? Comunque sia, almeno due passi sono qui degni di nota:a. Nell'orto degli Olivi - il podere che porta il nome di Gethsemani (Mc 14.32) - Gesù esorta espressamente i discepoli alla preghiera, così come pure annunzia di andare anche lui a pregare (v. 32; vv. 34,38,39). Questa comune veglia di preghiera corrisponde alla tradizionale veglia notturna dei giudei, la haburah con alcuni amici nella notte di Pasqua, la veglia che racchiude in sé tutte le altre veglie. In Marco questa evocazione svolge un ruolo tutto particolare, come testimonia tra l'altro il grande c. 13, le cui ultime parole costituiscono pure un'esortazione a vegliare (vv. 33-37). Vegliando, il credente vede da vicino l'evento liberatore escatologico: il ritorno trionfale del Figlio dell'uomo (13.24-27; cf. 8.38-9.1; 14.61 s.). Questa ora di liberazione è immediatamente preceduta da un'opprimente ora di "dolori del parto" (13.8), di paura e tremore, di terrore mortale (14.34,35). In questo contesto udiamo Gesù "pregare che, se possibile, quest'Ora passasse via da lui" (v. 35):
ma non ciò che io voglio ma ciò che (vuoi) Tu" (Mc 14.36).
Inoltre vediamo Gesù visitare ripetutamente i suoi discepoli ed esortarli
alla veglia e alla preghiera:
"Vegliate e pregate, per non entrare nella Prova" (v. 38).
Diversi elementi di questa pagina colpiscono per la loro coincidenza con il Padre Nostro tradizionale.
1. Innanzitutto l'invocazione: "Abba, Padre" (cf. Lc 11.2). Molto verosimilmente la più antica tradizione aramaica aveva trasmesso l'invocazione ripetuta - "abba, abba" - e i primi cristiani ellenisti hanno tramandato l'espressione in parte in aramaico, in parte in greco (4).
2. Il terzo desiderio nella versione matteana "sia fatta la tua volontà come in cielo così anche in terra" - coincide con le parole di Gesù al Gethsemani: "non ciò che io voglio, ma ciò che (vuoi) Tu". In Matteo la coincidenza diviene ancor più notevole per il fatto che nel ripetere la preghiera nell' orto degli Olivi l'evangelista usa la stessa formulazione del Padre Nostro: "sia fatta la tua volontà" (Mt 26.42).
3. Alla fine viene poi l'esortazione: "... pregate per non entrare nella Prova". Queste parole ci portano immediatamente dentro la richiesta finale del Padre Nostro: "e non farci entrare nella Prova". La metafora è identica nei due casi: la tentazione è rappresentata come uno spazio dinanzi al quale si arretra con la paura di dovervi entrare.
4. Si può inoltre notare che l'invocazione in Marco viene immediatamente arricchita da una professione dell'onnipotenza del Padre (cf. in Mc: 10.27; anche 9.23 e 11.23; inoltre nella Scrittura: Gen 18.14; Gb 42.2; Zc 8.6 (LXX)). Qualcosa di simile è presente anche nel Padre Nostro, in parte nell'espressione" che sei nei cieli" , in parte nei primi tre desideri concernenti il Nome, il Regno e la Volontà.
5. Un'ultima coincidenza tra il testo di Marco e l'elaborato Padre Nostro secondo Matteo si trova nella struttura. Gli elementi che si corrispondono si trovano nella stessa successione e compiono un movimento analogo.
Tutto questo fa pensare. Questa antichissima presentazione esemplare del Gesù orante nella sua agonia costituisce la remota origine del Padre Nostro nella sua forma in cinque parti, oppure viceversa il Padre Nostro esistente ha influenzato questa scena in modo che i cristiani, pregando con questa formula, si ricordassero come Gesù pregò nella sua Pasqua ed esortò gli apostoli a pregare con Lui? Da questa analisi risulta in ogni caso una reciproca forza di attrazione, e questo arricchisce l'orizzonte entro il quale i primi cristiani solevano pregare le parole del Padre Nostro.b. Un secondo passo nel vangelo di Marco che presenta un contatto inequivocabile con il Padre Nostro tramandato è il versetto 11.25:"E quando state in preghiera,perdonate se avete qualcosa contro qualcuno,affinché anche il Padre vostro che è nei cieliperdoni a voi le vostre trasgressioni".Ciò che nel Padre Nostro viene espresso direttamente in forma di preghiera, lo ritroviamo qui nella forma di una catechesi sulla preghiera. L'intuizione del legame indissolubile tra l'essere perdonati da Dio e il donare il perdono ad altri è comune a entrambi i testi (cf. anche Mt 18.23-34; Lc 6.36-38; Sir 28.2; ecc.). Le "trasgressioni" non sono né i "debiti" di Mt 6.12, né i "peccati" di Lc 11.4, ma compaiono come tali anche in Matteo, proprio nel passo argomentativo che segue il Padre Nostro: Mt 6.14-15! Anche l'espressione "il Padre vostro che è nei cieli" ci porta in prossimità del discorso della montagna matteano. La questione rimane: è questa dottrina sul perdono e la catechesi sulla preghiera, che la segue, ad aver dato forma alle cinque richieste del Padre Nostro, oppure la formula di preghiera sta all' origine di questi logia catechetici? La questione dovrà essere risolta in un contesto più ampio.GiovanniCome in Marco, così anche in Giovanni non troviamo nulla che assomigli a una formula di preghiera trasmessa da Gesù ai suoi discepoli. Tuttavia il Padre Nostro sembra avere lasciato tracce addirittura più profonde che in Marco. Non c'è nessuno, del resto, che si sia occupato del concetto di "Padre" e del rapporto tra "cielo" e "terra" quanto Giovanni.* "Salgo al Padre mio e Padre vostro, al Dio mio e Dio vostro" (20.17). Sono le parole del Risorto a Maria Maddalena, che ella deve trasmettere ai discepoli. Grazie alla resurrezione, ci dice l'evangelista, d'ora in poi possiamo pregare all'unisono con il Gesù risorto: "Padre nostro", e in Lui siamo anzi "fratelli" l'uno dell' altro: "va' a dire ai miei fratelli..." (Gv 20.17; cf. Mt 28.10, dove pure ricorre il termine "fratelli". Giovanni ha reinterpretato il passo a modo suo).* "Dacci oggi il nostro pane 'quotidiano' o 'necessario per vivere' ", così preghiamo con le comunità di Matteo e Luca. Anche Giovanni medita sul pane - "il vero", che viene "dal cielo", che è stato "dato" non da Mosè ma dal Padre. "Dacci sempre di questo pane" (6.34) è l'invocazione degli ascoltatori di Gesù durante la sua spiegazione. Giovanni conosce dunque apparentemente la quarta richiesta e radicalizza a suo modo la domanda di pane (o anche della manna - il modello biblico per eccellenza del pane donato quotidianamente!). Fa dire a Gesù in tutta immediatezza: "lo sono il pane della vita" (6.35).* Ma soprattutto nel c. 12 il Gesù orante arriva vicinissimo a ciò che abbiamo trovato sia in Marco che negli altri due sinottici.
L'autentica agonia o lotta mortale di Gesù, quale i sinottici ce la narrano nel Gethsemani, in Giovanni è trasferita nel c. 12 e combinata con ricordi della Trasfigurazione (cf. Mc 9.2 ss.). Gesù parla dell'Ora che adesso è finalmente giunta (Gv 12.23; cf. Mc 14.35,41). Ammette il suo turbamento (cf. Mc 14.34!) e prega:
"Ora però la mia anima è agitata,
e che cosa dirò?
Padre, risparmiami quest'ora?
ma proprio per questo sono giunto a quest'ora.
Padre, glorifica il tuo Nome".
Allora venne una voce dal cielo:
"L'ho glorificato e di nuovo lo glorificherò" (12.27 s.).
e che cosa dirò?
Padre, risparmiami quest'ora?
ma proprio per questo sono giunto a quest'ora.
Padre, glorifica il tuo Nome".
Allora venne una voce dal cielo:
"L'ho glorificato e di nuovo lo glorificherò" (12.27 s.).
I rapporti tanto con la scena del Gethsemani in Marco quanto con il Padre Nostro sono molteplici. La situazione è analoga: la preghiera ci è trasmessa al momento della Pasqua di Gesù - "l'Ora di tornare da questo mondo al Padre" (cf. 13.1 ss.). Egli invoca Dio due volte con l'espressione "Padre". Conosce anche la paura del dover entrare nella Prova - qui raffigurata come "l'Ora" - e prega: "risparmiami quest'Ora", ciò che equivale alla formulazione sinottica: "non farmi entrare nella Prova" (cf. anche Mc 14.35: "pregava che quell'Ora passasse via da lui"). Ma questo momento viene superato, ed Egli prega ora apertamente: "Padre, glorifica il tuo Nome". Qui siamo inequivocabilmente richiamati alla prima richiesta del Padre Nostro. Così in questa breve scena di Gv 12 ritroviamo la prima e l'ultima richiesta del Padre Nostro in cinque parti, con l'invocazione lucana "Padre".Almeno altri tre passi dello stesso vangelo vengono evocati da questi versetti di Gv 12.27-28.a. In primo luogo il confronto con Lazzaro sepolto da quattro giorni in 11.32-44. Vi ritroviamo il turbamento, seguito da una preghiera liberatrice. Gesù "volge intorno gli occhi e dice":"Padre,Ti ringrazio perché mi hai ascoltato.Sapevo che sempre mi ascolti, ma l'ho detto per via del popolo presente, affinché possano credere che Tu mi hai mandato" (vv. 41-42).Si confronti con Mc 14.36:
"Tutto è possibile a ,Te", e Mc 11.24.b. Nel giardino, sull' altra riva del torrente Cedron (Gv 18.1), Gesù dice a Pietro al momento dell' arresto:
"Il calice che il Padre mi ha dato,non lo berrò?" (18.11).
Qui siamo di nuovo vicinissimi a Marco (" Allontana da me questo calice, ma non ciò che io voglio ma ciò che (vuoi) Tu"), e anche alle parole di 12.27 s.: "Risparmiami quest'Ora, ma proprio per questo sono giunto a quest'Ora".
c. Infine c'è ancora la grande preghiera di Gv 17. Qui Giovanni riprende l'ultima espressione della preghiera del c. 12 e la sviluppa in una grande intercessione con cinque strofi elaborate. "Padre, glorifica il tuo Nome" diviene ora: "Padre, glorifica il tuo Figlio affinché il Figlio ti glorifichi" (17.1 ss.). La glorificazione del Nome del Padre ha luogo nella e attraverso la glorificazione del Figlio. Del resto il nome stesso di "padre" implica la relazione essenziale con un "figlio". Il Figlio stesso glorifica il Nome del Padre nella e attraverso la sua estrema dedizione d'amore fino al legno della croce. La strofe centrale di questa grande preghiera approfondisce ancora la tradizionale espressione "santificare il Nome":
"Santificali nella verità. (...)
Per loro io santifico me stesso
affinché siano anch'essi santificati nella verità" (17.17-19).
Nella stessa strofe si parla inoltre anche del Maligno:
"Non ti chiedo che Tu li tolga dal mondo,
ma che li custodisca dal Maligno" (17.15).
In base a tutto ciò possiamo supporre che le richieste tradizionali del Padre Nostro non siano ignote a Giovanni, e che egli le rispecchi e interpreti a suo modo. Il contesto in cui egli per eccellenza fa pregare Gesù è lo stesso che in Marco: la Pasqua, l'ora del passaggio da questo mondo al Padre."Il calice che il Padre mi ha dato,non lo berrò?" (18.11).Qui siamo di nuovo vicinissimi a Marco (" Allontana da me questo calice, ma non ciò che io voglio ma ciò che (vuoi) Tu"), e anche alle parole di 12.27 s.: "Risparmiami quest'Ora, ma proprio per questo sono giunto a quest'Ora".c. Infine c'è ancora la grande preghiera di Gv 17. Qui Giovanni riprende l'ultima espressione della preghiera del c. 12 e la sviluppa in una grande intercessione con cinque strofi elaborate. "Padre, glorifica il tuo Nome" diviene ora: "Padre, glorifica il tuo Figlio affinché il Figlio ti glorifichi" (17.1 ss.). La glorificazione del Nome del Padre ha luogo nella e attraverso la glorificazione del Figlio. Del resto il nome stesso di "padre" implica la relazione essenziale con un "figlio". Il Figlio stesso glorifica il Nome del Padre nella e attraverso la sua estrema dedizione d'amore fino al legno della croce. La strofe centrale di questa grande preghiera approfondisce ancora la tradizionale espressione "santificare il Nome":"Santificali nella verità. (...)Per loro io santifico me stessoaffinché siano anch'essi santificati nella verità" (17.17-19).Nella stessa strofe si parla inoltre anche del Maligno:"Non ti chiedo che Tu li tolga dal mondo,ma che li custodisca dal Maligno" (17.15).In base a tutto ciò possiamo supporre che le richieste tradizionali del Padre Nostro non siano ignote a Giovanni, e che egli le rispecchi e interpreti a suo modo. Il contesto in cui egli per eccellenza fa pregare Gesù è lo stesso che in Marco: la Pasqua, l'ora del passaggio da questo mondo al Padre.La lettera agli Ebrei
Che nel ricordo dei primi cristiani la Pasqua di Gesù e in particolare l'ultima veglia debba essere stata un particolare momento di preghiera, appare anche da un breve passo della lettera agli Ebrei."Egli che nei giorni della sua esistenza mortale (lett.: della sua carne) con alte grida e con lacrime ha rivolto preghiere e suppliche a Colui che aveva potere di salvarlo dalla morte, e che per la sua devozione è stato esaudito, egli ha - benché fosse il Figlio - imparato a ubbidire alla scuola della sofferenza..." (Eb 5.7-8).L'agonia di Gesù, quale ce l'hanno tramandata tanto Marco (c. 14) che Giovanni (c. 12), sembra da questo testo essere stata innanzitutto una lotta di preghiera, indirizzata a Colui "che tutto può" e in particolare può "salvare dalla morte" (cf. Mc 14.36; Gv 12.27), un processo di sofferenza in cui è stata determinante la resa della volontà, la libertà nell' obbedienza. La lettera agli Ebrei sottolinea qui inoltre che la qualità di Figlio propria di Gesù mai forse è stata messa tanto alla prova come in quest'Ora, ma anche mai si è espressa con tanta purezza come nella libera invocazione: "Abba, Padre" .PaoloNel suo epistolario Paolo menziona due volte di passaggio l'invocazione di Dio come Padre "Abba" .Nella lettera ai Galati l'apostolo si sofferma sulla fili azione che con la venuta di Gesù è entrata nella storia, per liberare tutti coloro che stanno sotto la schiavitù della Legge. Egli argomenta: "E la dimostrazione che siete figli, è che Dio ha inviato nei nostri cuori lo Spirito del suo Figlio che grida: Abba, Padre. Così non siete più schiavi, ma figli" (GaI 4.6-7).Nella lettera ai Romani Paolo analizza la nuova esistenza nello Spirito - un' esistenza di giustizia e pace, di riconciliazione e libertà. "Quanti sono condotti dallo Spirito di Dio, questi sono figli di Dio. Non avete infatti ricevuto di nuovo uno spirito di schiavitù che vi infonde timore, ma avete ricevuto lo spirito della filiazione, nel quale gridiamo: Abba, Padre. Lo Spirito stesso testimonia insieme con il nostro spirito - cioè conferma nella nostra propria coscienza - che siamo figli di Dio" (8.14-16).Colpisce in questi due testi che Paolo abbia conservato l'antica espressione aramaica: "Abba", raddoppiata mediante la traduzione greca. Qualcosa di simile abbiamo incontrato anche in Marco nel racconto della Passione. Qui ci troviamo chiaramente in presenza di una tradizione la quale consapevolmente vuol trasmettere, senza segnalarlo, una parola di Gesù. Che prima di essa venga usato ogni volta il forte verbo krazo ("gridare"), è molto notevole. Anche Gesù ha più volte ripetuto il nome di suo Padre durante la sua agonia "con alte grida e lacrime" (cf. Eb 5.7 e Mc 14.35 ss.).L'invocazione del Nome viene presentata in entrambi i testi come il frutto dell' attività dello Spirito. "Abba" non è dunque solamente un termine cifrato trasmesso di generazione in generazione , ma il grido d'invocazione comunicatoci dallo Spirito riversato nei nostri cuori. Al ricevimento dello Spirito viene donato anche di pronunziare l'invocazione "Abba", e questo implica la coscienza e la consapevolezza che partecipiamo alla filiazione di Gesù. Dall' ampio contesto dell' epistolario di Paolo appare che in noi questo Spirito costantemente prega, supplica, "geme", vale a dire perora e parla in nostro favore (cf. soprattutto Rm 8.26-27; cf. anche 2Cor 3.18).
Ciò che Paolo interpreta così concisamente corrisponde indiscutibilmente a un' esperienza quanCiò che Paolo interpreta così concisamente corrisponde indiscutibilmente a un' esperienza quanto mai precisa. Per via del termine "ricevere" (Rm 8.15), possiamo situare questa esperienza nell'iniziazione o rito battesimale. Dal punto di vista catechetico, il battesimo consisteva nel fatto che nella e attraverso l'acqua si compiva insieme con Gesù la sua Pasqua e il suo passaggio dalla morte alla vita. Così facendo si riceveva anche, sull' altra riva del processo della morte, lo Spirito della Figliolanza. In questo momento viene anche trasmessa la preghiera "Abba" di Gesù, con la spiegazione che d'ora in poi lo Spirito che ha animato Gesù e lo ha fatto risuscitare dai morti ha preso dimora in noi (cf. Rm 8.9-11!).
Ciò che troviamo attestato in Paolo in maniera netta ma estremamente concisa rimarrà custodito per secoli nella pratica dei primi cristiani. Il Padre Nostro appartiene alla chiesa battesimale. Può essere pregato solo da chi, grazie al rito battesimale, ha ricevuto lo Spirito della Figliolanza. È significativo che già la Didachè collochi il Padre Nostro proprio dopo le norme sull' amministrazione del battesimo e prima delle osservazioni sulla prassi della preghiera nell' eucaristia.
Per quanto breve, la testimonianza di Paolo ci fornisce l'accesso al livello del Sod nel Padre N 0stro. Lo Spirito che in noi prega e bramoso grida: "Abba, Padre" raggiunge il livello più profondo di ciò che può verificarsi recitando la preghiera tramandata.Ciò che troviamo attestato in Paolo in maniera netta ma estremamente concisa rimarrà custodito per secoli nella pratica dei primi cristiani. Il Padre Nostro appartiene alla chiesa battesimale. Può essere pregato solo da chi, grazie al rito battesimale, ha ricevuto lo Spirito della Figliolanza. È significativo che già la Didachè collochi il Padre Nostro proprio dopo le norme sull' amministrazione del battesimo e prima delle osservazioni sulla prassi della preghiera nell' eucaristia.Per quanto breve, la testimonianza di Paolo ci fornisce l'accesso al livello del Sod nel Padre N 0stro. Lo Spirito che in noi prega e bramoso grida: "Abba, Padre" raggiunge il livello più profondo di ciò che può verificarsi recitando la preghiera tramandata.Alcune considerazioni
Dallo Pshat al Remez siamo infine giunti nel Sodo Partendo dalla comparazione di Matteo e Luca, attraverso Marco e Giovanni siamo finiti a Paolo. Il campo si è allargato in tutte le direzioni.Qua e là, soprattutto in Giovanni, si è affacciato anche il livello Darash, come nell'analisi del purissimo abbandono nella preghiera: "Padre, glorifica il tuo Nome". Ora dobbiamo anche poter tornare indietro al livello Pshat e alle questioni storico-critiche dell'inizio.Partendo da ciò che siamo riusciti a scoprire al termine della via percorsa, possiamo supporre che tra i primi cristiani esistesse una tradizione relativa al pregare Dio come Padre la quale si riallacciava direttamente al ricordo dell'ultima veglia di Gesù e della sua agonia nel Gethsemani. L'invocazione "Abba" da parte dei cristiani è, secondo questa tradizione, una diretta partecipazione al suo Spirito -lo Spirito di Colui che ha compiuto la Pasqua ed è risorto dai morti. Questo Spirito ci viene accordato nel e mediante il rito battesimale e ci autorizza a essere figli in Cristo, così che noi, liberati in Lui, possiamo indirizzare a Dio in maniera pienamente degna la sua preghiera ancora conservata in aramaico: "Abba! Padre!" Paolo e Marco, ma anche Giovanni e la lettera agli Ebrei, e perfino Matteo e Luca nel loro racconto parallelo su Gesù nell' orto degli Olivi, testimoniano tutti di questo esemplare momento di preghiera nella vita di Gesù. Fin nell' esordio della forma lucana del Padre Nostro è riconoscibile questa tradizione. In Luca si trova semplicemente: "Padre" (11.2). Tutto il vangelo di Giovanni è a sua volta una testimonianza che l'invocazione di Dio come Padre per Gesù non fu mai così esplicita come nell'evento di Pasqua, e per noi, grazie a Pasqua, è diventata realtà.Accanto a questa linea di sviluppo se ne può distinguere un' altra che si è accresciuta fino a produrre una formula ben definita di cui il Padre Nostro di Matteo e quello di Luca costituiscono due differenti versioni. La situazione linguistica e il relativo genere letterario di questa formula possono essere abbozzati solo per approssimazione. Il materiale disponibile non consente una chiara soluzione Pshat, che noi per così dire possiamo toccare con mano. Possiamo al massimo, sulla base del Remez esercitato in tutte le direzioni, delineare un quadro il più possibile coerente.La formazione del più antico Padre Nostro sembra corrispondere a uno stadio ben definito della comunità protocristiana. Si può congetturare la ricerca di una preghiera concisa ma specificamente cristiana, che, accanto a tutte le tradizionali preghiere bibliche e sinagogali, esprima l'identità dei cristiani nel loro rapporto con Dio. La formula trasmessa da Luca è sicuramente, in lunghezza e contenuto, la più prossima alla versione originaria. Questa sembra consistere di espressioni che si ricollegano tutte direttamente alla preghiera propria di Gesù o alla sua catechesi sulla preghiera. È sorprendente che troviamo già cinque sostanziali corrispondenze tra le parole di Gesù nel Gethsemani e il Padre Nostro matteano. Si deve sempre tenere conto di un' azione reciproca, nelle due direzioni, tra la formula tramandata e le preghiere che la tradizione evangelica mette in bocca a Gesù. Gli esempi che abbiamo potuto studiare nel vangelo di Giovanni illustrano perfettamente la reciproca influenza. Perciò rimane difficile pronunziarsi chiaramente sulla forma più originaria del Padre Nostro: le cinque richieste che si sviluppano l'una dall'altra risalgono a Gesù stesso? o sono una formula accuratamente composta da una comunità che nelle sue nuove sofferenze voleva imparare a pregare come pregava Gesù? Al livello Pshat la questione dovrebbe essere decisa in un "bianco o nero", sì o no, Gesù o la comunità cristiana. Al livello Remez notiamo che l'alternativa non ha tanto peso: anche se la preghiera come formula non provenisse da Gesù, tutto ciò che essa contiene o è attinto alla sua propria preghiera o è la trasmissione, in forma di preghiera, del suo insegnamento. Al livello Darash la questione perde molta della sua urgenza: comunque ci atteggiamo nel pregare, preghiamo però sempre nello spazio che queste parole aprono, perfino nel caso che scegliamo, alloro posto, tutt' altre parole, per esempio salmi... E per quanto concerne il Sod, nessuna singola formula, per quanto fedelmente tramandata, surroga le ispirazioni dello Spirito, che ammette benissimo tutte le parole ma ci conduce molto più in là, "in gemiti inesprimibili" (Rm 8.26).Tuttavia fa certo qualche differenza - al livello Pshat! - se la preghiera è stata consegnata da Gesù ai suoi discepoli come formula conclusa, o se è stata composta da cristiani.Sembra che siano stati i cristiani, più che il Gesù storico, a preoccuparsi di costituirsi in gruppo separato con una propria preghiera in contrapposizione con altri gruppi esistenti. Possiamo anzi dire che non tutti i primi cristiani erano preoccupati di costituirsi in comunità separata. Vediamo gli apostoli a Gerusalemme dopo la resurrezione e ascensione di Gesù recarsi a pregare al tempio alle ore consuete della preghiera. Si può porre la questione se non siano stati i cristiani ellenisti all' origine della formula, che allora di fatto sin dall'inizio sarebbe stata composta e trasmessa in greco. Tutti gli sforzi infruttuosi di tradurre il Padre Nostro in ebraico o in aramaico e in particolare di ritrovare un substrato semitico per la singolare parola epiousion, sono allora - da un punto di vista rigorosamente Pshat - superflui. Possiamo immaginarci benissimo questo dinamico gruppo di primi cristiani comunicare ai loro seguaci di lingua greca, tanto giudei che proseliti, una breve formula in cui ritrovare, sotto forma di preghiera, tutti i più importanti temi della predicazione e del modo di vita di Gesù. La preghiera ha allora anche la funzione di symbolon, un piccolo "Credo", una sintesi di ciò che è importante nella "via" cristiana. Recitare il Padre Nostro ha allora anche la funzione di consolidare l'identità del gruppo. Così come è composto, viene pregato con una sorprendente attesa escatologica. Quasi ogni richiesta implica una tensione piena della speranza che il compimento escatologico giunga in fretta. Così la particolare spiritualità della notte pasquale percorre anche questa antichissima formula:"Padre,sia santificato il tuo Nome,venga il tuo Regno,il pane, quello essenziale,daccelo oggi!Rimetti a noi il nostro debitocome anche noi rimettiamo ai nostri debitorie non farei entrare nella Prova".L'ultima richiesta, così tipica della lotta mortale di Gesù nel Gethsemani, difficilmente può aver fatto parte di ciò che Egli stesso avrebbe insegnato in precedenza ai suoi discepoli... Al livello Pshat si deve scegliere, e, per quanto possiamo vedere, la formula più antica sembra essere il frutto di una situazione didattico-catechetica nella comunità cristiana di lingua greca in Palestina, probabilmente proprio in Gerusalemme, dove furono composte e conservate anche le più antiche tradizioni sulla storia della Passione. .Questo antichissimo formulario è andato sviluppandosi già nel N.T. e soprattutto Matteo ne è testimone. Il suo testo è più ricco, anche più completo, ma soprattutto più pieno dal punto di vista poetico-liturgico e quindi più adatto per la preghiera. Nel discutere a parte il suo Padre Nostro ne analizzeremo la struttura e il movimento di preghiera che sostiene il tutto. Qui si può constatare un leggero slittamento rispetto al Padre Nostro in cinque parti delle origini. In Matteo il Padre Nostro è un po' più preghiera che symbolon, benché i due aspetti siano presenti sin dall'inizio della tradizione. Il carattere liturgico del Padre Nostro trova un' espressione ancora un po' più forte nella versione conservataci dalla Didachè. Qui il Padre Nostro è concluso da una dossologia, e concepito come una preghiera che si recita tre volte al giorno, come la preghiera delle ore giudaica. L'integrazione del Padre Nostro nella preghiera eucaristica, un fatto attestato chiaramente solo a partire dal quarto secolo, prosegue ulteriormente questa linea.
Così ci troviamo in presenza di una doppia linea di sviluppo che corre più o meno parallelamente dallo Pshat al Sod e dal Sod allo Pshat! Le forme che la preghiera ha assunto possono essere descritte come un movimento pendolare tra due estremi: dalla più marcata esteriorità alla più intima interiorità. Da un lato il Padre Nostro si riduce a una formula che si pronunzia per affermare pubblicamente la propria identità in quanto distinta da altri gruppi; dall' altro lato si è afferrati dallo Spirito che ci spinge a gridare dall'interno, dove l'abbandono di Gesù al Padre viene compiuto insieme con lui, al di là di tutte le parole e formule. Tra i due estremi si trovano forme miste di ogni genere, ora più liturgico-ufficiali, ora intime e personali. Proprio al centro del movimento pendolare si può situare la tradizione che nel corso del secondo secolo era diffusa dovunque, cioè l'uso di battezzare i nuovi discepoli nella notte di Pasqua e di consegnare loro e far loro proclamare il Padre Nostro, quando uscivano dall'acqua. Il mistico e l'istituzionale si compenetrano qui nel medesimo atto. Il rapporto con il Padre (il mistico) e il rapporto con la Madre (l'istituzione) vengono pienamente realizzati insieme. Possiamo benissimo appoggiarci una volta a un polo e un'altra all'altro, a condizione di compiere il movimento in entrambe le direzioni e di non perdere mai d'occhio il centro.Così ci troviamo in presenza di una doppia linea di sviluppo che corre più o meno parallelamente dallo Pshat al Sod e dal Sod allo Pshat! Le forme che la preghiera ha assunto possono essere descritte come un movimento pendolare tra due estremi: dalla più marcata esteriorità alla più intima interiorità. Da un lato il Padre Nostro si riduce a una formula che si pronunzia per affermare pubblicamente la propria identità in quanto distinta da altri gruppi; dall' altro lato si è afferrati dallo Spirito che ci spinge a gridare dall'interno, dove l'abbandono di Gesù al Padre viene compiuto insieme con lui, al di là di tutte le parole e formule. Tra i due estremi si trovano forme miste di ogni genere, ora più liturgico-ufficiali, ora intime e personali. Proprio al centro del movimento pendolare si può situare la tradizione che nel corso del secondo secolo era diffusa dovunque, cioè l'uso di battezzare i nuovi discepoli nella notte di Pasqua e di consegnare loro e far loro proclamare il Padre Nostro, quando uscivano dall'acqua. Il mistico e l'istituzionale si compenetrano qui nel medesimo atto. Il rapporto con il Padre (il mistico) e il rapporto con la Madre (l'istituzione) vengono pienamente realizzati insieme. Possiamo benissimo appoggiarci una volta a un polo e un'altra all'altro, a condizione di compiere il movimento in entrambe le direzioni e di non perdere mai d'occhio il centro.Conseguenze pratiche
Da tutto ciò impariamo almeno tre preziosi insegnamenti per la nostra concreta vita di preghiera.1. Recitare il Padre Nostro aveva nel cristianesimo primitivo una dimensione che noi da molto tempo abbiamo perduto. Nel modo più profondo, pronunziare il nome di Dio come Padre è un'ispirazione dello Spirito. L'esordio di questa preghiera è, secondo la più antica tradizione, possibile solo in un' apertura ricettiva allo Spirito che agisce in noi. Questo Spirito è lo Spirito del Cristo risorto, lo Spirito trionfante di Pasqua, ricevuto al battesimo. Questo linguaggio sorprendentemente forte, rappresentato nel N.T. da Paolo ma confermato dai primi commenti patristici al Padre Nostro, abbraccia un' esperienza molto specifica di cui è stato fatto tesoro anche per noi, cristiani del ventesimo secolo, nella misura appunto della nostra fede. Nulla oggi può rinnovare tanto la nostra preghiera quanto proprio la continua attenzione a questo Spirito di Dio che si comunica in noi. Ogni catechesi per bambini sulla preghiera non dovrebbe mai perdere completamente d'occhio questa esperienza.2. Nel N.T. incontriamo almeno cinque Padre Nostro. Questo può stupirci, ma non deve creare turbamento in nessuno. Le analisi ci mostrano quanto è aperto il Padre Nostro. Aperto verso il più e verso il meno.a. La preghiera più breve è quella di Paolo: "Abba, Padre". E anche la più essenziale. Comprende il grido dello Spirito nel e attraverso il nostro cuore: "Abba"!b. In Marco troviamo la stessa espressione, però arricchita in un' esemplare preghiera tripla. Partecipiamo all'intima preghiera pasquale di Gesù e impariamo a vegliare con Lui nella notte che abbraccia tutte le notti.
c. La versione lucana comprende ancor sempre lo stesso esordio che in Paolo e Marco, però senza l'espressione aramaica. Per brevi che siano, le cinque richieste comprendono tutti i desideri e le aspirazioni essenziali che un seguace di Gesù nutre in sé.
d. In Matteo (cf. anche la Didachè) ci troviamo in presenza di una preghiera matura e sintetica, molto adatta, nella sua ricchezza e completezza, per tutte le celebrazioni comunitarie, le preghiere familiari, o anche come preghiera del mattino e della sera.c. La versione lucana comprende ancor sempre lo stesso esordio che in Paolo e Marco, però senza l'espressione aramaica. Per brevi che siano, le cinque richieste comprendono tutti i desideri e le aspirazioni essenziali che un seguace di Gesù nutre in sé.d. In Matteo (cf. anche la Didachè) ci troviamo in presenza di una preghiera matura e sintetica, molto adatta, nella sua ricchezza e completezza, per tutte le celebrazioni comunitarie, le preghiere familiari, o anche come preghiera del mattino e della sera.e. Infine c'è ancora Giovanni. La preghiera sacerdotale del c. 17 approfondisce e allarga la formula nota e introduce la comunità orante nella sublime intercessione del Figlio.
3. N ella preghiera personale si può sulla base di questa differenziazione di formule, pregare ora ampiamente (con Matteo e Giovanni), ora con la semplicità e profondità di Paolo o di Marco. Benché il tradizionale Padre Nostro sia relativamente breve, il suo contenuto è così ricco che nella preghiera personale spesso ci si può accontentare di una o due richieste sulle quali soffermarsi a lungo. Perciò è bene imparare a memoria anche le versioni più brevi di Luca, Marco o Paolo. La cosa più importante è indubbiamente rispettare la dinamica pasquale che sostiene dall'interno ogni preghiera a Dio come Padre, e soprattutto preoccuparsi di lasciar pregare in noi lo Spirito di Dio attraverso le parole di cui si è fatto tesoro.3. N ella preghiera personale si può sulla base di questa differenziazione di formule, pregare ora ampiamente (con Matteo e Giovanni), ora con la semplicità e profondità di Paolo o di Marco. Benché il tradizionale Padre Nostro sia relativamente breve, il suo contenuto è così ricco che nella preghiera personale spesso ci si può accontentare di una o due richieste sulle quali soffermarsi a lungo. Perciò è bene imparare a memoria anche le versioni più brevi di Luca, Marco o Paolo. La cosa più importante è indubbiamente rispettare la dinamica pasquale che sostiene dall'interno ogni preghiera a Dio come Padre, e soprattutto preoccuparsi di lasciar pregare in noi lo Spirito di Dio attraverso le parole di cui si è fatto tesoro.
IL PADRE NOSTRO MATTEANO
StrutturaContesto
Matteo include il Padre Nostro nel suo primo grande discorso, il cosiddetto "discorso della montagna" (Mt 5-7). Il Padre Nostro occupa esattamente il centro della composizione complessiva. Il discorso della montagna consiste infatti di cinque parti: un'introduzione con un prologo e una frase conclusiva con un epilogo delimitano il corpo vero e proprio, che è ripartito in tre grandi unità.
1. introduzione + prologo 5.3-16 + 17-20
2. parte I: contro la giustizia degli scribi 5.21-48
3. parte II: contro la giustizia dei fari sei 6.1-18
4. parte III: la superiore giustizia del Regno 6.19-7.11
5. frase conclusiva + epilogo 7.12 + 13-27
Il Padre Nostro è incluso nella parte centrale (6.1-18) che a sua volta è tripartita. Gesù vi tratta tre diverse pratiche: fare 1'elemosina, pregare e digiunare (6.2,5,16). Nella discussione centrale è inserito come ampliamento il Padre Nostro. Strutturalmente quindi in Matteo il Padre Nostro occupa il cuore del discorso della montagna. Questo è, in confronto con le altre grandi allocuzioni di Gesù nel vangelo di Matteo, il discorso programmatico per eccellenza. A un livello più profondo è la giustizia del "Padre che è nei cieli" e "che vede nel segreto" il vero fulcro dell'intera argomentazione. Non a caso dunque questa catechesi sulla preghiera e questa preghiera esemplare stanno al centro dell'intera trattazione. Quando Tertulliano (verso il 200) chiama il Padre Nostro breviarium totius evangelii (compendio di tutto il vangelo), ciò è sicuramente vero alla luce della forma matteana.Struttura interna
Il Padre Nostro in Matteo consiste in un'invocazione (v. 9a) e sette richieste, concluse nella tradizione posteriore da una dossologia (cf. già in Didachè 8.2: "perché tua è la potenza e la gloria nei secoli") .
L'esordio chiarisce immediatamente che abbiamo a che fare con una preghiera della comunità: "Padre Nostro...". Le quattro ultime richieste lo sottolineano ancora una volta:nostro pane, nostri peccati", "non farci entrare", "liberaci". "Chi professa Dio come Padre, professa anche il Figlio. Ma chi professa il Padre e il Figlio, annuncia anche la Madre, la Chiesa. Senza di essa non vi è Figlio e non vi è Padre. In questa parola 'Padre' adoriamo Lui con tutti i suoi, obbediamo alla sua Parola e ci distinguiamo da chiunque non vuole riconoscer Lo" (Tertulliano, seguito in ciò dalla maggior parte dei padri latini).
Le sette richieste si possono ripartire in due gruppi. Le prime tre concernono Dio stesso. Solo alla quarta 1'attenzione viene rivolta alla comunità e alle sue necessità. L'attenzione rivolta prima al Donatore di tutti i beni, e le suppliche collocate solo al secondo posto, costituiscono una struttura riconosciuta di ogni pregare, tanto presso i rabbi che presso i padri della chiesa.
I rabbi spiegano questa struttura nei loro commenti alle tradizionali preghiere giudaiche, in particolare alla grande preghiera delle Diciotto benedizioni, che veniva pronunziata nella sinagoga già al tempo di Gesù e degli apostoli. La struttura fondamentale delle Diciotto benedizioni prevede le suppliche al centro, dopo tre lodi, mentre le ultime tre vengono intese come ringraziamenti. Le dodici benedizioni centrali possono del resto essere abbreviate o sostituite in occasione di determinate solennità. Nel Talmud babilonese si legge:L'esordio chiarisce immediatamente che abbiamo a che fare con una preghiera della comunità: "Padre Nostro...". Le quattro ultime richieste lo sottolineano ancora una volta:nostro pane, nostri peccati", "non farci entrare", "liberaci". "Chi professa Dio come Padre, professa anche il Figlio. Ma chi professa il Padre e il Figlio, annuncia anche la Madre, la Chiesa. Senza di essa non vi è Figlio e non vi è Padre. In questa parola 'Padre' adoriamo Lui con tutti i suoi, obbediamo alla sua Parola e ci distinguiamo da chiunque non vuole riconoscer Lo" (Tertulliano, seguito in ciò dalla maggior parte dei padri latini).Le sette richieste si possono ripartire in due gruppi. Le prime tre concernono Dio stesso. Solo alla quarta 1'attenzione viene rivolta alla comunità e alle sue necessità. L'attenzione rivolta prima al Donatore di tutti i beni, e le suppliche collocate solo al secondo posto, costituiscono una struttura riconosciuta di ogni pregare, tanto presso i rabbi che presso i padri della chiesa.I rabbi spiegano questa struttura nei loro commenti alle tradizionali preghiere giudaiche, in particolare alla grande preghiera delle Diciotto benedizioni, che veniva pronunziata nella sinagoga già al tempo di Gesù e degli apostoli. La struttura fondamentale delle Diciotto benedizioni prevede le suppliche al centro, dopo tre lodi, mentre le ultime tre vengono intese come ringraziamenti. Le dodici benedizioni centrali possono del resto essere abbreviate o sostituite in occasione di determinate solennità. Nel Talmud babilonese si legge:Rabbi Simlai spiegava:
Sempre si deve prima lodare il Santo, benedetto Egli sia, e solo dopo pregare (vale a dire chiedere ciò di cui si ha bisogno). Come lo sappiamo? Da Mosè. Sta scritto infatti (che Mosè disse): "E allora Lo supplicai" (Dt 3.23). E sta scritto (vale a dire Mosè introduce così la sua preghiera): "Signore Dio, tu hai cominciato a far vedere al Tuo servo la Tua grandezza e la Tua forte mano: quale Dio vi è in cielo che compia tali potenti atti?" (Dt 3.24). E solo allora sta scritto (Dt 3.25): "Permettimi però di passare all' altra riva per vedere la buona terra" (b.Berachot 32a).
Inoltre leggiamo:
Rav Jehuda diceva:
Uno non deve mai chiedere cose personali nelle prime tre (delle diciotto benedizioni) e neppure nelle ultime tre, ma in quelle centrali.
R.Chanina diceva:
le prime fanno pensare a un servo che proclama la lode del suo padrone; quelle di mezzo a un servo che chiede favori al suo padrone; le ultime a un servo che ha ricevuto un favore dal suo padrone e ora prende nuovamente commiato (b.Berachot 34a).
Agostino, con altri padri della chiesa, ha chiaramente riconosciuto questa struttura nella preghiera del Signore:
"Ogniqualvolta chiediamo qualche cosa, dobbiamo prima cercare di guadagnare la benevolenza di colui al quale ci rivolgiamo (ad captandam benevolentiam, dicevano i manuali di retorica!). Poi gli si presenta l'oggetto della propria richiesta. Ora, la benevolenza di qualcuno si ottiene lodandolo, e questa lode si pone normalmente all'inizio della supplica. Perciò il Signore ci prescrive di dire semplicemente: Padre nostro che sei nei cieli" (Sermo 2,4; PL 34, 1275).
La preghiera biblica, e in particolare la salmodia, ci nutre per aiutarci a raggiungere una preghiera che sia così pienamente degna. Come hanno mostrato Cl. Westermann e altri esegeti moderni, la preghiera biblica di lamentazione è sempre preceduta dalla preghiera di lode ed è intrinsecamente orientata alla preghiera di lode e di ringraziamento. lo mi lamento per poter tornare presto a lodare Dio; e posso lamentarmi solo perché ho potuto lodare Dio una volta, ma ora non posso più (cf. in particolare Sal 22.2a,4-6,23-32). Un cuore formato dalla preghiera dei salmi biblici mira nel modo più profondo a lodare Dio in tutto e proprio per questo a indirizzargli tanto più liberamente il proprio lamento. L'uomo moderno spesso non sa più lamentarsi perché non ha mai imparato a lodare né a ringraziare. Il ritmo di lode, lamento o supplica e ringraziamento è proprio di chi ha imparato a stare nel Patto con il Dio vivente.Il numero sette ha affascinato molti commentatori. In una ricca pagina del suo commento al discorso della montagna, Agostino ha sviluppato largamente il rapporto con i sette doni dello Spirito e con le sette beatitudini (5). Pubblicazioni recenti fanno delle sette richieste del Padre Nostro una metafora, per via del candelabro a sette bracci del T empio (presente anche nel T empio celeste, secondo Ap 4.5). Il numero non è certamente casuale in un evangelista come Matteo, sviluppatosi alla scuola rabbinica: vi sentiamo l'idea di completezza - come, alle origini, la settimana completa della creazione. Per il nostro cuore orante, ciò non è privo d'importanza: il Padre Nostro è una preghiera completa che recitiamo di quando in quando nella sua completezza, come un piccolo "Credo", e che altre volte dobbiamo meditare nel nostro cuore in una forma più limitata, costituita da una o due richieste. Solo chi impara a pregare alternativamente secondo queste due misure non viene mai schiacciato dalla corrente troppo densa di richieste ricche di contenuto e neppure distolto, in un biascicare meccanico, dal profondo significato.
Un'ultima osservazione. Le due ultime richieste hanno comunque qualcosa di strano. Il Padre Nostro non finisce con un ringraziamento, e neppure con ciò che è molto tradizionale nella struttura della preghiera ebraica ufficiale, cioè una richiesta di pace. Tanto la versione lucana che quella matteana del Padre Nostro hanno conservato l'insolita forma in cui la preghiera finisce con un grido di miseria. La tradizione liturgica ha composto molto presto un' aggiunta (il cosiddetto "embolismo") in cui l'ultima parola viene ripresa e ulteriormente sviluppata in una preghiera per la pace, e conclusa con la nota dossologia: "Perché tuo è il regno, tua la potenza e la gloria nei secoli. Amen" .
Come movimento, il Padre Nostro sfocia quindi in un pressante grido di miseria. Qui possiamo ancora percepire qualcosa del rapporto originario tra il Padre Nostro e la preghiera di Gesù nel Gethsemani. Pregare il Padre Nostro orienta nel modo più profondo verso l'agonia messianica attraverso la quale è passato Gesù. Sull' altra riva della Prova e della lotta con il Maligno c'è la vittoria della Resurrezione, del Risorto in persona che dice: "lo ho vinto il mondo" (Gv 16.33). La dossologia che noi Roi siamo soliti proclamare, annunzia la vittoria. È bene tornare a pregare ogni tanto il Padre Nostro con questa finalità. Ciò dà alla nostra preghiera una maggiore intensità messianica, completa con un' autentica speranza messianica lo spessore di ciò che noi individualmente e collettivamente contribuiamo a realizzare nella storia e affretta di fatto il tempo prossimo del compimento. Così pregava anche Paolo, quando accoglieva appieno nel suo corpo mortale lo Spirito anelante alla libertà dei figli di Dio (Rm 8.18-30). In una delle più antiche catechesi sulla preghiera tramandateci dai padri del deserto (IV-V sec.), vediamo quanto liberamente un padre - uno dei più grandi che il deserto abbia prodotto - fornisse risposta a una domanda classica:Un'ultima osservazione. Le due ultime richieste hanno comunque qualcosa di strano. Il Padre Nostro non finisce con un ringraziamento, e neppure con ciò che è molto tradizionale nella struttura della preghiera ebraica ufficiale, cioè una richiesta di pace. Tanto la versione lucana che quella matteana del Padre Nostro hanno conservato l'insolita forma in cui la preghiera finisce con un grido di miseria. La tradizione liturgica ha composto molto presto un' aggiunta (il cosiddetto "embolismo") in cui l'ultima parola viene ripresa e ulteriormente sviluppata in una preghiera per la pace, e conclusa con la nota dossologia: "Perché tuo è il regno, tua la potenza e la gloria nei secoli. Amen" .Come movimento, il Padre Nostro sfocia quindi in un pressante grido di miseria. Qui possiamo ancora percepire qualcosa del rapporto originario tra il Padre Nostro e la preghiera di Gesù nel Gethsemani. Pregare il Padre Nostro orienta nel modo più profondo verso l'agonia messianica attraverso la quale è passato Gesù. Sull' altra riva della Prova e della lotta con il Maligno c'è la vittoria della Resurrezione, del Risorto in persona che dice: "lo ho vinto il mondo" (Gv 16.33). La dossologia che noi Roi siamo soliti proclamare, annunzia la vittoria. È bene tornare a pregare ogni tanto il Padre Nostro con questa finalità. Ciò dà alla nostra preghiera una maggiore intensità messianica, completa con un' autentica speranza messianica lo spessore di ciò che noi individualmente e collettivamente contribuiamo a realizzare nella storia e affretta di fatto il tempo prossimo del compimento. Così pregava anche Paolo, quando accoglieva appieno nel suo corpo mortale lo Spirito anelante alla libertà dei figli di Dio (Rm 8.18-30). In una delle più antiche catechesi sulla preghiera tramandateci dai padri del deserto (IV-V sec.), vediamo quanto liberamente un padre - uno dei più grandi che il deserto abbia prodotto - fornisse risposta a una domanda classica:"Una volta vennero alcune persone dall' abba Macario e chiesero: 'Come dobbiamo pregare?' L'anziano disse loro: 'Non c'è bisogno di molte chiacchiere (cf. Mt 6.7), ma stendete le mani e dite: Signore, come Tu vuoi, e come Tu sai, abbi pietà di me! E quando la tentazione infuria: Signore, aiutami! Egli sa che cosa ci è necessario (cf. Mt 6.8) e perciò ci dimostra misericordia' "
È ben sorprendente che abba Macario non proponga il Padre Nostro come formula per pregare! Più ancora, si richiama proprio all'introduzione evangelica al Padre Nostro per pregare diversamente! Nel fare ciò, rimanda inequivocabilmente a Gesù nella sua agonia, non solo nel Gethsemani ("come Tu vuoi", cf. Mc 14.36), ma anche sulla croce ("stendete le mani"). Nel "come Tu sai" l'abbandono si apre la via fino al livello percepibile della preghiera, il che qui non è irrilevante, perché la preghiera stessa era di tipo percepibile. Inoltre, questo tratto viene ancora rinforzato alla fine dalle parole: "Egli sa bene che cosa ci è necessario ancor prima che gliela chiediamo" (di nuovo Mt 6.8, l'introduzione al Padre Nostro)! Qui impariamo come la preghiera, ogni preghiera, dunque anche il Padre Nostro, a poco a poco si semplifica finché si compie in una parola, in un grido (cf. Gv 19.28,30). La struttura del Padre Nostro, e soprattutto il modo in cui termina con questo doppio grido di miseria, corrisponde allo stesso movimento e resta in ciò un forte modello di come dobbiamo pregare.Come nella storia del Padre Nostro abbiamo potuto tracciare una linea di sviluppo da una parola a una preghiera liturgica completa, così vediamo qui una tendenza nella direzione opposta, da molte parole a una sola e infine a un grido. Il nostro cuore arante ha bisogno alternativamente di entrambe le cose.Parola per parola
"Padre nostro che sei nei cieli"
Questa invocazione contiene un paradosso innegabile. Simone Weil, ebrea, vi percepiva una certa ironia. In quanto "Padre", egli è Vicinanza. Con le parole "che sei nei cieli" Egli ci sovrasta in una sublimità inavvicinabile. Dal punto di vista ebraico, "padre nostro" senza l'aggiunta "nei cieli" rimanderebbe semplicemente ad Abramo (cf. Is 51.2; 63.16; Gv 8.390. Un'antica preghiera ebraica, che risale almeno a R. Akiba (+ 135), invoca Dio come "nostro Padre, nostro Re" (avinu malkenu). In Giovanni si trova l'espressione "Padre santo" (17.11). Il Te Deum romano formula lo stesso paradosso con queste parole: Pater immensae majestatis.In Gesù, l'invocazione di Dio come Padre implica una reciprocità unica ed esclusiva. "Nessuno conosce il Figlio se non il Padre e nessuno conosce il Padre se non il Figlio" (Mt 11.27). Grazie allo Spirito, anche noi possiamo partecipare a questa reciprocità. Ciò che Gesù dice qui si compie in ciascuno di noi nella misura del nostro abbandono allo Spirito. Questa reciprocità non è mai perfetta, non è mai conseguita e raggiunta una volta per tutte. Chi, guidato dallo Spirito di Dio, entra nello spazio libero dell' abbandono e dello scambio con Dio improntati all' amore (' 'tutto ciò che è mio è tuo"), non conosce più pausa. Se la reciprocità è perfetta, come Gesù testimonia per se stesso, allora la metafora Padre-Figlio è naturalmente e intrinsecamente superata. E anche per questo che ad alcuni oranti può bastare la sola invocazione.
Chiunque dice: "Padre Nostro", si lega a Gesù (il Padre suo è d'ora in poi anche il nostro) e alla vasta comunità di tutti coloro che, alla sua sequela, hanno in qualunque tempo pregato Dio così. A ragione i padri della chiesa vedono qui tematizzata al tempo stesso anche la chiesa come "madre".
"Sia santificato il tuo Nome"Nulla è così biblico come questa prima richiesta. Maria la grida nel suo Magnificat - "perché santo è il suo Nome", e in ciò si accorda con le parole del primo salmo dell'Hallel: "Benedetto il Nome del Signore" (Sal 113.1-3, per tre volte!). Così anche Daniele benedice il Dio del cielo (Dn 2.20, inizio del suo ringraziamento). Questo versetto di Daniele e del salmo 113 è considerato dalla tradizione rabbinica come "uno dei pilastri sui quali si regge il mondo" (Sotah 49a). L'antica preghiera del Kaddish - conosciuta già al tempo di Gesù - ruota intorno a quell'unico riconoscimento: santo è il suo Nome (cf. anche l'esordio del salmo 103: "Voglio chiamarlo con il suo Nome il Dio santo, com'è vero che vivo", secondo la suggestiva traduzione di Oosterhuis e altri).In questa preghiera si chiede che Dio stesso santifichi il suo Nome. Possa Egli manifestare il suo Nome, cioè la sua Persona che si comunica, con tutti i suoi attributi. Vieni in mezzo a noi, santifica te stesso e facci partecipi della tua santità fino in fondo al nostro essere (cf. Ezechiele, il sacerdote e profeta della santità di Dio, soprattutto in 36.20-38). Ciò implica anche che chi prega così si lascia afferrare fino all'estremo da questo Nome santificante. Nulla è tanto aperto al livello Darash quanto questa richiesta. Perché noi non possiamo santificare il Nome se non lasciandolo entrare nella nostra vita con la sua azione santificante. Il Nome santifica ed è santificato in un medesimo processo.
Nel N.T. ciò non è mai formulato con tanta forza come nel vangelo di Giovanni. "Padre, glorifica il tuo Nome" diviene nella preghiera sacerdotale: "Padre, glorifica il Figlio tuo affinché il Figlio glorifichi te". Il Nome del Padre implica il Figlio. La glorificazione del Nome paterno contiene in sé la glorificazione effettiva del Figlio stesso. Gesù, secondo Giovanni, glorifica il Nome nella morte, come il Padre ha glorificato il Figlio suo nell' esaltazione, al di là della morte in croce, nella gloria divina. Per Giovanni, questo processo di glorificazione reciproca è semplicemente amore. I martiri ebrei vengono designati ancora oggi con l'espressione "santificare il Nome". Il caso più alto di una tale morte impregnata d'amore si conserva nella memoria di tutti: il martirio dello straordinario Rabbi Akiba. Torturato dai Romani, recita ciononostante, alla sera, la preghiera prescritta. Così si collega con il sacrificio serale nel Tempio di Gerusalemme. I suoi discepoli vogliono risparmiargli quell'ultimo sforzo: "Maestro, ora però sei dispensato!". Ma egli risponde: "Tutta la vita ho bramato di poter davvero recitare lo Shema ("Ascolta...", prima parola di Dt 6.4 che introduce la preghiera) con il mio ultimo respiro (Dt 6.5, "Amerai il Signore tuo Dio con tutta la tua anima" = respiro). Mi chiedevo: Quando verrà quell'ora? E ora che è venuta, come non dovrei compiere ciò che ho sempre desiderato?" E riprende la preghiera: "Shema Israel, Adonai Elohenu Adonai Ehad. Ascolta Israele, il Signore nostro Dio è Uno". E proprio nel dire il Nome "Uno" esala l'ultimo respiro.Nel N.T. ciò non è mai formulato con tanta forza come nel vangelo di Giovanni. "Padre, glorifica il tuo Nome" diviene nella preghiera sacerdotale: "Padre, glorifica il Figlio tuo affinché il Figlio glorifichi te". Il Nome del Padre implica il Figlio. La glorificazione del Nome paterno contiene in sé la glorificazione effettiva del Figlio stesso. Gesù, secondo Giovanni, glorifica il Nome nella morte, come il Padre ha glorificato il Figlio suo nell' esaltazione, al di là della morte in croce, nella gloria divina. Per Giovanni, questo processo di glorificazione reciproca è semplicemente amore. I martiri ebrei vengono designati ancora oggi con l'espressione "santificare il Nome". Il caso più alto di una tale morte impregnata d'amore si conserva nella memoria di tutti: il martirio dello straordinario Rabbi Akiba. Torturato dai Romani, recita ciononostante, alla sera, la preghiera prescritta. Così si collega con il sacrificio serale nel Tempio di Gerusalemme. I suoi discepoli vogliono risparmiargli quell'ultimo sforzo: "Maestro, ora però sei dispensato!". Ma egli risponde: "Tutta la vita ho bramato di poter davvero recitare lo Shema ("Ascolta...", prima parola di Dt 6.4 che introduce la preghiera) con il mio ultimo respiro (Dt 6.5, "Amerai il Signore tuo Dio con tutta la tua anima" = respiro). Mi chiedevo: Quando verrà quell'ora? E ora che è venuta, come non dovrei compiere ciò che ho sempre desiderato?" E riprende la preghiera: "Shema Israel, Adonai Elohenu Adonai Ehad. Ascolta Israele, il Signore nostro Dio è Uno". E proprio nel dire il Nome "Uno" esala l'ultimo respiro."Venga il tuo Regno"Con questo Regno atteso s'intende nientemeno che il Re in persona, Dio in quanto sovrano del nostro mondo (cf. Is 52.7: "la buona notizia: il nostro Dio è Re!"). Con questa richiesta traduciamo in forma di preghiera il cuore della predicazione di Gesù. Egli stesso era - come si esprime Origene - "il Regno in persona" (autobasileia). La sua comparsa rendeva il Regno immediatamente presente. La giustizia, la pace, la riconciliazione e il perdono dei peccati che la sua venuta nel mondo portava, vengono nuovamente attualizzati in una sola parola mediante questa richiesta.I padri della chiesa conoscevano una variante di questa seconda richiesta: "il tuo santo Spirito venga su di noi e ci purifichi". Vieni dunque con il tuo Spirito, soffia sulla tua creazione, "soffia dai quattro venti su queste nostre ossa" (Ez 37.9). Rinnova la faccia della terra (Sal 104.30). Lo Spirito è sempre il più immediato inizio del Regno che viene nella storia.Massimo il Confessore (VII secolo) comprendeva la sequenza di "Padre" ,"Nome" e "Regno" come un movimento trinitario: il Padre santifica il suo Nome nella glorificazione del Figlio e fa venire il suo Regno effondendo lo Spirito nei nostri cuori."Sia fatta la tua volontà come in cielo così in terra"
La volontà di Dio viene fatta in cielo e là è compiuta dagli angeli. Lo ricordano sia i rabbi che i padri della chiesa (cf. tra l'altro Sal 103.21). Possa ora questa volontà essere compiuta anche sulla terra da noi uomini. Ciò corrisponde a una visione tipicamente matteana della chiesa e della storia. La chiesa è, d'ora in poi, il luogo dove cielo e terra sono una sola cosa nel Cristo risorto (cf. 28.18: "Mi è stato dato ogni potere nel cielo e sulla terra"; 9.6,8; 16.19; 18.18). Gli attributi divini relativi al portare perdono, misericordia, pace sono d'ora in avanti i segni distintivi della comunità cristiana (cf. tra l'altro le beatitudini e la successiva pericope sulla luce del mondo e il sale della terra, 5.3-16). Il versetto finale della preghiera del Kaddish sopra menzionata può benissimo avere influenzato qui la formulazione matteana: "Colui che crea la pace nel suo alto cielo, crei pace per noi e per tutto Israele. E di': Amen!".
Che cosa è la volontà di Dio? Il suo misterioso decreto, il suo beneplacito, il suo impenetrabile piano di creazione e rigenerazione? Il N. T. e in particolare anche il vangelo di Matteo esplicitano regolarmente questa "volontà". Nel contesto della preghiera, si deve citare innanzitutto il grande testo catechetico sulla preghiera di 1 Tm 2.1-8, dove è detto espressamente: "E la volontà di Dio nostro Salvatore che tutti gli uomini siano salvati e giungano alla conoscenza della verità" (vv. 3-4). Tutti i padri della chiesa si richiamano spontaneamente a questa testimonianza (6). Altrettanto importante come formula circoscritta è il rinvio alla preghiera di Gesù nel Gethsemani (Mt 26.39,42). In tal modo, la richiesta finale della prima sezione del Padre Nostro si avvicina moltissimo alla fine della seconda e ultima sezione: "e non farci entrare nella Prova".
Le prime tre richieste formano un'unità. I grandi concetti di Nome, Regno e Volontà coincidono e si completano (7). La preghiera può ripeterli e recitarli, in libera associazione, in senso inverso. Il movimento si compie però certamente in un moto discendente continuo, dal cielo verso la terra, o anche dal Padre verso il Figlio, dallo Spirito ("il Regno") verso gli angeli ("nel cielo") e gli uomini ("sulla terra"), e anche dalla gloria verso il momento della lotta, evocato nell'ultima espressione che coincide con le parole di Gesù nell' orto degli Olivi. A.Hamman vi ha ravvisato una sequenza storico-salvifica: forse che il Nome non è stato fatto conoscere a Mosè, il Regno dato con David, che diviene il modello del Messia venturo, e la volontà a Esdra e ai pii conoscitori della Torah (8)?
È significativo che non meno della metà del Padre Nostro si soffermi su Dio. Ma così fa anche Gesù quando riconduce tutti i precetti della T 0rah a due cose: il primo comandamento concerne parimenti ed espressamente l'onore di Dio; l'amore del prossimo viene, anche là, al secondo posto. I due sono simili tra loro, precisa Gesù nel vangelo di Matteo (22.39). Sembra che questo sia il caso anche nella preghiera. Comunque, pregare che il Nome sia santificato, il Regno venga o la volontà sia fatta è cosa che non può essere realizzata senza che già si partecipi effettivamente, con il cuore e con l'anima, a questo Regno di giustizia e amore, alla volontà di Pace. Senza conversione e impegno per il prossimo neanche una delle richieste può essere pronunziata correttamente (cf. Mt 18.14).Che cosa è la volontà di Dio? Il suo misterioso decreto, il suo beneplacito, il suo impenetrabile piano di creazione e rigenerazione? Il N. T. e in particolare anche il vangelo di Matteo esplicitano regolarmente questa "volontà". Nel contesto della preghiera, si deve citare innanzitutto il grande testo catechetico sulla preghiera di 1 Tm 2.1-8, dove è detto espressamente: "E la volontà di Dio nostro Salvatore che tutti gli uomini siano salvati e giungano alla conoscenza della verità" (vv. 3-4). Tutti i padri della chiesa si richiamano spontaneamente a questa testimonianza (6). Altrettanto importante come formula circoscritta è il rinvio alla preghiera di Gesù nel Gethsemani (Mt 26.39,42). In tal modo, la richiesta finale della prima sezione del Padre Nostro si avvicina moltissimo alla fine della seconda e ultima sezione: "e non farci entrare nella Prova".Le prime tre richieste formano un'unità. I grandi concetti di Nome, Regno e Volontà coincidono e si completano (7). La preghiera può ripeterli e recitarli, in libera associazione, in senso inverso. Il movimento si compie però certamente in un moto discendente continuo, dal cielo verso la terra, o anche dal Padre verso il Figlio, dallo Spirito ("il Regno") verso gli angeli ("nel cielo") e gli uomini ("sulla terra"), e anche dalla gloria verso il momento della lotta, evocato nell'ultima espressione che coincide con le parole di Gesù nell' orto degli Olivi. A.Hamman vi ha ravvisato una sequenza storico-salvifica: forse che il Nome non è stato fatto conoscere a Mosè, il Regno dato con David, che diviene il modello del Messia venturo, e la volontà a Esdra e ai pii conoscitori della Torah (8)?È significativo che non meno della metà del Padre Nostro si soffermi su Dio. Ma così fa anche Gesù quando riconduce tutti i precetti della T 0rah a due cose: il primo comandamento concerne parimenti ed espressamente l'onore di Dio; l'amore del prossimo viene, anche là, al secondo posto. I due sono simili tra loro, precisa Gesù nel vangelo di Matteo (22.39). Sembra che questo sia il caso anche nella preghiera. Comunque, pregare che il Nome sia santificato, il Regno venga o la volontà sia fatta è cosa che non può essere realizzata senza che già si partecipi effettivamente, con il cuore e con l'anima, a questo Regno di giustizia e amore, alla volontà di Pace. Senza conversione e impegno per il prossimo neanche una delle richieste può essere pronunziata correttamente (cf. Mt 18.14)."Dacci oggi il nostro pane 'quotidiano' "Alla quarta richiesta, ogni traduttore inciampa nell' aggettivo che viene a qualificare il pane richiesto. In greco c'è epiousion. Questo termine quasi mai attestato altrove ha costituito un bel rompicapo per tutte le generazioni di esegeti. Non per questo la preghiera diviene totalmente incomprensibile! Un primo dettaglio che merita attenzione concerne la struttura sintattica e in particolare la ripetizione dell'articolo determinativo. Letteralmente, si ha: "il pane di noi, l'epiousion, dacci..." . Formulando così la preghiera, si chiede chiaramente un pane ben determinato, che si distingue da un altro pane. Qualunque significato possiamo dare al misterioso epiousion, si dovrà riconoscere una contrapposizione a un altro "pane". Ora, ci sembra che la migliore spiegazione di questo ricercato aggettivo consista nel considerarlo derivato dal sostantivoousia (in greco il prefisso epi è necessario per la formazione di un aggettivo, senza avere per questo una grande valenza semantica). Ora, ousia significa: natura, essenza, realtà, anche potere e possesso. Tradotto, l'aggettivo significa allora: essenziale. Se lo ricollochiamo nel contesto, il senso suona allora: "il nostro pane, l'essenziale, il sostanziale, il necessario alla vita, daccelo oggi" (9).Che cosa intendevano, ora, i primi cristiani quando insegnavano ai loro discepoli a pregare per il pane "sostanziale", "essenziale"? Secondo lo Pshat, essenziale o necessario alla vita significa tanto ciò di cui abbiamo bisogno per restare in vita quanto ciò che realmente ci nutre nel tempo e nell'eternità. Al riguardo possiamo pensare alla preghiera del saggio Agur il quale non chiede né piùné meno che la sua razione quotidiana: "non darmi povertà né ricchezza; fammi godere del pane che è la mia razione" (Pr 30.8). Nell'orizzonte biblico (Remez!) un pane del genere evoca in primo luogo l'episodio della manna nel deserto (cf. Es 16). Là viene donato a ciascuno, precisamente "ogni giorno", il necessario secondo i suoi bisogni. Vista l'importanza dell'atto dello "spezzare il pane" nelle prime comunità, non è da escludere che questo pane qualificato comeepiousion alludesse sin dall'inizio al rito della comunione. In questo spezzare si viveva tanto la comunione reciproca quanto l'intimo legame con il Signore risorto. Luca formula questa richiesta in un modo che fa pensare ancor più fortemente al gesto della comunione ripetuto quotidianamente: "continua a darcelo ogni giorno di nuovo". Quest'ultima espressione (to kath'hemeran) ritorna precisamente due volte in At 2.46 e 47, dove si riferiscono le abitudini quotidiane dei primi fratelli (e tra l'altro "lo spezzare il pane"). In questo contesto, lo scelto e ricercato termine epiousion può avere, entro la cerchia dei primi cristiani di lingua greca, la funzione di una parola in codice: per gli estranei, il significato è vago fino all'incomprensibile; per i membri della comunità rinvia inequivocabilmente a tutto ciò che viene esperito con l'intensa presenza allo "spezzare il pane" in Nome di Gesù.
Non è da escludere che anche al tempo di Gesù circolasse tra i discepoli un analogo modello di preghiera. Ogni giorno, Gesù e i suoi dipendevano, per il loro nutrimento, dall' ospitalità altrui. In Palestina, questa ospitalità fraterna era considerata un dovere (d'altronde, non sempre spontaneamente offerta: cf. Lc 11.5!). Questa preghiera, soprattutto nella versione di Matteo ("da' ", "oggi"), insegna ai discepoli ad accogliere con gratitudine, come dalle mani di Dio, l'ospitalità offerta o ricevuta, senza preoccuparsi ulteriormente del domani (Mt 6.34; anche 6.25-32) (10). È tipico del modo ebraico di trattare tutta la creazione, e in particolare il cibo quotidiano, il benedire sempre il Nome prima di fruirne. Nella struttura di questa preghiera si esprime una preziosa percezione, tipicamente ebraica: anche ciò che ci si è procacciato con le proprie mani è un dono. Nel momento in cui si sta per appropriarsene, s'impari a riconoscerlo per quello che realmente è, a riceverlo in gratitudine e a condividerlo in fraternità (11) .
I padri della chiesa hanno riferito spontaneamente questa richiesta al dono per eccellenza, "il vero cibo" , come Gesù spiega nel vangelo di Giovanni (cf. Gv 6.34). Per loro, questo pane è Cristo stesso (cf. Mc 8.14, dove l'enfaticamente sottolineato "solo un pane" non è senza significato cristologico). O ancora: la Parola di cui vogliono nutrirsi quotidianamente (cf. Dt 8.3 e Mt 4.4: "l'uomo non vive di solo pane, ma di ogni parola che viene dalla bocca di Dio"). Solo in terzo luogo essi interpretano questo pane "quotidiano" o "soprasostanziale" come quello consumato nell' eucaristia.
Un padre ha anche questa osservazione riguardo al pane:Non è da escludere che anche al tempo di Gesù circolasse tra i discepoli un analogo modello di preghiera. Ogni giorno, Gesù e i suoi dipendevano, per il loro nutrimento, dall' ospitalità altrui. In Palestina, questa ospitalità fraterna era considerata un dovere (d'altronde, non sempre spontaneamente offerta: cf. Lc 11.5!). Questa preghiera, soprattutto nella versione di Matteo ("da' ", "oggi"), insegna ai discepoli ad accogliere con gratitudine, come dalle mani di Dio, l'ospitalità offerta o ricevuta, senza preoccuparsi ulteriormente del domani (Mt 6.34; anche 6.25-32) (10). È tipico del modo ebraico di trattare tutta la creazione, e in particolare il cibo quotidiano, il benedire sempre il Nome prima di fruirne. Nella struttura di questa preghiera si esprime una preziosa percezione, tipicamente ebraica: anche ciò che ci si è procacciato con le proprie mani è un dono. Nel momento in cui si sta per appropriarsene, s'impari a riconoscerlo per quello che realmente è, a riceverlo in gratitudine e a condividerlo in fraternità (11) .I padri della chiesa hanno riferito spontaneamente questa richiesta al dono per eccellenza, "il vero cibo" , come Gesù spiega nel vangelo di Giovanni (cf. Gv 6.34). Per loro, questo pane è Cristo stesso (cf. Mc 8.14, dove l'enfaticamente sottolineato "solo un pane" non è senza significato cristologico). O ancora: la Parola di cui vogliono nutrirsi quotidianamente (cf. Dt 8.3 e Mt 4.4: "l'uomo non vive di solo pane, ma di ogni parola che viene dalla bocca di Dio"). Solo in terzo luogo essi interpretano questo pane "quotidiano" o "soprasostanziale" come quello consumato nell' eucaristia.Un padre ha anche questa osservazione riguardo al pane:"Il povero ti chiede un pezzo di pane, e tu chiedi a Dio la vita eterna. Da' al povero, per diventare degno di partecipare a Cristo. Ascolta come dice: Da' e ti sarà dato (Lc 6.38). lo non riesco a capire come puoi pretendere di ricevere ciò che rifiuti di dare" (Cesario di Arles, VI sec.).
Il termine stesso "pane quotidiano" su di un pianeta dove milioni di persone soffrono la fame quotidiana è qualcosa che oggigiorno colpisce al cuore. Chi oggi prega il Padre Nostro, ha per lo più la tavola apparecchiata, e chi nel nostro mondo soffre la fame non ha ancora udito nulla delle parole di Gesù... Non si tratta allora solo di benedire Dio con cuore grato prima di fruire dei cibi. "Ho fame", così grida "uno di questi piccoli, mio fratello" proprio in questo giorno di oggi. Colui nel cui nome gridiamo: "Padre Nostro" è lo stesso che dall' altra parte del pianeta invoca pane. Non si deve ascoltare Dio prima che Egli possa ascoltarci?"E rimetti a noi i nostri debiticome noi li rimettiamo ai nostri debitori"
Il perdono sta al cuore del lieto annunzio di Gesù e non c'è testo del N.T. che non annunzi a chiare lettere il "perdono dei peccati"!La seconda parte della frase, introdotta da "come anche noi..." ha meravigliato molti commentatori, sia dal punto di vista letterario che da quello teologico-spirituale. La preghiera a Dio non viene condizionata da una promessa dell'uomo? E non viene qui in qualche modo interrotto il movimento che attraversa il tutto? In Luca di fatto ciò si avverte in modo particolare. Una vera argomentazione (' 'infatti") viene qui a sostenere la supplica: "Infatti anche noi perdoniamo a chi ci deve qualcosa". Certi esegeti hanno poi anche sostenuto il carattere secondario di questa seconda metà del versetto.Se si guarda al contesto più ampio della predicazione di Gesù (Remez!), la formulazione di questa preghiera per il perdono non è così sorprendente. Gesù precisa regolarmente la correlazione tra perdono di Dio e perdono fraterno. Indubbiamente l'iniziativa è sua: Dio ti ha perdonato tutto: com'è possibile allora che anche tu non condoni gli insignificanti" debiti" di tuo fratello? Si veda soprattutto la grande parabola dei due debitori in Mt 18.23-34; o in senso inverso, circa il pronunziare sentenze, Mt 7.1 ss. Che viceversa Dio non possa perdonarci se noi a nostra volta non vogliamo condonare spontaneamente i debiti di altri, è una conclusione che pure si segnala qua e là nel vangelo, tra l'altro alla luce del Giudizio finale (cf. soprattutto Mt 18.35; 6.14-15 proprio dopo il Padre Nostro; 5.25; cf. anche Mc 11.25 e Lc 6.37-38; nell'A.T. cf. Sir 28.2).La preghiera è quindi formulata in rigoroso accordo con una tradizione dottrinale sul perdono. Qui l'elemento etico resta la norma intima dell' elemento cultuale (cf. Mt 5.24: "quando vai all'altare... va' prima a riconciliarti..."). La reciprocità (Darash!) dell'essere perdonato e del perdonare non può essere eliminata dalla preghiera. La serietà dell' esigenza etica imprime il suo marchio fin nella franchezza della preghiera. Quanto mai sintomatico è ciò che apprendiamo sul modo in cui gli abitanti dell' Africa settentrionale al tempo di Agostino reagivano a questa esigente richiesta. In una delle sue prediche, Agostino fa chiaramente risultare che i suoi contemporanei alla prima metà di questa quinta richiesta si battevano rumorosamente il petto, mentre preferivano tacere completamente le ultime parole! Il vescovo deve ammonirli a pronunziare insieme tutta la preghiera a voce alta e di conseguenza a perdonarsi scambievolmente di cuore!
Da' e perdona. La quarta e la quinta richiesta sono strettamente connesse. Il dono di Dio per eccellenza, che noi riceviamo anche nel pane comune, è lo Spirito di santità, la Parola che libera e riconcilia, il Consolatore nel quale ci sappiamo Da' e perdona. La quarta e la quinta richiesta sono strettamente connesse. Il dono di Dio per eccellenza, che noi riceviamo anche nel pane comune, è lo Spirito di santità, la Parola che libera e riconcilia, il Consolatore nel quale ci sappiamo perdonati. In questa grazia ricevuta non siamo solo riempiti o saziati, ma anche e soprattutto resi liberi per la solidarietà e la responsabilità fraterna in una comunità senza confini."E non farci entrare nella Prova, ma libera ci dal Maligno"Anche queste ultime due richieste sono connesse: la seconda viene a completare la prima, ad aggiungerle forza e ad arrotondare l'insieme di sette richieste.
La tentazione o prova è vista come uno spazio nel quale si teme di dover entrare. La preghiera è allora un pressante appello: non condurci dentro la fornace di fuoco! Questa preghiera e la sua formulazione ricordano la preghiera notturna di Gesù nel Gethsemani (Mc 14.34-37 par.). Dietro questa espressione sta l'idea che l'era messianica non può giungere a compimento senza doglie, grandi sofferenze, violenti conflitti e una prova estrema. La preghiera cristiana, imitando l'agonia di Gesù, discende fin dentro questa fornace di fuoco e continua a gridare: "Signore, salvaci!". A certi santi è dato di dovere esperire la loro esistenza come "nell'inferno", mentre ottengono come unica parola da udire: "Sta' saldo e non disperare!". Il nostro mondo continua a durare grazie ad alcuni che partecipano direttamente alla grande sofferenza messianica (cf. Paolo in Col 1.24) e senza disperare perseverano nella preghiera.
"Perché tuo è il Regno,la potenza e la gloria nei secoli. Amen."Prestissimo, nella tradizione cristiana del Padre Nostro, si è avvertita la difficoltà di una preghiera che termina con "il Maligno". La tradizionale preghiera ebraica è particolarmente istruttiva da questo punto di vista: "tutte le preghiere hanno come scopo la Pace, e non c'è preghiera che non si concluda con una richiesta di pace". Perciò già nella versione della Didachè, e anche in alcuni antichi manoscritti di Matteo, ma soprattutto nei libri liturgici si è concluso il Padre Nostro con una dossologia.In questa dossologia - che non è priva di paralleli nella bibbia e nelle liturgie ebraiche - la preghiera sfocia in lode e compie in tal modo il movimento: da lode a lode, da Regno a Regno, da speranza e attesa a vittoria e gloria.
CONCLUSIONE
In che modo Rabbi Akiba è riuscito a entrare nel PaRDeS, nel PaRaDiSo, attraverso Pshat, Remez, Darash e infine Sod, e a tornarne sano e salvo, con il suo intelletto e senza rinnegare la fede ortodossa? La questione resta aperta! Il maestro ebreo che mi raccontò questa storia "paradisiaca", Armand Abécassis, vive ora a Strasburgo, ma è di origine marocchina. È dunque ciò che si chiama un Sepharad o ebreo "occidentale". Il suo maestro, completamente immerso nell' ebraismo marocchino, risolveva l'enigma nel modo seguente. "Rabbi Akiba è tornato illeso dal PaRaDiSo perché era un SePaRaD!" Un Sepharad, come puoi ben notare, è qualcuno che prima dello Pshat mette unSod! Legge quindi dal Sod allo Pshat e finisce con il Darash! SPRD!Abbiamo analizzato il Padre Nostro, tendendo l'orecchio, su tutti e quattro i livelli. Forse alla fine di questa ricerca Rabbi Akiba, il SePaRaD ante litteram, può prestarci ancora un ultimo servizio. Se vogliamo pregare in modo nuovo il Padre Nostro, l'approccio che situa il Sod - il mistero - prima dello Pshat - Remez - Darash può essere estremamente fecondo. Al livello del Sod è infatti in primo luogo lo Spirito che prega in noi. Se gli concediamo la priorità nel nostro cercare con la preghiera, le antiche parole diventano di nuovo fuoco sulle nostre labbra e Dio si ritrova sulla nostra terra, così come noi sperimentiamo qui e ora il suo cielo.Benedetto (VI secolo) prescrive nella sua Regola che l'abate preghi il Padre Nostro a voce alta due volte al giorno, nella preghiera del mattino e in quella della sera. Inoltre, si prega il Padre Nostro alla fine delle ore minori, ma allora in silenzio. Chi presiede dice semplicemente: "Padre Nostro" e ciascuno continua a pregare nel suo cuore, finché chi presiede riprende a voce alta: "E non ci indurre in tentazione", al che tutti rispondono: "Ma liberaci dal male".Non vi è qui, in questa doppia maniera di pregare il Padre Nostro, un pratico specchio per la nostra prassi di preghiera, ai nostri giorni? Il Padre Nostro è una preghiera della comunità che dev'essere regolarmente recitata in forma pubblica. Contiene il nucleo della nostra fede cristiana, della nostra speranza e del nostro amore fraterno. Riunisce i temi più essenziali della predicazione di Gesù ed esprime con forza e concisione la nostra identità come suoi seguaci. Ogni commento al Padre Nostro non è anche una catechesi su ciò che è specificamente cristiano?Ma il Padre Nostro è anche l'intima preghiera del cuore, ispirataci dallo Spirito. Questa preghiera non conosce confini; divampa con molte parole o con una parola soltanto. Penetra più a fondo di tutte le formule prese insieme e in un ardore senza parole divampa pura davanti a Dio in Dio. Quotidianamente e anche più volte al giorno possiamo riprendere le antiche parole, e in un' espressione, in una sola supplica, effondere tutto il nostro cuore davanti a Dio. Forse dobbiamo per un certo tempo imparare di nuovo a regolare il ritmo del nostro sussurro interiore con questa ben nota preghiera orale che muove dalle ispirazioni comunicateci dallo Spirito, e soprattutto a fare attenzione alla sua azione, inabitazione, vicinanza, piuttosto che alla ripetizione esteriore di formule imposte. Quanto più grande è la nostra fede in Colui che lasciamo entrare in noi attraverso queste poche parole, tanto più semplice e spontanea può scorrere la preghiera. "Lo Spirito stesso viene a confermarci nel cuore che siamo figli di Dio. E lo siamo realmente, insieme con Cristo. Ma ciò che saremo non è ancora manifesto. Ora viviamo nella Speranza" (Rm 8; 1Gv 3.1 ss.).
NOTE1) Cf. A.Van Der Heide, "Pardes", in Amsterdamse Cahiers 3 (1982) pp. 118-165 e A. Abécassis, "L'aventure des quatre rabbis dans le Pardès" in Cahiers de l'Université de Saint-Jean de Jérusalem n 10 (1984) pp. 11-30.2) In certi antichi manoscritti e in alcuni Padri greci (per es. Gregorio di Nissa, IV secolo) si trova per la versione di Luca (11.2c) al posto di Venga il tuo Regno la seguente espressione: Venga il tuo santo Spirito su di noi e ci purifichi. Tertulliano, nel suo commento al Padre Nostro matteano, situa la terza richiesta (sulla volontà) prima di quella sul Regno. L'ordine delle prime tre richieste non sembra dunque essere dappertutto lo stesso verso il 200.3) La Didachè, che ricevette forma definitiva verso la fine del primo secolo o l'inizio del secondo, ma che raccoglie tradizioni antichissime, comprende anch'essa un Padre Nostro dal tenore strettamente parallelo a quello di Matteo, con l'aggiunta di una dossologia finale. Qua e là si possono notare anche alcune piccole divergenze."Padre nostro che sei nel cielo (sing.!)sia santificato il tuo Nome,venga il tuo Regno (eltheto invece di elthato di Matteo e Luca),sia fatta la tua volontà, come in cielo così in terra.Il nostro pane, l'epiousion,dacci oggie rimetti a noi il nostro debito (sing.!)come anche noi rimettiamo (aphiemen invece di aphekamen di Matteo e aphiomen di Luca) ai nostri debitori,e non farci entrare nella Provama liberaci dal Maligno,perché Tua è la potenza e la gloria (niente "Regno"!) nei secoli.(Didachè 8.2, senza Amen alla fine; la stessa dossologia ricorre al" tre due volte: 9.4 e 10.5). L'introduzione al Padre Nostro ricorda direttamente il contesto matteano nel discorso della montagna ("pregare come Gesù ha insegnato nel suo Vangelo", "non come gli ipocriti"). Il Padre Nostro viene poi visto come una preghiera regolare che si recita tre volte al giorno. Proprio come i giudei osservano il digiuno due volte la settimana, così i discepoli di Gesù in questo documento fanno lo stesso ma in giorni diversi (il mercoledì e il venerdì, in contrapposizione all'uso farisaico del lunedì e del giovedì!). La stessa cosa è dunque sottintesa per la preghiera: entrambi pregano tre volte al giorno.4) S.Dockx, "La genèse du Notre Père" in Chronologies 19842, p. 301.5) Cf. A.Hamman, Le Pater expliqué par les Pères, Paris 1962, pp. 168-170.6) Altre definizioni dell'unica volontà di Dio si trovano tra l'altroin Paolo: 1Ts 4.3,7; 5.16-18; Rm 12.1-2; Ef 1-3;in Matteo: 11.25; 16.17 ss.; 18.10,14; 26.39,42;in Giovanni: 4.34; 5.30; 6.39; 17.4; 19.30.7) Si veda la strofe d'apertura del Kaddish: "Magnificato e santificato sia il suo Nome nel mondo che Egli creò secondo la sua Volontà ed Egli stabilisca il suo Regno nella nostra vita e nei nostri giorni e nella vita della santa casa d'Israele, presto e in fretta".8) Op. cit., pp. 15-16.9) Origene nel suo commento sviluppò spontaneamente, meno da filologo ma tuttavia con una conoscenza del greco superiore alla media, la sua interpretazione sulla base del sostantivo ousia. Girolama tradusse sulle orme del suo predecessore greco: supersubstantialis (il più essenziale); la traduzione che la Vulgata dà dello stesso termine in Lc 11.3 è però (come l'antica Itala), panem quotidianum - il pane quotidiano.10) In questo contesto si cita spesso un detto di R. Eleazar di Modiim (ca. 90 d.C.): "Chi ha pane nel suo cesto e dice: 'Che cosa mangerò domani?', appartiene agli uomini di poca fede" (b.Sotah 48b).11) Esemplare è analoga alla nostra quarta richiesta nel Padre Nostro è la preghiera per la guarigione nella Amida delle Diciotto benedizioni. Si benedice Dio per il fatto che ci guarisce. Anche se non siamo malati, tuttavia lo benediciamo. Perché la nostra salute attuale è già un segno che Egli ci guarisce: sia che ci abbia salvato in passato, sia che ci protegga ora contro tutti i mali possibili. Inoltre il pio ebreo prega le Diciotto benedizioni al plurale: prega quindi con i malati d'Israele e a loro nome. Del resto, "se un membro è malato, tutto il corpo ne è affetto.,," (1Cor 12).
>>> Benoit Standaert
Olivier Clément
www.atma-o-jibon.org/italiano4/sommario
IL PADRE NOSTRO
www.atma-o-jibon.org/italiano3/piccoli_grandi_libriLa prima parola della. preghiera che Gesù ci insegna e che noi diciamo - in un certo senso - con lui, in lui, nel suo Spirito, è Padre: Pater hemon, "Padre di noi".Senza domande?
Fermiamoci innanzitutto su quella che è veramente la prima parola: "Padre". E una parola che per l'uomo odierno ha una strana risonanza: l'uomo di oggi è orfano, non ha radici al di fuori dello spazio-tempo, si sente smarrito in un universo senza limiti, discende dalla scimmia e va verso il nulla.
Gli è stato detto che la paternità nella famiglia o, in senso figurato, nella società era assurda e "repressiva", e lo è veramente se non trasmette un senso spirituale della vita: molti padri sono solo dei "genitori".
Gli è stato detto che "Dio Padre" era il nemico della sua libertà, una specie di spia celeste, un Padre sadico, castrante. E bisogna ammettere che la storia della cristianità, in Oriente come in Occidente, in un'epoca o in un' altra, ha sufficientemente convalidato questa accusa.
Molti di conseguenza oggi si indirizzano verso le spiritualità asiatiche, scientismo dell'interiorità in cui il divino, impersonale, fa pensare piuttosto a un'immensa matrice cosmica. Sì, siamo orfani. L'incesto e l'omosessualità, questi due segni dell'assenza del padre, assillano la nostra società. La morte del padre si inscrive nella paura dell'altro.
Per lo stesso motivo oggi aumenta stranamente la nostalgia del padre. E la chiesa ci insegna questa preghiera che inizia proprio con la parola "Padre" .
Questo Padre trascende la dualità sessuale. Giovanni Evangelista ci parla di "seno del Padre", tutta la bibbia ne evoca le "viscere di misericordia", rahamim, in senso uterino: questo Padre abbonda di matrici; generante, Egli "sente" i figli come una madre "sente" i suoi, con tutto l'essere, con tutta la carne, con le viscere.
E tuttavia: Padre. Il punto di arrivo, come suggerito da questa simbolica, non è di riassorbimento ma di comunione, una comunione liberante, che ci rende capaci di andare verso l'altro.Fermiamoci innanzitutto su quella che è veramente la prima parola: "Padre". E una parola che per l'uomo odierno ha una strana risonanza: l'uomo di oggi è orfano, non ha radici al di fuori dello spazio-tempo, si sente smarrito in un universo senza limiti, discende dalla scimmia e va verso il nulla.
Gli è stato detto che la paternità nella famiglia o, in senso figurato, nella società era assurda e "repressiva", e lo è veramente se non trasmette un senso spirituale della vita: molti padri sono solo dei "genitori".
Gli è stato detto che "Dio Padre" era il nemico della sua libertà, una specie di spia celeste, un Padre sadico, castrante. E bisogna ammettere che la storia della cristianità, in Oriente come in Occidente, in un'epoca o in un' altra, ha sufficientemente convalidato questa accusa.
Molti di conseguenza oggi si indirizzano verso le spiritualità asiatiche, scientismo dell'interiorità in cui il divino, impersonale, fa pensare piuttosto a un'immensa matrice cosmica. Sì, siamo orfani. L'incesto e l'omosessualità, questi due segni dell'assenza del padre, assillano la nostra società. La morte del padre si inscrive nella paura dell'altro.
Per lo stesso motivo oggi aumenta stranamente la nostalgia del padre. E la chiesa ci insegna questa preghiera che inizia proprio con la parola "Padre" .
Questo Padre trascende la dualità sessuale. Giovanni Evangelista ci parla di "seno del Padre", tutta la bibbia ne evoca le "viscere di misericordia", rahamim, in senso uterino: questo Padre abbonda di matrici; generante, Egli "sente" i figli come una madre "sente" i suoi, con tutto l'essere, con tutta la carne, con le viscere.
E tuttavia: Padre. Il punto di arrivo, come suggerito da questa simbolica, non è di riassorbimento ma di comunione, una comunione liberante, che ci rende capaci di andare verso l'altro.Gli è stato detto che la paternità nella famiglia o, in senso figurato, nella società era assurda e "repressiva", e lo è veramente se non trasmette un senso spirituale della vita: molti padri sono solo dei "genitori".Gli è stato detto che "Dio Padre" era il nemico della sua libertà, una specie di spia celeste, un Padre sadico, castrante. E bisogna ammettere che la storia della cristianità, in Oriente come in Occidente, in un'epoca o in un' altra, ha sufficientemente convalidato questa accusa.Molti di conseguenza oggi si indirizzano verso le spiritualità asiatiche, scientismo dell'interiorità in cui il divino, impersonale, fa pensare piuttosto a un'immensa matrice cosmica. Sì, siamo orfani. L'incesto e l'omosessualità, questi due segni dell'assenza del padre, assillano la nostra società. La morte del padre si inscrive nella paura dell'altro.Per lo stesso motivo oggi aumenta stranamente la nostalgia del padre. E la chiesa ci insegna questa preghiera che inizia proprio con la parola "Padre" .Questo Padre trascende la dualità sessuale. Giovanni Evangelista ci parla di "seno del Padre", tutta la bibbia ne evoca le "viscere di misericordia", rahamim, in senso uterino: questo Padre abbonda di matrici; generante, Egli "sente" i figli come una madre "sente" i suoi, con tutto l'essere, con tutta la carne, con le viscere.E tuttavia: Padre. Il punto di arrivo, come suggerito da questa simbolica, non è di riassorbimento ma di comunione, una comunione liberante, che ci rende capaci di andare verso l'altro.Fermiamoci innanzitutto su quella che è veramente la prima parola: "Padre". E una parola che per l'uomo odierno ha una strana risonanza: l'uomo di oggi è orfano, non ha radici al di fuori dello spazio-tempo, si sente smarrito in un universo senza limiti, discende dalla scimmia e va verso il nulla.
Gli è stato detto che la paternità nella famiglia o, in senso figurato, nella società era assurda e "repressiva", e lo è veramente se non trasmette un senso spirituale della vita: molti padri sono solo dei "genitori".
Gli è stato detto che "Dio Padre" era il nemico della sua libertà, una specie di spia celeste, un Padre sadico, castrante. E bisogna ammettere che la storia della cristianità, in Oriente come in Occidente, in un'epoca o in un' altra, ha sufficientemente convalidato questa accusa.
Molti di conseguenza oggi si indirizzano verso le spiritualità asiatiche, scientismo dell'interiorità in cui il divino, impersonale, fa pensare piuttosto a un'immensa matrice cosmica. Sì, siamo orfani. L'incesto e l'omosessualità, questi due segni dell'assenza del padre, assillano la nostra società. La morte del padre si inscrive nella paura dell'altro.
Per lo stesso motivo oggi aumenta stranamente la nostalgia del padre. E la chiesa ci insegna questa preghiera che inizia proprio con la parola "Padre" .
Questo Padre trascende la dualità sessuale. Giovanni Evangelista ci parla di "seno del Padre", tutta la bibbia ne evoca le "viscere di misericordia", rahamim, in senso uterino: questo Padre abbonda di matrici; generante, Egli "sente" i figli come una madre "sente" i suoi, con tutto l'essere, con tutta la carne, con le viscere.
E tuttavia: Padre. Il punto di arrivo, come suggerito da questa simbolica, non è di riassorbimento ma di comunione, una comunione liberante, che ci rende capaci di andare verso l'altro.Gli è stato detto che la paternità nella famiglia o, in senso figurato, nella società era assurda e "repressiva", e lo è veramente se non trasmette un senso spirituale della vita: molti padri sono solo dei "genitori".Gli è stato detto che "Dio Padre" era il nemico della sua libertà, una specie di spia celeste, un Padre sadico, castrante. E bisogna ammettere che la storia della cristianità, in Oriente come in Occidente, in un'epoca o in un' altra, ha sufficientemente convalidato questa accusa.Molti di conseguenza oggi si indirizzano verso le spiritualità asiatiche, scientismo dell'interiorità in cui il divino, impersonale, fa pensare piuttosto a un'immensa matrice cosmica. Sì, siamo orfani. L'incesto e l'omosessualità, questi due segni dell'assenza del padre, assillano la nostra società. La morte del padre si inscrive nella paura dell'altro.Per lo stesso motivo oggi aumenta stranamente la nostalgia del padre. E la chiesa ci insegna questa preghiera che inizia proprio con la parola "Padre" .Questo Padre trascende la dualità sessuale. Giovanni Evangelista ci parla di "seno del Padre", tutta la bibbia ne evoca le "viscere di misericordia", rahamim, in senso uterino: questo Padre abbonda di matrici; generante, Egli "sente" i figli come una madre "sente" i suoi, con tutto l'essere, con tutta la carne, con le viscere.E tuttavia: Padre. Il punto di arrivo, come suggerito da questa simbolica, non è di riassorbimento ma di comunione, una comunione liberante, che ci rende capaci di andare verso l'altro.Gli è stato detto che la paternità nella famiglia o, in senso figurato, nella società era assurda e "repressiva", e lo è veramente se non trasmette un senso spirituale della vita: molti padri sono solo dei "genitori".Gli è stato detto che "Dio Padre" era il nemico della sua libertà, una specie di spia celeste, un Padre sadico, castrante. E bisogna ammettere che la storia della cristianità, in Oriente come in Occidente, in un'epoca o in un' altra, ha sufficientemente convalidato questa accusa.Molti di conseguenza oggi si indirizzano verso le spiritualità asiatiche, scientismo dell'interiorità in cui il divino, impersonale, fa pensare piuttosto a un'immensa matrice cosmica. Sì, siamo orfani. L'incesto e l'omosessualità, questi due segni dell'assenza del padre, assillano la nostra società. La morte del padre si inscrive nella paura dell'altro.Per lo stesso motivo oggi aumenta stranamente la nostalgia del padre. E la chiesa ci insegna questa preghiera che inizia proprio con la parola "Padre" .Questo Padre trascende la dualità sessuale. Giovanni Evangelista ci parla di "seno del Padre", tutta la bibbia ne evoca le "viscere di misericordia", rahamim, in senso uterino: questo Padre abbonda di matrici; generante, Egli "sente" i figli come una madre "sente" i suoi, con tutto l'essere, con tutta la carne, con le viscere.E tuttavia: Padre. Il punto di arrivo, come suggerito da questa simbolica, non è di riassorbimento ma di comunione, una comunione liberante, che ci rende capaci di andare verso l'altro.Questo universo ha il proprio ambito nella parola, nel soffio, nell'amore del PadreQuindi: Padre. Cosa significa per la nostra vita quotidiana? Significa che non siamo mai, assolutamente mai orfani, smarriti, abbandonati alle forze e ai condizionamenti di questo mondo. Abbiamo una risorsa, abbiamo un'origine fuori dello spazio-tempo. Questo universo apparentemente illimitato - ma il tempo ha avuto inizio con il "big bang", ma lo spazio è ricurvo, contenuto, afferma Einstein - questo universo ha il proprio ambito nella parola, nel soffio, nell'amore del Padre. Le nebulose e gli atomi - anch'essi nebulose - amano il Padre in modo impersonale, con la loro stessa esistenza, ma noi, gli uomini, possiamo amarlo personalmente, rispondergli coscientemente, esprimere la sua parola cosmica: ciascuno di noi quindi, in virtù di questo legame personale con il Padre, è più nobile e più grande del mondo intero.I volti si imprimono al di là delle stelle, nell'amore del Padre. I momenti apparentemente effimeri della nostra vita, ognuno di quegli istanti in cui, come dice il poeta, "abbiamo avuto le vene colme di esistenza", si imprimono per sempre nella memoria amante del Padre.Allora il nichilismo della nostra epoca è sconfitto, l'angoscia che abita il nostro profondo può trasformarsi in fiducia, l'odio in adesione. Ecco cosa bisogna avvertire con forza ogni giorno - e lo dico in modo particolare ai giovani: è bello vivere, vivere è grazia, vivere è gloria, ogni esistenza è benedizione.Mi pare che nella letteratura dei popoli segnati dall' ortodossia, anche in scrittori non pienamente credenti - come il primo Tolstoj, o i grandi romanzieri siberiani contemporanei, o quel Vassili Grossman autore del mirabile Vita e destino - si ritrovi questo senso della bontà e della bellezza profonda degli esseri e delle cose, la grazia alla radice di ogni cosa, una paternità infinitamente misericordiosa che tutto ama. Ne deriva la capacità meravigliosa, che questi scrittori possiedono, di parlare dei bambini, dell'affetto tra genitori e figli, pregio così raro nella letteratura occidentale contemporanea. ..La nostra teologia e la nostra spiritualità sanno bene che è impossibile imprigionare in parole e in concetti questo mistero dell'origine. Ma Gesù ci svela che questo abisso - di cui parla anche l'India - è un abisso di amore, un abisso paterno. Con Gesù, in lui, nel suo soffio, noi osiamo balbettare: "Abba, Padre", parola di infinita tenerezza infantile: ecco tutto il paradosso cristiano.E Gesù ci rivela che questo paradosso, questa relazione paradossale, non esiste solo nel rapporto del Padre con la creazione, ma in Dio stesso, nel più assoluto dell'assoluto. In Dio stesso c'è l'origine senza origine, e l'Altro filiale, e il soffio di vita e di amore che riposa sull'Altro e lo riconduce all'origine, e noi in lui. In Dio stesso c'è il respiro dell'amore, questo grande mito di unità e di diversità. E noi, a immagine di Dio, siamo trascinati in questo ritmo.Solo che, in Dio, tra l'Origine e il suo Altro filiale, nel Soffio unificante, la risposta d'amore è immediata, la reciprocità d'amore è assoluta. Noi invece abbiamo bisogno del tempo, dello spazio, di una sorta di oscurità per andare verso la Luce e gli uni verso gli altri nello stesso tempo. Spesso noi siamo il figlio prodigo che dissipa i suoi averi con le prostitute, pascola i porci e brama nutrirsi di carrube. Tuttavia anche allora noi sappiamo che il Padre non solo ci attende, ma ci viene incontro. Il mondo non è una prigione bensì un passaggio oscuro - passaggio da attraversare, passaggio da decifrare in un contesto più ampio -, e in questo testo, un testo che redigiamo con Dio, tutto ha un senso, ciascuno è importante, ciascuno è necessario.Se tutto è benedetto dal Padre, dobbiamo, a nostra volta, benedirlo in ogni cosa. Dovremmo cercare di riscoprire, di rinnovare, di vivere interiormente tutte quelle formule di benedizione che la chiesa ci insegna e che associamo alle benedizioni. "E Dio vide che era cosa buona", tob, che significa "buono e bello"; d'altronde la Settanta traduce conkalon, "bello". Massimo il Confessore ci insegna a fare, in ogni sguardo attento, contemplativo sulle cose, una sorta di esperienza trinitaria: il fatto stesso che una cosa esista, riposi nell'essere, ci rimanda al Padre, "creatore del cielo e della terra, di tutte le cose visibili e invisibili..." (così, del resto, ogni cosa diventa il visibile del!'invisibile); il fatto che possiamo comprenderla, discernere in essa e ricostruire a partire da essa una struttura prodigiosamente "intelligente", ci rimanda al Figlio, Verbo, Sapienza e Ragione del Padre; il fatto che la cosa sia bella, si inserisca dinamicamente in un ordine, tenda verso una pienezza, ci rimanda allo Spirito, al Soffio vivificante, di cui Sergej Bulgakov diceva che è la personificazione della bellezza. Impariamo così a discernere nelle cose la Paternità di Dio, il Padre "con le due sante mani", il Verbo e lo Spirito - come diceva Ireneo di Lione - il Padre con la sua Sapienza e la sua Bellezza.Tuttavia l'esperienza trinitaria più fondamentale si inscrive nell'hemon che segue il Pater, nella seconda parola del Padre Nostro: "Padre - di noi". Di questo "noi" vorrei sottolineare due cose.La prima è che dobbiamo imparare a discernere il mistero di Dio sul volto del prossimo. L'orrore della storia, soprattutto in questo secolo, è che l'uomo, qui o là, si arroga un potere assoluto sull'uomo. Le ideologie pretendono di spiegare l'uomo, di ridurlo alla razza, alla classe, alla religione, alla cultura. E gli ideologi, "quelli che sanno", si sentono autorizzati, per il bene dell'umanità - così affermano -, a manipolare, condizionare, imprigionare, torturare e uccidere gli uomini. Sbocco, forse, di tutto un pensiero moderno inteso come volontà di carpire (è proprio il significato del termine Begriff, che significa "concetto" in tedesco) .In opposizione a questo dobbiamo capire che l'altro, chiunque sia, fosse pure un pubblicano, una prostituta, un samaritano (per usare i termini di Gesù, per nulla difficili da trasporre), l'altro, qualunque altro, è l'immagine di Dio, il figlio del Padre, altrettanto inspiegabile, altrettanto "inconcettualizzabile" che Dio stesso: la sua migliore definizione è di essere indefinibile.Impariamo a non più maledire, impariamo a non più disprezzare: "non esiste altra virtù che il non disprezzare", affermava un padre del deserto. L'altro è volto, interamente volto. E di fronte a un volto non ho alcun potere: posso soltanto, poiché questo volto è anche parola, cercare di rispondere, diventare re-sponsabile. Questo vale per i rapporti di amore, di amicizia, di collaborazione, vale nella famiglia come nella società, nei rapporti con gli altri cristiani come nella vita politica. Ricordati: non disprezzare!L'altra cosa che vorrei sottolineare, e che d'altronde è inseparabile dalla prima, è il rapporto tra la chiesa e l'umanità. "Padre - di noi": questo "noi" è soltanto la chiesa in cui siamo tutti "membra gli uni degli altri", secondo la struttura mirabilmente delineata da Vladimir Losskij: un solo corpo, un solo essere in Cristo, e ciascuno che incontra personalmente Gesù, ciascuno illuminato da una fiamma unica della Pentecoste - struttura trinitaria? Non credo. Il Verbo, afferma il prologo di Giovanni, "è la luce vera che illumina ogni uomo che viene nel mondo". Si può tradurre anche: "...che, venendo nel mondo, illumina ogni uomo". Il Verbo, incarnandosi, ha assunto in sé tutta l'umanità, tutti gli uomini, di ogni luogo e di tutti i tempi. Risuscitando, ha risuscitato tutti gli uomini.Non esiste un solo uomo
che non abbia una relazione misteriosa con Dio
La chiesa sono coloro, numerosi o scarsi poco importa, che scoprono tutto questo, entrano lucidamente in questa luce e ringraziano. A nome di tutti. La chiesa è il "sacerdozio regale", la "nazione santa" messa a parte per pregare, testimoniare, lavorare per la salvezza di tutti gli uomini. Sappiamo dov'è il cuore della chiesa: nell' evangelo, nell' eucaristia. Ma ignoriamo i limiti del suo irradiamento, perché l'eucaristia è offerta "per la vita del mondo".
Non esiste filo d'erba che non cresca nella chiesa, non una costellazione che non graviti attorno ad essa, attorno all'albero della croce, nuovo albero di vita, asse del mondo. Non esiste un solo uomo che non abbia una relazione misteriosa con il Padre che l'ha creato, con il Figlio, "uomo-estremo", con il Soffio che anima ogni vita. Non esiste unsolo uomo che non abbia un'aspirazione alla bontà, un sussulto davanti alla bellezza, un presentimento del mistero davanti all'amore e alla morte.
Molti, inondati di gioia, esclameranno nel giorno del giudizio: "Signore, quando ti abbiamo visto affamato e ti abbiamo dato da mangiare... straniero e ti abbiamo accolto, nudo e ti abbiamo vestito? Quando ti abbiamo visto malato o in carcere e siamo venuti a trovarti?". E si sentiranno rispondere:
"In verità vi dico, ogni volta che l'avete fatto a uno di questi piccoli, che sono miei fratelli, l'avete fatto a me!". E noi, lo facciamo?
Nella nostra vita quotidiana allora non facciamo della chiesa una setta o un ghetto. Impariamo a scoprire ovunque i germi di vita. Sappiamo accoglierli nella nostra intelligenza e nel nostro amore, sappiamo immagazzinarli come in granai nella preghiera della chiesa.
I "cieli" qui evocano il carattere inaccessibile, abissale del Padre, un Dio al di là di Dio, hypertheos dice Dionigi Areopagita. Ci si accosta a lui sondandone l'assenza, è la teologia negativa di cui parlavo prima; l'intelligenza misura i propri limiti sentendo rumoreggiare, sempre più lontano, l'oceano divino.
Pater hemôn ho en toîs ouranoîs Padre nostro quello nei cieli
Saper guardare l'azzurro,
lasciarci invadere, pulire
Poi viene il momento in cui cessa ogni attività mentale, quando l'uomo si raccoglie e tace, diventando pura attesa. Nella nostra vita quotidiana è necessario che ci siano attimi di profonda emozione silenziosa. I padri parlano per esempio della sensazione che si impadronisce dell'uomo quando arriva sul bordo di un'alta scogliera, con il mare che si apre vertiginosamente davanti a lui.
A volte bisogna sapersi fermare e ascoltare il silenzio, assaporare il silenzio, meravigliarsi, diventare come un calice pronto a essere colmato. Può essere un momento di calma in casa, una stanza in cui si è soli, una chiesa aperta in piena città, una passeggiata nel bosco. Può essere, nell'evangelo che si cerca di leggere ogni giorno, in un salmo, in un testo spirituale, una parola che tocca il cuore, che ci trafigge: allora non si prosegue, ci si ferma in un'attesa silenziosa, a volte colmata...
Ma perché è proprio il cielo a fungere da simbolo alla trascendenza? Indubbiamente perché l'azzurro profondo - specialmente nei paesi mediterranei - è contemporaneamente fuori della nostra portata e presente ovunque: tutto avvolge, tutto penetra con la sua luce. Nelle lingue arcaiche il termine corrispondente - "cielo brillante" - indica la divinità.
Dobbiamo saper guardare l'azzurro, lasciarcene invadere, lasciarci pulire, fino alle giunture delle nostre ossa. Perché mai molti giovani, che non vanno mai in chiesa, scalano le montagne, questi luoghi elevati, se non per entrare, in qualche modo, nell'azzurro? Perché vanno verso i mari del sud, dove l'acqua e il cielo si confondono in una sfera di pienezza, in una sfera d'azzurro?
"È ritrovata.Cosa? L'eternità.È il mare unito al sole"Eppure la sconvolgente rivoluzione dei tempi moderni fu la scoperta del cielo vuoto e illimitato, in cui né Dio né l'uomo sembrano più aver posto. Il cielo esultante dei salmi e del libro di Giobbe è diventato un'assenza nera. L'insensato di Nietzsche cerca invano Dio in un mondo in cui la terra va irrisoriamente alla deriva, in cui non c'è più né alto né basso, in cui fa sempre più freddo. Allora l'emozione suscitata dall'azzurro brillante rischia di ridursi a uno svago estivo. Il cielo divino va ritrovato altrove.
Altrove? Nel "cuore" affermano i nostri asceti. In quel centro più centrale, in quella profondità più profonda in cui tutto il nostro essere si raccoglie e si apre su un abisso di luce: l'azzurro interiore, colore dello zaffiro, come osservava Evagrio Pontico.
Uno dei nostri compiti quotidiani è proprio quello di destare in noi le forze del cuore profondo. Siamo soliti vivere nella testa e nel sesso, con il cuore spento. Ma lui solo può essere il crogiuolo in cui si trasfigurano l'intelligenza e il desiderio e, anche se non arriviamo fino all'abisso di luce, ne possono comunque scaturire delle scintille: un sussulto immenso e dolce infiamma il nostro cuore. Dobbiamo ritrovare il senso di questa emozione non emotiva, di questo sentimento non sentimentale, di questa vibrazione pacificante e sconvolgente di tutto l'essere, quando gli occhi si riempiono di lacrime di stupore e di gratitudine, tenerezza ontologica, silenzio colmato. Non riguarda solo i monaci, riguarda umilmente, parzialmente ogni uomo; arriverei a dire che è anche un problema di cultura.
Forze del cuore, amore della bellezza
In Reparto C di Solzenicyn, una giovane donna, responsabile di un servizio in un ospedale, chiede al suo superiore, il "vecchio dottore", da dove gli vengano la capacità di simpatia e, indissociabilmente, la sicurezza della diagnosi. Questi le risponde di essere stato a lungo scavato, illuminato dall'amore di una donna; 1'amore infatti, se è la grazia così rara di sapere che un altro esiste, può fendere il "cuore di pietra" e trasformarlo in "cuore di carne".Ma, aggiunge il "vecchio dottore", sono ormai anni che quella donna è morta. Adesso ha bisogno, in determinati momenti, di ritirarsi, di chiudersi, di fare silenzio in se stesso, di lasciare che il cuore si rappacifichi fino a diventare come un lago immobile sul quale si riflettono la luna e le stelle. Il silenzio e la pace rendono possibile la visita del Padre "che è nei cieli", e sullo specchio del cuore così visitato si inscrive la verità degli esseri e delle cose.Ed è anche una questione di cultura. Abbiamo bisogno di musica, di poesia, di romanzi, di canzoni, di tutta un'arte capace di essere anche arte popolare, in grado di destare le forze del cuore.A volte nel métro, a Parigi, mi raggiunge una canzone degli altipiani latino-americani: segue il confine sinuoso della morte e dell'amore, della rivolta e della celebrazione.È come la grande storia d'amore della letteratura araba: quella di Majnùn e di Laila. Majnùn, il folle, ama Laila, la notte. Laila ama Majnùn ma non gli rivela il proprio mistero e, sotto la forma di una gazzella, scompare nel deserto. Majnùn è ormai destinato all'erranza, e al canto (Queste osservazioni mi sono suggerite dal bel libro di Bernard Feillet, La nuit et le fou, Parigi 1983.). Abbiamo bisogno del canto di Majnùn, abbiamo bisogno di una bellezza che non sia bellezza di possesso, com'è così spesso il caso di oggi, ma proprio di spossesso, e forse di comunione, "la bellezza che crea la comunione", come afferma Dionigi Areopagita.E Giovanni Climaco parla di "quelle musiche profane che conducono alla gioia interiore, all'amore divino, alle sante lacrime". Il genio del cristianesimo è segretamente "filocalico" e "filocalia" significa" amore della bellezza": questa bellezza non dev'essere confinata nella liturgia, nel1'ascesi, ma deve risplendere anche nella cultura."Sia santificato il tuo Nome"Il Padre, fin dall'eternità, prende nome nel suo Verbo, nella sua Parola. E il Verbo si è fatto carne per rivelarci il Nome e santificarlo fino alla fine, poiché il Nome è la presenza, "separata" e radiosa a un tempo, cioè santa. La "santificazione del Nome", al tempo di Cristo, non significava solo 1'onore e la lode resi a Dio, ma la testimonianza fino all'effusione del sangue, fino al dono della vita, fino al martirio. Gesù ha santificato il Nome fino alla croce, e il Nome ha santificato lui fino alla resurrezione. Gesù crocifisso è "Uno della santa Trinità" crocifisso, come canta la liturgia bizantina. Gesù crocifisso è Dio crocifisso.
Là, nella spoliazione totale della croce si rivela il Nome proprio di Dio. E questo Nome è amore: "Dio è amore", afferma Giovanni. Per amore verso di noi, Dio ci raggiunge nella nostra sofferenza, nella nostra rivolta, nella nostra disperazione, nella nostra agonia: "Padre, se è possibile, allontana da me questo calice". "Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?". In tal modo ormai tra la nostra sofferenza e il nulla, tra la nostra rivolta, la nostra disperazione, la nostra agonia e il nulla si frappone il Dio incarnato e crocifisso, il quale, risuscitando, ci apre sbocchi inconsueti verso la luce.
Per "santificare il Nome" noi dobbiamo unicamente rifugiarci nella croce di Cristo. Il martirio cristiano è un'esperienza mistica in cui un uomo, una donna - spesso persone normalissime - si abbandona con umile fiducia a Cristo, nel momento dell'estrema sofferenza. Allora avviene l'irruzione della gioia della resurrezione.
Ci sono diversi modi di essere martiri: "beati i perseguitati per la giustizia... beati voi quando vi insulteranno...". Oppure, molto più banalmente, la malattia, il declino, la scomparsa dei propri cari, il tradimento e la solitudine, la morte. Nei confronti del prossimo, così come verso se stessi, bisogna innanzitutto combattere la sofferenza con una sollecitudine vigilante.
Il Nome non ha presa sulla Presenza,
ma ci offre a Lei
L'Occidente moderno ha fatto molto in questa direzione, ed è cosa buona. La sofferenza infatti può essere oscura, insensata, infernale: troppo spesso allora essa separa, ossessiona, diventa una morte prima della morte. Moderata e vissuta nella fede, può trasformare il corpo in una cella monastica, operando in noi il distacco e l'apertura.
Ma soprattutto devo pregare per vivere la mia sofferenza estrema e morire la mia morte identificando misteriosamente il mio corpo al corpo torturato di Cristo, affinché venga in me la "santificazione del Nome" e anche, se così piace a Dio, da me si irradi, come se completassi un po' di ciò che manca alle sofferenze di Cristo, per riprendere l'espressione di Paolo. Forse allora, attraverso l'angoscia e l'orrore, filtrerà una luce e potrò esclamare, con Gesù e in lui, non solo: "Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?", ma anche: "Padre, nelle tue mani affido il mio spirito".
Parlo di tutto questo alla prima persona. Quanto agli altri, non so: esistono solo dei casi particolari. Il cristianesimo non significa sapere tutto, vuol forse dire non sapere nulla eppure avere ugualmente fiducia.
A proposito della "santificazione del Nome", vorrei aggiungere ancora due cose.
La prima è che il Nome invoca ed evoca la Presenza. Non ha presa su di lei - come pretendono di averla le magie -, ci offre a lei. Due persone che iniziano ad amarsi ripetono l'una il nome dell'altra e spesso vi ritornano con il pensiero. Avviene la stessa cosa, e in modo estremamente più intenso, nel nostro rapporto con Cristo.
Tutti conoscono la cosiddetta "preghiera di Gesù", l'invocazione "Signore Gesù Cristo, Figlio di Dio, abbi pietà di me peccatore" ripetuta al ritmo del respiro. Nel monachesimo più antico si trova una gran quantità di brevi formule: "Kyrie eleison", "Ti prego, Signore, ti prego", "Signore, vieni in mio aiuto, affrettati a soccorrermi", "Come sai e come vuoi, aiutami", "Gloria a te, Signore, gloria a te"...
Possiamo inventarne altre. È un modo molto semplice, nella vita quotidiana, per "santificare il Nome" e per tutto santificare attraverso il Nome, per porre il Nome come sigillo d'eternità sugli esseri e sulle cose, per interpretare alla sua luce una determinata situazione. Dio infatti ci parla incessantemente attraverso le persone, le cose, gli eventi... Il Nome si rivela così inesauribile, un diamante dalle mille sfaccettature, ciascuna delle quali corrisponde a una cosa, a un volto, a una situazione...
Non si tratta, certo, per la maggior parte di noi, di "custodire" in continuazione l'invocazione del Nome, ma di far sgorgare, di tanto in tanto, un grido di aiuto, una celebrazione. Si tratta di non dimenticare Dio. L'oblio infatti, secondo tutti gli uomini spirituali, è il più grave dei peccati. L'oblio, il sonnambulismo, l'insensibilità dell'anima, la durezza del cuore: in queste circostanze allora ricordarsi di Dio, non fosse che per affrontarlo, come Giacobbe, per insorgere contro di lui, come Giobbe. Gridare a lui, al Dio vivente, e non tacere di fronte al muro di bronzo del destino, del nulla, dell'inevitabile disastro.
Signore, perché? "Mi hai preso come bersaglio", "Cesserai di guardarmi e mi lascerai almeno il tempo di ingoiare la saliva?" (sto citando Giobbe). Signore, vieni in mio aiuto. Guidami, illuminami. Non la mia ma la tua volontà. E nella gioia o, semplicemente, nell'umile piacere di esistere: Gloria a te, o Dio, gloria a te! Ci accorgiamo allora di avere molto più tempo per pregare di quanto non ci saremmo immaginati... L'invocazione del Nome: preghiera di quelli che non hanno il tempo di pregare.
"Respirare, o invisibile poesia"
L'altra cosa che vorrei dire a proposito della "santificazione del Nome" è che per Gesù non esiste una separazione statica tra il sacro e il profano, non ci sono regole che separano il puro dall'impuro. La nostra vita quotidiana si muove tra il Kiddush hashem, la "santificazione del Nome", e l' Hillul hashem, la "profanazione del Nome", e il confine tra i due è in costante movimento: passa per il nostro cuore, sulla nostra bocca che dice ciò che viene dal cuore, nel nostro sguardo.
Tutto può essere santificato, dato che, come afferma Zaccaria, "ogni pentola sarà consacrata al Signore" e che, secondo l'Apocalisse, "l'onore e la gloria" delle genti entreranno nella Gerusalemme celeste. Nessuno è definitivamente "buono" o "cattivo": per un pedagogo, per un giudice, per chiunque abbia delle responsabilità è questa la chiave per il rapporto con gli altri.
E se la tecnica ci affida e ci affiderà sempre più dei compiti fisicamente schiaccianti o intellettualmente meccanici, bisognerà che questo avvenga - ma sarebbe indispensabile una rivoluzione culturale - per permetterci di ritrovare la possibilità di santificare il Nome nel contatto con la materia, nell' esercizio di un' arte, nella padronanza serena dell'intelligenza incorporata nelle macchine.
" Venga il tuo Regno"Dopo il Padre e il Verbo nel quale prende Nome, ecco lo Spirito santo. Un' antichissima variante dell' evangelo di Luca riporta infatti "venga il tuo Spirito santo" anziché "venga il tuo Regno". Venga il tuo Spirito santo e ci comunichi il tuo Regno: la tua gloria, la tua shekinah, le tue energie, la tua grazia, la tua luce, la tua vita, la tua forza, la tua gioia... tutto questo indica la stessa realtà.
Il Regno, i cieli e la terra nuovi sono il cielo e la terra rinnovati in Cristo, penetrati dalla grazia dello Spirito che è vita pura, vita liberata dalla morte. Il mondo in Cristo costituisce l'autentico "roveto ardente", afferma Massimo il Confessore. Ma questo fuoco è coperto di scorie e di cenere, la ganga della nostra separazione, della nostra opacità, del nostro odio, di ogni nostra complicità con le potenze del caos e delle tenebre.
"Venga il tuo Regno": significa preparare, anticipare il ritorno di Cristo, eliminando le scorie e la cenere. Infatti il Regno di cui invochiamo la venuta è già segretamente presente, ogni celebrazione eucaristica abbozza la parusia, così come ci sono nella vita di ciascuno attimi eucaristici, scintille di parusia.
Non bisogna aver paura di questi attimi, di questa pienezza, la "pleroforia" di cui parlano gli spirituali. Attimi di preghiera silenziosa, di preghiera al di là della preghiera, quando il cuore si infiamma, attimi di tensione creatrice o di fiducia rappacificante, quando la luce dell'Ottavo Giorno spunta in una intuizione di verità, di bellezza, o in un autentico incontro in cui si scopre "l'oceano interiore di uno sguardo" e l'altro come un miracolo - come amava ripetere il patriarca Athenagoras. Attimi in cui ci si unisce, come in primavera - sono ancora espressioni di Athenagoras -, alla dossologia del primo mandorlo in fiore. Oppure attimi come quelli in cui, dopo i tormenti dell'agonia, il volto di un morente si rappacifica e "l'individuo - come fa notare Rosenzweig - rinuncia alle ultime vestigia della sua individualità per ritornare alla propria origine e il Sé si desta all' estrema singolarizzazione e all'ultima solitudine...".
In tutti questi momenti - e ciascuno di voi ne conosce numerosi altri - il Regno affiora misteriosamente. Allora tutto diventa estremamente leggero: non c'è più morte, nel senso in cui questa parola si appesantisce del nulla, esistono solo pasque, passaggi; non c'è più esteriorità separante: l'amore è talmente grande che lo stesso desiderio scompare, restano soltanto dei volti, e il volto è fatto interamente sguardo - come dice un' omelia di Macario - e la terra è sacra, sacramento, mentre le stelle, la notte sono i segnali di fuoco che i mondi angelici ci comunicano...
Capitemi bene: esiste un approccio narcisistico, grottescamente o tragicamente avido, al piacere, al godimento di esistere. Vi si combinano le due passioni "madri": l'ingordigia carnale e l'orgoglio spirituale... L'uomo rischia allora di decomporsi, come diceva Kierkegaard, in "piccole eternità di godimento". Degli esseri e delle cose non scorge altro che "ciò che cade sotto i sensi", ciò che - e lo stesso linguaggio è qui estremamente significativo - si può "mettere sotto i denti".
Ma il piacere, il godimento di esistere, provati con un certo distacco interiore, con gratitudine, nel rispetto degli esseri e delle cose e nella "santificazione del Nome", questo piacere e questo godimento possono diventare una gioia non passionale, nel senso ascetico del termine "passione", cioè non idolatrica. Sono allora ricordi del Paradiso, caparre del Regno. La danza, il ritmo del respiro - "respirare, o invisibile poesia!" dice Rilke -, il profumo della terra dopo il temporale, incenso cosmico, l'incessante, esicastico avvilupparsi e srotolarsi delle onde e delle nuvole, il "Cantico dei Cantici" di un grande e nobile amore in cui i corpi sono il sapore delle anime: tutto questo può diventare ricordo del Paradiso e caparra del Regno.
Ti basta capire che Dio ti amae il tuo cuore si desteràL'atto creatore che suscita bellezza, irradia la vita e l'amore, il sorriso di un neonato che scopre la propria esistenza nel profumo, nello sguardo e nella voce della madre: tutto questo può diventare ricordo del Paradiso e caparra del Regno.Nello Spirito, nel grande soffio del Dio vivente, i comandamenti di Cristo (che si riassumono nell' amore per Dio e nell' amore per l'altro e per se stessi: è così difficile accettar si, eppure... "amerai il prossimo tuo come te stesso") appaiono come i sentieri della responsabilità e della comunione.La rivelazione del Regno infatti è che non esiste nulla di superiore alle persone e alla comunione delle persone. Giustizia, verità, bellezza cessano di essere leggi per diventare energie vitali o, meglio ancora, la nostra partecipazione, mediante l'umanità di Cristo, alle energie divine corrispondenti.E se non riesci a "osservare i comandamenti", non considerarti mai perso, non ti inacidire in modo moralistico o volontaristico. Più a fondo, più in basso della tua vergogna o della tua caduta c'è Cristo. Volgiti a lui, lascia che ti ami, che ti comunichi la sua forza. E inutile che ti accanisci in superficie: è il cuore che deve capovolgersi.Non devi nemmeno cercare innanzitutto di amare Dio, ti basta capire che Dio ti ama. Se l'amore risponde all'amore, se il cuore profondo si desta, allora la vita stessa di Cristo, cioè il soffio dello Spirito si leverà in te. Ti basterà soltanto - ma ormai tu stesso ne avrai voglia - eliminare gli ostacoli, le incrostazioni, la ghiaia e il fango che nel tuo profondo ostruiscono la sorgente.Dovrai una buona volta respirare qualcosa di più profondo che non l'aria di questo mondo, "respirare lo Spirito", come diceva Gregorio Sinaita: questo soffio in te raggiungerà, libererà, esprimerà il gemito della creazione, l'attesa del cosmo di cui tutta la bibbia ci dice che è in gestazione, in genesi: cosmogenesi e, dopo l'incarnazione, cristogenesi (perché non riprendere, al di fuori di una sistematizzazione discutibile, questi bei termini forgiati da Teilhard?), cristogenesi in cui l'uomo deve comportarsi da re, sacerdote e profeta..."Sia fatta la tua volontà come in cielo così in terra"La volontà di Dio non è un valore giuridico, è un influsso di vita che dona l'esistenza e la rinnova quando essa si smarrisce. La volontà di Dio è innanzitutto la creazione stessa, l'universo intero sostenuto dalle idee-volontà, i logoi, le parole efficaci del Dio-profeta. E poi la storia di salvezza, il drammatico dialogo d'amore tra Dio e l'umanità affinché "tutti gli uomini siano salvati", sottolinea Paolo. E questo il motivo per cui dobbiamo pregare ogni giorno affinché davvero tutti siano salvati, pregare per tutti quelli che "non sanno, non vogliono o non possono pregare", come chiedeva ai suoi monaci il patriarca Giustino di Romania.
"Sia fatta la tua volontà..."
La storia, diceva Bulgakov, non è un corridoio vuoto
La volontà di Dio non è fatta. Il mondo, bello-e-buono secondo la Genesi, si trova immerso nell'orrore. C'è la luce, leggiamo nel prologo di Giovanni, ma ci sono anche le tenebre. L'onnipotenza di Dio è quella dell'amore. E come l'amore non può imporsi senza negarsi, così questa onnipotenza - capace di creare esseri che la rifiutano! - questa onnipotenza è anche un' onnidebolezza. Può agire solo attraverso cuori umani che, liberamente, si fanno trasparenti alla sua luce.
Dio rispetta la libertà dell'uomo, come ha rispettato quella dell' angelo. Ma affinché questa libertà non soccomba alle tenebre, egli si incarna e scende nella morte, nell'inferno, perché ci sia finalmente un luogo in cui la volontà dell'uomo possa unirsi alla volontà divina. Questo luogo è Cristo. In Cristo la volontà umana si è dolorosamente e gioiosamente unita a quella del Padre. Nel Risorto assiso alla destra del Padre la volontà di Dio è fatta come in cielo così in terra.
Anche qui ci basta aderire con tutto il nostro essere a Cristo. "Venite a me, voi che siete stanchi e affaticati e io vi darò riposo. Prendete su di voi il mio giogo e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per le vostre anime. Il mio giogo infatti è soave e il mio carico leggero." (Mt 11.28-30).
Il Regno, in cui la volontà di Dio è fatta come in cielo così in terra, "non è di questo mondo", e non si realizzerà nella storia. La preghiera perché si faccia la volontà di Dio ci offre così un uso disincantato, realistico e paziente della politica, laicizza l'esercizio del potere, relativizza le ideologie e gli entusiasmi della storia - la storia delle forze collettive, in senso marxista.
In un primo approccio non sogniamo di trasformare la società in paradiso, lottiamo perché non diventi un inferno, vi manteniamo gli equilibri necessari, che si tratti della "separazione dei poteri" di Montesquieu, o dei checks and balances della concezione anglosassone - e protestante - dello stato.
L'uomo di preghiera e di speranza evita come può da un lato il cinismo dei conservatori, la buona gestione dei mali cosiddetti inevitabili (per gli altri!), d'altro lato l'amarezza dei rivoluzionari, forzatamente delusi dalle rivoluzioni mai fatte e dalle rivoluzioni fatte troppo bene. Egli sa bene che la stupidità e l'odio non cesseranno mai, ma che questo non è un motivo per arrendersi!
Nello stesso tempo dobbiamo affermare, con Sergej Bulgakov, che "la storia non è un corridoio vuoto". Questa immensa forza di vita, di autentica vita, che la resurrezione ha immesso nel mondo e che deborda dal calice eucaristico e dalla preghiera dei santi, non può esprimersi solo in destini individuali. La società e la cultura sono dimensioni della persona e del rapporto tra persone.
L'humus segreto
dal quale si innalzeranno le foreste
La chiesa ortodossa ha insistito molto sulla santificazione della cultura, sull'impero come crisalide del Regno. Questo le ha permesso di sfuggire alle nostalgie, alla mentalità di fortezza assediata, per pensare l'universo e diventare o ridiventare l'humus segreto dal quale si innalzeranno le foreste del futuro. Non da sola, d'altronde, ma in collaborazione con tutte le ricerche convergenti - e in primo luogo cristiane -, con tutte le attese e le intuizioni della cultura contemporanea: che si tratti della rinnovata riflessione sui diritti dell'uomo o della metanoia abbozzata da una filosofia in cui ciò che non è oreficeria del nulla concerne la relazione e il volto, delle aperture della scienza o della critica all'economismo, sia marxista che liberale.Con il crollo delle ideologie e l'ascesa del nichilismo, è giunto il momento per un cristianesimo creatore. Anche pensa tori non cristiani, come Gramsci e Foucault, ci hanno suggerito che l'autentica infrastruttura della storia è la cultura. E noi, da parte nostra, siamo perfettamente coscienti che la cultura, a meno che non diventi una falsificazione, ,si nutre di ciò che è spirituale. È come nei movimenti tettonici: basta che le placche più profonde della scorza terrestre si spostino anche di pochi millimetri perché in superficie avvengano dei terremoti. Le vere rivoluzioni sono quelle dello spirito, ricordava Berdjaev; la "rivoluzione delle coscienze", invoca oggi il vescovo Ireneo di Creta. I filosofi religiosi russi della prima metà del secolo, i grandi dissidenti che sono venuti da oltre cortina o che là continuano a lavorare "sotto le macerie", hanno aperto delle piste, offerto un'ispirazione.Negli anni a venire saranno necessarie iniziative e proposte cristiane pienamente immerse nella pasta della società civile e della cultura. Ci sarà bisogno di cristiani che, possibilmente in gruppo e spalleggiati da comunità ecclesiali, propongano nuovi atteggiamenti, inventino nuove forme di vita nelle loro professioni, a scuola, nei tribunali, negli ospedali, nei quartieri abitati da squallore e disperazione in cui germina la violenza...Non ci sarà mai, se non come ideale e come fermento, una "civiltà dell'amore". Ci sarà sempre, nella vita delle collettività, un sottofondo di pulsioni irrazionali che bisogna saper gestire, utilizzare, contenere (e in questo i machiavellici moderati e lucidi sono più preziosi degli ingenui imbrattati di sentimentalismo).
Solo la santità può sanare in radice il male. Ma la santità, l'evangelo devono introdurre nella società una tensione, un fermento, oppure una ferita, tali da costituire il luogo stesso della libertà dello Spirito. E se non può esserci una completa e definitiva "civiltà della comunione", dobbiamo instancabilmente aprire quelle che in linguaggio tecnico vengono chiamate 'vie di comunicazione secondarie" !Solo la santità può sanare in radice il male. Ma la santità, l'evangelo devono introdurre nella società una tensione, un fermento, oppure una ferita, tali da costituire il luogo stesso della libertà dello Spirito. E se non può esserci una completa e definitiva "civiltà della comunione", dobbiamo instancabilmente aprire quelle che in linguaggio tecnico vengono chiamate 'vie di comunicazione secondarie" !Solo la santità può sanare in radice il male. Ma la santità, l'evangelo devono introdurre nella società una tensione, un fermento, oppure una ferita, tali da costituire il luogo stesso della libertà dello Spirito. E se non può esserci una completa e definitiva "civiltà della comunione", dobbiamo instancabilmente aprire quelle che in linguaggio tecnico vengono chiamate 'vie di comunicazione secondarie" !"Il pane nostro, quello venturo, dacci oggi"
Il pane nostro, il pane per noi, il pane che ci è necessario, noi lo chiediamo a Dio. Noi facciamo e dobbiamo fare quanto è necessario per ottenerlo, e per ottenerlo onestamente, attraverso il nostro lavoro, in una civiltà per quanto possibile onesta (è un punto sul quale tornerò). Tuttavia lo chiediamo a Dio come un dono, come una grazia. Il pane rappresenta tutto ciò che mi fa vivere: ebbene, il fatto che io oggi sono tuttora in vita suppone un incredibile intrecciarsi di circostanze favorevoli accumulate si durante decine di anni! Molte volte avrei potuto, avrei dovuto morire: guerre, incidenti, infarti, tumore, tentazione del suicidio, chi può dire? Questa o quella persona, il cui volto, la cui voce, la cui preghiera per me fanno parte del mio pane quotidiano, può morire da un momento all' altro. Quell'altra, magari un bimbo di cui vorrei proteggere o guidare il destino, mi sfugge completamente.
Esistono solo due vie d'uscita: l'angoscia, con tutti i diversi modi per fuggirla, senza grandi risultati, come ben sappiamo. Oppure la preghiera: il nostro pane, questo pane costituito da cibo, vestito, casa, sicurezza, civiltà, questo pane procuratoci da un fragile equilibrio biologico o psicologico, questo pane fatto anche di tanti affetti e sentimenti di cui si nutre il nostro animo, questo pane noi riconosciamo di riceverlo da Te: daccelo oggi. O semplicemente: dacci l'oggi. Altrimenti, se vuoi togliercelo, toglilo pure. Se così vuoi, io morrò oggi stesso: sono un servo inutile, liberami da questo gioco strano, in fondo estraneo a me... "Allora Giobbe, alzatosi, si strappò il manto, si rase il capo, e caduto a terra, prostrato disse: 'Nudo sono uscito dal ventre di mia madre e nudo vi farò ritorno! Il Signore ha dato e il Signore ha tolto: sia benedetto il Nome del Signore' " (Gb 1.20-21).Esistono solo due vie d'uscita: l'angoscia, con tutti i diversi modi per fuggirla, senza grandi risultati, come ben sappiamo. Oppure la preghiera: il nostro pane, questo pane costituito da cibo, vestito, casa, sicurezza, civiltà, questo pane procuratoci da un fragile equilibrio biologico o psicologico, questo pane fatto anche di tanti affetti e sentimenti di cui si nutre il nostro animo, questo pane noi riconosciamo di riceverlo da Te: daccelo oggi. O semplicemente: dacci l'oggi. Altrimenti, se vuoi togliercelo, toglilo pure. Se così vuoi, io morrò oggi stesso: sono un servo inutile, liberami da questo gioco strano, in fondo estraneo a me... "Allora Giobbe, alzatosi, si strappò il manto, si rase il capo, e caduto a terra, prostrato disse: 'Nudo sono uscito dal ventre di mia madre e nudo vi farò ritorno! Il Signore ha dato e il Signore ha tolto: sia benedetto il Nome del Signore' " (Gb 1.20-21).Esistono solo due vie d'uscita: l'angoscia, con tutti i diversi modi per fuggirla, senza grandi risultati, come ben sappiamo. Oppure la preghiera: il nostro pane, questo pane costituito da cibo, vestito, casa, sicurezza, civiltà, questo pane procuratoci da un fragile equilibrio biologico o psicologico, questo pane fatto anche di tanti affetti e sentimenti di cui si nutre il nostro animo, questo pane noi riconosciamo di riceverlo da Te: daccelo oggi. O semplicemente: dacci l'oggi. Altrimenti, se vuoi togliercelo, toglilo pure. Se così vuoi, io morrò oggi stesso: sono un servo inutile, liberami da questo gioco strano, in fondo estraneo a me... "Allora Giobbe, alzatosi, si strappò il manto, si rase il capo, e caduto a terra, prostrato disse: 'Nudo sono uscito dal ventre di mia madre e nudo vi farò ritorno! Il Signore ha dato e il Signore ha tolto: sia benedetto il Nome del Signore' " (Gb 1.20-21).Scintille della Presenza
Si tratta insomma di accogliere ogni giorno come un giorno di grazia. Non solo: questo pane, questa possibilità di sussistere, li chiediamo oggi, come "il pane che viene", cioè il pane del Regno. Ma il pane del Regno è l'eucaristia. Ebbene, noi chiediamo a Dio proprio questo: di ricevere oggi ogni pane, ogni sussistenza come se fosse l'eucaristia, cioè la comunione al suo corpo, alla sua presenza. Nella mistica ebraica si dice che la presenza, la shekinah, è esiliata - a causa del nostro accecamento - nel segreto degli esseri e delle cose.
Il compito quotidiano del credente è quello di discernere e di liberare queste scintille della Presenza, affinché possano raggiungere il braciere cui sono destinate, senza abbandonare la materia, ma trasfigurandola. Nella Venticinquesima ora, di Virgil Gheorghiu, si vede un contadino rumeno che mangia con serietà, attenzione e gratitudine, come se stesse ricevendo la comunione. Quando il pasto è festa dell'incontro, l'aspetto eucaristico aumenta ancor di più. "In ogni cosa fate eucaristia", invita Paolo.
C'è un modo di lavarsi, di vestirsi, di nutrirsi - sia di cibo che di bellezza -, un modo di accogliere l'altro che è eucaristico. C'è anche, ne sono convinto, un modo eucaristico di svolgere i doveri quotidiani, banali, pesanti, ripetitivi (dopo tutto il testo del Padre Nostro parla del pane, non del vino, e il pane comporta un'idea di necessità): è indispensabile una dose di sano distacco e, semplicemente, il ricordo di Dio, anche se gli si può offrire solo la propria fatica, il proprio sfinimento, al limite la propria incapacità di offrire.
Permettici di discernere negli esseri, nelle cose, nelle situazioni di oggi il volto e la parola del Cristo che viene.
Tutto il profumo del Regno
È cosa buona l'usanza ortodossa di invocare lo Spirito santo all'inizio di ogni attività di una certa importanza e di lodare la Madre di Dio alla fine: è la Madre che non abbiamo più o che non abbiamo avuto, è la consolazione che abbiamo atteso dalla donna - invano, naturalmente, dal momento che anche la donna ha bisogno di essere consolata. La Madre di Dio è già in pienezza nel Regno e ci aiuta a passare all' altra sponda; è la sintesi assoluta, in una persona creata, di ogni tenerezza e di ogni bellezza. La richiesta del pane prefigura quello che dovrebbe essere il nostro rapporto con la terra: il pane infatti è la terra lavorata dall'uomo. L'uomo distruggerà la terra oppure ne farà un'eucaristia.
La terra non è una dea, la tecnica finisce di strappare una persona dal ventre della terra stessa.
Ma non è nemmeno un insieme di energie da utilizzare ciecamente, con il rischio, così evidente oggi, di snaturare la natura. I cristiani devono proporre, per quanto riguarda i rapporti dell'umanità con la terra, non l'atteggiamento di un economicismo o di un ecologismo miopi, ma quello di una responsabilità amante e, poco alla volta, trasfigurante. "Nostra sorella la terra-madre", esclamava magnificamente Francesco d'Assisi. Nostra sorella, la nostra fidanzata che dobbiamo sposare con infinito rispetto affinché generi non solo il nostro pane quotidiano, ma il pane impregnato di tutto il profumo del Regno...
Dall'altare alla condivisione
La richiesta del pane, se vogliamo avanzarla senza incoscienza o ipocrisia, ci impone un' altra esigenza: quella della condivisione. La comunione eucaristica è condivisione, il "sacramento del fratello" è inseparabile da quello" dell'altare", diceva Giovanni Crisostomo. Il socialismo ateo, il comunismo con le sue persecuzioni sono sopraggiunti anche perché il mondo cristiano non ha saputo condividere, perché ha conservato il "sacramento del1'altare" dimenticando quello "del fratello". D'altronde ci è noto che questo dramma continua oggi e si aggrava a livello planetario.La condivisione va praticata innanzitutto da uomo a uomo, da famiglia a famiglia, magari nel quadro delle nostre parrocchie, che sarebbe auspicabile diventassero delle autentiche comunità. La condivisione va avviata nel nostro ambiente, favorita con le nostre prese di posizione civiche, su scala nazionale, nel rispetto e nell' accoglienza dello straniero, dell'immigrato, non per assimilarlo ma per salvaguardare, se lo desidera, la sua cultura. La condivisione va perseguita anche - lo ripeto a livello dell'intera umanità. Possiamo sognare, proporre, delineare un ordine economico mondiale. Abbiamo bisogno di economisti rigorosi e realisti, ma capaci anche di mettere la loro scienza a servizio della preghiera: dacci, a noi, gli uomini tutti, il pane necessario e che sia anche il pane del Regno, il pane della custodia fraterna e della bellezza. Ma siccome parliamo della vita quotidiana, allora dobbiamo pazientemente moltiplicare delle realizzazioni minime, nelle società ricche come in quelle povere, mettendole così in dialogo. È soprattutto opportuno elaborare un nuovo stile di vita, mediante il quale possiamo dare l'esempio, uno stile fondato sulla limitazione volontaria tesa a una condivisione planetaria..."E rimetti a noi i nostri debiti,come noi li rimettiamo ai nostri debitori""Rimetti a noi i nostri debiti": siamo debitori a Dio di tutto. Esistiamo unicamente grazie alla sua volontà creatrice, in virtù della sua Incarnazione che ci schiude la strada per la nostra piena realizzazione, che ci riconcilia con lui e ci dona la sua grazia. "Le creature sono poste sulla parola creatrice di Dio come su un ponte di diamante teso tra 1'abisso dell'infinità divina e 1'abisso del loro nulla", diceva Filarete di Mosca.Rinchiuderci in noi stessi, rifiutare questa relazione che ci dona l'esistenza significa votarsi alla distruzione e alla morte: è il nichilismo, soprattutto se si attribuisce al termine latino nihil - "nulla" - l'etimologia proposta da Pierre Boutang: nehile, la rottura dell'ilo, di questo filo esile ma vivificante che collega il seme al peduncolo... E anche là, forse soprattutto là, nel nihil, il Dio incarnato, crocifisso, disceso all'inferno, ci attende per rimetterci i nostri debiti...Bisognerebbe citare qui i testi sconvolgenti di Cabasilas sulla salvezza mediante 1'amore: di Cristo egli scrive che viene a noi di sua iniziativa, "e ci dichiara il suo amore, e supplica che il nostro amore risponda al suo. Di fronte a un rifiuto non si ritira, non si indigna per l'ingiuria. Respinto, aspetta sulla porta. Come un vero amante sopporta i soprusi e muore", per risuscitare e risuscitarci, per poco che lo accettiamo. "In cambio di tutto il bene che ci ha fatto Dio non chiede altro che il nostro amore; in cambio del postro amore ci rimette ogni nostro debito".
E Cabasilas, che era un laico, raccomanda a quanti non vivono in monastero di far ricorso a brevi meditazioni, a una sorta di richiami. Ricordarsi, mentre per strada si fa un passo dietro l'altro, che Dio esiste e che ci ama. Io esisto solo grazie a te, o Dio, esisto solo in te, perdonami di dimenticarlo così spesso, aiutami ad accettarmi come una tua creatura, come il primo dei peccatori, un peccatore perdonato, come un membro oscuro e doloroso del tuo corpo, della tua chiesa. Aiutami ad accettarmi con questi limiti voluti da te, nella certezza che tu, e solo tu, oltrepassi ogni limite...
"Signore, tutto è in te, anch'io sono in te, accettami", esclama un personaggio di Dostoevskij. Non posso muovere un solo passo, non solo per strada ma nella vita, senza ricordarmi del perdono e della misericordia di Dio, della sua volontà che io esista: altrimenti il disgusto di me stesso e la sensazione della mia inesistenza mi disintegrerebbero nel nulla o, per essere più esatti, nell'inferno.
"Rimetti a noi i nostri debiti": perché tu ci hai predestinati tutti, sì tutti noi uomini, a diventare figli nel tuo Figlio. "Rimetti a noi i nostri debiti": solo questo richiamo può liberarci sia dal narcisismo che dallo scoraggiamento, questa fatica di tutto 1'essere che oggi costituisce indubbiamente la forma più grave di peccato...
Ma c'è una condizione fondamentale perché possiamo vivere liberi e distaccati, nella grazia del nostro Signore: che anche noi rimettiamo i debiti a coloro che ci sono debitori. Come non evocare qui la parabola del debitore insolvente (cf. Mt 18.23-35)? E siamo tutti debitori insolventi! Un uomo doveva al re una somma di denaro colossale, ed era assolutamente incapace di estinguere il debito. Avrebbe quindi dovuto essere venduto come schiavo, assieme a tutta la sua famiglia. Ma il re, mossosi a pietà, gli perdona e gli rimette il debito.E Cabasilas, che era un laico, raccomanda a quanti non vivono in monastero di far ricorso a brevi meditazioni, a una sorta di richiami. Ricordarsi, mentre per strada si fa un passo dietro l'altro, che Dio esiste e che ci ama. Io esisto solo grazie a te, o Dio, esisto solo in te, perdonami di dimenticarlo così spesso, aiutami ad accettarmi come una tua creatura, come il primo dei peccatori, un peccatore perdonato, come un membro oscuro e doloroso del tuo corpo, della tua chiesa. Aiutami ad accettarmi con questi limiti voluti da te, nella certezza che tu, e solo tu, oltrepassi ogni limite..."Signore, tutto è in te, anch'io sono in te, accettami", esclama un personaggio di Dostoevskij. Non posso muovere un solo passo, non solo per strada ma nella vita, senza ricordarmi del perdono e della misericordia di Dio, della sua volontà che io esista: altrimenti il disgusto di me stesso e la sensazione della mia inesistenza mi disintegrerebbero nel nulla o, per essere più esatti, nell'inferno."Rimetti a noi i nostri debiti": perché tu ci hai predestinati tutti, sì tutti noi uomini, a diventare figli nel tuo Figlio. "Rimetti a noi i nostri debiti": solo questo richiamo può liberarci sia dal narcisismo che dallo scoraggiamento, questa fatica di tutto 1'essere che oggi costituisce indubbiamente la forma più grave di peccato...Ma c'è una condizione fondamentale perché possiamo vivere liberi e distaccati, nella grazia del nostro Signore: che anche noi rimettiamo i debiti a coloro che ci sono debitori. Come non evocare qui la parabola del debitore insolvente (cf. Mt 18.23-35)? E siamo tutti debitori insolventi! Un uomo doveva al re una somma di denaro colossale, ed era assolutamente incapace di estinguere il debito. Avrebbe quindi dovuto essere venduto come schiavo, assieme a tutta la sua famiglia. Ma il re, mossosi a pietà, gli perdona e gli rimette il debito.E Cabasilas, che era un laico, raccomanda a quanti non vivono in monastero di far ricorso a brevi meditazioni, a una sorta di richiami. Ricordarsi, mentre per strada si fa un passo dietro l'altro, che Dio esiste e che ci ama. Io esisto solo grazie a te, o Dio, esisto solo in te, perdonami di dimenticarlo così spesso, aiutami ad accettarmi come una tua creatura, come il primo dei peccatori, un peccatore perdonato, come un membro oscuro e doloroso del tuo corpo, della tua chiesa. Aiutami ad accettarmi con questi limiti voluti da te, nella certezza che tu, e solo tu, oltrepassi ogni limite..."Signore, tutto è in te, anch'io sono in te, accettami", esclama un personaggio di Dostoevskij. Non posso muovere un solo passo, non solo per strada ma nella vita, senza ricordarmi del perdono e della misericordia di Dio, della sua volontà che io esista: altrimenti il disgusto di me stesso e la sensazione della mia inesistenza mi disintegrerebbero nel nulla o, per essere più esatti, nell'inferno."Rimetti a noi i nostri debiti": perché tu ci hai predestinati tutti, sì tutti noi uomini, a diventare figli nel tuo Figlio. "Rimetti a noi i nostri debiti": solo questo richiamo può liberarci sia dal narcisismo che dallo scoraggiamento, questa fatica di tutto 1'essere che oggi costituisce indubbiamente la forma più grave di peccato...Ma c'è una condizione fondamentale perché possiamo vivere liberi e distaccati, nella grazia del nostro Signore: che anche noi rimettiamo i debiti a coloro che ci sono debitori. Come non evocare qui la parabola del debitore insolvente (cf. Mt 18.23-35)? E siamo tutti debitori insolventi! Un uomo doveva al re una somma di denaro colossale, ed era assolutamente incapace di estinguere il debito. Avrebbe quindi dovuto essere venduto come schiavo, assieme a tutta la sua famiglia. Ma il re, mossosi a pietà, gli perdona e gli rimette il debito."Non dovevi anche tu aver pietà del tuo compagno, come anch'io ho avuto pietà di te?"Non appena uscito, questo servitore incontra uno dei suoi compagni, che gli doveva una somma irrisoria. Lo afferra alla gola con ferocia spietata e lo fa gettare in prigione. Il re, avvisato, lo consegna alla rude giustizia dell' epoca, dicendogli: "Servo malvagio, ti avevo condonato tutto quel debito perché mi avevi supplicato. Non dovevi anche tu aver pietà del tuo compagno, come anch'io ho avuto pietà di te?".
Bisogna capire a fondo il movimento della parabola. Non è perché io rimetto i debiti ai miei debitori che Dio rimette i miei: io non condiziono il perdono di Dio. È perché Dio mi perdona, mi riconduce a lui, mi permette di esistere, libero, nella sua grazia, è perché sono invaso dalla gratitudine che estraggo gli altri dalle sabbie mobili del mio egocentrismo e permetto anche a loro di esistere nella libertà della grazia...
Noi continuiamo ad attenderci qualche cosa dagli altri. Ci devono il loro amore, la loro attenzione, la loro ammirazione. Non è l'altro che mi interessa, bensì la gratificazione che mi procura. La stoffa di cui sono fatto è vanità, suscettibilità. E siccome gli altri mi deludono costantemente, perché non possono rimborsarmi i loro debiti, allora li perseguito con il mio rancore, nutro verso di loro oscure passioni mortifere, mi perdo in una foresta di inestricabili vendette. Oppure, dall'alto della mia dignità offesa, mi ritiro per mio conto, mi avvolgo di indifferenza altezzosa e mi pago da solo i debiti degli altri, con moneta falsa.
Psicologicamente, in questo mondo contrassegnato dalla morte, non esiste via d'uscita. Ma se ci rendiamo conto che questo mondo è una tomba vuota riempita da una luce venuta da altrove, se percepiamo che Dio, in Cristo, ci rimette il nostro debito fondamentale, la morte - quella fisica e soprattutto quella spirituale - allora non abbiamo più bisogno né di schiavi né di nemici: né di schiavi che ci facciano credere che siamo dèi, né di nemici sui quali proiettare la nostra angoscia segreta.
Tentare, senza astio né masochismo,
di rispettare il segreto degli altri,
il loro rapporto con il mistero
Ci rendiamo conto che gli altri non ci devono nulla. Gli altri non mi appartengono. Ognuno di loro, come Dio di cui è immagine, è un soggetto libero, inaccessibile. Posso appropriarmene solo privandolo della sua libertà, cioè negandolo, al limite uccidendolo. E ci sono tanti modi di uccidere! Ma, come il Dio inaccessibile si rivela a me nella sua grazia, così anche l'altro, inaccessibile, può rivelarsi a me, ed è anche questa una grazia. Allora arrivo a capire che 'tutto è grazia", come scriveva Bernanos alla fine del suoDiario .di un curato di campagna.È vero che gli uomini hanno tra di loro dei rapporti normati dal diritto, che la legge li strappa - almeno esteriormente - agli impulsi mortiferi e regola esteriormente i loro rapporti, proteggendoli dall'arbitrio. Ma al di là c'è solo il perdono, l'accoglienza e, a volte, lo stupore.
Il santo - scriveva Simeone Nuovo Teologo - è "il povero che ama i fratelli". Povero perché riceve incessantemente se stesso dalle mani di Dio. Capace, di conseguenza, di essere il prossimo di tutti... Non siamo dei santi, pur tuttavia nella vita quotidiana dobbiamo tentare, senza astio né masochismo, di rispettare il segreto degli altri, la loro solitudine, il loro rapporto con il mistero.
In questa prospettiva, più conosco gli altri, più mi diventano degli sconosciuti. Anche con loro mi muovo "di principio in principio, attraverso principi con non hanno mai fine". Quando la promiscuità, l'usura della vita, o la brama - medica, pedagogica o, semplicemente, gelosa - di capire troppe cose attenuano l'alterità, basta essere un po' attenti: sopraggiunge un dettaglio incongruo, che sfugge ai miei schemi: allora viene ristabilita la distanza tra l'altro e me, distanza dolorosa e salutare, la distanza della rivelazione.
A volte dobbiamo saper diventare, nella preghiera silenziosa, quel "punto zero" in cui non ci apparteniamo più, non esistiamo più da noi stessi, riceviamo la grazia di sapere che gli altri esistono, al di fuori di noi altrettanto interiormente di noi: ciascuno diventa, come diceva Evagrio Pontico, "separato da tutti e unito a tutti".
"E non farci entrare nella tentazione,
ma liberaci dal Male (dal Maligno)..."
"Non farci entrare...": non è Dio che tenta, "Dio non tenta nessuno", afferma Giacomo (Gc 1.13). Siamo di fronte a un semitismo che significa: non lasciarci entrare, fa' che non entriamo nella tentazione, che non abbia il sopravvento su di noi. Quale "tentazione"? Certamente il mistero dell' apostasia finale. È un mistero che affiora in tutte le epoche del cristianesimo, dato che - dopo l'Incarnazione e la Pentecoste - siamo negli "ultimi tempi": "Avete udito che l'anticristo deve venire, e ora molti anticristi sono già sopraggiunti" (1Gv 2.18). Forse questo mistero sta assumendo contorni più precisi nel nostro tempo che è veramente un' apocalisse nella storia e che fa affiorare così tante cose terribili. Forse ci sembra così semplicemente perché è la nostra epoca, non più "apocalittica" di tante altre, come possiamo percepire studiando le crisi del passato."Abbiamo inventato la felicità,
dicono gli ultimi uomini,
e ammiccano"
La grande apostasia non è necessariamente l'ateismo. Il ribelle, perfino il bestemmiatore cerca Dio a modo suo. Di fronte al dolore del mondo c'è anche un ateismo di compassione, che si colloca senza dubbio nell' "Eli, Eli, lema sabactani" del Golgota. La grande apostasia sarebbe piuttosto di sentirsi guariti dalla malattia di Dio, guariti dall'interrogativo, alleggeriti del mistero, senza angoscia né stupore.
Non semplice assenza di Dio, ignoranza tranquilla di Dio, ma circonvenzione del desiderio di assoluto insito nell'uomo attraverso parodie atroci o seducenti: magie, droghe, parossismi; tortura ed erotismo - strettamente collegati, del resto; ebbrezze totalitarie di ieri (parlo dell'Europa); trasformazione odierna delle religioni in ideologie; sostituzione della comunione con la fusione, con il possesso, in tante forme dell' arte contemporanea, in tanti ambienti settari; invasione della parapsicologia e dell' occultismo che renderanno possibile un giorno l'incantamento delle masse ad opera di autori di pseudo-miracoli, di prodigi in cui si manifestano "poteri" e che trasmettono potenza, come quelli che Gesù ha rifiutato nel deserto.
Penso al Racconto sull'Anticristo di Vladimir Solov'ev, in cui si vede l'Anticristo, grande riformatore sociale e spiritualista qualificato, associarsi a un mago che offre all'umanità "prodigi e meraviglie". Penso all' "ultimo uomo" di Nietzsche, nel prologo di Zarathustra: "Guardate, io vi mostro l'ultimo uomo. 'Che cos'è l'amore? Che cos'è il creare? Che cos'è la nostalgia? la stella?' ecco ciò che si chiede l'ultimo uomo, ammiccando (...) 'Noi abbiamo inventato la felicità ', dicono gli ultimi uomini, e ammiccano (...) Un po' di veleno di tanto in tanto: questo procura piacevoli sogni. E poi molto veleno alla fine, per una piacevole morte (...) Ci sono piccoli svaghi per il giorno, e quelli per la notte: ma si tiene in gran conto la salute. 'Noi abbiamo inventato la felicità ', dicono gli ultimi uomini, e ammiccano.
Alcuni anni or sono ho avuto il piacere di incontrare Andrej Tarkovskij, il regista recentemente scomparso. Mi diceva che il rischio oggi è che gli uomini smettano di porsi la domanda; e che lui si era dedicato a ridestarli, a far capire loro che l'uomo è domanda. Mi confessava anche quanto si sentisse solo.
Dobbiamo restare uomini di angoscia e di stupore, uomini che non si accontentano di parole e di idoli, dobbiamo restare uomini che pongono la domanda, fosse anche al prezzo di una certa follia. Perché le chiese non hanno potuto accogliere un Nietzsche, un Artaud, un Kahlil Gibran, un Kazantzaki? Non è forse giunto il tempo in cui la chiesa dovrebbe offrire un luogo a quanti pongono la domanda?
"Non farci entrare nella tentazione": nella tentazione di dimenticarti, di crederci guariti dalla malattia di te, di parodiarti finemente o grottescamente, sempre grottescamente, tutto sommato.
" . . . ma liberaci dal male...". Il mondo giace nel male. E il male non è soltanto caos, assenza di essere: testimonia un'intelligenza perversa che, a forza di orrori sistematicamente assurdi, vuole farci dubitare di Dio e della sua bontà. Si tratta in realtà non della semplice "privazione del bene" - come dicevano i padri -, né di quella "mancanza di essere" con cui Lacan definiva l'uomo, bensì del Maligno, il Malvagio, non la materia, né il corpo, ma la più sublime intelligenza rinchiusa nella propria luce...
Dio non ha creato il male
Adorno ha scritto che dopo Auschwitz - e io aggiungerei dopo Hiroshima e i Gulag - non si dovrebbero più comporre poesie. Credo che si possa, che si debba sempre comporne; credo che si possa, che si debba sempre parlare di Dio, ma forse in altro modo. Bisogna affermare che Dio non ha creato il male e che non lo ha nemmeno permesso. "Il volto di Dio gronda sangue nell'ombra", diceva Léon Bloy con un'espressione spesso citata da Berdjaev.
Il male, Dio lo riceve in pieno volto, come Gesù ricevette degli schiaffi quando aveva gli occhi bendati. Il grido di Giobbe non cessa di risuonare e Rachele piange i suoi figli. Ma la risposta a Giobbe è stata e rimane data: è la Croce. È Dio crocifisso su tutto il male del mondo, ma capace di far scoppiare nelle tenebre un'immensa forza di risurrezione. Pasqua è la Trasfigurazione nell'abisso. "Liberaci dal male" significa 'Vieni, Signore Gesù", vieni, tu che sei già venuto per vincere l'inferno e la morte, tu che hai detto di aver visto "Satana cadere dal cielo come folgore" (Lc 10.18).
Questa vittoria è presente nella profondità della chiesa. Ne riceviamo la forza e la gioia ogni volta che ci comunichiamo. E se Cristo la tiene nascosta è perché vuole associarsi ad essa. "Liberaci dal male" è una preghiera attiva, una preghiera che ci impegna.
La chiesa intera è impegnata in questo combattimento finale, che non è per la vittoria ma per lo svelamento della vittoria: dai monaci che cercano il corpo a corpo con le potenze delle tenebre - facendo sì che i monasteri e gli eremi diventino come dei parafulmini per il mondo intero -, fino ai più umili tra di noi, timorosamente rannicchiati attorno alla croce di Cristo, che cercano pazientemente, giorno dopo giorno, di lottare contro tutte le forme del male, in noi, attorno a noi, nella cultura e nella società. Umili persone che rattoppano incessantemente il tessuto della vita, costantemente lacerato da colui che la Scrittura chiama "il Signore della morte".
Le scorie che uccidono
Ogni gesto di bene puro, non ideologico, non costrittivo; ogni azione di giustizia e di compassione; ogni scintilla di bellezza, ogni parola di verità consuma le scorie che ancora ricoprono la vittoria di Cristo sul divisore. Senza dimenticare che, quando si parla di Maligno, non bisogna guardare al prossimo bensì innanzitutto a se stessi. Senza dimenticare nemmeno che i grandi santi - come Isacco il Siro o il folle in Cristo de Le mie missioni in Siberia -, gli uomini più realisti, quanti hanno veramente vistol'inferno hanno pregato non solo: "Liberaci dal male" o "dal Maligno", ma anche: "se è possibile, libera dal male il Maligno, perché è anche lui una tua creatura..."."E libera dal male" noi che abbiamo vergogna di essere cristiani o che, al contrario, facciamo del cristianesimo, della nostra confessione, la bandiera della superiorità e del disprezzo."E libera dal male" noi che parliamo di "deificazione" e siamo troppo spesso così poco umani."E libera dal male" noi che facciamo così in fretta a parlare d'amore e non sappiamo nemmeno rispettarci reciprocamente."E libera dal male" me, uomo di angoscia e di tormento, così spesso diviso, così poco sicuro di esistere, uomo che osa parlare - assieme alla chiesa: è la mia unica scusa - del Regno e della sua gioia."O Unico, non togliermi il ricordo di queste sofferenze il giorno in cui mi laverai dal mio male e anche dal mio bene, il giorno in cui mi farai vestire di sole dai tuoi, dai sorridenti" (O.V.de L.Milosz, La Confession de Lémuel).Francesco di Sales ha predetto che in un momento decisivo della storia si produrrà la decatenatio sanctorum, lo "scioglimento" e lo "scatenarsi" dei santi. Oggi è la nostra preghiera e la nostra attesa. L'unione ora possibile, in Cristo vero Dio e vero uomo, delle contemplazioni immemorabili e dell'avventura moderna, l'incontro anche tra l'Occidente e l'Oriente cristiani, costituiscono indubbiamente altrettante condizioni favorevoli a questa decatenatio. Ecco ora il sabato santo, in cui la discesa agli inferi diventa vittoria sull'inferno, in cui si prepara il ritorno di Cristo o piuttosto il ritorno dell'universo e dell'umanità, attraverso Cristo, al Padre, affinché possa finalmente "asciugare ogni lacrima dai nostri occhi" (Ap 21.4).
"Perché a te appartengono il regno, la potenza e la gloria" - cioè la croce, l'amore, la vita finalmente vittoriosa - "Padre, Figlio e Spirito santo, nei secoli dei secoli. Amen"."Perché a te appartengono il regno, la potenza e la gloria" - cioè la croce, l'amore, la vita finalmente vittoriosa - "Padre, Figlio e Spirito santo, nei secoli dei secoli. Amen".A conclusione di questi itinerari sul Padre Nostro collochiamo un racconto risalente molto probabilmente ad ambienti monastici russi del XVIII secolo. Tolstoj alla fine del secolo scorso lo redasse nel suo ampio e calmo stile narrativo. Contiene una catechesi sapienziale sulla vera preghiera.
I TRE ANZIANI
"E quando pregate, non moltiplicate vane parole, come i pagani, che credono di essere esauditi a forza di parole. Non siate simili a loro, poiché il Padre vostro sa di che cosa avete bisogno, prima che gliela chiediate" (Mt 6.7-8). >>>
www.atma-o-jibon.org/italiano4/sommario
evocative_words1 PAROLE EVOCATIVE |
Nessun commento:
Posta un commento