Insomma, quanti sono gli italiani che si confessano?
«Quelli che dicono di confessarsi almeno una volta l’anno sono quasi un terzo della popolazione adulta e circa il 40% dei cattolici, con una piccola percentuale che dice di farlo occasionalmente, a distanza di anni. Nei fatti si tratta di una minoranza più ampia dei praticanti assidui, ma più ristretta di chi a messa si reca ogni tanto».
A quali categorie sociali appartengono?
«In gran parte sono pensionati e casalinghe. Si confessano di meno le persone professionalmente attive, i giovani e i laureati. In media un giovane su cinque. Tradizionalmente le donne si confessano di più, ma le giovani donne e le laureate si confessano meno dei corrispettivi maschili».
Si allontanano i settori più attivi e scolarizzati della popolazione.
«Eppure le donne laureate sono il gruppo sociale con maggiore interesse per la dimensione spirituale. Insomma, le donne che si discostano dai precetti della Chiesa sono quelle più interessate dalla spiritualità. Come annota Jose Casanova della Georgetown University, uno dei più importanti sociologi delle religioni: ‘Stiamo perdendo le donne, le giovani generazioni di donne…’. Che poi si riavvicinano, in parte, quando hanno figli che vanno al catechismo».
I motivi di questo distacco?
«Complessivamente il 70% degli italiani ritiene la confessione non necessaria o è critico su come viene fatta».
I cattolici più assidui cosa pensano?
«Il 50% di chi ha una religiosità devozionale, legata, per esempio, alla figura di un santo, non la ritiene necessaria o vorrebbe un cambiamento. I praticanti e gli appartenenti a gruppi religiosi si confessano più o meno nel 65% dei casi, ma anche in questo gruppo la metà pensa che non sia strettamente necessaria e chiede un cambiamento».
Si è perso il senso del peccato?
«Non abbiamo elementi che consentano di attribuire questa presa di distanze dalla confessione a un perduto senso del peccato. L’inchiesta dice che circa il 65% della popolazione pensa che abbia senso parlare di peccato. Piuttosto la confessione è uno degli elementi al centro delle tensioni che attraversano l’evoluzione della religiosità, che in Italia vive una fase di svolta».
Cosa intende dire?
«La maggioranza pensa che si possa essere buoni cattolici anche senza seguire le indicazioni della Chiesa in ambito sessuale e sociale. Per queste persone i punti di riferimento sono la coscienza e la legge di Dio. Meno del 37% dei cattolici (la percentuale si alza di qualche punto fra i frequentanti) riconosce a papa e vescovi l’autorità di dire cosa è bene e cosa è male. La maggior parte pensa a un rapporto con Dio senza mediazioni».
Una perdita di autorevolezza?
«Esattamente. E allora ci si rende conto di come l’autorevolezza ogni confessore se la debba conquistare sul campo. Non basta più essere al di là della grata del confessionale ».
Gli italiani pensano che si possa fare a meno della Chiesa?
«Al contrario. Lo pensa meno di un terzo delle persone. Ma questo bisogno di Chiesa non passa per la confessione, non passa per il desiderio di ricevere indicazioni morali né il perdono dei peccati. Si può dire che per queste persone la questione stessa della salvezza, con l’annesso problema del peccato, passi per strade diverse dalla mediazione della Chiesa: in particolare il rapporto personale con Dio. Anche fra i divorziati cattolici, per fare l’esempio di una categoria molto citata, solo una piccola percentuale ritiene che la confessione debba rinnovarsi, almeno i tre quarti pensano che non sia necessaria».
Una situazione particolarmente seria.
«Diciamo che se non si fa qualcosa rapidamente, l’idea stessa del sacramento della riconciliazione rischia di indebolirsi troppo».
Ma come si caratterizzano le persone che si confessano con regolarità?
«Ci sono due estremi. Il primo, molto consistente, lega il sacramento a una religiosità di tipo catechistico- infantile che negli anni non ha saputo né crescere né rinnovarsi, e pertanto la confessione assume un carattere ripetitivo e banale che ne impoverisce il significato. Senza considerare i tanti che, per questo stesso motivo, rifiutano la confessione perchè la vedono come una cosa legata a una morale precettistica. L’altro estremo è formato da una minoranza qualificata, che esprime una domanda di accompagnamento spirituale. Vorrebbero cioè maggiore qualità dalla confessione, quasi a farne una guida spirituale».
E l’offerta come si caratterizza?
«Rispondo con alcune considerazioni: se la gente tornasse a confessarsi in massa l’intero sistema crollerebbe perché non ci sono confessori e tanti preti sono in difficoltà su questo terreno. E, adesso, chi fa fronte a questa minoranza qualificata che desidera maggiore qualità dalla confessione? Chi fa fronte alle esigenze spirituali di quelle donne colte che sono alla ricerca di se stesse? La Chiesa deve attrezzarsi perché uno dei problemi di oggi è che non esistono più luoghi in cui possa essere affrontato costruttivamente il tema della definizione di sé. I giovani sono disorientati perché non c’è più nessuno che insegni con autorevolezza, desiderano una vita buona, ma subiscono la carenza di una autentica offerta a riguardo».
Insomma, si assiste a un paradosso: la domanda spirituale c’è, ma l’offerta non è adeguata?
«Sì. E lo dimostra il fatto che i confessori conosciuti come bravi hanno la fila al confessionale. La gente è sempre pronta a riavvicinarsi. Allo stesso tempo, però, serve una rieducazione alla confessione, un nuovo impegno pastorale in cui si torni a parlare di spiritualità, di misericordia, di bene e di male, di discernimento. E, forse, servirebbe anche un’indagine specifica, capace di indagare nel profondo le ragioni della fede degli italiani».
Roberto I. Zanini
Avvenire 25 novembre 2015
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