Tra eros e agape
(Franco Giulio Brambilla, Vescovo di Novara, vicepresidente della Conferenza episcopale italiana) Per trovare il centro di gravità di Amoris laetitia suggerisco un’immagine: quando la donna apre la custodia che contiene l’anello di fidanzamento su cui è incastonato un diamante, ammira anzitutto lo sfavillio del gioiello d’incalcolabile valore. Il capitolo iv: «L’amore nel matrimonio» è il diamante dell’esortazione apostolica.
Papa Francesco inizia così: «Tutto quanto è stato detto non è sufficiente a esprimere il vangelo del matrimonio e della famiglia se non ci soffermiamo in modo specifico “a parlare dell’amore”» (n. 89). L’amore va portato alla parola e l’eco che vi risuona è la “promessa”. La promessa della grazia di “agape” fa giungere a pienezza il lavoro di “eros”. Il dono dell’amore è presente come promessa, ma assente come pieno compimento. Ha bisogno che il lavoro di “eros” sia plasmato dalla grazia di “agape”.
L’esortazione svolge una riflessione affascinante sul “lavoro” dell’amore seguendo la traccia dell’inno all’“agape” di san Paolo (1 Corinzi, 13). Parla dell’amore umano prima che cristiano e suggerisce che l’amore umano è un labor — un cammino e una lotta — che è messo in moto dalla “promessa” dell’“agape” cristiana. Il Papa attribuisce al soggetto (“La carità è ...”) i verbi e le azioni dei sentimenti dell’amore, perché trovino la via per essere lavorati dalla presenza della grazia. Qui sta la “magia” del cammino dell’amore.
In tutte le lingue moderne la parola “amore” significa sia la passione di “eros” che il “dono” dell’altro. Francesco abita senza paura la parola, narrando per trenta numeri «Il nostro amore quotidiano» (90-119). È un affascinante affresco del “prodigioso scambio” di “eros” e “agape” nel tessuto della vita d’ogni giorno dell’uomo e della donna. Questo è il diamante di Amoris laetitia, che brilla della luce libera, sciolta e serena della laetitia francescana.
Con fine sapienza pedagogica, il Papa scava nei sentimenti dell’amore e nell’amore come sentimento, per aprire il varco alla grazia di “agape”, che insegna a lavorare l’“eros” in profondità. Si tratta di un lavoro “artigianale” che deve fondere insieme intuizione e attenzione, passione e dedizione. Egli accompagna con mano paterna e parola amica il cammino dell’uomo e della donna di oggi. È un testo che va centellinato perché dischiuda il cammino della coppia alla divina leggerezza della speranza.
Francesco cerca di stare lontano da due estremi: da un lato, rifugge tutte le idealizzazioni erotiche, fisiche, psichiche e spirituali dell’amore; dall’altro, educa il cuore e il gesto a percepire la promessa dell’altro come orizzonte e limite del proprio desiderio. Anzi come territorio della sua liberazione dal godimento consumistico e insaziabile. Solo così porta la donna e l’uomo nel paese inesplorato della libertà dell’amore.
L’“agape” lavora fin dal di dentro l’“eros” umano e lo solleva verso vette insospettate. Qui si snoda la sequenza dei verbi di “agape”. Nelle lingue moderne alcuni sono diventati predicati nominali (la carità è “paziente”, la carità è “benigna”, non è “invidiosa”), ma nel testo originale sono tutti predicati verbali. Indicano azioni passive e attive, declinate in positivo e in negativo per inscenare il prodigioso scambio di “eros” e “agape”. L’“agape” è il dono che rende paziente, benevolo, non invidioso, non vanaglorioso l’ardimento di “eros”. Gli lascia tutto il suo azzardo, la sua passione, il suo struggente desiderio di possedere, ma lo libera dal sogno di consumare l’altro, perché alla fine porterebbe alla consunzione di sé.
La pazienza, la benevolenza, la guarigione dell’invidia, la lotta all’orgoglio, l’amabilità, il distacco generoso, il perdono, la gioia condivisa, l’empatia, la fiducia, la speranza nell’altro, l’affronto delle contrarietà, sono come la scala di Giacobbe che unisce la terra dell’“eros” con il cielo dell’“agape” (nn. 91-119). Noi usiamo gli astratti, Francesco guida con la parola suadente a percorre le vie del cuore e le strade della vita, perché quei sentimenti si lascino “lavorare” dalla grazia di “agape”. La spiritualità ignaziana dell’analisi degli stati di coscienza è messa al servizio di un percorso sapienziale, che esplora con delicata attenzione il quotidiano della vita di coppia. Illumina uno sguardo pieno di compassione, che libera la mente e il cuore, fascia le ferite, entra nella drammatica della libertà, apre le famiglie ad altre presenze plurali, le toglie dal regime di “appartamento”.
L’ordito dell’inno si apre con due verbi affermativi di senso passivo e di valore attivo — «la carità è paziente, è benigna» — poi l’“agape” elabora le nostre relazioni con otto negazioni che sono il vero “lavoro” della carità per salvare e cesellare l’amore, e, infine, svetta nel cantus firmusche sigilla tutte le azioni precedenti — «si rallegra della verità» —. La bellezza e la sapienza del lavoro dell’amore (nn. 95-108) si collocano fra la misericordia dell’inizio (nn. 91-93) e la gioia della verità dell’amore della fine (n. 110).
La retorica dell’inno culmina con atteggiamenti segnati dalla totalità — «tutto scusa, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta» —: è il «dinamismo contro-culturale dell’amore» (n. 111). Se il primo e l’ultimo verbo riguardano il dire che «limita il giudizio implacabile» (n. 112) e l’agire che «supera qualsiasi sfida» (n. 118), già qui è proclamata la triade cristiana di fede, speranza e carità. L’arco dell’“agape” abbraccia il lavoro di “eros”: esso è passione, attrazione, pulsione, emozione, sentimento, struggente desiderio, voglia di possesso, persino cupidigia, talvolta sente nascere dentro di sé anche la volontà di affetto, di benevolenza, di affidamento, di reciprocità e d’incontro, ma resterebbe un conato impossibile, se non gli venisse incontro il dono di “agape” e non fosse salvato dalla grazia della charitas divina. Anzi trinitaria.
L’avventura di “agape” è il vero “viaggio di nozze” della vita di coppia. Il capitolo iv è il cuore dell’esortazione che fa brillare il diamante de «Il nostro amore quotidiano».
L'Osservatore Romano
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