Santa Maria,

Santa Maria,
...donna del primo sguardo, donaci la grazia dello stupore.

sabato 30 aprile 2016

incontro vocazionale del Cammino Neocatecumenale in preparazione alla Giornata Mondiale della Gioventù - Kiko domani al Divino Amore.

Kiko Argüello

Kiko domani al Divino Amore.

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Oltre 30mila giovani da Italia e Europa sono attesi domani, domenica 1° maggio, al Santuario del Divino Amore dove si terrà un grande incontro vocazionale del Cammino Neocatecumenale in preparazione alla Giornata Mondiale della Gioventù del prossimo luglio a Cracovia (Polonia).
L’incontro avrà luogo nella piazza antistante il Santuario, guidato da Kiko Argüello, Carmen Hernández e padre Mario Pezzi, responsabili a livello mondiale del Cammino Neocatecumenale. Già si contano alcuni numeri: ad esempio, da Francia, Belgio e Lussemburgo verranno 420 giovani e dalla Polonia 450.  Da Slovenia, Croazia e Serbia 300, da Ungheria e Romania 150. Slovacchia,Malta, Albania e l’Inghilterra porteranno più di 200.
I più numerosi saranno quelli provenienti dalle varie regioni italiane: dalla Lombardia 1200, da Veneto, Friuli Venezia Giulia e Trentino 2.000. Da Liguria ed Emilia Romagna arriveranno in 500 e dalla Toscana 600. Saranno 600 i giovani provenienti invece dall’Umbria e da Marche e Abruzzo 4.000. Da Campania e Molise 3.500, da Puglia e Basilicata 1.500. Infine da Sicilia e Calabria parteciperanno 1.500 e 100 dalla Sardegna. Da Roma e dal Lazio verranno più di 11.000 giovani del Cammino.
Lo scorso 6 Marzo, un incontro simile ha avuto luogo a Murcia (Spagna), dove si sono riuniti più di 40mila giovani spagnoli e portoghesi.

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Kairos


VI Domenica di Pasqua. Anno C

Il Vangelo del giorno.







QUI IL COMMENTO SCRITTO ALLA PAROLA DELLA VI DOMENICA DI PASQUA. ANNO C (1 MAGGIO 2016)





NELL'ARCA PER SALVARE IL MONDO

Il Vangelo del giorno



Sabato della V settimana del Tempo di Pasqua



αποφθεγμα Apoftegma

In un mondo angosciato e oppresso da tanti problemi,
che tende al pessimismo,
l'annunziatore della Buona Novella
deve essere un uomo che ha trovato in Cristo la vera speranza.

Giovanni Paolo II













L'ANNUNCIO


Dal Vangelo secondo Giovanni 15,18-21.

Se il mondo vi odia, sappiate che prima di voi ha odiato me. Se foste del mondo, il mondo amerebbe ciò che è suo; poiché invece non siete del mondo, ma io vi ho scelti dal mondo, per questo il mondo vi odia. Ricordatevi della parola che vi ho detto: Un servo non è più grande del suo padrone. Se hanno perseguitato me, perseguiteranno anche voi; se hanno osservato la mia parola, osserveranno anche la vostra. Ma tutto questo vi faranno a causa del mio nome, perché non conoscono colui che mi ha mandato.












NELL'ARCA PER SALVARE IL MONDO


Parafrasando il titolo di un film si può affermare che "Il mondo non è un paese per cristiani". Nessun luogo di questo mondo è realmente favorevole ai cristiani. Solo una lettura sentimentale e rassicurante del Vangelo e della storia ci fa pensare che il mondo possa divenire la dimora di Cristo e dei suoi discepoliLaddove i cristiani vivono secondo il Vangelo ne diventano testimoni, ovvero martiri. Anche nei Paesi che concedono ampie libertà religiose, se la vita dei cristiani si fa autentica, la loro presenza diviene scomoda e, alla lunga, insopportabile. Laddove i cristiani sono accettati o amati significa che hanno perduto qualcosa o tutto della loro primogenitura. La Chiesa è per sua natura una profezia che illumina e scuote, un segno di contraddizione. Per questo il mondo "la odia"Esso, infatti, ama ciò che è suo, e rifiuta quello che non gli appartiene e la Chiesa, pur essendo "nel" mondo, non è "del" mondoè un anticipo di Cielo che il mondo non può accettare perché vive sotto il dominio di satana. La Chiesa è come un insetto penetrato nell'occhio, dà fastidio e deve essere rimosso perché chi si imbatte nella sua testimonianza, scopre d'improvviso la menzogna che lo tiene schiavo. E la verità, quando si rivela, per l'uomo vecchio è insopportabile



Ma guai se non vi fosse la Chiesa nel mondo! Gli uomini sarebbero inghiottiti dalle sabbie mobili della menzogna. Per questo la Chiesa è il segno dell'amore di Dio che non lascia nessuno nell'inganno. E' una sveglia che suona a ogni minuto, ricordando l'appuntamento con la verità che attende ogni uomo. La Chiesa è l'arca di Noè costruita nel bel mezzo di una pianura: annuncia qualcosa che la stoltezza piegata sul contingente non può discernere. Come quell'arca, profetizza il diluvio che svelerà la vanità del mondo, offrendo in anticipo, come segno di un amore più forte del peccato, il Legno che può salvare. I figli della Chiesa sono dunque angeli che annunciano e incarnano una notizia che stravolge e desta i cuori addormentati: la morte esiste e il peccato è la radice di ogni male, ma sono vinti in Cristo risorto! Infatti, tutto quello che accade nella vita di un cristiano accade a Cristo: "le membra autentiche e fedeli di Cristo possono dire di sé, in tutta verità, ciò che egli è, anche Figlio di Dio, anche Dio. Ma ciò che egli è per natura, le membra lo sono per partecipazione; ciò che egli è, lo è in pienezza, esse lo sono solo parzialmente. Infine ciò che il Figlio di Dio è per generazione, le sue membra lo sono per adozione" (Isacco della stella). Per questo la Chiesa "deve" essere rifiutata come il suo Signore. Perché il mondo si salvi - forse anche un figlio, un parente, un collega, un vicino di casa - "deve" vomitare il male sino all'ultima goccia, e questo deve raggiungere e uccidere e seppellire la Chiesa e i suoi figli. In India come duemila anni fa nelle province dell'Impero Romano, nel Giappone di tre secoli fa come nella Vandea della Francia rivoluzionaria, come oggi in Siria e in Iraq, come in ogni luogo dove oggi giungeremo, con il mondo, il demonio e la carne a farci guerra per provare l'autenticità della nostra fede, perché sia rivelata e offerta a tutti la Verità: anche noi crocifissi con Cristo per testimoniare e offrire al mondo il segno a cui appoggiarsi per lasciare il peccato e credere all'amore di Dio che apre il Cielo per ogni uomoPer questo i cristiani sono fanno parte, ciascuno così come è, delle "diverse specie" scelte da Dio e fatte entrare nell'Arca di Noè, immagine della comunità cristiana che raduna i poveri, gli storpi, i ciechi, i nevrotici; tu ed io... Noè significa "Giusto", ed è immagine di Cristo che chiama e unisce a sé la comunità di "giusti", ovvero "giustificati" gratuitamente, perché il mondo che "non conosce" il Messia, possa imparare a conoscerlo contemplando l'arcobaleno della sua vittoria sul diluvio di male che si abbatte ogni giorno sul mondo, in fabbrica come a scuola, nelle famiglie come nei paesi in guerra. Il mondo, infatti, è come il sepolcro nel quale fu deposto il Signore, ma dal quale è uscito vittorioso. Per questo la Chiesa nel mondo è come un'Arca che solca il diluvio senza affondare nella morte: coraggio allora, perché la tua vita nella Chiesa è più forte della morte! I matrimoni cristiani sono immagine del Cielo, fondati sul perdono che rompe le barriere dell'egoismo e del peccato, come i fidanzamenti casti, come il lavoro, lo studio, perché in ogni aspetto delle loro esistenze risplende l'arcobaleno della nuova ed eterna Alleanza nel sangue di Cristo, il destino che attende ogni uomo. 


QUI IL COMMENTO COMPLETO E GLI APPROFONDIMENTI


venerdì 29 aprile 2016

SANTA CATERINA DA SIENA patrona d'Italia


SANTA CATERINA, DA ANALFABETA A CONSIGLIERA DI PRINCIPI E PAPI


Credit Foto - domenicani.net

Non andò a scuola, imparò da sola a leggere e scrivere anche se preferì dettare i suoi capolavori. A 16 anni entrò nell'ordine domenicano delle "Mantellate" e quando si diffuse la sua fama dava consigli spirituali a nobili, uomini politici ed ecclesiastici, compreso papa Gregorio XI, che invitò a lasciare Avignone e tornare a Roma. Nel 1970 è stata proclamata dottore della Chiesa da Paolo VI.


Semianalfabeta, non va a scuola e non ha maestri privati, i suoi genitori la vogliono dare in sposa già a 12 anni ma lei dice no. Diventerà mistica, consigliera spirituale per potenti e alti dignitari e santa patrona d'Italia e compatrona d'Europa. Grazie all'opera Il Dialogo della Divina Provvidenza (ovvero Libro della Divina Dottrina), un capolavoro della letteratura spirituale, l’eccezionale Epistolario e la raccolta delle Preghiere, Santa Caterina da Siena è stata proclamata Dottore della Chiesa il 4 ottobre 1970 per volere di papa Paolo VI, sette giorni dopo quella di santa Teresa d’ Avila (1515–1582).

Caterina (dal greco: “donna pura”) vive in un momento storico e in una terra, la Toscana, di intraprendente ricchezza spirituale e culturale, la cui scena artistica e letteraria è dominata da figure come Giotto (1267–1337) e Dante (1265–1321).



Nata a Siena, nel 1347, in una famiglia molto numerosa, morì a Roma, nel 1380. All’età di 16 anni, spinta da una visione di san Domenico, entrò nel Terz’Ordine Domenicano, nel ramo femminile detto delle Mantellate. Rimanendo in famiglia, confermò il voto di verginità fatto privatamente quando era ancora un’adolescente, si dedicò alla preghiera, alla penitenza, alle opere di carità, soprattutto a beneficio degli ammalati. Caterina si avvicinò alle letture sacre pur essendo analfabeta: da sola imparò a leggere e anche a scrivere, ma usò comunque e spesso il metodo della dettatura.


IL LINGUAGGIO MISTICO

Le lettere, che la mistica scriveva al Papa in nome di Dio, sono infuocate, documenti di una realtà che impegna cielo e terra. Lo stile cateriniano, sgorga da sé, per necessità interiore. Viene definita «Delicatissima donna, questo gigante della volontà; dolcissima figlia e sorella, questo rude ammonitore di Pontefici e di re; i rimproveri e le minacce che ella osa fulminare sono compenetrati di affetto inesausto» (G. Papàsogli, Caterina da Siena, Fabbri Editori RCS, Milano 2001, p. 201). Usa espressioni tonanti, invitando alla virilità delle scelte e delle azioni, ma sa essere ugualmente tenerissima, come solo uno spirito femminile è in grado di fare.



«Quando la fama della sua santità si diffuse», ha spiegato papa Benedetto XVI nell'udienza a lei dedicata il 24 novembre 2010, «fu protagonista di un’intensa attività di consiglio spirituale nei confronti di ogni categoria di persone: nobili e uomini politici, artisti e gente del popolo, persone consacrate, ecclesiastici, compreso il Papa Gregorio XI che in quel periodo risiedeva ad Avignone e che Caterina esortò energicamente ed efficacemente a fare ritorno a Roma. Viaggiò molto per sollecitare la riforma interiore della Chiesa e per favorire la pace tra gli Stati: anche per questo motivo Giovanni Paolo II la volle dichiarare Compatrona d’Europa: il Vecchio Continente non dimentichi mai le radici cristiane che sono alla base del suo cammino e continui ad attingere dal Vangelo i valori fondamentali che assicurano la giustizia e la concordia».


APPROFONDIMENTO


www.sanfrancescopatronoditalia.it


Santa Caterina da Siena patrona d'Italia


LA VITA

Caterina nasce a Siena il 25.3.1347, dal tintore Jacopo Benincasa e da Lapa di Puccio de' Piacenti. E' la 24ma, gemella, di 25 fratelli e sorelle. All'età di sei anni (1353) ha la prima visione (via del Costone) di Cristo Pontefice, accompagnato dagli apostoli Pietro e Paolo e dall'evangelista Giovanni; è un'esperienza fondamentale per tutta la sua vita, infatti intuisce che deve rivolgere cuore e mente a Dio facendo sempre la Sua volontà. A sette anni fa voto di verginità perpetua; ma la famiglia ostacola la vocazione e la vorrebbe maritare. Le impediscono di avere una camera per sè e la costringono a servire in casa. Un giorno il padre la sorprende in preghiera con una colomba aleggiante sul capo. Decide allora di lasciare libera la giovane di scegliere la propria strada. Dopo anni di preghiere e penitenze, riceve (1363) l'abito domenicano del Terz'ordine (Mantellate, laiche). Nella sua cameretta, molto spoglia, conduce per alcuni anni vita di penitenza.

A venti anni (1367) impara a leggere, riceve l'anello delle mistiche nozze con Gesù, detta le prime lettere, ha inizio la sua attività caritativa: poveri, malati, carcerati, spesso ripagata da ingratitudine e calunnie. Nel 1368 muore il padre. Nel 1370 avviene lo scambio dei cuori tra Caterina e Gesù. Nel 1371 si aggiungono a Caterina i primi discepoli, chiamati per scherno “caterinati”. Nel 1373 Caterina comincia ad indirizzare lettere a personalità di rilievo del mondo politico. Nel maggio del 1374 è a Firenze, dove acquista nuovi amici e discepoli. In questo stesso periodo le è dato come direttore spirituale fra Raimondo da Capua (suo biografo postumo).

Nell'estate si prodiga a Siena per assistere gli appestati. Nell'autunno è a Montepulciano. Nel 1375 viaggia a Pisa ed a Lucca, per dissuadere i capi delle due città dall'aderire alla lega antipapale. Il 1° aprile (in S.Cristina, Pisa) riceve le stimmate (invisibili). Si colloca in quest'anno l'eccezionale vicenda di Niccolò di Toldo, assistito da Caterina fin sul palco dell'esecuzione capitale. Nel 1376, a maggio, parte per Avignone, arrivando il 18 giugno; il 20 vede Gregorio XI, che si decide a partire per l'Italia il 13 settembre, passando da Genova, dove Caterina lo convince di nuovo a proseguire il viaggio per Roma (dove arriva il 17.1.1377).

Tornata a Siena, Caterina fonda il monastero di S.Maria degli Angeli, nel castello di Belcaro. In estate si reca in Val d'Orcia per pacificare due rami rivali dei Salimbeni e qui riceve quella straordinaria illuminazione sulla Verità che sta alla base del Dialogo; impara anche a scrivere. Nel 1378, su incarico del Papa, va a Firenze per trattare la pace (ottenuta il 18 luglio). Frattanto Gregorio XI è morto (27 marzo) e gli succede Urbano VI (8 aprile), osteggiato nel collegio dei cardinali che (20 settembre) eleggono Clemente VII (Roberto di Ginevra): è l'inizio dello scisma d'occidente. Caterina, chiamata a Roma da Urbano VI (28 novembre), nel concistoro incoraggia fervorosamente il Pontefice ed i cardinali rimasti fedeli. Nel 1379 è intensa l'attività epistolare per dimostrare a prìncipi, uomini politici ed ecclesiastici, la legittimità dell'elezione di Urbano VI.

Caterina si consuma nel dolore per la Chiesa divisa: se ne trova un'eco nelle Orazioni che i discepoli colsero dalle sua labbra. La rivolta dei romani (1380) contro Urbano VI è per Caterina nuovo motivo di sofferenza. Quasi allo strenuo delle sue forze riesce ancora, sotto l'impeto della volontà, ad andare ogni mattina a S.Pietro e trascorrervi l'intera giornata in preghiera. Ma dalla metà di febbraio è immobilizzata a letto. Muore il 29 aprile 1380 sul mezzogiorno (da circa un mese ha compiuto 33 anni). E' sepolta in S. Maria sopra Minerva. Successivamente Raimondo da Capua soddisferà il desiderio dei senesi portando a Siena il capo della Santa, tuttora in San Domenico.

Il corpo, dal 1855, si trova sotto l'altare maggiore della Basilica minerviana a Roma. Nel 1461 (29 giugno) Pio II (Enea Silvio Piccolomini, senese e già vescovo di Siena) proclama Caterina santa (festa: prima domenica di maggio; successivamente 30 aprile, ed oggi il 29 aprile, giorno del transito). Nel 1866 (8 marzo) Pio IX proclama Caterina compatrona di Roma. Nel 1939 (18 giugno) Caterina da Siena e S.Francesco d'Assisi sono proclamati da Pio XII patroni primari d'Italia. Nel 1970 (4 ottobre) Paolo VI riconosce a Caterina il titolo di Dottore della Chiesa Universale. Il 1.10.1999 Giovanni Paolo II proclama Caterina compatrona d'Europa.

(fonte:www.caterinati.org)

SCELTI E COSTITUITI IN CRISTO PER PORTARE IL FRUTTO INCORRUTTIBILE DELL'AMORE

Il Vangelo del giorno.

Venerdì della V settimana del Tempo di Pasqua




αποφθεγμα Apoftegma


Se un seme del pensare potesse ardere,
non nell’amante, ma nell’amore,
potrebbe vedere la verita' piu' profonda.

Antonio Machado













L'ANNUNCIO

Dal Vangelo secondo Giovanni 15,12-17.

Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri, come io vi ho amati. Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici. Voi siete miei amici, se farete ciò che io vi comando. Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo padrone; ma vi ho chiamati amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre l'ho fatto conoscere a voi. Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi e vi ho costituiti perché andiate e portiate frutto e il vostro frutto rimanga; perché tutto quello che chiederete al Padre nel mio nome, ve lo conceda. Questo vi comando: amatevi gli uni gli altri.










SCELTI E COSTITUITI IN CRISTO PER PORTARE IL FRUTTO INCORRUTTIBILE DELL'AMORE
Tranquilli: "Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi e vi ho costituiti perché andiate e portiate frutto, e il vostro frutto rimanga". Ogni nostra scelta sorge da questa "prima scelta" nella quale esistiamo. Secondo la tradizione giudaica, erano i discepoli che sceglievano il Rabbì. Come ciascuno di noi sceglie, o vorrebbe, o si illude di scegliere, la scuola, il fidanzato, il lavoro, la casa, la macchina, il film da vedere, che cosa mangiare, come vestirsi. Al centro della vita ci siamo noi, con il bagaglio di criteri e gusti che abbiamo accumulato; e identifichiamo la libertà con il poter scegliere in completa autonomia tra le diverse opzioni che ci presenta la vita. Spesso le passioni ci acciuffano e si impadroniscono di noi rendendoci schiavi dei loro impulsi e istinti. Ma assumiamo anch'esse nella grande famiglia della nostra libertà, magari definendole come la loro più completa espressione. Tuttavia, ci scontriamo con un momento della nostra vita nella quale non abbiamo potuto esercitare alcun tipo di libertà. E si tratta del momento decisivo: la nascita, o, più correttamente, l'istante nel quale il seme di nostro padre ha trovato accoglienza nell'ovocita di nostra madre ed è apparso quello zigote che siamo stati tu ed io. Prima di quell'istante nessuno di noi esisteva, nessuno ha scelto di essere lo spermatozoo più forte della frotta che tentava di guadagnare l'ovocita al cui Dna donare il proprio. Nessuno di noi ci ha messo nulla, semplicemente eravamo in quel seme lì e in quell'ovocita lì, punto. E siamo apparsi in questo mondo, uno zigote impercettibile, quarantasei cromosomi che contenevano tutto quello che ci avrebbe caratterizzato, il profilo del naso, il disegno della bocca, il timbro della voce, compresi i difetti. Ci siamo poi impiantati nell'utero di nostra madre attraverso il tessuto che tappezza la sua superficie interna, l'endometrio, in un "dialogo biochimico" affascinante nel quale abbiamo messo a frutto la prima cosa imparata, l'amore per il quale i nostri genitori si sono uniti dandoci la vita: da subito abbiamo cominciato ad offrire qualcosa di noi, secernendo le sostanze necessarie all'impianto dell'embrione per unirle a quelle rilasciate dall'endometrio di nostra madre, altrettanto necessarie. Chimica d'amore che rivela l'identità originaria che ci caratterizza: siamo, per natura, un dono, inscritto nel dono più grande che ci ha generato; la nostra vita, sin dalle prime luci dell'alba, è stata donare come abbiamo ricevuto in dono, amare come siamo stati amati. L'avverbio "come", "kathós", che appare nel Vangelo, in greco non esprime solo un paragone, ma anche il fondamento e l'originel'amore di Cristo è norma e fondamento di ogni amore. Si potrebbe tradurre anche: "per il fatto che io vi ho amato così, che siete stati chiamati dentro questo mio amore concretissimo, amatevi anche voi con questo amore dal quale siate stati chiamati e costituiti, nel quale esistete; lasciate che l'amore che ho effuso in voi, con il quale vi faccio vivere, e alzare la mattina giunga all'altro, chiunque esso sia". 






Come all'origine della nostra vita biologica non vi e' alcuna scelta da parte nostra, così all'origine della nostra chiamata ad essere cristiani - ovvero di Cristo, suoi discepoli - non esiste alcuna nostra opzione. E' qualcosa di grande, di forte, di scandalizzante. Alcuni potrebbero obiettare che stando così le cose non esiste libertà, esattamente come non siamo stati liberi di nascere o meno. E infatti molti maledicono il giorno in cui sono nati, sino a togliersi la vita; oppure divorziano, abbandonano il sacerdozio, la scuola, il lavoro, anche i figli. Ma la prospettiva del Vangelo è molto diversa. E' la prospettiva dell'amore. Esso è sempre la più grande manifestazione della libertà autentica, capace di donare tutto, anche la propria vita. Le parole di Gesù ci spingono a risalire la corrente della nostra storia dal momento presente alla sua origine laddove e' stata deposta la nostra elezione, e ancor più indietro, sino all'origine della storia dell'umanità, alla sua creazione. In essa è inscritta e prefigurata la nostra origine e quindi la chiave della nostra identità. Dio ha creato tutto per amore, ciascuno di noi è stato creato per il suo amore, del quale l'unione sponsale dei nostri genitori è immagine e somiglianza. Alla nostra origine vi è l'amore, e quindi la libertà più grande. Essa è inscritta in noi, nel nostro spirito come nella nostra carne, nel cuore come nelle cellule. E' la libertà che spinge a donarsi e che fa superare ogni confine; è quella che percepiamo quando inizia qualcosa, qualsiasi cosa: al principio di una storia affettiva, di un fidanzamento, di un matrimonio, come di un'amicizia, alle soglie di un'impresa che ci appassiona, di studio, di lavoro, di svago, vi à sempre quell'ansia di infinito, quell'entusiasmo che ci farebbe spaccare il mondo. E' quanto descrive splendidamente Peguy: 


    Tutto quello che comincia ha una virtù che non si ritrova mai più.
Una forza, una novità, una freschezza come l’alba.
Una giovinezza, un ardore.
Uno slancio.
Un’ingenuità.
Una nascita che non si trova mai più.
C'e' in quello che comincia una fonte, una razza che non ritorna.
Una partenza, un'infanzia che non si ritrova, che non si ritrova mai più.

Ora la piccola speranza
E' quella che sempre comincia.
Quella nascita
Perpetua
Quell'infanzia
Perpetua.
Per sperare, bimba mia, bisogna essere molto felici.

La speranza dell'inizio che scaturisce da una grande felicita' è il volto della libertà che si fa amore, dedizione, dono. Chi si sente costretto ad amare la propria ragazza? O il proprio marito, o il proprio figlio? Chi non si sente libero nell'affaticarsi in un allenamento che prepara ad una partita decisiva? Chi si vede sottrarre la libertà nell'affrontare notti di studio in vista dell'esame che schiude le porte all'avverarsi del sogno di una vita, quello di diventare un medico, un ingegnere, un cantante d'opera? Non si sente libero solo chi non ama. Ecco, all'inizio, all'origine della vita vi è un ardore, una freschezza, una razza che poi, purtroppo, lasciamo cadere tra le pieghe dell'egoismo e dell'utilitarismo, magari per le ferite sofferte, per le delusioni, per le sconfitte. Per questo oggi il Signore ci annuncia ancora una volta la verità invitandoci a guardare alla nostra origine, ovvero il suo averci scelti e chiamati ancor prima di essere intessuti nel seno di nostra madre. Coraggio, sei stato amato così come saresti diventato in ogni istante della tua vita, anche se nessun occhio umano, in quell'istante, ti aveva visto e scelto; quando neanche nostra madre si era ancora accorta della nostra presenza. Alla nostra origine vi è, come una roccia indistruttibile, la gratuità dell'amore e dell'elezione di Dio, la Grazia della nostra primogenitura ad essere figli di Dio per questa generazione. Scelti per quello che siamo e non per quello che vorremmo diventare, e ditemi se questa non e' la notizia capace di cambiare l'esistenza. Siamo stati scelti con i nostri difetti, debolezze, incapacità; nessun concorso, nessun esame, nessuna rincorsa per fare innamorare qualcuno. Solo la scelta di Dio, gratuita, più forte d'ogni nostro egoismo, di tutti i nostri testardi rifiuti, delle nostre ingannate pretese di autonomia; più forte di ogni peccato. All'origine della nostra vita, come di ogni giorno vi è la sua chiamata che ci "costituisce" suoi apostoli, altri Cristo nella storia, perché "andiamo e portiamo un frutto che non si corrompa". Vivere per qualcosa di eterno, un frutto del suo amore nel quale possiamo "deporre" (secondo l'originale greco) la nostra "anima, la vita", "per gli amici". Un amore così grande che sa abbracciare ogni istante e ogni millimetro della vita, facendo di ciascuno un "principio, una nascita e un'infanzia perpetua", come uno zigote che non difende nulla ma che offre ogni sostanza vitale - il tempo, le parole, i beni - all'endometrio che li attende. In quei giorni di tanti anni fa era quello zigote lì ad incontrare quell'endometrio lì, così come oggi usciremo con la fidanzata, ceneremo con il marito e i figli, incontreremo Giovanni sulla metropolitana, ci riuniremo con i colleghi, giocheremo la partita di calcetto con gli amici. E ovunque doneremo noi stessi perché così è scritto in noi, "amici" di Cristo sin dal seno materno.


QUI IL COMMENTO COMPLETO 

giovedì 28 aprile 2016

La grazia di vivere in un container. Viaggio tra i cristiani iracheni rifugiati a Erbil

IL CAMMINO NEOCATECUMENALE NELLA TERRA DI DAESH


La grazia di vivere in un container. Viaggio tra i cristiani iracheni rifugiati a Erbil

DI RODOLFO CASADEI (TEMPI)

Quanti dei cristiani di Mosul e della Piana di Ninive messi in fuga dallo Stato islamico nell’estate del 2014 sono emigrati all’estero per la disperazione di non poter più recuperare le proprie case e di non poter più tornare a vivere come prima? Statistiche accurate non ne esistono, ma chi dicesse che circa un quarto dei 120 mila cristiani protagonisti di quell’esodo hanno abbandonato la terra fra il Tigri e l’Eufrate, non andrebbe lontano dalla verità.
Padre Douglas Bazi, parroco caldeo a Erbil presso la chiesa di sant’Elia, afferma che, per quanto riguarda la possibilità dell’emigrazione, i cristiani iracheni si dividono in tre categorie: «Quelli che già ci pensavano prima dell’avvento dell’Isis, quelli che non ci pensavano e hanno cominciato a pensarci dopo essere stati costretti a fuggire, quelli che vorrebbero andarsene ma non possono perché non hanno i soldi per farlo o parenti all’estero ai quali appoggiarsi». In realtà esiste anche una quarta categoria: quella di coloro che non intendono abbandonare il paese nel quale sono nati perché giudicano di avere una missione proprio lì, perché pensano che il compito che Dio ha loro affidato è quello di testimoniare Cristo come singoli e come comunità in condizioni, come quelle che in Iraq si vivono, che vanno dal difficile al proibitivo

Talal ed Eeven, marito e moglie genitori di quattro figli, vivevano a Mosul e hanno perso tutto. Come per tanti cristiani dell’antica Ninive, la loro fuga si è svolta in due tempi: prima si sono trasferiti a Qaraqosh, dopo l’editto di al Baghdadi che imponeva di scegliere fra la conversione all’islam, la dhimmitudine o la morte, e poi da lì a Erbil quando la principale città dei siriaci in Iraq è caduta a sua volta nelle mani degli uomini del califfato. Da un anno e mezzo vivono in un prefabbricato di tre metri per cinque allo Sport Center, uno dei 57 insediamenti di sfollati cristiani dei dintorni della capitale del Kurdistan iracheno. Condividono docce e toilette con le altre 200 famiglie del campo, e la sera mandano i figli maschi a dormire in un altro container. Da Mosul un vicino musulmano li informa periodicamente per telefono della situazione: un’altra famiglia di vicini musulmani ha occupato la loro casa.
Non che prima dell’avvento dell’Isis la vita fosse idilliaca: un fratello del cognato di Talal è stato assassinato da jihadisti solo perché la sua pizzeria era frequentata dai soldati americani di stanza a Mosul, un cuginetto 17enne di Eeven è stato sequestrato a scopo di riscatto e ucciso poco tempo dopo, uno zio risulta fra i dispersi di Qaraqosh: cristiani che non hanno fatto in tempo ad abbandonare la città nell’agosto del 2014 e dei quali non si hanno più notizie da allora.
«I miei figli si erano dovuti abituare a vedere cadaveri per le vie della città», racconta Talal. «Giornalisti, poliziotti, commercianti: i terroristi uccidevano tutti quelli che loro consideravano dei traditori». Oggi Talal, che nella vita precedente era un abile artigiano decoratore di esterni, ha trovato lavoro come responsabile del magazzino di una ditta di profumeria ad Ankawa, il quartiere cristiano di Erbil, e la famiglia non dipende più totalmente dagli aiuti alimentari. Sperano di mettere da parte abbastanza denaro per trasferirsi in una vera casa in affitto in quel quartiere. Di andarsene all’estero non se ne parla proprio: «Io e mia moglie abbiamo parenti in tutto il mondo: Stati Uniti, Canada, Libano, Svezia, Germania, Francia. Ci hanno sollecitato a partire, ma noi e i nostri figli resteremo qui. Perché Dio qui ci ha chiamati e qui ci vuole»



Thaer e Huwaida, una coppia con tre figli ancora ragazzi, è fuggita da Qaraqosh fra gli spari e le bombe, la moglie ricorda quelle giornate con angoscia. Il marito lavorava nelle costruzioni, erano benestanti. Ora non hanno più nulla e alloggiano insieme ad altre due famiglie in un villino di quattro locali a Ozal, quartiere residenziale di Kasnazan. Sono emigrati in Libano ma poi hanno deciso di tornare qui. «Non potevamo vivere lontano dalla nostra comunità, dai fratelli nella fede che abbiamo trovato qui dopo la fuga. Quello che Daesh (la sigla araba dell’Isis, ndr) ci ha fatto è stato provvidenziale. Grazie alla nostra disgrazia abbiamo scoperto una fede più vera, una vita più autentica che nemmeno immaginavamo che potesse esistere».
Bashar Majid e Ragat, una giovane coppia di Qaraqosh, ci ha messo 13 ore a raggiungere Erbil la notte della fuga. Per tutto il tempo la figlia più piccola, un anno e mezzo, ha pianto. Una foto di quella bambina è arrivata anche sulla scrivania di papa Francesco. Anche loro non hanno nessuna intenzione di abbandonare l’Iraq. «Ho perso la mia storia, ho perso le mie radici, questa è la sofferenza più grande», commenta Majid. «Le cose materiali si possono riavere, ma la casa tua e dei tuoi avi perduta è molto più di un cumulo di mattoni», spiega. «Eppure questo esodo era necessario per noi come lo è stato quello degli ebrei nella Bibbia. I cristiani non sono fatti per stare comodi e vivere nella calma, Dio non ci ha suscitati per questo. Quando noi ce ne stiamo comodi, il mondo è in guerra. Noi siamo come le olive: perché diano buon olio occorre schiacciarle. Grazie a Dio avremo molto più di quello che abbiamo perso. Adesso abbiamo una comunità che prima non avevamo, e Dio trarrà altri frutti dal nostro sacrificio».
Le tre coppie di sfollati cristiani iracheni sopra presentate hanno una cosa in comune: appartengono a comunità del Cammino neocatecumenale sorte nei mesi successivi alle sciagure dell’estate di due anni fa. La presenza neocatecumenale in Iraq è vecchia di un quarto di secolo, ma ha conosciuto un boom nell’ultimo anno e mezzo principalmente fra gli sfollati di Mosul, Qaraqosh e Piana di Ninive. Prima di allora gli aderenti al movimento in Kurdistan e dintorni erano circa 300, ora sono più di 500. Il successo delle catechesi fra gli sfollati è tanto squillante quanto era stata modesta la crescita dei neocatecumenali nei venti e passa anni precedenti. «Siamo arrivati in Iraq nel 1990, su richiesta del patriarca caldeo Rafael Bidawid, e abbiamo iniziato le catechesi nel 1992», spiega Filippo Di Mario, il responsabile del Cammino in Iraq. «Baghdad era piena di sfollati a causa della guerra del Golfo, e il patriarca stesso si lamentava dei modi un po’ “feudali” dei parroci di quelle comunità. Le resistenze nei nostri confronti furono forti, e il Cammino trovò poco seguito. Molti di quelli che entrarono allora poi si spostarono nel nord per ragioni di sicurezza dopo la caduta di Saddam Hussein. Attorno a loro nacquero delle comunità. Sono loro che hanno portato le catechesi fra gli sfollati all’indomani dell’esodo dell’estate 2014».
Oltre trent’anni di guerreI movimenti ecclesiali in ambito cattolico (definizione che il Cammino tende del resto a schivare, preferendo autodefinirsi come un itinerario di iniziazione e formazione cristiana) sono stati valorizzati dagli ultimi pontefici e da innumerevoli vescovi come doni dello Spirito per il rinnovamento della Chiesa, segnatamente per la scoperta o la riscoperta della fede da parte dei singoli in società secolarizzate o in contesti di religiosità formalistica. Le testimonianze dei cristiani iracheni entrati nel Cammino sono molto simili a quelle di credenti tiepidi e di non praticanti che hanno incontrato altre realtà di movimento ecclesiale e si sono coinvolti col carisma in esse espresso. Temi ricorrenti sono la freschezza e l’entusiasmo per l’incontro con Cristo, l’esperienza dell’azione dello Spirito, la scoperta di una vita comunitaria intensa e caratterizzata da un amore fraterno reale, la sorpresa per il cambiamento della propria persona come capacità affettive e come moralità, l’obbedienza vissuta come una forma di libertà e non di costrizione, la capacità di sacrificio in piena letizia. Simili sono anche gli aspetti problematici, come le tensioni con una parte dei presbiteri, le accuse di deriva settaria e criptoprotestante, le incomprensioni coi “cristiani comuni”. Soprattutto per chi nella Chiesa già svolgeva compiti di responsabilit


Il diacono Shwan è un uomo di fiducia di monsignor Bashar Warda, il vescovo caldeo di Erbil, e da tempo è anche un catechista del Cammino: «Qui da noi tutti si lamentano di una pratica religiosa ridotta a routine, ma quando si presenta una proposta che davvero sovverte la routine com’è il Cammino neocatecumenale, tanti cominciano ad accusarti di rompere con la tradizione. Dovrebbero invece ringraziarci, perché senza una realtà come questa tanti avrebbero lasciato le Chiese orientali storiche e sarebbero passati con le sètte protestanti!». Effettivamente alcuni aderenti del Cammino sono cristiani passati con gli evangelici, che sono entrati in Iraq dal Kurdistan al tempo della no-fly zone anti Saddam Hussein, e poi tornati nella Chiesa caldea o in quelle siriache (cattolica e ortodossa) dopo aver partecipato alle catechesi.
Altri tratti ricorrenti nelle testimonianze di iracheni che sono entrati nel Cammino sono l’abbandono di vizi come l’alcol e il gioco, o la ricomposizione di matrimoni in crisi con l’arrivo di nuovi figli. Separazioni, divorzi, alcolismo possono sembrare mali delle società secolarizzate e individualiste occidentali, ma affliggono anche una società tradizionale, comunitaria e patriarcale come quella irachena articolata nelle sue diverse componenti religiose ed etniche. Per un motivo che chi guarda dal di fuori tende a trascurare: fra il 1980 ed oggi, fra guerre esterne ed interne, occupazioni militari e terrorismo, l’Iraq non ha mai conosciuto la pace. Fra il 1980 (data di inizio della guerra con l’Iran) e il 2003 (data dell’invasione anglo-americana e della fine del regime) Saddam Hussein ha chiamato sotto le armi milioni di uomini, che hanno trascorso al fronte o nei campi di prigionia iraniani sei-sette anni della loro vita. Che hanno partecipato alla repressione contro gli sciiti e i curdi. Gente che ha visto morire al proprio fianco amici e commilitoni, che è stata testimone o partecipe di atti efferati contro i nemici interni come sciiti e curdi. L’alcolismo e le crisi matrimoniali di centinaia di migliaia di persone non più giovani hanno le loro radici in queste esperienze di vita traumatiche



Ma il connotato dell’identità neocatecumenale in Iraq che colpisce di più è certamente la frequenza con cui si sente affermare l’indisponibilità a emigrare, la necessità di restare per rispondere a una chiamata dall’alto. «Il 70 per cento degli aderenti alle comunità neocatecumenali che sono nate fra gli sfollati, e il 100 per cento dei loro catechisti dà la stessa risposta: resteremo in Iraq perché Dio ci ha dato un compito qui», ci dice Filippo Di Mario. Questo spiega il sostegno totale che ai neocatecumenali stanno dando vescovi e patriarchi iracheni, che molto insistono sulla necessità che i cristiani non emigrino affinché la presenza della Chiesa in Iraq non si estingua, ma poco possono fare di fronte alle ragioni stringenti di chi se ne va: in Iraq per i cristiani non c’è sicurezza, non c’è giustizia, non c’è speranza di recuperare le proprietà sottratte. Solo una novità nella vita di fede e nella relativa autocoscienza può convincere una persona a continuare a vivere in condizioni materialmente disagiate, con poche probabilità che gli sia resa giustizia e anzi esposto quotidianamente all’insicurezza insieme alla sua famiglia.
«Rimanete uniti»
È esattamente quello che sta succedendo a chi incontra il Cammino: «Mio fratello minore si è lasciato convincere dai parenti ed è partito per l’estero con tutta la famiglia», dice Fadi. «Per lui come per tanti la priorità è la sicurezza della vita. Non per me: io qui ho incontrato una nuova vita». È d’accordo anche il nunzio per l’Iraq e la Giordania, monsignor Alberto Ortega Martin, che nel corso di un incontro coi neocatecumenali iracheni ha affermato: «Se un cristiano prende coscienza che: “La mia presenza qui è un tesoro per la Chiesa e per la società”, può restare pur in mezzo alle difficili prove perché poi riceve forza e consolazione dal Signore. Da qui l’importanza della comunità. Uno non può essere cristiano da solo o fare un cammino da solo. Abbiamo bisogno della comunità non come una strategia per essere più forti, ma perché è parte della nostra identità. Non si può concepire un cristiano da solo perché è parte di un corpo che è la Chiesa, ma che si rende presente e affascinante per noi in una comunità concreta. Il nostro riferimento è la Chiesa universale, ma noi la viviamo essendo attaccati a una comunità concreta. Restate molto attaccati al Signore. E anche molto attaccati fra di voi come fratelli, per essere realmente al servizio della Chiesa e di tutta la società irachena».
Rodolfo Casadei per Tempi


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