L’identità è sapere chi sono io e che cosa mi distingue dagli altri. Lo ripeteva sempre Alberto Melucci, uno dei massimi sociologi italiani, di cui sono stato allievo negli anni dell’università, autore di studi sull’identità tradotti in tutto il mondo.
Quando è incerta o quando si misura con l’altro, l’identità diviene domanda, interrogativo su di sé e sulle proprie origini. Nella Bibbia accade a Mosè, cresciuto in tutto e per tutto come un nobile egiziano. Arrivato all’età di quarant’anni, la scoperta dell’oppressione subita dal suo popolo diventa occasione di svolta e di ripensamento di tutta la sua vita (cfr. Es 2,11; At 7,23). La sua gente non viveva come lui, ma come minoranza oppressa. Questa presa di coscienza lo ha portato a interrogarsi su ciò che era veramente importante, sul suo posto nel mondo.
Oggi ci si chiede a ragion veduta chi è il cristiano. Nella nostra epoca, questa domanda si apre simbolicamente con il libro di Hans Urs von Balthasar, che la adotta come titolo, pubblicato nel 1965, a pochi anni dalla chiusura del concilio Vaticano II. Rispetto a quando la società era interamente cristiana, il mondo era cambiato e anche la chiesa cattolica stava cambiando.
Essere cristiani in questo tempo significa sempre di più convivere con altri, che non si riconoscono nella stessa fede religiosa o non ne professano alcuna. Di qui l’interrogativo sull’identità che è anche interrogativo sulla chiesa. Per rispondere, più che costruire delle immagini ideali e in ultima analisi astratte, vale la pena di soffermarsi su alcuni tratti propri dell’esperienza cristiana emergenti dalla parola biblica, che io riassumerei con la categoria del dinamismo.
La vita del cristiano e della chiesa è sempre movimento, cammino, così come Gesù è l’uomo che cammina e non ha dove posare il capo (cfr. Mt 18,20).
«Uomo, dove sei?», domanda Dio ad Adamo (Gn 3,29), cioè a noi. In altre parole: a che punto sei? Dove stai andando? È una domanda universale, per tutti e in tutti i tempi A questa domanda segue idealmente la chiamata di Abramo a uscire dalla propria terra. E l’invio in missione degli apostoli, che è prosecuzione dell’andare di Gesù nei villaggi della Galilea. I cristiani sono chiamati ad andare, ma verso dove? Verso gli altri, i non cristiani, con l’obiettivo di testimoniare, predicare, convertire, verrebbe da dire. In realtà, questo essere in movimento ha una duplice valenza che va esplicitata.
Non a caso la chiesa terrestre è detta dalla tradizione cristiana chiesa peregrinante, cioè chiesa in cammino, perché siamo ancora in esilio lontani dal Signore (2 Cor 5,6), come ci ricorda anche il Vaticano II (cfr. Lumen Gentium, 48). Il cristiano deve andare verso gli altri? Prima di tutto deve andare verso Dio! C’è pertanto una connessione stretta fra l’andare in missione e il ritornare a Dio, cioè il convertirsi: l’uno non sta senza l’altro.
In ogni tempo, i cristiani sono tenuti a chiedersi dove stanno andando e dove va la chiesa. Tutto ciò rinvia all’urgenza della conversione, la quale sempre caratterizza l’esistenza cristiana come un incessante nuovo inizio. L’invito di papa Francesco a lasciarsi incontrare dal Signore e a rinnovare l’incontro con lui, che apre l’esortazione Evangelii gaudium in cui ha esposto il suo programma per la chiesa cattolica, si comprende in questa chiave (cfr. EG 3). Questo papa ha lanciato un forte richiamo alla conversione di tutta la chiesa come condizione per l’annuncio del Vangelo. Se questa è la prospettiva cristiana, nella chiesa non può esserci spazio per la presunzione di essere migliori e tanto meno per atteggiamenti improntati al giudizio e alla condanna. La perdita di autorità e centralità del cristianesimo nel mondo contemporaneo non è allora una sconfitta, ma l’opportunità di un ritorno al Vangelo, alcuni tratti del quale sono divenuti opachi nella testimonianza della chiesa cattolica. La trasmissione della fede è perciò affidata alla bellezza, bontà e verità delle vite che suscita.
«Solo vivendo in prima persona la conversione la chiesa può anche porsi come testimone credibile dell’Evangelo nella storia, tra gli uomini, e dunque evangelizzare. Solo concrete vite di uomini e donne cambiati dall’Evangelo, che mostrano la conversione agli uomini vivendola, potranno anche richiederla agli altri»[1].
L’Evangelii Gaudium è un documento sorprendente e inatteso per gli orizzonti che ha aperto: essa costituisce una nuova tappa nell’attuazione dell’aggiornamento conciliare e un invito a chiederci a che punto siamo nella nostra conversione e ci offre dei criteri per verificare e discernere i passi da fare dentro questo momento della nostra storia personale e di chiesa.
«Il concilio Vaticano II ha presentato la conversione ecclesiale come l’apertura a una permanente riforma di sé per fedeltà a Gesù Cristo: “Ogni rinnovamento della Chiesa consiste essenzialmente in un’accresciuta fedeltà alla sua vocazione […] La Chiesa peregrinante verso la meta è chiamata da Cristo a questa continua riforma, di cui essa, in quanto istituzione umana e terrena, ha sempre bisogno” (Unitatis redintegratio, 6)» (EG 26).
La mia riflessione è una revisione di vita e pastorale alla luce dell’esortazione, per ri-leggerci a partire dal dinamismo umano ed ecclesiale dei tre momenti che la scandiscono: la gioia del Vangelo, l’uscire-da-sé in missione, il rinnovamento. L’ho articolata in tre momenti distinti nella scrittura, ma intimamente correlati: il cristiano, la comunità, la compagnia degli uomini, dove la corretta modalità di lettura è il cristiano nella comunità e la comunità cristiana, intesa quale soggetto dell’educazione alla fede, nella compagnia degli uomini.
È il cristiano, la persona che prima di tutto incontra la gioia del Vangelo, la sperimenta interiormente, e rilegge la propria vita alla luce della Parola e del volto di Cristo. Allora, esce da sé, va verso gli altri: «La gioia del Vangelo che riempie la vita della comunità dei discepoli è una gioia missionaria» (EG 21). E, nell’adesione allo stile di Gesù, il cristiano innesca la conversione della chiesa intera, della sua pastorale e delle sue strutture, in un rinnovamento che è improrogabile per far parlare il Vangelo oggi (cfr. EG 25-27).
In queste considerazioni ho cercato di condensare tratti di un’esperienza umana ed ecclesiale per ancorarle alla realtà. La partecipazione alle vicende della comunità e della diocesi a cui appartengo e soprattutto le vicende della vita senza aggettivi: il matrimonio, i figli, la malattia, l’amicizia, il lavoro nella scuola e non solo.
Prima di entrare nel vivo del discorso, mi sembra opportuno richiamare brevemente il significato biblico della conversione, per evitare fraintendimenti. Con l’andare del tempo, infatti, nella comprensione di questo concetto ha prevalso il significato dell’aderire a una confessione religiosa a cui prima non si apparteneva; un significato identitario, potremmo dire. La conversione, vista così, costituirebbe il momento del passaggio che segna l’ingresso nella fede cristiana e nella chiesa. Ai cristiani, soprattutto a partire dalle missioni spagnole e portoghesi del XVI secolo nel Nuovo Mondo e con la stagione delle grandi missioni ad gentes iniziate nel XIX secolo, spetterebbe perciò adoperarsi per la conversione di coloro che cristiani non sono.
Guardando alle Scritture, però, il senso della conversione appare ben più ampio di così. Nell’ebraico biblico la conversione è detta teshuvà, che può essere tradotta con “ritorno”, ma anche con “risposta”.
Così dice il Signore degli eserciti: tronate a me e io tornerò da voi (Zc 1,3; cfr. Ml 3,7).
Chi si converte ritorna a Dio, si rivolge verso di lui, orienta tutto il proprio essere, a cominciare dai comportamenti, nella sua direzione. Questo volgersi è allo stesso tempo anche una risposta a Dio, alla sua Parola, alla sua azione.
Un midrash racconta che il mondo è stato creato con la lettera “he” (ה), somigliante a una cornice con due aperture. Secondo la sapienza rabbinica, il mondo viene creato con questa lettera perché dalla cornice che Dio ha stabilito si può uscire (c’è libertà di scelta), ma c’è una seconda apertura perché si può ritornare e fare teshuvà. Come mai due aperture, si chiede il Talmud, se si può uscire e rientrare dallo stesso punto? Rabbi Chaim Shmuelevitz dice che per poter rientrare e fare teshuvà bisogna fare un’altra strada, è necessario mettere in discussione le proprie idee e i propri atteggiamenti.
L’ascolto della Parola di Dio, l’incontro con lui, può suscitare, nella libertà umana di rispondere, un cambiamento radicale di tutta l’esistenza. La Bibbia non lo presenta come l’atto di un momento, ma come un processo ininterrotto. Continuamente, attraverso i profeti, Dio chiama Israele alla conversione. Un invito rinnovato da Giovanni Battista:
«Convertitevi, perché il regno dei cieli è vicino» (Mt 3,2)
e ripreso tale e quale da Gesù (cfr. Mt 4,17). Nel greco del Nuovo Testamento il vocabolo è metánoia, che sta a indicare un cambiamento di pensiero e di mentalità, ma anche un atteggiamento penitenziale (cfr. Mt 3,8). Nella liturgia latina, l’invito alla conversione viene rinnovato ogni anno al principio della Quaresima, segno che è esigenza di tutta la vita cristiana, come avevano intuito padri della chiesa quali Origene e Gregorio di Nissa. La nascita dell’uomo nuovo secondo il Vangelo, è una gestazione che prosegue fino a quando dura il nostro pellegrinaggio ed è sul significato che la conversione ha per noi oggi che ho voluto meditare.
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Questo testo rielabora una relazione che ho tenuto il 6 maggio 2014 al clero della diocesi di Crema, su invito del vescovo Oscar Cantoni a cui va il mio ringraziamento.