IL Vangelo del giorno
O mors, ero mors tua,
Dal Vangelo secondo Giovanni 16,29-33.
Gli dicono i suoi discepoli: «Ecco, adesso parli chiaramente e non fai più uso di similitudini.
Ora conosciamo che sai tutto e non hai bisogno che alcuno t'interroghi. Per questo crediamo che sei uscito da Dio».
Rispose loro Gesù: «Adesso credete? Ecco, verrà l'ora, anzi è gia venuta, in cui vi disperderete ciascuno per conto proprio e mi lascerete solo; ma io non sono solo, perché il Padre è con me.
Vi ho detto queste cose perché abbiate pace in me. Voi avrete tribolazione nel mondo, ma abbiate fiducia; io ho vinto il mondo!».
COMMENTO
Il cuore della fede di Isrele è lo Shemà: "Ascolta Israele, il Signore è il nostro Dio, il Signore è uno. Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua mente, con tutte le tue forze". Esso è il primo comandamento, la sintesi della Torah, la vita stessa del Popolo di Israele. Nelle parole di Gesù che chiudono il discorso pronunciato durante l'ultima cena, preludio alla grande preghiera del Capitolo XVII, è chiara e distinta l'eco dello Shemà. Un solo Dio, ed un Popolo scelto, eletto per manifestarlo. Un Popolo unico per un Dio unico. La santità di Dio, ovvero il suo essere totalmente altro, separato (significato della parola "santo") riverbera nella santità del Popolo, di ogni suo membro. La missione di Israele è la santità, un popolo diverso da tutte le Nazioni per mostrare un Dio unico e diverso da tutti gli dei. L'Alleanza, sigillata nella circoncisione, esprime il rapporto di amore fedele tra Dio ed il suo Popolo, il mezzo attraverso il quale la presenza di Dio nel mondo si fa autentica e credibile. "Siate dunque santi, perché io sono santo (Lv 11,45), diceva il libro del Levitico. La santità esigeva irrimediabilmente la separazione dal mondo e da tutti coloro che rifiutavano la legge. Essa era garantita dall'osservanza meticolosa delle regole di purità. In effetti il Levitico enumera le categorie fondamentali dell'ebraismo: il puro e l'impuro, il sacro e il profano, il consentito e il proibito. Questo codice proponeva una scala da percorrere per raggiungere la santità" (F. Manns, Voi, chi dite che io sia?).
Nelle parole di Gesù emerge evidente la sua missione, che coincide con quella dei suoi discepoli, primizie dell'Ecclesia, l'assemblea del nuovo Israele. Gesù è il Santo di Dio, unto di Spirito Santo per rendere testimonianza alla Verità, compiendo sino alla fine lo Shemà. Per questo i discepoli, figli di Israele, credono d'aver capito, di sapere che Gesù è davvero l'inviato, il Messia atteso, uscito da Dio. Le sue parole toccano il loro cuore, in esse rivive la storia del loro Popolo, le attese e le speranze si coagulano in quel loro Maestro; seppur confusamente, intuiscono che di lì a poco avrebbe compiuto il miracolo di "ristabilire Israele" nella sua missione, nella santità per la quale era stata eletto. Ancora un istante prima dell'Ascensione si porranno infatti questa domanda, l'interrogativo che cerca disperatamente una risposta al grido della carne, della storia, del Popolo oppresso ingiustamente: "come vivere la santità in un paese in cui comandano i pagani? Un gruppo di farisei proporrà una soluzione radicale: se si crede nel regno di Dio occorre opporsi fortemente al «regno dell'impertinenza». La resistenza si organizzerà proprio in Galilea. Terra essenzialmente agricola, la Galilea era anche l'itinerario obbligatorio tra il porto di Cesarea e Damasco. La Via Maris passava vicino al lago di Galilea. I pescatori del lago di Tiberiade costituivano una realtà economica importante della provincia. La città di Magdala era celebre per la sua industria di salatura del pesce. Erode Antipa costruì la città di Tiberiade nell'anno 18 d.C. sul posto in cui c'era un cimitero. Per tale motivo gli ebrei si rifiutarono a lungo di abitarvi. Questo fatto isolato prova da solo il grado di religiosità che animava i galilei. Questi costituivano in gran parte una popolazione ebraica proveniente da Babilonia e recentemente insediata in quella regione da Erode. Non stupisce che il moto di ribellione contro i romani si sia originato in Galilea. Non si tratta più della Galilea delle nazioni, ma della Galilea degli zelanti della legge. Atti 5,37 evoca la rivolta di Giuda il Galileo. La situazione doveva peggiorare fino alla guerra ebraica dell'anno 66. L'insurrezione in Galilea, organizzata dagli zeloti dopo l'anno 50, si radica in una profonda tradizione religiosa: Dio è il re d'Israele e il padrone della storia. Il dono della terra è il segno dell'alleanza. Arrogarsi la proprietà della terra come fanno i romani significa dar prova di un orgoglio smisurato, dell'appartenenza al regno dell'impertinenza. Essendosi i romani imposti con la forza, occorre fare tutto il possibile per liberare la terra. Alla violenza bisogna rispondere con la violenza. La sete di libertà che animava i rivoltosi scaturiva dal più stretto monoteismo. Era lo zelo della legge a spingerli ad agire." (F. Manns, ibid.).
Non possiamo dimenticare che gli Apostoli erano originari della Galilea, non a caso dunque il luogo dove più forte era la tensione e l'aspettativa messianica. Nel Cenacolo le parole di Gesù, sovrapposte all'esperienza dei tre anni trascorsi con Lui, planavano nei cuori di questi galilei confusi ma affascinati: esse intercettavano la loro speranza, e, seppure misteriosamente, le conferivano un contenuto e una ragione nuove. Per loro il mondo da cui Israele era stato separato, santificato, era il regno dell'impertinenza, e doveva essere distrutto. Per questo le parole di Gesù, decodificate attraverso i loro criteri, suonavano come l'annuncio del compimento delle loro speranze. Il loro leader, Pietro, aveva già dovuto fare i conti con il rimprovero di Gesù, sentendosi apostrofare come satana, il cui pensiero non coincide con quello di Dio. Ma non era stato sufficiente, se di lì a poco, nel Getsemani, inforcherà la spada e taglierà l'orecchio al servo del centurione.
Gli Apostoli credono di sapere, ma non si conoscono, e non conoscono Gesù. La Parola che è stata loro annunciata li ha mondati, santificati, ma in questo momento essa rimane ancora come un torrente d'acqua sotterraneo, che irriga le profondità della loro anima, ma che non è tuttavia sgorgato per dissetare l'uomo nuovo, libero, riscattato dalla schiavitù della carne. Essi intuiscono, ma resta loro da compiere il tratto più difficile, quello decisivo: scendere negli abissi della verità circa se stessi di fronte all'abisso della verità testimoniata da Gesù: lo scandalo della Croce, la dispersione e la solitudine. Solo discendendo l'ultimo gradino che conduce alla piscina battesimale si può sperimentare nella propria vita il compimento del Mistero Pasquale del Signore. Solo riconoscendo la dispersione e la dissipazione del proprio cuore, della propria mente e delle proprie forze - l'antitesi dello Shemà - si può conoscere e accogliere nella fede il compimento dello Shemà in Gesù, la prova decisiva della sua identità. E' drammatico e doloroso, ma sono le stesse parole profetiche di Gesù ad annunciarlo e a decretarne la veridicità: i discepoli, e noi con loro, abbiamo lasciato solo il Signore. Lo scandalo del Getsemani, il male che si abbatte su Gesù, l'ingiustizia e quella sua mansuetudine oltre ogni limite ragionevole, la spada della Croce, il sepolcro sigillato, ci hanno scandalizzato e disperso. La malattia di nostro figlio, quel lato sconosciuto ed oscuro del carattere del nostro coniuge, il licenziamento, il tradimento dell'amico, e la nostra debolezza inguaribile, quel cadere sempre negli stessi peccati. Ed il male nel mondo, la sofferenza degli innocenti, le guerre, i terremoti, i disastri, le ingiustizie. La Croce ci ha disperso, ognuno per conto proprio, a cercare le ragioni, a riflettere illudendoci, con Cartesio, di esistere in virtù del pensiero, a preparare e realizzare rivoluzioni, ad inginocchiarci dinanzi alla scienza, alla politica, alla cultura. All'uomo, alla sua carne. Separati dal mondo vi ci siamo caduti dentro, e abbiamo scoperto di non essere migliori nè diversi dai figli del regno dell'impertinenza. Come gli Apostoli, abbiamo lasciato solo Gesù, l'unico santo, ci siamo allontanati dall'unica Verità, dall'unica Via, dall'unica Vita. Ci siamo dispersi e abbiamo strappato lo Shemà in mille pezzi, abbiamo dimenticato la primogenitura e l'elezione, e con esso abbiamo visto la vita sbriciolarsi senza più senso. "Speravamo fosse Lui a liberarci...". Oggi, come ieri, nella storia dei Popoli come nella nostra storia. Abbiamo lasciato solo Gesù e ci siamo ritrovati nella solitudine assoluta. E quel rivolo d'acqua, la Parola che ci ha scelti ed eletti, irrevocabile, a sostenerci e a prepararci, misteriosamente, all'irrompere della Grazia. Anche noi, come gli Apostoli, bisognosi di salvezza e redenzione, del perdono. Come il mondo.
Ma è proprio questo il paradosso che ci salva, che strappa ogni uomo dalla morte: l'abisso della nostra solitudine ha incontrato la solitudine di Cristo, ed in essa, la sua intimità con il Padre. La nostra vuota solitudine ha incontrato la sua colma solitudine. Lui non era solo! Pur sperimentando nella sua carne l'abbandono totale, pur gridando sulla croce "Dio mio, perchè mi hai abbandonato?" Gesù non era solo: attraverso quel legno era inchiodato alla volontà del Padre, ed in essa gli era più intimo che mai, nell'amore che compiva lo Shemà. Nel sepolcro non era solo, perchè in Lui si compivano le parole del salmo 23: "anche se dovessi camminare per una valle oscura non temerei alcun male, perchè tu sei con me"; e quelle del Salmo 16: "anche il mio corpo riposa al sicuro, perché non abbandonerai la mia vita negli inferi, né lascerai che il tuo fedele veda la corruzione". Proprio nel cortocircuito della nostra solitudine con la sua, è scoccata la scintilla della verità: Il Padre è con Gesù, in Gesù. E nell'amara solitudine della storia, della nostra storia di oggi, si svela l'impensabile: essa non è preludio della fine di tutto, è il grembo dove vedere e riconoscere l'amore di Dio; nell'abisso della nostra dissipazione brilla la verità che ci fa liberi, l'amore dello Shemà compiuto per noi da Cristo
Possiamo allora avere pace in Lui, riposare nel suo amore. E' l'esperienza dei discepoli, cercati e amati da Gesù risuscitato: nessun giudizio, solo un amore e una misericordia sconfinati. Il suo apparire vittorioso sulla morte schiude le loro menti all'intelligenza delle Scritture, di ogni profezia, della Legge di Santità, dello Shema. Bisognava che il Figlio dell'uomo soffrisse e morisse... Era necessario anche il loro scandalo della Croce, il dramma della verità. Dovevano scoprirsi mondani ed impertinenti come gli altri, peggio degli altri, dei pagani, che almeno non avevano conosciuto il Signore. Era il mistero della volontà di Dio, perchè i discepoli potessero vedere, credere e sperimentare, attraverso la loro infedeltà, la loro debolezza, i loro peccati, i loro adulteri e la loro idolatria, la mondanizzazione del loro cuore, l'amore di Dio, lo Shemà compiuto, l'unicità e la santità di Dio. Non bastava una toppa su un vestito vecchio, slabbrato in mille compromessi con il mondo; era necessario un abito nuovo, senza strappi, occorreva rivestirsi di Cristo; spogliarsi dell'uomo vecchio che si corrompe dietro le passioni ingannatrici che strappano lo Shemà originario per il quale ogni uomo è creato. Bisognava rivestire l'uomo nuovo, ricreato in Cristo, che si rinnova nel compimento di un ascolto obbediente, lo Shemà che si fa amore totale. Occorreva passare dalla dispersione all'unità, dalla solitudine all'intimità. E' questa la vittoria di Cristo, lo Shemà compiuto, la santità di Dio incarnata nella debolezza di ogni uomo! La vittoria sul mondo è la vittoria sulla dispersione, sulla disgregazione, sulla solitudine, sulla morte.
"Giovanni usa la parola «cosmos» - mondo - in un duplice senso. Da una parte, essa indica tutta la buona creazione di Dio, particolarmente gli uomini come creature sue, che Egli ama fino alla donazione di se stesso nel Figlio. Dall'altra, la parola designa il mondo umano come storicamente si è sviluppato: in esso corruzione, menzogna, violenza sono diventate, per così dire, la cosa «naturale». Proprio questa è la missione di Gesù, nella quale i discepoli vengono coinvolti: condurre il «mondo» fuori dall'alienazione dell'uomo da Dio e da se stesso, affinché il mondo torni ad essere di Dio e l'uomo, nel diventare una cosa sola con Dio, torni ad essere totalmente se stesso: Questa trasformazione, però, ha il prezzo della croce e per i testimoni di Cristo quello della disponibilità al martirio. (J. Ratzinger - Benedetto XVI, Gesù di Nazaret, Volume II). La Galilea dei Gentili, non a caso il luogo dell'Incarnazione, diviene così, attraverso gli Apostoli, immagine del mondo tornato ad essere di Dio. E' in Galilea che Gesù dà appuntamento ai suoi, dove appare loro risuscitato. E' la Galilea il mondo strappato al mondo, il luogo della vittoria di Cristo! E' sulle rive del Mare di Galilea che Pietro incontra il perdono e la missione; è sul Monte delle Beatitudini che il mondo diviene il luogo dell'annuncio di vittoria. La Galilea della nostra vita, ogni centimetro di questo mondo, disperso, rancoroso, preda della solitudine. E' la nostra storia la Galilea che attende il riscatto, perchè ogni uomo ritorni ad essere se stesso, santo, unico perchè creato ad immagine dell'unico Dio.
"Io ho vinto il mondo!. Cristo è forse contro il mondo? Quando vince la morte, Egli rivela di nuovo all’uomo il mondo; questo mondo, che scaccia Dio dal cuore dell’uomo, viene restituito da Cristo a Dio e all’uomo, come spazio dell’alleanza originaria, che deve essere anche l’alleanza definitiva quando Dio sarà tutto in tutti." (Giovanni Paolo II, Benedizione Urbi et orbi, Domenica di Pasqua del 1990). Restituiti da Cristo a Dio e all'uomo, ecco gli Apostoli, ecco ciascuno di noi! Risuscitati nello Shemà del Figlio diveniamo anche noi testimoni e annunciatori di questo stesso amore che ci ha salvato, della vittoria di Cristo. Il cammino che ci aspetta non può che essere il suo. Il cammino della solitudine, quella ricolma della presenza del Padre, nel compimento della sua volontà. Avremo tribolazioni nel mondo; con il figlio che si ribella e non ne vuol sapere nulla del cristianesimo, delle preghiere, della Chiesa; con i colleghi di lavoro; con gli amici che ci inducono a giocare sporco; con il fidanzato che reclama ed esige un amore carnale. Nelle tentazioni, all'esterno e all'interno di noi. Ovunque, con chiunque, perchè il mondo è stretto dall'angoscia della solitudine, lo sappiamo per esperienza. Ma l'amore a nostro figlio, a nostro marito, ai nostri genitori, alla fidanzata, all'amico, l'amore autentico è soprattutto solitudine, la solitudine di Cristo. Senza di essa non può apparire e compiersi la sua vittoria.
"In Lui Dio e uomo, Dio e il mondo sono in contatto. In Lui si realizza ciò che il rito del giorno dell'Espiazione intendeva esprimere: nella donazione di sé sulla croce, Gesù depone, per così dire, tutto il peccato del mondo nell'amore di Dio e lo scioglie in esso. Accostarsi alla croce, entrare in comunione con Cristo significa entrare nell'ambito della trasformazione e dell'espiazione." (J. Ratzinger - Benedetto XVI, Gesù di Nazaret, Volume II). Per questo è necessaria la tribolazione, l'essere schiacciati, pestati, secondo il significato del termine originale greco: che il male ed il peccato vengano deposti, attraverso di Cristo vivo in noi, nel tino della nostra storia, per essere schiacciati dall'amore di Dio. "Mi calpestano sempre i miei nemici, molti sono quelli che mi combattono. / Nell'ora della paura io in te confido leggiamo "... Perché è tenuto nel torchio il suo corpo, cioè la sua chiesa. Che significa " nel torchio" ? Nelle angustie. Ma ben fecondo è questo essere spremuti nel torchio. Finché è sulla vite, l'uva non subisce pressioni: appare intera, ma niente da essa scaturisce. La si mette nel torchio, la si calpesta e schiaccia; sembra subire un danno, invece questo danno la rende feconda, mentre al contrario, se le si volesse risparmiare ogni danno rimarrebbe sterile. Orbene tutti i santi che soffrono persecuzioni da parte di coloro che si sono allontanati dai santi, stiano attenti a questo salmo e vi riconoscano sé stessi ... Il primo grappolo d'uva schiacciato nel torchio è Cristo. Quando tale grappolo venne spremuto nella passione, ne è scaturito quel vino il cui calice inebriante quanto è eccellente!" (S. Agostino, Esposizione sui Salmi, 55). Occorre passare per la porta stretta e angusta di cui parla Gesù, secondo un altro significato della stessa parola. Sono le tribolazioni di Cristo, quelle sofferte per noi che ora, in noi, salvano coloro ai quali siamo inviati. Avremo tribolazioni, saremo soli, ma non dobbiamo temere, il Signore ha vinto il mondo: "Nel tino ho pigiato da solo e del mio popolo nessuno era con me. Li ho pigiati con sdegno. Il loro sangue è sprizzato sulle mie vesti e mi sono macchiato tutti gli abiti." (Is. 63,3).
Il trofeo della vittoria di Cristo è proprio la solitudine che possiamo assumere, ovvero il rifiuto, il non essere compresi, l'odio, l'invidia, il rancore, l'ingiustizia . Soli per essere santi, perchè la santità è la solitudine! "Allora Balaam pronunziò il suo poema e disse: "Dall'Aram mi ha fatto venire Balak, il re di Moab dalle montagne di oriente: Vieni, maledici per me Giacobbe; vieni, inveisci contro Israele!". Come imprecherò, se Dio non impreca? Come inveirò, se il Signore non inveisce? Anzi, dalla cima delle rupi io lo vedo e dalle alture lo contemplo: ecco un popolo che dimora solo e tra le nazioni non si annovera. Chi può contare la polvere di Giacobbe? Chi può numerare l'accampamento d'Israele? Possa io morire della morte dei giusti e sia la mia fine come la loro. Come sono belle le tue tende, Giacobbe, le tue dimore, Israele!" (cfr. Nm. 23-24). Un popolo che dimora solo, e proprio per questo testimone e vessillo di salvezza. Israele, ed il Messia che ha compiuto questa profezia, e i suoi fratelli, la santa Chiesa di Dio, e ciascuno di noi. Soli con il Solo, per strappare il mondo a stesso. Soli nel rifiuto del figlio, per salvarlo. Soli nella gelosia della moglie, per amarla. Soli ovunque, nell'intimità piena con Gesù, e in Lui con il Padre, per mostrare a tutti la bellezza delle tende di Israele, la vita divina nella debole tenda della carne; dimorare soli tra le Nazioni, nella santità dello Shemà, perchè la maledizione del mondo si trasformi, come fu per Balaam, in benedizione. Perchè ogni uomo possa desiderare la stessa solitudine, la Croce di un amore infinito, la morte, la fine, il compimento dei giusti, di ciascuno di noi, frutti splendenti della vittoria di Cristo.
San Giovanni della Croce (1542-1591), carmelitano, dottore della Chiesa
Avvisi e sentenze, 173-177
«Voi avrete tribolazioni nel mondo, ma abbiate fiducia; io ho vinto il mondo»
Abbiate cura di mantenere il vostro cuore nella pace; non sia turbato da alcun evento di questo mondo; pensate che quaggiù tutto finisce.
In tutti gli avvenimenti, per quanto infausti siano, dobbiamo rallegrarci invece di rattristarci, per non perdere un bene più prezioso, che è la pace e la calma dell'animo.
Quand'anche tutto quaggiù crollasse e tutti gli avvenimenti ci fossero avversi, sarebbe inutile turbarci, poiché il turbamento ci porterebbe più danno che profitto.
Sopportare tutto con la stessa stabilità di umore e nella pace, è non soltanto aiutare l'animo ad acquistare grandi beni, ma anche disporre l'animo a giudicare meglio le avversità in cui si trova e a portarvi il rimedio adeguato.
Il cielo è stabile e non è soggetto a cambiamenti. Allo stesso modo le anime che sono di natura.
San Paolino di Nola (355-431), vescovo
Lettera 38, 3-4 : PL 61, 359-360.
« Voi avrete tribolazione nel mondo, ma abbiate fiducia. Io ho vinto il mondo. »
Fin dall'origine del mondo, il Cristo soffre in tutti i suoi. Egli è «il principio e la fine». nascosto nella Legge, rivelato nel Vangelo, Egli è il Signore sempre mirabile, che soffre e trionfa « nei suoi santi » (Sal 67, 36). In Abele, è stato assassinato da suo fratello ; in Noè, è stato ridicolizzato da suo figlio ; in Abramo, ha conosciuto l'esilio ; in Isacco, è stato offerto in sacrificio ; in Giacobbe, è stato ridotto a servo ; in Giuseppe, è stato venduto ; in Mosè, è stato abbandonato e respinto ; nei profeti, è stato lapidato e lacerato ; negli apostoli, è stato perseguitato per terra e per mare ; nei tanti suoi martiri, è stato torturato e assassinato. E' lui che, ancora adesso, sopporta le nostre debolezze e le nostre malattie, essendo uomo, lui stesso, esposto per noi ad ogni sorta di mali e capace di assumere la debolezza che saremmo assolutamente incapaci de assumere senza di lui. E' lui, sì, è lui che sopporta in noi e per noi, il peso del mondo, per liberarcene. Ecco come « la potenza si manifesta pienamente nella debolezza » (2 Cor 12,9). E' lui che in te sopporta il disprezzo, ed è lui che in te, viene odiato da questo mondo. Rendiamo grazie al Signore che, pur chiamato in giudizio, ottiene la vittoria (Rm 3, 4). Secondo questa parola della Scrittura, è lui che trionfa in noi quando, assumendo la condizione di servo, acquista per i suoi servi la grazia della libertà
Beato Henri Suso (circa 1295-1366), domenicano
Il Libro della Sapienza eterna
« Perché abbiate pace in me »
Da "I Segni dei Tempi" |
O mors, ero mors tua,
morsus tuus ero, inferne.
O morte, io sarò la tua morte,
O inferno, io sarò il tuo morso.
Antifona delle lodi del Giovedì Santo
Dal Vangelo secondo Giovanni 16,29-33.
Gli dicono i suoi discepoli: «Ecco, adesso parli chiaramente e non fai più uso di similitudini.
Ora conosciamo che sai tutto e non hai bisogno che alcuno t'interroghi. Per questo crediamo che sei uscito da Dio».
Rispose loro Gesù: «Adesso credete? Ecco, verrà l'ora, anzi è gia venuta, in cui vi disperderete ciascuno per conto proprio e mi lascerete solo; ma io non sono solo, perché il Padre è con me.
Vi ho detto queste cose perché abbiate pace in me. Voi avrete tribolazione nel mondo, ma abbiate fiducia; io ho vinto il mondo!».
COMMENTO
Il cuore della fede di Isrele è lo Shemà: "Ascolta Israele, il Signore è il nostro Dio, il Signore è uno. Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua mente, con tutte le tue forze". Esso è il primo comandamento, la sintesi della Torah, la vita stessa del Popolo di Israele. Nelle parole di Gesù che chiudono il discorso pronunciato durante l'ultima cena, preludio alla grande preghiera del Capitolo XVII, è chiara e distinta l'eco dello Shemà. Un solo Dio, ed un Popolo scelto, eletto per manifestarlo. Un Popolo unico per un Dio unico. La santità di Dio, ovvero il suo essere totalmente altro, separato (significato della parola "santo") riverbera nella santità del Popolo, di ogni suo membro. La missione di Israele è la santità, un popolo diverso da tutte le Nazioni per mostrare un Dio unico e diverso da tutti gli dei. L'Alleanza, sigillata nella circoncisione, esprime il rapporto di amore fedele tra Dio ed il suo Popolo, il mezzo attraverso il quale la presenza di Dio nel mondo si fa autentica e credibile. "Siate dunque santi, perché io sono santo (Lv 11,45), diceva il libro del Levitico. La santità esigeva irrimediabilmente la separazione dal mondo e da tutti coloro che rifiutavano la legge. Essa era garantita dall'osservanza meticolosa delle regole di purità. In effetti il Levitico enumera le categorie fondamentali dell'ebraismo: il puro e l'impuro, il sacro e il profano, il consentito e il proibito. Questo codice proponeva una scala da percorrere per raggiungere la santità" (F. Manns, Voi, chi dite che io sia?).
Nelle parole di Gesù emerge evidente la sua missione, che coincide con quella dei suoi discepoli, primizie dell'Ecclesia, l'assemblea del nuovo Israele. Gesù è il Santo di Dio, unto di Spirito Santo per rendere testimonianza alla Verità, compiendo sino alla fine lo Shemà. Per questo i discepoli, figli di Israele, credono d'aver capito, di sapere che Gesù è davvero l'inviato, il Messia atteso, uscito da Dio. Le sue parole toccano il loro cuore, in esse rivive la storia del loro Popolo, le attese e le speranze si coagulano in quel loro Maestro; seppur confusamente, intuiscono che di lì a poco avrebbe compiuto il miracolo di "ristabilire Israele" nella sua missione, nella santità per la quale era stata eletto. Ancora un istante prima dell'Ascensione si porranno infatti questa domanda, l'interrogativo che cerca disperatamente una risposta al grido della carne, della storia, del Popolo oppresso ingiustamente: "come vivere la santità in un paese in cui comandano i pagani? Un gruppo di farisei proporrà una soluzione radicale: se si crede nel regno di Dio occorre opporsi fortemente al «regno dell'impertinenza». La resistenza si organizzerà proprio in Galilea. Terra essenzialmente agricola, la Galilea era anche l'itinerario obbligatorio tra il porto di Cesarea e Damasco. La Via Maris passava vicino al lago di Galilea. I pescatori del lago di Tiberiade costituivano una realtà economica importante della provincia. La città di Magdala era celebre per la sua industria di salatura del pesce. Erode Antipa costruì la città di Tiberiade nell'anno 18 d.C. sul posto in cui c'era un cimitero. Per tale motivo gli ebrei si rifiutarono a lungo di abitarvi. Questo fatto isolato prova da solo il grado di religiosità che animava i galilei. Questi costituivano in gran parte una popolazione ebraica proveniente da Babilonia e recentemente insediata in quella regione da Erode. Non stupisce che il moto di ribellione contro i romani si sia originato in Galilea. Non si tratta più della Galilea delle nazioni, ma della Galilea degli zelanti della legge. Atti 5,37 evoca la rivolta di Giuda il Galileo. La situazione doveva peggiorare fino alla guerra ebraica dell'anno 66. L'insurrezione in Galilea, organizzata dagli zeloti dopo l'anno 50, si radica in una profonda tradizione religiosa: Dio è il re d'Israele e il padrone della storia. Il dono della terra è il segno dell'alleanza. Arrogarsi la proprietà della terra come fanno i romani significa dar prova di un orgoglio smisurato, dell'appartenenza al regno dell'impertinenza. Essendosi i romani imposti con la forza, occorre fare tutto il possibile per liberare la terra. Alla violenza bisogna rispondere con la violenza. La sete di libertà che animava i rivoltosi scaturiva dal più stretto monoteismo. Era lo zelo della legge a spingerli ad agire." (F. Manns, ibid.).
Non possiamo dimenticare che gli Apostoli erano originari della Galilea, non a caso dunque il luogo dove più forte era la tensione e l'aspettativa messianica. Nel Cenacolo le parole di Gesù, sovrapposte all'esperienza dei tre anni trascorsi con Lui, planavano nei cuori di questi galilei confusi ma affascinati: esse intercettavano la loro speranza, e, seppure misteriosamente, le conferivano un contenuto e una ragione nuove. Per loro il mondo da cui Israele era stato separato, santificato, era il regno dell'impertinenza, e doveva essere distrutto. Per questo le parole di Gesù, decodificate attraverso i loro criteri, suonavano come l'annuncio del compimento delle loro speranze. Il loro leader, Pietro, aveva già dovuto fare i conti con il rimprovero di Gesù, sentendosi apostrofare come satana, il cui pensiero non coincide con quello di Dio. Ma non era stato sufficiente, se di lì a poco, nel Getsemani, inforcherà la spada e taglierà l'orecchio al servo del centurione.
Gli Apostoli credono di sapere, ma non si conoscono, e non conoscono Gesù. La Parola che è stata loro annunciata li ha mondati, santificati, ma in questo momento essa rimane ancora come un torrente d'acqua sotterraneo, che irriga le profondità della loro anima, ma che non è tuttavia sgorgato per dissetare l'uomo nuovo, libero, riscattato dalla schiavitù della carne. Essi intuiscono, ma resta loro da compiere il tratto più difficile, quello decisivo: scendere negli abissi della verità circa se stessi di fronte all'abisso della verità testimoniata da Gesù: lo scandalo della Croce, la dispersione e la solitudine. Solo discendendo l'ultimo gradino che conduce alla piscina battesimale si può sperimentare nella propria vita il compimento del Mistero Pasquale del Signore. Solo riconoscendo la dispersione e la dissipazione del proprio cuore, della propria mente e delle proprie forze - l'antitesi dello Shemà - si può conoscere e accogliere nella fede il compimento dello Shemà in Gesù, la prova decisiva della sua identità. E' drammatico e doloroso, ma sono le stesse parole profetiche di Gesù ad annunciarlo e a decretarne la veridicità: i discepoli, e noi con loro, abbiamo lasciato solo il Signore. Lo scandalo del Getsemani, il male che si abbatte su Gesù, l'ingiustizia e quella sua mansuetudine oltre ogni limite ragionevole, la spada della Croce, il sepolcro sigillato, ci hanno scandalizzato e disperso. La malattia di nostro figlio, quel lato sconosciuto ed oscuro del carattere del nostro coniuge, il licenziamento, il tradimento dell'amico, e la nostra debolezza inguaribile, quel cadere sempre negli stessi peccati. Ed il male nel mondo, la sofferenza degli innocenti, le guerre, i terremoti, i disastri, le ingiustizie. La Croce ci ha disperso, ognuno per conto proprio, a cercare le ragioni, a riflettere illudendoci, con Cartesio, di esistere in virtù del pensiero, a preparare e realizzare rivoluzioni, ad inginocchiarci dinanzi alla scienza, alla politica, alla cultura. All'uomo, alla sua carne. Separati dal mondo vi ci siamo caduti dentro, e abbiamo scoperto di non essere migliori nè diversi dai figli del regno dell'impertinenza. Come gli Apostoli, abbiamo lasciato solo Gesù, l'unico santo, ci siamo allontanati dall'unica Verità, dall'unica Via, dall'unica Vita. Ci siamo dispersi e abbiamo strappato lo Shemà in mille pezzi, abbiamo dimenticato la primogenitura e l'elezione, e con esso abbiamo visto la vita sbriciolarsi senza più senso. "Speravamo fosse Lui a liberarci...". Oggi, come ieri, nella storia dei Popoli come nella nostra storia. Abbiamo lasciato solo Gesù e ci siamo ritrovati nella solitudine assoluta. E quel rivolo d'acqua, la Parola che ci ha scelti ed eletti, irrevocabile, a sostenerci e a prepararci, misteriosamente, all'irrompere della Grazia. Anche noi, come gli Apostoli, bisognosi di salvezza e redenzione, del perdono. Come il mondo.
Ma è proprio questo il paradosso che ci salva, che strappa ogni uomo dalla morte: l'abisso della nostra solitudine ha incontrato la solitudine di Cristo, ed in essa, la sua intimità con il Padre. La nostra vuota solitudine ha incontrato la sua colma solitudine. Lui non era solo! Pur sperimentando nella sua carne l'abbandono totale, pur gridando sulla croce "Dio mio, perchè mi hai abbandonato?" Gesù non era solo: attraverso quel legno era inchiodato alla volontà del Padre, ed in essa gli era più intimo che mai, nell'amore che compiva lo Shemà. Nel sepolcro non era solo, perchè in Lui si compivano le parole del salmo 23: "anche se dovessi camminare per una valle oscura non temerei alcun male, perchè tu sei con me"; e quelle del Salmo 16: "anche il mio corpo riposa al sicuro, perché non abbandonerai la mia vita negli inferi, né lascerai che il tuo fedele veda la corruzione". Proprio nel cortocircuito della nostra solitudine con la sua, è scoccata la scintilla della verità: Il Padre è con Gesù, in Gesù. E nell'amara solitudine della storia, della nostra storia di oggi, si svela l'impensabile: essa non è preludio della fine di tutto, è il grembo dove vedere e riconoscere l'amore di Dio; nell'abisso della nostra dissipazione brilla la verità che ci fa liberi, l'amore dello Shemà compiuto per noi da Cristo
Possiamo allora avere pace in Lui, riposare nel suo amore. E' l'esperienza dei discepoli, cercati e amati da Gesù risuscitato: nessun giudizio, solo un amore e una misericordia sconfinati. Il suo apparire vittorioso sulla morte schiude le loro menti all'intelligenza delle Scritture, di ogni profezia, della Legge di Santità, dello Shema. Bisognava che il Figlio dell'uomo soffrisse e morisse... Era necessario anche il loro scandalo della Croce, il dramma della verità. Dovevano scoprirsi mondani ed impertinenti come gli altri, peggio degli altri, dei pagani, che almeno non avevano conosciuto il Signore. Era il mistero della volontà di Dio, perchè i discepoli potessero vedere, credere e sperimentare, attraverso la loro infedeltà, la loro debolezza, i loro peccati, i loro adulteri e la loro idolatria, la mondanizzazione del loro cuore, l'amore di Dio, lo Shemà compiuto, l'unicità e la santità di Dio. Non bastava una toppa su un vestito vecchio, slabbrato in mille compromessi con il mondo; era necessario un abito nuovo, senza strappi, occorreva rivestirsi di Cristo; spogliarsi dell'uomo vecchio che si corrompe dietro le passioni ingannatrici che strappano lo Shemà originario per il quale ogni uomo è creato. Bisognava rivestire l'uomo nuovo, ricreato in Cristo, che si rinnova nel compimento di un ascolto obbediente, lo Shemà che si fa amore totale. Occorreva passare dalla dispersione all'unità, dalla solitudine all'intimità. E' questa la vittoria di Cristo, lo Shemà compiuto, la santità di Dio incarnata nella debolezza di ogni uomo! La vittoria sul mondo è la vittoria sulla dispersione, sulla disgregazione, sulla solitudine, sulla morte.
"Giovanni usa la parola «cosmos» - mondo - in un duplice senso. Da una parte, essa indica tutta la buona creazione di Dio, particolarmente gli uomini come creature sue, che Egli ama fino alla donazione di se stesso nel Figlio. Dall'altra, la parola designa il mondo umano come storicamente si è sviluppato: in esso corruzione, menzogna, violenza sono diventate, per così dire, la cosa «naturale». Proprio questa è la missione di Gesù, nella quale i discepoli vengono coinvolti: condurre il «mondo» fuori dall'alienazione dell'uomo da Dio e da se stesso, affinché il mondo torni ad essere di Dio e l'uomo, nel diventare una cosa sola con Dio, torni ad essere totalmente se stesso: Questa trasformazione, però, ha il prezzo della croce e per i testimoni di Cristo quello della disponibilità al martirio. (J. Ratzinger - Benedetto XVI, Gesù di Nazaret, Volume II). La Galilea dei Gentili, non a caso il luogo dell'Incarnazione, diviene così, attraverso gli Apostoli, immagine del mondo tornato ad essere di Dio. E' in Galilea che Gesù dà appuntamento ai suoi, dove appare loro risuscitato. E' la Galilea il mondo strappato al mondo, il luogo della vittoria di Cristo! E' sulle rive del Mare di Galilea che Pietro incontra il perdono e la missione; è sul Monte delle Beatitudini che il mondo diviene il luogo dell'annuncio di vittoria. La Galilea della nostra vita, ogni centimetro di questo mondo, disperso, rancoroso, preda della solitudine. E' la nostra storia la Galilea che attende il riscatto, perchè ogni uomo ritorni ad essere se stesso, santo, unico perchè creato ad immagine dell'unico Dio.
"Io ho vinto il mondo!. Cristo è forse contro il mondo? Quando vince la morte, Egli rivela di nuovo all’uomo il mondo; questo mondo, che scaccia Dio dal cuore dell’uomo, viene restituito da Cristo a Dio e all’uomo, come spazio dell’alleanza originaria, che deve essere anche l’alleanza definitiva quando Dio sarà tutto in tutti." (Giovanni Paolo II, Benedizione Urbi et orbi, Domenica di Pasqua del 1990). Restituiti da Cristo a Dio e all'uomo, ecco gli Apostoli, ecco ciascuno di noi! Risuscitati nello Shemà del Figlio diveniamo anche noi testimoni e annunciatori di questo stesso amore che ci ha salvato, della vittoria di Cristo. Il cammino che ci aspetta non può che essere il suo. Il cammino della solitudine, quella ricolma della presenza del Padre, nel compimento della sua volontà. Avremo tribolazioni nel mondo; con il figlio che si ribella e non ne vuol sapere nulla del cristianesimo, delle preghiere, della Chiesa; con i colleghi di lavoro; con gli amici che ci inducono a giocare sporco; con il fidanzato che reclama ed esige un amore carnale. Nelle tentazioni, all'esterno e all'interno di noi. Ovunque, con chiunque, perchè il mondo è stretto dall'angoscia della solitudine, lo sappiamo per esperienza. Ma l'amore a nostro figlio, a nostro marito, ai nostri genitori, alla fidanzata, all'amico, l'amore autentico è soprattutto solitudine, la solitudine di Cristo. Senza di essa non può apparire e compiersi la sua vittoria.
"In Lui Dio e uomo, Dio e il mondo sono in contatto. In Lui si realizza ciò che il rito del giorno dell'Espiazione intendeva esprimere: nella donazione di sé sulla croce, Gesù depone, per così dire, tutto il peccato del mondo nell'amore di Dio e lo scioglie in esso. Accostarsi alla croce, entrare in comunione con Cristo significa entrare nell'ambito della trasformazione e dell'espiazione." (J. Ratzinger - Benedetto XVI, Gesù di Nazaret, Volume II). Per questo è necessaria la tribolazione, l'essere schiacciati, pestati, secondo il significato del termine originale greco: che il male ed il peccato vengano deposti, attraverso di Cristo vivo in noi, nel tino della nostra storia, per essere schiacciati dall'amore di Dio. "Mi calpestano sempre i miei nemici, molti sono quelli che mi combattono. / Nell'ora della paura io in te confido leggiamo "... Perché è tenuto nel torchio il suo corpo, cioè la sua chiesa. Che significa " nel torchio" ? Nelle angustie. Ma ben fecondo è questo essere spremuti nel torchio. Finché è sulla vite, l'uva non subisce pressioni: appare intera, ma niente da essa scaturisce. La si mette nel torchio, la si calpesta e schiaccia; sembra subire un danno, invece questo danno la rende feconda, mentre al contrario, se le si volesse risparmiare ogni danno rimarrebbe sterile. Orbene tutti i santi che soffrono persecuzioni da parte di coloro che si sono allontanati dai santi, stiano attenti a questo salmo e vi riconoscano sé stessi ... Il primo grappolo d'uva schiacciato nel torchio è Cristo. Quando tale grappolo venne spremuto nella passione, ne è scaturito quel vino il cui calice inebriante quanto è eccellente!" (S. Agostino, Esposizione sui Salmi, 55). Occorre passare per la porta stretta e angusta di cui parla Gesù, secondo un altro significato della stessa parola. Sono le tribolazioni di Cristo, quelle sofferte per noi che ora, in noi, salvano coloro ai quali siamo inviati. Avremo tribolazioni, saremo soli, ma non dobbiamo temere, il Signore ha vinto il mondo: "Nel tino ho pigiato da solo e del mio popolo nessuno era con me. Li ho pigiati con sdegno. Il loro sangue è sprizzato sulle mie vesti e mi sono macchiato tutti gli abiti." (Is. 63,3).
Il trofeo della vittoria di Cristo è proprio la solitudine che possiamo assumere, ovvero il rifiuto, il non essere compresi, l'odio, l'invidia, il rancore, l'ingiustizia . Soli per essere santi, perchè la santità è la solitudine! "Allora Balaam pronunziò il suo poema e disse: "Dall'Aram mi ha fatto venire Balak, il re di Moab dalle montagne di oriente: Vieni, maledici per me Giacobbe; vieni, inveisci contro Israele!". Come imprecherò, se Dio non impreca? Come inveirò, se il Signore non inveisce? Anzi, dalla cima delle rupi io lo vedo e dalle alture lo contemplo: ecco un popolo che dimora solo e tra le nazioni non si annovera. Chi può contare la polvere di Giacobbe? Chi può numerare l'accampamento d'Israele? Possa io morire della morte dei giusti e sia la mia fine come la loro. Come sono belle le tue tende, Giacobbe, le tue dimore, Israele!" (cfr. Nm. 23-24). Un popolo che dimora solo, e proprio per questo testimone e vessillo di salvezza. Israele, ed il Messia che ha compiuto questa profezia, e i suoi fratelli, la santa Chiesa di Dio, e ciascuno di noi. Soli con il Solo, per strappare il mondo a stesso. Soli nel rifiuto del figlio, per salvarlo. Soli nella gelosia della moglie, per amarla. Soli ovunque, nell'intimità piena con Gesù, e in Lui con il Padre, per mostrare a tutti la bellezza delle tende di Israele, la vita divina nella debole tenda della carne; dimorare soli tra le Nazioni, nella santità dello Shemà, perchè la maledizione del mondo si trasformi, come fu per Balaam, in benedizione. Perchè ogni uomo possa desiderare la stessa solitudine, la Croce di un amore infinito, la morte, la fine, il compimento dei giusti, di ciascuno di noi, frutti splendenti della vittoria di Cristo.
San Giovanni della Croce (1542-1591), carmelitano, dottore della Chiesa
Avvisi e sentenze, 173-177
«Voi avrete tribolazioni nel mondo, ma abbiate fiducia; io ho vinto il mondo»
Abbiate cura di mantenere il vostro cuore nella pace; non sia turbato da alcun evento di questo mondo; pensate che quaggiù tutto finisce.
In tutti gli avvenimenti, per quanto infausti siano, dobbiamo rallegrarci invece di rattristarci, per non perdere un bene più prezioso, che è la pace e la calma dell'animo.
Quand'anche tutto quaggiù crollasse e tutti gli avvenimenti ci fossero avversi, sarebbe inutile turbarci, poiché il turbamento ci porterebbe più danno che profitto.
Sopportare tutto con la stessa stabilità di umore e nella pace, è non soltanto aiutare l'animo ad acquistare grandi beni, ma anche disporre l'animo a giudicare meglio le avversità in cui si trova e a portarvi il rimedio adeguato.
Il cielo è stabile e non è soggetto a cambiamenti. Allo stesso modo le anime che sono di natura.
San Paolino di Nola (355-431), vescovo
Lettera 38, 3-4 : PL 61, 359-360.
« Voi avrete tribolazione nel mondo, ma abbiate fiducia. Io ho vinto il mondo. »
Fin dall'origine del mondo, il Cristo soffre in tutti i suoi. Egli è «il principio e la fine». nascosto nella Legge, rivelato nel Vangelo, Egli è il Signore sempre mirabile, che soffre e trionfa « nei suoi santi » (Sal 67, 36). In Abele, è stato assassinato da suo fratello ; in Noè, è stato ridicolizzato da suo figlio ; in Abramo, ha conosciuto l'esilio ; in Isacco, è stato offerto in sacrificio ; in Giacobbe, è stato ridotto a servo ; in Giuseppe, è stato venduto ; in Mosè, è stato abbandonato e respinto ; nei profeti, è stato lapidato e lacerato ; negli apostoli, è stato perseguitato per terra e per mare ; nei tanti suoi martiri, è stato torturato e assassinato. E' lui che, ancora adesso, sopporta le nostre debolezze e le nostre malattie, essendo uomo, lui stesso, esposto per noi ad ogni sorta di mali e capace di assumere la debolezza che saremmo assolutamente incapaci de assumere senza di lui. E' lui, sì, è lui che sopporta in noi e per noi, il peso del mondo, per liberarcene. Ecco come « la potenza si manifesta pienamente nella debolezza » (2 Cor 12,9). E' lui che in te sopporta il disprezzo, ed è lui che in te, viene odiato da questo mondo. Rendiamo grazie al Signore che, pur chiamato in giudizio, ottiene la vittoria (Rm 3, 4). Secondo questa parola della Scrittura, è lui che trionfa in noi quando, assumendo la condizione di servo, acquista per i suoi servi la grazia della libertà
Beato Henri Suso (circa 1295-1366), domenicano
Il Libro della Sapienza eterna
« Perché abbiate pace in me »
«Signore, sin dalla mia giovinezza, il mio spirito ha cercato non so cosa, con una sete impaziente. Cosa era dunque, Signore? Io non ho ancora perfettamente capito. Da tanti anni lo desidero ardentemente e non ho potuto ancora afferrarlo... Eppure proprio questo attira il mio cuore e la mia anima, e senza questo non posso stabilirmi in una vera pace. Signore, volevo cercare la mia felicità nelle creature di questo mondo, come vedevo fare da tanta gente intorno a me; ma quanto più cercavo, tanto meno trovavo; quanto più mi avvicinavo, tanto più mi allontanavo. Ogni cosa infatti mi diceva: «Non sono ciò che cerchi». Sei forse tu, Signore, colui che da tanto tempo ho cercato? Forse verso di te il mio cuore era così sempre e senza sosta attratto? Perché allora non ti sei fatto vedere da me? Come hai potuto differire così a lungo quell'incontro? In quanti cammini sfibranti non mi sono impantanato? Beato veramente l'uomo che tu previeni con tanto amore da non essere lasciato in riposo finché non cerchi in te solo il suo riposo.
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