Santa Maria,

Santa Maria,
...donna del primo sguardo, donaci la grazia dello stupore.

giovedì 19 maggio 2016

UNA BELLEZZA OGGI PROBLEMATICA - Esame di coscienza

Rupnik (2)

VIA PULCHRITUDINIS

MARKO I. RUPNIK S.J.

Relazione

UNA BELLEZZA OGGI PROBLEMATICA

Guardando alla storia della nostra fede, si può facilmente essere d’accordo con tanti che hanno costatato come, alla fine di un’epoca caratterizzata da un grande slancio evangelizzatore, rimangono sempre i martiri, i santi e l’arte quali testimoni autorevoli e convincenti della presenza dei cristiani. Vorrei qui far vedere che la via pulchritudinis, sotto l’aspetto teologico-spirituale, è il denominativo comune dei santi, dei martiri e dell’arte.
Per questo ritengo urgente accostarsi alla questione senza essere portati da una delle mode culturali di turno che spesso attraversano la nostra Chiesa. Alle volte si ha infatti l’impressione che l’evangelizzazione attuale, dopo aver raccolto praticamente pochi frutti dal suo sposalizio con la filosofia e ancor meno da quello con le altre scienze umanistiche, cerchi di togliersi da un certo imbarazzo cavalcando il tema dell’arte. E già un semplice discorso sull’arte, condito di tanta enfasi sulla bellezza, che alle volte si sente fare da parte di membri del clero o dell’episcopato, rivela la nostra incompetenza in materia. Mi sono trovato diverse volte in circostanze del genere e ho potuto osservare lo sgomento degli artisti presenti al sentirsi appellare come “operatori di bellezza” – mentre sappiamo che, nella quasi totalità, l’arte contemporanea non vuole situarsi all’interno delle categorie della bellezza, almeno della bellezza così come è stata intesa dagli scolastici, dall’idealismo o dal romanticismo. Ecco dunque che il primo discernimento riguarda già la pulchritudo, ciò che intendiamo con la categoria di “bellezza”. Un secondo livello di discernimento toccherà di conseguenza l’arte e un terzo l’“uso” della bellezza e dell’arte nella Chiesa, nell’evangelizzazione, nella catechesi… dunque nell’ambito del cammino spirituale.
Questo risveglio di interesse e allo stesso tempo questa mancanza di competenza affermano che nell’ambito educativo ecclesiale – nell’itinerario di formazione dei seminari, dei noviziati… –, la bellezza non è solo un “illustre assente”, ma qualcosa di assolutamente mancante dal nostro orizzonte mentale e dalla nostra visione antropologica. I famosi “trascendentali” da troppo tempo non sono più una realtà unita, ma si sono sbriciolati, e nella comprensione generale si assiste da secoli ad un progressivo distacco dell’idea del bello da quella del vero e del bene: la questione della verità viene collocata nell’ambito di un ontologismo che separa l’essere dalla comunione, in un’esistenza frammentata dove gli esseri sono realtà individuali prima di poter entrare in relazione gli uni con gli altri; il bene diventa facilmente un eticismo, un moralismo basato sull’impegno del soggetto, e non l’espressione di una comunione con Colui che possiede il bene; la bellezza e l’arte si trasformano in una questione privata irrilevante, declinata soprattutto sotto il suo aspetto emotivo, passionale, psicologico. L’arte diventa espressione non di una bellezza, ma di estetiche. Ma una visione profondamente spirituale e autenticamente cristiana della bellezza trova la sua espressione in questa affermazione di Vladimir Solov’ëv: la bellezza è “l’incarnazione in forme sensibili di quello stesso contenuto ideale che prima di tale incarnazione si chiamava bene e verità”.[1]
Data questa frammentazione, dove la fede diviene un contenuto ideale che rimane una proprietà interiore dello spirito, della sua volontà, del suo pensiero, ma senza “carne”, costatiamo quella “impotenza dell’idea”[2] che ha portato ad un crollo così veloce dell’impalcatura cristiana nel tessuto vitale ed esistenziale del nostro tempo.

I VARI ASPETTI DELLA BELLEZZA

Si può parlare della bellezza nel senso classico, cioè di una corrispondenza delle forme visibili, materiche, al loro corrispettivo ideale. Il limite di questa bellezza consiste nel dare la precedenza all’idea della perfezione formale. Sulla base di tale perfezione ideale contemplata intellettualmente, possiamo adeguare, aggiustare, correggere, ricomporre la realtà di questo mondo. Per l’arte greca classica questo significava che l’artista, facendo una statua di Afrodite, faceva emergere l’ideale non di una particolare donna individuale, ma quello universale del femminile. Ogni donna poteva aspirare, per così dire, a partecipare a questo ideale universale, a diversi gradi. E ciascuno poteva così avere un criterio di misurazione e di confronto. Nella riscoperta del classico al tempo del rinascimento, la questione della bellezza si rovescia radicalmente. Non si tratta più di andare dall’individuale all’universale, perché la Monna Lisa di Leonardo da Vinci e i ritratti di Bellini sono ormai idealizzazioni di soggetti individuali precisi. È l’individuo che è reso ideale nella sua perfezione formale. Evidentemente, su questa scia, si comincia ad aggravare il divario tra il reale e l’ideale. E siccome l’ideale è normativo e basato sull’individuo, questo paradigma ha condizionato per secoli tante cose nella nostra vita, impostata proprio sulla ricerca della perfezione individuale. Interi capitoli di teologia, di spiritualità, di morale sono tutti improntati su questa via al perfezionamento dell’individuo, dove l’idealizzazione della natura umana è stata presentata come una sorta di norma per il comportamento e la mentalità. Perciò ha cominciato a crearsi un cristianesimo che fondamentalmente è opera dell’uomo, dove l’antropocentrismo diventa il paradigma anche della fede: l’uomo protagonista della spiritualità, della fede, della conoscenza spirituale… E questo è esattamente ciò che, insieme a tanti altri aspetti della modernità, sta crollando in questo nostro tempo. Su questa scia, poiché tale bellezza lavora soprattutto sulla forma, si enfatizza necessariamente la questione della materia e del corpo. La corporeità acquista un valore autonomo, assoluto, determinando il dualismo irrisolto tra l’importanza indiscussa del corpo, della forza, della bellezza e il problema del dolore, della sofferenza, del fallimento, della morte. Queste due realtà sono rimaste agli antipodi, e molte volte si è cercato di colmare l’abisso tra di loro solo con una sorta di devozionismo, che tuttavia nutre solo il sentimento religioso, non l’intelligenza della fede, non lo stile di vita secondo la fede.
E’ evidente inoltre che tale modo di intendere la bellezza ha suscitato la reazione contraria: invece di adeguarsi ad un ideale, si è cercato di far vedere la bellezza della realtà tale e quale, secondo un realismo che talvolta ha avuto aspetti semplicemente ottico visivi, talvolta sociali, talvolta politici, talvolta ha semplicemente descritto la tragedia psichica dell’uomo. Tra questi due estremi, si è verificato una sorta di nichilismo della bellezza, di sua corruzione. Infatti, manifestare semplicemente la carne del mondo, esporre il dolore, il vuoto del cuore e dell’anima, versare all’esterno la confessione dell’uomo smarrito, offeso, ed esposto al male non è bellezza. Per la bellezza ci vuole una dinamica, uno slancio, un’apertura, una tensione, la rivelazione di qualcosa di superiore a ciò che immediatamente si coglie.
La bellezza per noi cristiani ha una dimensione cristologica e pneumatologica. E’ la carne del Logos. E il Logos non è un’idea, ma una Persona che fa emergere la sua verità come Figlio del Padre. Perciò la sua carne non rimanda a qualche idea, ma dischiude una relazione, il calore di un amore personale che ci unisce ad un’altra Persona. La bellezza si presenta immediatamente come comunione, come unità: “chi vede me vede il Padre” (Gv 14,9). Questa affermazione di Cristo costituisce per noi il criterio di discernimento sulla bellezza. La bellezza significa scoprire dentro ad una realtà un’altra, e trovarsi uniti con quella. La bellezza non si può esaurire su un unico piano e neppure costituire un semplice rimando analogico ad una qualche realtà ideale superiore, ma coinvolge in una comunione relazionale. “Voi non conoscete né me né il Padre; se conosceste me, conoscereste anche il Padre mio” (Gv 8,19): è la relazionalità come comunione, come unità a costituire il cuore della bellezza. Ma la relazione come unità tra il Padre e il Figlio è lo Spirito Santo. Perciò lo Spirito Santo prende dal Figlio e ce lo annuncia, cioè apre a noi questa comunione con il Padre. Allora la bellezza intesa, secondo Solov’ëv, come carne del vero e del bene significa che il vero e il bene è la comunione delle Persone, perché è l’amore del Padre. Infatti Florenskij esplicita che “la verità manifestata è l’amore. L’amore realizzato è la bellezza”.[3] La bellezza è la comunione che nella realtà della storia è donata come modo di esistenza della Chiesa. La bellezza è ecclesiale, perché è la comunione realizzata come partecipazione al modo di vita delle Persone divine.

LA BELLEZZA DELL’ARTE RACCHIUDE OGNI BELLEZZA DELLA VITA DELL’UOMO

La bellezza è dunque anzitutto la vita stessa della Chiesa. Ed espressione di questa vita a diversi livelli è la creazione della bellezza. Nell’arte, tale bellezza rappresenta lo stesso senso e la stessa perfezione che in qualsiasi altro ambito della vita. Le grandi epoche d’arte dei cristiani testimoniano che si tratta di un’arte essenziale e capace della rivelazione della presenza del mistero. La perfezione di tale arte consiste nel presentare questo mondo – come anche la figura umana – nei suoi tratti essenziali, per rendere visibile l’atteggiamento della persona nel suo compimento. La persona si compie nella relazione con Dio e con gli altri. Perciò i gesti sono puliti, il volto essenziale e il corpo è espressione di questa relazionalità, in modo che tutto esprima lo spazio per l’intervento di Dio, la sua discesa e manifestazione nella persona. L’uomo nella sua fragilità, imperfezione e mortalità di peccatore si apre con l’invocazione a Dio che risponde con la sua venuta, agendo nella persona per salvarla. La fragilità dell’uomo completato dall’azione di Dio – queste due realtà unite esprimono la perfezione dell’arte delle grandi epoche: il romanico, il primo bizantino, ecc… E questa perfezione, questa bellezza, racchiude il senso di tutte le attività dell’uomo: lavoro, famiglia, politica, conoscenza, tutto ciò che è umano si compie come perfezione nella sua divinoumanità. Ciò che è dunque la bellezza nell’arte lo è in ogni aspetto della vita dell’uomo, proprio perché la bellezza intesa così esprime quella comunione alla vita divina che è la santità della Chiesa e che i martiri hanno testimoniato con il sangue.

 

LA VIA PULCHRITUDINIS E GLI AMBITI FORMATIVI

Credo anzitutto che vada riscoperta una vera ecclesiologia comunionale, il che significa riprendere seriamente tutta la teologia, la liturgia, la spiritualità e la pastorale a partire della comunione. Non possiamo avere una ecclesiologia di comunione se insistiamo su una teologia scientifica concettuale, espressione dell’individuo, dove la sostanza delle cose diventa il contenuto ultimo della verità senza che la comunione sia più costitutiva dell’essere (come è nel Dio della fede cristiana, il Dio trinitario), per cui la conoscenza diventa un’adaequatio tra la res e un intellectus posti uno di fronte all’altro. Se le nostre comunità cristiane non esprimeranno la bellezza della vita battesimale, se non diventeranno teofania attraverso la nostra stessa umanità, non susciteremo il desiderio per Dio e per la vita nello Spirito Santo. Perché ci siano queste comunità, bisogna far sì che i nostri seminaristi e le nostre giovani religiose e religiosi siano formati partecipando e maturando nell’arte della comunione, nell’arte della partecipazione alla vita del Dio trino che trasforma l’individuo in “ipostasi ecclesiale”, come si esprimerebbe Zizioulas.[4] Se i seminari e gli altri luoghi formativi non diverranno luoghi di ecclesialità, luoghi di esperienza dell’amore pasquale che solo genera alla comunione fraterna, non giova a nulla tanta enfasi sulla preparazione culturale e intellettuale, perché le persone che usciranno da tali luoghi non saranno in grado di far innamorare di Dio, mentre la forza della bellezza consiste non nella dimostrazione, ma nella rivelazione che affascina ed attira, che “contagia”.
La bellezza nell’arte, come affermava Giovanni Paolo II, è via della conoscenza, perché è percezione unita della totalità e della cattolicità della vita. Non va dimenticato che in oriente, fino ad oggi, i grandi temi teologici vengono sviluppati non solo concettualmente, ma anche artisticamente nell’arte figurativa e nella poesia. Il nostro itinerario di studio si è rivelato assolutamente insufficiente per la trasmissione della fede, perché soffre del dualismo tra una conoscenza concettuale, che colloca la sua verità dentro agli schemi del linguaggio e pone tutto il suo sforzo nel voler costruire una teologia oggettiva e scientifica, e la prassi, cioè la concretezza della vita. Mentre l’arte non può per se stessa essere separata dalla vita. Dunque nell’itinerario formativo va certamente contemplata l’arte.
Non si tratta semplicemente di inserire la storia dell’arte nei curricula, ma di fare una lettura teologico-spirituale dell’arte. Per questo ci vogliono persone preparate, che non verniciano semplicemente ciò che hanno imparato nella facoltà di storia dell’arte con qualche impalcatura religiosa. Si tratta di persone che hanno un discernimento sulla storia dell’arte, capaci di aiutare a scoprire il valore dell’arte popolare o di un’arte grande come l’arte classica, sempre indicando le categorie della bellezza che sta a monte di un’epoca o di un’altra, di un popolo o di un altro, in modo che le persone comincino ad essere iniziate alla distinzione necessaria tra un’arte che suscita ammirazione (l’arte classica), un’arte che dice qualcosa sulla fede e sui suoi contenuti (rinascimento e barocco) e infine un’arte che suscita l’unione con Dio, la preghiera, una vita secondo Cristo e nell’umanità di Cristo (l’arte liturgica). Un’arte quindi che è autenticamente liturgica, perché continua il dinamismo trasfigurante del sacramento che la liturgia celebra e pertanto è testimonianza della Chiesa, in maniera che le pareti dell’edificio ecclesiale lavorate secondo una tale arte siano l’autoritratto della Chiesa. L’arte liturgica che si manifesta sulle pareti dell’edificio sacro fa vedere la trasfigurazione che i sacramenti e la liturgia attuano nel mondo e nella storia. Perciò i cristiani hanno considerato la bellezza come espressione della santità, mentre nell’epoca moderna la secolarizzazione è avvenuta anche perché la bellezza è stata considerata non come una dimensione indispensabile della santità e della sacralità, ma come una dimensione della ricchezza economica e dei sentimenti estetici del soggetto.
Se mettessimo in atto piccoli passi di cambiamento nelle nostre strutture formative, certamente non avremmo spazi liturgici come quelli attuali, espressione non solo di una grave secolarizzazione, ma anche di una tragica superficialità del clero, vittima di uno spirito postmoderno soggettivista, dove ciascuno fa come gli pare. Questo aspetto rende particolarmente preoccupante la situazione nelle terre delle giovani Chiese dove, negli ultimi decenni, lo spazio liturgico sconfessa praticamente ciò che il missionario vuole annunciare. Le nostre chiese non sono lo spazio di eventi liturgici che scandiscono il ritmo della vita e disegnano le assi portanti di un’antropologia cristiana. Ad esempio, difficilmente vi troviamo marcati i passaggi necessari dal battesimo all’eucaristia, dalla purificazione alla comunione.
La bellezza si crea quando la materia del mondo accoglie la forza, l’energia, la luce della comunione. Quando una persona vuole esprimere l’amore che sente per un altro, l’amicizia che lo lega ad un altro e prende una realtà del mondo per farne dono a quella persona, la materia si trasfigura. Questa azione, che di per sé è un’azione artistica sulla materia del mondo, partecipa dell’azione di Dio sulla materia del mondo nel sacramento. Lo sfondo sul quale va capita la creazione artistica è pertanto l’eucaristia, dove la materia del mondo, tramite il lavoro dell’uomo e la discesa dello Spirito, diventa apertura per accogliere l’intervento di Cristo. Bisogna smettere di pensare all’artista in un modo romantico, rinascimentale, come qualcosa di straordinario. L’arte intesa in questo senso è finita. Siamo all’inizio di un’epoca in cui di nuovo si intenderà l’arte come un servizio, come tante altre attività dell’uomo, un servizio che partecipa, con la sua missione, alla trasfigurazione del mondo, dell’uomo e della storia. Se vogliamo che tale mentalità si radichi in mezzo a noi, occorre essere preoccupati che nei nostri ambiti formativi ci sia davvero l’amore. Se non c’è l’amore, non c’è la forza della creatività, perché nessuno cambierà l’aspetto di un pugno di terra, povera materia del mondo, per sorprendere l’altro, per rallegrarlo, per dirgli la sua amicizia. Dobbiamo inoltre avere un linguaggio teologico profondamente simbolico nel senso patristico, e dunque liturgico, un linguaggio che chi fa passare per le sue mani la materia del mondo capisce molto bene. Il lavoro manuale è assai importante per una mentalità simbolica. Quando una cultura o una civiltà non riesce più a tenere insieme nel cuore l’intelletto e le mani, è all’inizio del suo declino.

CONCLUSIONE

Per una via pulchritudinis va dunque recuperato il vissuto, un vissuto che sia bellezza. Dunque oggi la domanda sull’evangelizzazione è la domanda su noi cristiani, sulla nostra capacità di “suscitare” l’appetito per la vita nuova. E questa forza attrattiva va insieme allo stile di vita, all’intelligenza di questa vita che crea una cultura e ad una bellezza che è espressione di tale vita nel suo spazio, dunque che si esprime nell’architettura e in tutte le arti. Ma la precedenza è sempre alla vita. Concluderei con l’esempio dei tempi antichi, dove colui che veniva in monastero dal maestro dell’affresco per imparare quest’arte portava con sé tutti gli strumenti e i colori, pensando che il giorno dopo avrebbe cominciato a dipingere. Ma il maestro prendeva strumenti e colori e li chiudeva in un armadio, ammonendo il discepolo che l’arte non era anzitutto questione di tecnica, ma di vita. E lo invitava a partecipare con lui alla vita, dicendogli che, quando sarebbe stato già capace di vivere la vita nuova, avrebbe trovato facile anche esprimerla. Altrimenti avrebbe rischiato di trasmettere un’apparenza vuota e deludente, perché priva di vita.


[1] V. Solov’ev, Il significato universale dell’arte, in Il significato dell’amore e altri scritti, Milano 1983, 220.
[2] V. Solov’ev, Il significato universale dell’arte, tr. it. in Il significato dell’amore e altri scritti, Milano 1983, 227.
[3] P. Florenskij, La colonna e il fondamento della verità, tr. it. Milano 1974, 115-116.
[4] Cf I. Zizioulas, L’essere ecclesiale, tr. it. Bose 2007.



centroaletti.com


Esame di coscienza,
Padre M. I. Rupnik sj 




Esame di coscienza, Padre M. I. Rupnik sj 1/6



Esame di coscienza, Padre M. I. Rupnik sj 2/6




Esame di coscienza, Padre M. I. Rupnik sj 3/6




Esame di coscienza, Padre M. I. Rupnik sj 4/6




Esame di coscienza, Padre M. I. Rupnik sj 5/6



Esame di coscienza, Padre M. I. Rupnik sj (6/6)

Nessun commento:

Posta un commento