Condannati ad attendere (come innamorati)
(Marco 13,33-37)
I Avvento anno B
“Vegliate, non sapete quando è il momento”. No, il tempo non lo conosciamo, non sappiamo il suo mistero, ci fa paura. Ecco perché lo abitiamo a fatica, spesso scivoliamo con il pensiero nel passato, lasciamo ai pensieri di perdersi in ciò che è stato e loro si lasciano ammaliare volentieri da una materia che ambiguamente si lascia modellare a piacimento. Ambiguo il passato, come il canto di sirene, una trappola. Oppure ci spostiamo nel futuro, ci spingiamo oltre il presente e viviamo proiettati in un altrove che non raggiungiamo mai. Vegliare è prima di tutto risvegliarsi nel presente. Aprire gli occhi e lasciarsi incontrare dal mondo così come è. Vegliare è risorgere nel presente. E riconoscere i dettagli, i profumi e le ombre. Vegliare è ascoltare, toccare, gustare. Vegliare è un respiro profondo a fare spazio al reale, è dilatare l’istante e scoprirlo abitato dall’Infinito. È imparare a riconoscere il Mistero che nasce continuamente nell’istante, è imparare dalla logica di Betlemme dove l’Infinito apre gli occhi e chiede cura. Vegliare è dilatare il tempo presente e renderlo abitabile. Caldo. Accogliente. E starci in questo tempo e in questo spazio, tenendoli insieme. Nascerci dentro. In questo tempo abitato il passato si trasforma in memoria e il futuro in speranza.
“È come un uomo che è partito dopo aver lasciato la propria casa”. Aprire gli occhi nel presente non è però azione indolore, è risvegliarsi a una consapevolezza anche dolorosa: siamo abitati da una Assenza. Il tempo è un vuoto lasciato da un amore che se ne è andato, il tempo presente è mangiatoia, pane spezzato ma anche tomba vuota, segno di un Amore che è passato, che ci chiede cammini nuovi. Ecco perché dormiamo, come dormiranno i discepoli nel Getsemani, ecco perché fuggiamo dal presente, ecco perché chiudiamo gli occhi: perché abbiamo un vuoto dentro, perché Lui è l’Assente, lo Sposo che non torna. Siamo figli di un Vuoto, come tutti gli innamorati: condannati all’attesa. Nel momento esatto in cui facciamo esperienza dell’Amore iniziamo a sentirci mancanti. Vegliare è complesso e impegnativo perché significa fare i conti con quell’inquietudine che ci portiamo dentro. Vegliare è scoprire che abbiamo un deserto dentro, attraversarlo o riempirlo sarà il nostro eterno dubbio. Attraversarlo accettandone l’esistenza, provando a camminare verso la Promessa di un Incontro, chiamarlo Terra Promessa o ritorno alla casa del Padre, accettare di sentirsi pellegrini come in Esodo o come in Emmaus, riconoscere il vuoto e solcarlo e imparare che la nostra vita non è altro da questo: attraversamento. Come magi nel deserto siamo chiamati ad alzare lo sguardo e provare a decifrare le stelle, non chiudere gli occhi ma cercare un sentiero percorribile giorno dopo giorno, e non farlo da soli ma insieme, ed elemosinare costantemente frammenti di senso che troviamo negli uomini di buona volontà: una parola, una poesia, l’interpretazione di un passo biblico, la mano tesa da un fratello, la lacrima versata da un amico… vivere con gli occhi bene aperti per riconoscere le tracce che ci aiutano a fare un passo dopo l’altro in questo Vuoto lasciato dall’Amore Risorto. Interiorizziamo la mangiatoia vuota, lasciamo che questo simbolo d’Avvento scavi dentro di noi. Apra spazi. Che il nostro cuore si senta abitato e vuoto, felice e inquieto, abbracciato e solo. Vegliare è amare questa ombra luminosa che chiamiamo vita. E fuggire la tentazione di chiuderli gli occhi, tentazione di chi non vuol vedere, di chi tutto riempie pur di sbarazzarsi delle domande. E imparare ad uccidere la religione delle risposte, quella che moltiplica gesti di culto, quella che riempie e rassicura. Vegliare, che la nostra sia sempre una fede da deserto: da esodo, da pastori, da discepoli nella notte.
“A ciascuno il suo compito, al portiere di vegliare”. Stare nel tempo, risorgere nel presente, scoprire il vuoto e poi presidiare i varchi. Stare sulle porte della vita, dove il dentro e il fuori entrano in contatto, dove i muri perdono la loro arroganza, dove la vita è più vulnerabile, dove si passa, dove la realtà è permeabile, dove è più insicura, dove non ci sono sentenze ma domande, dove si scopre che il limite tra peccato e grazia, tra malati e sani, tra santi e peccatori è divinamente labile. Stare svegli, presidiare i margini. Vegliare è avere il coraggio di tenere gli occhi aperti e stupiti sulla vita nella sua fragile permeabilità: penso alla nascita e alla morte, penso alla malattia e all’innamoramento, penso al crescere, all’educare, all’esperienza del lutto. Penso che tutta la vita abbia in sé un senso di limite che insieme ne indica la finitezza e il passaggio; saggio è chi non si stanca di interrogare il limite. Che poi non è altro che l’esperienza della morte e resurrezione. Vegliare è non chiudere le porte a tutto ciò che ci mette in crisi: volti, idee, punti di vista, crisi, stranieri… Vegliare è non chiudere le porte all’alterità, alla diversità. Vegliare è aprire porte, indebolire i muri.
“Vegliate, non sapete quando il padrone di casa tornerà, se alla sera o a mezzanotte…”. Come sentinelle, come pastori, chiamati a stare nel cuore delle notti. Il deserto è una notte che sembra non aver fine, vegliare nella notte è interrogare il dolore, è fare i conti con il peso della vita, quello che a volte sembra davvero insopportabile. Vegliare, avere fede, è fare i conti con occhi che bruciano mentre scrutano l’abisso del Mistero, il cuore di tenebra della storia, è fare esperienza dell’attraversamento del male e del dolore. Vegliare è diventare custodi delle proprie notti, delle notti del fratello, di quelle del mondo. È diventare custodi, pastori o angeli poco importa, forse sempre entrambi ma comunque custodi. Perché è la custodia del fratello ciò che illumina le tenebre, è imparare dall’errore di Caino: sì, le notti della vita sono spazi di deserto, sono vuoti che parlano dell’Assente, sono occasioni per scegliere la prossimità. All’inizio di questo Avvento impariamo dai pastori del presepe, gente che non ha credito, che non ha potere, gente moralmente discutibile, ladri, sporchi e confusi, uomini che però alzano lo sguardo e decidono di incidere un cammino nella notte. In pochi crederanno alla loro testimonianza e loro stessi dubiteranno, ma nel cuore della notte loro la vita l’hanno trovata. Piangeva e chiedeva cura. Quel pianto metteva tanta nostalgia, come di un amore antico che tornava a bussare. Poi il deserto è rimasto deserto. Però diverso. Il Vuoto era abitato. Dall’altra parte del deserto la vita, adesso, chiamava.
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La morte non è niente.
Sono solamente passato dall'altra parte:
è come fossi nascosto nella stanza accanto.
Io sono sempre io e tu sei sempre tu.
Quello che eravamo prima l'uno per l'altro lo siamo ancora.
Chiamami con il nome che mi hai sempre dato, che ti è familiare;
parlami nello stesso modo affettuoso che hai sempre usato.
Non cambiare tono di voce, non assumere un'aria solenne o triste.
Continua a ridere di quello che ci faceva ridere,
di quelle piccole cose che tanto ci piacevano
quando eravamo insieme.
Prega, sorridi, pensami!
Il mio nome sia sempre la parola familiare di prima:
pronuncialo senza la minima traccia d'ombra o di tristezza.
La nostra vita conserva tutto il significato che ha sempre avuto:
è la stessa di prima, c'è una continuità che non si spezza.
Perché dovrei essere fuori dai tuoi pensieri e dalla tua mente, solo perché sono fuori dalla tua vista?
Non sono lontano, sono dall'altra parte, proprio dietro l'angolo.
Rassicurati, va tutto bene.
Ritroverai il mio cuore,
ne ritroverai la tenerezza purificata.
Asciuga le tue lacrime e non piangere, se mi ami:
il tuo sorriso è la mia pace.
Henry Scott Holland
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