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martedì 26 aprile 2016

“Sono forse io il custode di mio fratello?” rispondeva Caino a Dio che gli chiedeva dove fosse suo fratello Abele.

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Lidia Maggi "Sono forse io il custode di mio fratello?"



La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e chiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale (Articolo 2 della Costituzione Italiana)
 
“Sono forse io il custode di mio fratello?” rispondeva Caino a Dio che gli chiedeva dove fosse suo fratello Abele. E’ una domanda che risuona nel nostro tempo attraversato da mutamenti demografici e sociali, da veloci e inediti cambiamenti geopolitici, da venti di guerra fino alle coste del nostro Mediterraneo; eventi che ci stanno consegnando un mondo diverso da quello che fino a ieri abbiamo conosciuto.
Un cambio di paradigma che esige da parte di tutti, nessuno escluso, la ricerca di una nuova lingua per ridire le ragioni dello stare insieme. Ci aspetta certamente un cammino lungo e impegnativo: l’altro irrompe nella nostra vita, obbliga ad interrogarci: “Sono forse io il custode dell’altro, chiunque egli sia?”. E di cos’altro siamo custodi?
E’ una domanda che chiede conto dell’umanità di tutti e che necessita risposte politiche coraggiose, di progettualità innovative, ma che non può esimerci da una profonda riflessione sul significato di essere gli uni degli altri custodi.
Non a caso l’interrogazione di Dio a Caino “Dov’è tuo fratello Abele?” esige una risposta concreta, chiede conto di un “dove”, di un luogo, di una situazione, di un nome. Sai in che condizione vivono i tuoi fratelli, le tue sorelle, le donne e gli uomini a te vicini, a te lontani? Qual è il loro volto? Sai chi sono questi fratelli e sorelle nel comune genere umano, questi coinquilini della terra?
Per rispondere non si può guardare solo a se stessi: bisogna aprirsi alla realtà e al mondo. Sono interrogativi ai quali non si può sfuggire, che coinvolgono ogni donna e ogni uomo e implicano la responsabilità di vedere nell’altro la sua sofferenza, la sua precarietà, la sua fragilità, la sua rabbia ma anche il suo essere risorsa e aiuto per noi.
L’assunzione di questa responsabilità richiede un’interrogazione profonda nelle comunità, l’instaurarsi di relazioni e pratiche umane, un ascolto attento delle paure, l’aprirsi ad uno scambio sociale basato sulla reciproca conoscenza. Non sembra un caso che il termine «responsabilità» trovi la sua radice etimologica nella parola «risposta»: l’altro ci interpella, chiede di «esserci», di diventare un interlocutore, una persona, di dare quella «risposta» che ciascuno – senza deleghe – può dare.
Ed è una domanda che sta attraversando molte persone in questa difficile e complessa stagione.
Secondo il filosofo ebreo Emmanuel Lévinas (1906 -1995), uno dei più grandi filosofi morali del 900, in questa domanda, che di fatto presuppone che l’altro non ci riguardi, troviamo l’origine dell’immoralità; per Lévinas, infatti, la naturale responsabilità verso l’altro ci costituisce come esseri morali.
E il testo biblico come situa questa domanda?…in che contesto?… quali indicazioni i primi capitoli di Genesi danno per stare dentro la realtà nel modo più umano possibile?
 
Moltefedi l'ha chiesto a Lidia Maggi che, in modo sapiente, ha sempre aiutato a leggere il testo biblico cogliendovi quelle interpellazioni dell’umano, che costituiscono lo specifico della vicenda cristiana.

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