“Non conformatevi a questo mondo, ma trasformatevi rinnovando il vostro modo di pensare, per poter discernere la volontà di Dio, ciò che è buono, a lui gradito e perfetto” (Rom 12, 2).
In una società in cui ognuno si sente investito del compito di trasformare il mondo e la Chiesa, cade questa parola di Dio che invita a trasformare se stessi. “Non conformatevi a questo mondo”: dopo queste parole ci saremmo aspettati di sentirci dire: “ma trasformatelo!”; invece ci si dice: “ma trasformatevi!”. Trasformate, sì, il mondo, ma il mondo che è dentro di voi, prima di credere di poter trasformare il mondo che è fuori di voi.
Sarà questa parola di Dio, tratta dalla Lettera ai Romani, che ci introdurrà quest’anno nello spirito della Quaresima. Come da qualche anno, dedichiamo la prima meditazione a una introduzione generale alla Quaresima, senza entrare nel tema specifico in programma, anche per l’assenza di parte dell’uditorio impegnato altrove negli Esercizi spirituali.
1. I cristiani e il mondo
Diamo anzitutto uno sguardo a come questo ideale del distacco dal mondo è stato compreso e vissuto dal Vangelo ai nostri giorni. Giova sempre tener conto delle esperienze del passato se si vogliono comprendere le esigenze del presente.
Nei vangeli sinottici la parola “mondo” (kosmos) è quasi sempre intesa in senso moralmente neutro. Preso in senso spaziale, mondo indica la terra e l’universo (“andate in tutto il mondo”), preso in senso temporale, indica il tempo o il “secolo” (aion) presente. È con Paolo e più ancora con Giovanni che la parola “mondo”, si carica di una valenza morale e viene a significare, il più delle volte, il mondo come esso è divenuto in seguito al peccato e sotto il dominio di satana, “il dio di questo mondo” (2 Cor 4,4). Di qui l’esortazione di Paolo da cui siamo partiti e quella, quasi identica, di Giovanni nella sua Prima Lettera:
“ Non amate il mondo, né le cose del mondo! Se uno ama il mondo, l’amore del Padre non è in lui; perché tutto quello che è nel mondo – la concupiscenza della carne, la concupiscenza degli occhi e la superbia della vita – non viene dal Padre, ma viene dal mondo” (1 Gv 2, 15-16).
Tutto questo non porta mai a perdere di vista che il mondo in se stesso, nonostante tutto, è, e resta, la realtà buona creata da Dio, che Dio ama e che è venuto a salvare, non a giudicare: “Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna” (Gv 3, 16).
L’atteggiamento verso il mondo che Gesú propone ai suoi discepoli racchiuso in due preposizioni: essere nel mondo, ma non essere del mondo: “Io non sono più nel mondo – dice rivolto al Padre – ; essi invece sono nel mondo […]. Essi non sono del mondo, come io non sono del mondo” (Gv 17, 11. 16).
Nei primi tre secoli i discepoli si mostrano ben consapevoli di questa loro posizione unica. La Lettera a Diogneto , uno scritto anonimo della fine del II secolo, così descrive il sentimento che i cristiani avevano di se stessi nel mondo:
“I cristiani non si differenziano dal resto degli uomini né per territorio, né per lingua, né per consuetudini di vita. Infatti non abitano città particolari, né usano di un qualche strano linguaggio, né conducono uno speciale genere di vita […].Abitano in città sia greche che barbare, come capita, e pur seguendo nel vestito, nel vitto e nel resto della vita le usanze del luogo, si propongono una forma di vita meravigliosa e, per ammissione di tutti, paradossale. Abitano ciascuno la loro patria, ma come forestieri; partecipano a tutte le attività di buoni cittadini e accettano tutti gli oneri come ospiti di passaggio. Ogni terra straniera è patria per loro, mentre ogni patria è per essi terra straniera. Come tutti gli altri si sposano e hanno figli, ma non espongono i loro bambini. Hanno in comune la mensa, ma non il talamo. Vivono nella carne, ma non secondo la carne” .
Sintetizziamo al massimo il seguito della storia. Quando il cristianesimo diventa religione tollerata e poi ben presto protetta e favorita, la tensione tra il cristiano e il mondo tende inevitabilmente ad attenuarsi, perché il mondo ormai è diventato, o almeno è ritenuto, “un mondo cristiano”. Si assiste così a un duplice fenomeno. Da una parte schiere di credenti desiderosi di rimanere il sale della terra e non perdere il sapore, fuggono, anche fisicamente, dal mondo e si ritirano nel deserto. Nasce il monachesimo all’insegna del motto rivolto al monaco Arsenio: “Fuge, tace, quiesce”, “Fuggi, taci, vivi ritirato” .
Contemporaneamente, i pastori della Chiesa e gli spiriti più illuminati cercano di adattare l’ideale del distacco dal mondo a tutti i credenti, proponendo una fuga non materiale, ma spirituale dal mondo. San Basilio in oriente e sant’Agostino in occidente conoscono il pensiero di Platone soprattutto nella versione ascetica che esso aveva preso con il discepolo Plotino. In questa atmosfera culturale era vivo l’ideale della fuga dal mondo. Si trattava però di una fuga, per così dire, in verticale, non in orizzontale, verso l’alto, non verso il deserto. Essa consiste nell’elevarsi al di sopra della molteplicità delle cose materiali e delle passioni umane, per unirsi a ciò che è divino, incorruttibile ed eterno.
I Padri della Chiesa – i Cappadoci in prima linea – propongono una ascetica cristiana che risponde a questa esigenza religiosa e ne adotta il linguaggio, senza però mai sacrificare ad essa i valori propri del Vangelo. Tanto per cominciare, la fuga dal mondo da essi inculcata è opera della grazia più che dello sforzo umano. L’atto fondamentale non è alla fine del cammino, ma al suo inizio, nel battesimo. Non è perciò riservata a pochi spiriti colti, ma aperta a tutti. Sant’Ambrogio scriverà un trattatello “Sulla fuga dal mondo”, indirizzandolo a tutti i neofiti . La separazione dal mondo che egli propone è soprattutto affettiva: “La fuga – dice – non consiste nell’abbandonare la terra, ma, rimanendo nella terra, a osservare la giustizia e la sobrietà, a rinunciare ai vizi e non all’uso degli alimenti” .
Questo ideale di distacco e di fuga dal mondo accompagnerà, in forme diverse, tutta la storia della spiritualità cristiana. Una preghiera della liturgia lo riassume nel motto: “terrena despicere et amare caelestia”, “disprezzare le cose della terra e amare quelle del cielo”.
2. La crisi dell’ideale della “fuga mundi”
Le cose sono cambiate in epoca a noi vicina. Noi abbiamo attraversato, a proposito dell’ideale della separazione dal mondo, una fase “critica”, cioè un periodo in cui tale ideale è stato “criticato” e guardato con sospetto. Tale crisi ha radici remote. Comincia – almeno a livello teorico- con l’umanesimo rinasci¬mentale che riporta in auge l’interesse e l’entusiasmo, a volte di stampo paganeggiante, per i valori mondani. Ma il fattore determinante della crisi è da vedere nel fenomeno della cosiddetta “secolarizzazione”, cominciato con l’illuminismo e che ha raggiunto il suo apice nel secolo XX.
Il cambiamento più evidente riguarda proprio il concetto di mondo o di secolo. In tutta la storia della spiritualità cristiana, la parola saeculum, aveva avuto una connotazione tendenzialmente negativa, o almeno ambigua. Indicava il tempo presente sottoposto al peccato, in opposizione al secolo futuro o all’eternità. Nel giro di pochi decenni, esso ha cambiato segno, fino ad assumere, negli anni ’60 e ’70, un significato decisamente positivo. Alcuni titoli di libri usciti in quegli anni, come Il significato secolare del Vangelo di Paul van Buren e La città secolare di Harvey Cox, mettono in luce, da soli, questo significato nuovo, ottimistico, di “secolo” e di “secolare”. Nacque una “teologia della secolarizzazione”.
Tutto questo ha contribuito però ad alimentare in alcuni un ottimismo esagerato nei confronti del mondo, che non tiene abbastanza conto dell’altra sua faccia: quella per cui esso è “sotto il maligno” e si oppone allo spirito di Cristo (cf. Gv 14,17). A un certo momento ci si è accorti che all’ideale tradizionale della fuga “dal” mondo, si era sostituito, nella mente di molti (anche tra il clero e i religiosi), l’ideale di una fuga “verso” il mondo, cioè una mondanizzazione.
In questo contesto sono state scritte alcune delle cose più assurde e più deliranti che mai siano passate sotto il nome di “teologia”. La prima di esse è l’idea che Dio stesso si secolarizza e si mondanizza, quando si annulla come Dio per farsi uomo. Siamo alla cosiddetta “Teologia della morte di Dio”. Esiste anche una sana teologia della secolarizzazione in cui essa non è vista come qualcosa di opposto al Vangelo ma piuttosto come un prodotto di esso. Non è però questa la teologia di cui stiamo parlando.
Qualcuno ha fatto notare che le “teologie della secolarizzazione” menzionate altro non erano che un tentativo apologetico teso “a fornire una giustificazione ideologica dell’indifferenza religiosa dell’uomo moderno” ; erano anche “l’ideologia di cui le Chiese avevano bisogno per giustificare la loro crescente emarginazione” . Divenne presto chiaro che ci si era messi in un vicolo cieco; in pochi anni non si parlò quasi più di teologia della secolarizzazione e alcuni degli stessi suoi promotori ne presero le distanze.
Come sempre, toccare il fondo di una crisi è l’occasione per tornare a interrogare la parola di Dio “viva ed eterna”. Riascoltiamo dunque l’esortazione di Paolo: “Non conformatevi a questo mondo, ma trasformatevi rinnovando il vostro modo di pensare, per poter discernere la volontà di Dio, ciò che è buono, a lui gradito e perfetto” .
Sappiamo già qual è, per il Nuovo Testamento, il mondo al quale non dobbiamo conformarci: non il mondo creato e amato da Dio, non gli uomini del mondo ai quali, anzi, dobbiamo andare sempre incontro, specialmente i poveri, gli ultimi, i sofferenti. Il “mescolarsi” con questo mondo della sofferenza e dell’emarginazione è, parados¬salmente, il miglior modo di “separarsi” dal mondo, perché è andare là, da dove il mondo rifugge con tutte le sue forze. È separarsi dal principio stesso che regge il mondo, che è l’egoismo.
Soffermiamoci piuttosto sul significato di quello che segue: trasformarsi rinnovando l’intimo della nostra mente. Tutto in noi comincia dalla mente, dal pensiero. C’una massima di saggezza che dice:
Sorveglia i pensieri perché diventano parole.
Sorveglia le parole perché diventano azioni.
Sorveglia le azioni perché diventano abitudini.
Sorveglia le abitudini perché diventano il tuo carattere.
Sorveglia il tuo carattere perché diventa il tuo destino.
Prima che nelle opere, il cambiamento deve avvenire dunque nel modo di pensare, cioè nella fede. All’origine della mondanizzaione ci sono tante cause, ma la principale è la crisi di fede. In questo senso l’esortazione dell’Apostolo non fa che rilanciare quella di Cristo all’inizio del suo Vangelo: “Convertitevi e credete”, convertitevi, cioè credete! Cambiate modo di pensare; smettete di pensare “secondo gli uomini” e cominciate a pensare “secondo Dio” (cf Mt 16,23). Aveva ragione san Tommaso d’Aquino di dire che “la prima conversione si attua credendo”: prima conversio fit per fidem.
È la fede il terreno di scontro primario tra il cristiano e il mondo. E’ per la fede che il cristiano non è più “del” mondo. Quando leggo le conclusioni che tirano gli scienziati non credenti dall’osservazione dell’universo, la visione del mondo che ci danno scrittori e cineasti, dove , nel migliore dei casi, Dio è ridotto a una vago e soggettivo senso del mistero e Gesù Cristo non è neppure preso in considerazione, sento di appartenere, grazie alla fede, a un altro mondo. Sperimento la verità di quelle parole di Gesù: “Beati gli occhi che vedono quello che voi vedete” e resto attonito nel costatare come Gesù ha preveduto questa situazione e ne dato in anticipo la spiegazione: “Hai nascosto queste cose ai dotti e ai sapienti e le hai rivelate ai piccoli” (Lc 10,21-23).
Inteso in senso morale, il “mondo” è per definizione ciò che rifiuta di credere. Il peccato, di cui Gesú dice che il Paraclito “convincerà il mondo”, è di non aver creduto in lui (cf. Gv 16, 8-9). Giovanni scrive: “Questa è la vittoria che ha sconfitto il mondo: la nostra fede” (1 Gv 5, 4). Nella Lettera agli Efesini si legge: “Anche voi eravate morti per le vostre colpe e i vostri peccati, nei quali un tempo viveste alla maniera di questo mondo, seguendo il principe delle potenze dell’aria, quello spirito che ora opera negli uomini ribelli” (Ef 2,1-2). L’esegeta Heinrich Schlier ha fatto un’analisi penetrante di questo “spirito del mondo” considerato da Paolo il diretto antagonista dello “Spirito di Dio” (1 Cor 2, 12). Un ruolo decisivo svolge in esso l’opinione pubblica, oggi anche letteralmente spirito “che è nell’aria” perché si diffonde via etere.
“Si determina – scrive – uno spirito di grande intensità storica, a cui il singolo difficilmente può sottrarsi. Ci si attiene allo spirito generale, lo si reputa ovvio. Agire o pensare o dire qualcosa contro di esso è considerato cosa insensata o addirittura un’ingiustizia o un delitto. Allora non si osa più porsi di fronte alle cose e alle situazione e soprattutto alla vita in modo diverso da come esso le presenta…Loro caratteristica è di interpretare il mondo e l’esistenza umana allo loro maniera” .
È quello che chiamiamo “adattamento allo spirito dei tempi”. Esso opera come il vampiro della leggenda. Il vampiro si attacca alle persone che dormono e mentre succhia loro il sangue, contemporaneamente inietta in esse un liquido soporifero che fa trovare loro ancora più dolce il sonno, sicché quelle sprofondano sempre più nel sonno ed esso può succhiare tutto il sangue che vuole. Il mondo però è peggiore del vampiro, perché il vampiro non può addormentare la preda, ma si accosta a quelli che già dormono. Il mondo invece prima addormenta le persone e poi succhia loro tutte le energie spirituali, iniettando anch’essa una specie di liquido soporifero che fa trovare il sonno ancora più dolce.
Il rimedio in questa situazione è che qualcuno ci gridi all’orecchio: “Svegliati!”. È quello che la parola di Dio fa in tante occasioni e che la liturgia della Chiesa ci fa riascoltare puntualmente all’inizio della Quaresima: “Svegliati tu che dormi” (Ef 5,14); “È tempo di svegliarvi dal sonno!” (Rom 13,11).
3. Passa la scena di questo mondo
Ma interroghiamoci sul motivo per cui il cristiano non deve conformarsi al mondo. Esso non è di natura ontologica, ma escatologica. Non si deve prendere le distanze dal mondo perché la materia è intrinsecamente cattiva e nemica dello spirito, come pensavano i platonici e alcuni Padri influenzati da essi, ma perché, come dice la Scrittura, “passa la scena di questo mondo” (1 Cor 7, 31); “il mondo passa con la sua concupiscenza, ma chi fa la volontà di Dio rimane in eterno” (1 Gv 2, 17).
Basta fermarsi un istante e guardarsi intorno per rendersi conto della verità di queste parole. Succede nella vita come sullo schermo televisivo: i programmi, i cosiddetti palinsesti, si susseguono rapidamente e ognuno cancella il precedente. Lo schermo resta lo stesso, ma i programmi e le immagini cambiano. Così è di noi: il mondo rimane, ma noi ce ne andiamo uno dopo l’altro. Di tutti i nomi, i volti, le notizie che riempiono i giornali e i telegiornali di oggi – di tutti noi – cosa resterà da qui a qualche anno o decennio? Nulla di nulla.
Pensiamo a cosa resta dei miti di 40 anni fa e a che cosa resterà fra 40 anni dei miti e delle celebrità di oggi. “Avverrà – si legge in Isaia – come quando un affamato sogna di mangiare, come quando un assetato sogna di bere, ma si sveglia stanco, con la gola riarsa” (Is 29,8). Cosa sono ricchezze, salute, gloria, se non un sogno che svanisce allo spuntare del giorno? Ecco che un povero, diceva sant’Agostino, una notte fa un bellissimo sogno. Sogna che gli è piovuta addosso un’ingente eredità. Nel sonno si vede ricoperto di splendide vesti, circondato di oro e argento, possessore di campi e vigne; nel suo orgoglio disprezza il proprio padre e fa finta di non riconoscerlo…Ma si sveglia al mattino e si ritrova come si era addormentato .
“Nudo uscii dal grembo di mia madre, e nudo vi ritornerò”, dice Giobbe (Gb 1, 21). Succederà la stessa cosa ai miliardari di oggi con il loro denaro e ai potenti che oggi fanno tremare il mondo con il loro potere. L’uomo, visto fuori della fede, non è che “un disegno creato dall’onda sulla spiaggia del mare che l’onda successiva cancella”.
Oggi c’è un ambito nuovo in cui è particolarmente necessario non conformarsi a questo mondo: le immagini. Gli antichi avevano coniato il motto: “Digiunare dal mondo” (nesteuein tou kosmou) ; oggi esso andrebbe inteso nel senso di digiunare dalle immagini del mondo. Una volta quello dei cibi e delle bevande era considerato il digiuno più efficace e necessario. Non è più così. Oggi si digiuna per tanti altri motivi: soprattutto per mantenere la linea. Nessun cibo, dice la Scrittura, è per sé impuro, mentre molte immagini lo sono. Esse sono diventate uno dei veicoli privilegiati con cui il mondo diffonde il suo antivangelo. Un inno della Quaresima esorta:
Utamur ergo parcius Usiamo parcamente
Verbis, cibis et potibus, di parole, cibi e bevande,
Somno, iocis et arctius del sonno e dei divertimenti.
Perstemus in custodia. Siamo più vigili nel custodire i sensi.
Alla lista delle cose da usare parcamente – parole, cibi, bevande e sonno – bisognerebbe aggiungere, le immagini. Tra le cose che vengono dal mondo e non dal Padre, accanto alla concupiscenza della carne e la superbia della vita, san Giovanni pone significativamente “la concupiscenza degli occhi” (1 Gv 2,16). Ricordiamo come cadde il re David…Quello che successe a lui guardando sul terrazzo della casa accanto, succede oggi spesso aprendo certi siti in internet.
Se in qualche momento ci sentiamo turbati da immagini impure, sia per imprudenza propria, sia per l’invadenza del mondo che caccia a forza le sue immagini negli occhi della gente, imitiamo quello che fecero nel deserto gli ebrei che erano morsi dai serpenti. Anziché perderci in sterili rimpianti, o cercare scuse nella nostra solitudine e nell’incomprensione degli altri, guardiamo un Crocifisso o andiamo davanti al Santissimo. “Come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo, perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna” (Gv 3,14-15). Che il rimedio passi per dove è passato il veleno, cioè dagli occhi.
Con questi propositi suggeriti dalla parola di san Paolo ai Romani, e soprattutto con la grazia di Dio, iniziamo, Venerabili padri, fratelli e sorelle, la nostra preparazione alla Santa Pasqua. Fare la Pasqua, diceva sant’Agostino, significa “passare da questo mondo al Padre” (Gv 13, 1), cioè passare a ciò che non passa ! È necessario passare dal mondo per non passare con il mondo . Buona e santa Quaresima.
1.Lettera a Diogneto, V, 1-8 (Die Apostolischen Vaeter, ed. Kunk –Bihlmeyer, Tubingen 1856, pp. 143-144)
2.Cf. Vita e Detti dei Padri del deserto, a cura di L. Mortari, I, Roma 1986, p. 97.
3.Cf. De fuga saeculi, 1 (CSEL, 32, 2, p. 251).
4.S. Ambrogio, Espos. del Vang. sec. Luca, IX, 36; De Isaac et anima, 3, 6.
5.Cf C. Geffré, art. Sécularisation, in Dictionnaire de Spiritualité, 15, 1989, pp. 502 s.
6.S. Tommaso d’Aquino, Summa theologiae, I-IIae, q.113,a,4.
7.H. Schlier, Demoni e spiriti maligni nel Nuovo Testamento, in Riflessioni sul Nuovo Testamento Paideia, Brescia 1976, pp. 194 s.
8.Cf. S. Agostino, Sermo 39,5 (PL 38, 242).
9.Il motto risale a un detto non canonico attribuito a Gesù stesso: “Se non digiunerete dal mondo, non scoprirete il regno di Dio”. Cf Clemente Al., Stromati, 111, 15 (GCS, 52, p. 242, 2); A. Resch, Agrapha, 48 (TU, 30, 1906, p. 68).