Commento al Vangelo della Domenica.
Originally posted on
XXII Domenica del Tempo Ordinario (B),
Marco 7:1-8.14-15.21-23
Che cosa è impuro?
Enzo Bianchi
Dopo i brani tratti dal capitolo sesto del vangelo secondo Giovanni, la catechesi su Gesù quale “parola e pane della vita”, ritorniamo alla lettura cursiva del vangelo secondo Marco. Lo avevamo lasciato con il racconto della prima moltiplicazione dei pani (cf. Mc 6,30-44), lo ritroviamo con la lettura di alcuni estratti del capitolo settimo, che raccoglie parole di Gesù eco di controversie con i farisei e gli scribi.
Si tratta di parole certamente tramandate e attualizzate dalle chiese, ma che restano sempre Vangelo di Gesù Cristo e nient’altro. Tuttavia, va confessato che di fronte a queste parole, che appaiono una rottura con il giudaismo, i commentatori si dividono tra quanti le interpretano come discorsi partoriti dalla chiesa della fine del primo secolo in polemica contro i farisei, il giudaismo più presente e “combattivo”, e quanti invece insistono sulla rottura radicale, sul misconoscimento da parte di Gesù della Legge che lo precedeva. Non è facile fare discernimento in questa lettura, ma tentiamo tale operazione cercando di non essere debitori verso ideologie giudaizzanti né, d’altra parte, marcionite.
Cosa vuol dire Gesù? Di fronte a “farisei e scribi venuti da Gerusalemme”, dunque ad autorità ufficiali del giudaismo, egli entra in polemica, arriva ad attaccarli direttamente, perché giudica il loro sguardo, il loro spiare lui e i suoi discepoli come comportamento non conforme alla volontà di Dio. I discepoli di Gesù, infatti, vanno a tavola senza prima aver fatto l’abluzione rituale delle mani, comando che nella Torah e è rivolto solo ai sacerdoti che devono fare l’offerta, il sacrificio (cf. Es 30,17-21). Al tempo di Gesù vi erano movimenti che radicalizzavano la Legge, gruppi intransigenti e integralisti che chiedevano ai loro membri di comportarsi come i sacerdoti officianti al tempio, che moltiplicavano e radicalizzavano le prescrizioni della Legge, con una particolare ossessione per il tema della purità. Tra questi vi erano gli chaverim (compagni, amici) e iperushim (separati, farisei) – da alcuni identificati come un unico movimento –, la cui minuziosa legislazione casistica porterà alla formazione della Mishnah.
Gesù lasciava liberi i suoi discepoli da queste osservanze che non erano state richieste da Dio, ma dagli interpreti della parola di Dio, diventando “tradizioni”; e quando gli uomini producono tradizioni vogliono che queste siano “la tradizione”, e perciò le danno la stessa autorità attribuita alla parola di Dio. Ciò avveniva allora, così come avviene oggi nelle chiese! I vangeli ci testimoniano che su tanti temi Gesù si è espresso contestando queste tradizioni che alienano i credenti, non sono a loro servizio, ma creano una mancanza di libertà e sovente finiscono per erigere barriere, per tracciare confini e frontiere tra gli esseri umani. Quanto al caso di cui si tratta in questa pagina, occorre riconoscere che la tavola, da luogo di condivisione, di comunicazione, di esercizio dell’amore, di alleanza, nel giudaismo era progressivamente diventata un luogo di divisione e di scomunica dell’altro: lo straniero pagano, il peccatore, l’impuro non potevano prendervi parte insieme al pio giudeo. Così l’impurità dei cibi vietati a Israele rendeva impossibile agli ebrei stare a tavola insieme a chi apparteneva alle genti pagane, perché ogni non ebreo era ritenuto koinós, profano, e akáthartos, impuro (cf. At 10,28).
Ma per Gesù queste distinzioni non sussistono, e chi le fa non ha conosciuto il pensiero del Signore. Per questo, di fronte al rimprovero rivolto dai farisei ai suoi discepoli, Gesù risponde attaccandoli con la parola stessa di Dio contenuta nei profeti: “Questo popolo mi onora con le labbra, ma il suo cuore è lontano da me. Invano mi adorano, insegnando dottrine che sono solo precetti umani” (Is 29,13). Gesù è venuto per liberare da quella religione che è fabbrica di immagini di Dio e di suoi precetti che gli esseri umani di ogni cultura si sono dati. E si faccia attenzione: Gesù non vuole contraddire la Legge né la tradizione, ma sa sempre risalire all’intenzione del Legislatore, Dio, come facevano i profeti, affinché la Legge sia accolta nel cuore, con libertà e amore. Gesù accoglie le parole dell’alleanza di Dio con Mosè, ma non accoglie senza operare un discernimento i 613 precetti della tradizione, anche perché sa bene che, se si moltiplicano i precetti, si accrescono anche le possibilità di non osservarli, dunque si moltiplicano le occasioni di ipocrisia. E poi “la parola del Signore rimane in eterno” (Is 40,8; 1Pt 1,24), mentre la tradizione evolve con i mutamenti culturali, con le generazioni e, anche se carica di venerabilità a causa della sua antichità, resta umana, involucro e rivestimento della parola del Signore. È a tutto ciò che Gesù fa riferimento quando afferma, rivolto ai suoi interlocutori: “Trascurando il comandamento di Dio, voi osservate la tradizione umana”; e subito dopo, addirittura: “Annullate la parola di Dio con la tradizione che avete tramandato voi” (Mc 7,13).
Poi, rivolgendosi alla folla, spiega: “Ascoltatemi tutti e capite in profondità, riflettete, siate intelligenti! Non c’è nulla fuori dell’uomo che, entrando in lui, possa renderlo impuro. Ma sono le cose che escono dall’uomo a renderlo impuro”. I discepoli, però, non capiscono, e allora Gesù, spazientito, deve dare loro ulteriori chiarimenti: “Non capite che tutto ciò che entra nell’uomo dal di fuori non può renderlo impuro, perché non gli entra nel cuore ma nel ventre e va nella fogna?”. In tal modo Gesù “dichiara puri tutti i cibi”, e poco importa se tale precisazione sia uscita letteralmente dalla sua bocca o sia stata generata dalla chiesa a partire dal suo insegnamento… Infine, Gesù conclude con parole che dovrebbero chiarire la questione una volta per tutte: “Ciò che esce dall’uomo è quello che rende impuro l’uomo. Dal di dentro, infatti, cioè dal cuore degli uomini, escono i propositi di male: impurità, furti, omicidi, adultèri, avidità, malvagità, inganno, dissolutezza, invidia, calunnia, superbia, stoltezza. Tutte queste cose cattive vengono fuori dall’interno e rendono impuro l’uomo”.
Occorre notare che i peccati enumerati sono tutti contro l’amore, contro il prossimo, perché il peccato si ha solo nei rapporti tra ciascuno di noi e gli altri; non a caso, Gesù ha detto che saremo giudicati solo sull’amore verso gli altri (cf. Mt 25,31-46), sul cuore e sulla sua capacità di relazione, misericordia, purezza, fedeltà. Sì, il male, l’impurità, sta dove manca l’amore e non in altri luoghi in cui gli uomini religiosi vorrebbero trovarlo per mantenere in vita la loro costruzione. Il male, l’impurità, non sta nelle cose, ma è in noi, nella nostra scelta tra l’amore e l’odio, tra il riconoscere l’altro e l’affermare solo noi stessi, tra la nostra volontà di comunione e la nostra voglia di separazione.
Non dimentichiamo, dunque, che possiamo sedere alla tavola dei peccatori, perché Gesù si è seduto alla tavola in cui erano commensali i peccatori, fino a essere definito “un mangione e un beone, un amico di pubblicani e di peccatori” (Mt 11,19; Lc 7,34). Non dimentichiamo che per tutti gli uomini e le donne la tavola è un luogo di comunione, di raduno, di faccia a faccia, di relazione, di celebrazione dell’amicizia, dell’amore e dell’affetto. Perciò non possiamo escludere nessuno dalla tavola: se lo faremo, saremo esclusi noi dalla tavola del Regno! Quanto poi alla tavola eucaristica, non ne è escluso chi è peccatore, si ritiene tale e porge la mano come un mendicante verso il corpo del Signore, mentre ne dovrebbe essere escluso chi non sa discernere il corpo di Cristo (cf. 1Cor 11,29) nel fratello e nella sorella, nel povero, nel peccatore, nell’ultimo, nel senza dignità. Purtroppo, però, è più facile fare l’abluzione delle mani durante la liturgia eucaristica, ripetendo un versetto di un salmo, che non riconoscere il proprio peccato e dire al Signore: “Io non sono degno, ma tu per misericordia entra nella mia casa!”.
Quel rischio di una fede dal
«cuore lontano» piegata all’esteriorità. Ermes Ronchi
Gesù viveva le situazioni di frontiera della vita, incontrava le persone là dov’erano e attraversava con loro i territori della malattia e della sofferenza: dove giungeva, in villaggi o città o campagne, gli portavano i malati e lo supplicavano di poter toccare almeno il lembo del suo mantello. E quanti lo toccavano venivano salvati (Mc 6,56). Da qui veniva Gesù, portando negli occhi il dolore dei corpi e delle anime, e insieme l’esultanza incontenibile dei guariti.
Ora farisei e scribi lo provocano su delle piccolezze: mani lavate o no, questioni di stoviglie e di oggetti! Si capisce come la replica di Gesù sia decisa e insieme piena di sofferenza: Ipocriti! Voi avete il cuore lontano! Lontano da Dio e dall’uomo. Il grande pericolo, per i credenti di ogni tempo, è di vivere una religione dal «cuore lontano», fatta di pratiche esteriori, di formule recitate solo con le labbra; di compiacersi dell’incenso, della musica, della bellezza delle liturgie, ma non soccorrere gli orfani e le vedove (Giacomo 1,27, II lettura).
Il pericolo del cuore di pietra, indurito, del «cuore lontano» da Dio e dai poveri è quello che Gesù più teme. «Il vero peccato per Gesù è innanzitutto il rifiuto di partecipare al dolore dell’altro» (J. B. Metz), e l’ipocrisia di un rapporto solo esteriore con Dio. Lui propone il ritorno al cuore, per una religione dell’interiorità. Non c’è nulla fuori dall’uomo che entrando in lui possa renderlo impuro, sono invece le cose che escono dal cuore dell’uomo… Gesù scardina ogni pregiudizio circa il puro e l’impuro, quei pregiudizi così duri a morire. Ogni cosa è pura: il cielo, la terra, ogni cibo, il corpo dell’uomo e della donna. Come è scritto: «Dio vide e tutto era cosa buona».
Gesù benedice di nuovo le cose, compresa la sessualità umana, che noi associamo subito al concetto di purezza e impurità, e attribuisce al cuore, e solo al cuore, la possibilità di rendere pure o impure le cose, di sporcarle o di illuminarle. Il messaggio festoso di Gesù, così attuale, è che il mondo è buono, che le cose tutte sono buone, che sei libero da tutto ciò che è apparenza. Che devi custodire invece con ogni cura il tuo cuore perché è la fonte della vita. Via le sovrastrutture, i formalismi vuoti, tutto ciò che è cascame culturale, che lui chiama «tradizione di uomini». Libero e nuovo ritorni il Vangelo, liberante e rinnovatore.
Che respiro di libertà con Gesù! Apri il Vangelo ed è come una boccata d’aria fresca dentro l’afa pesante dei soliti, ovvii discorsi. Scorri il Vangelo e ti sfiora il tocco di una perenne freschezza, un vento creatore che ti rigenera, perché sei arrivato, sei ritornato al cuore felice della vita. (Letture: Deuteronòmio 4, 1-2. 6-8; Salmo 14; Giacomo 1, 17-18. 21b-22.27; Marco 7,1-8.14-15.21-23).
Alle radici delle leggi di impurità.
Don Antonio Savone.
Ogni cultura indica al proprio interno situazioni, atteggiamenti, persone impuri. C’è un confine che separa da queste zone, un confine che non va mai varcato se ci si vuole mantenere puri, capaci di incontro con gli altri e perciò anche con Dio.
Ovviamente, all’opposto delle zone di impurità si collocano le zone sacre, che sono dei territori selettivi, dove entra solo chi è massimamente puro o purificato, perciò abilitato all’incontro con Dio.
Ne deriva che la vita sociale è come correlata da un duplice confine che ci si deve guardare dall’oltrepassare, così come stabilisce il volere divino nella legge religiosa di ogni popolo: da una parte ciò da cui bisogna stare lontani, dall’altra ciò in cui solo a pochi è concesso di entrare. Quanto più ci si allontana dall’impurità tanto più si può sperare di avere accesso al sacro. Questi due confini determinano poi due categorie di persone: da una parte i reprobi, coloro che hanno infranto la legge del gruppo, dall’altra i santi, persone considerate senza ombra e senza macchia, persone che in qualche modo sono riuscite a trascendere la propria umanità.
Chi è che stabilisce questi confini e queste distinzioni? E’ la legge, che di volta in volta mette in guardia: attenzione, ecco il pericolo. La legge chiede di rapportarsi all’impurità come a un contagio da evitare: chi tocca, muore.
E l’impuro è di volta in volta il lebbroso, un cadavere, una professione, una categoria di persone, lo straniero di pelle o di religione.
Osservando da vicino quello che noi classifichiamo come impuro, ci si accorge che esso è tutto ciò che non si capisce e fa paura, ciò che potrebbe mettere in pericolo, quello che disturba o altera gli equilibri sociali, ciò che ricorda la minaccia della morte.
Le leggi dell’impurità sono i confini posti per tenere a bada la paura: i divieti sono le fortificazioni del gruppo che si difende dalle minacce di ogni possibile contatto con la morte. Ed è la paura quindi che genera la legge che fa allontanare dall’impurità.
Ecco perciò il sacro, l’altra paura: la paura del troppo grande, dello sconosciuto, del troppo puro dove non si vuole entrare per timore di essere trovati imperfetti, sporchi. L’incontro con Dio, pur così desiderato, è allontanato e recintato: noi dubitiamo di noi stessi e perciò riteniamo che Dio non ci possa approvare.
E’ così che si costruiscono i gruppi umani: ci si cautela contro il rischio della morte ma si allontana anche il divino, accontentandosi di inviare in esso come ambasciatore solo un rappresentante debitamente purificato. Noi che siamo gente comune, senza infamia e senza lode, finiamo così per ritagliarci una zona neutra, protetta, lontana dalla morte e lontana da Dio.
Ma la parola e la persona di Gesù vengono a dirci qualcosa di nuovo in merito. Gesù varca continuamente i confini dell’impurità: tocca i morti, parla con i lebbrosi, con le donne, sta a tavola con pubblicani e prostitute e, nello stesso tempo, si presenta come“colui che è Dio”. Si presenta come un destabilizzatore della nostra geografia sociale e religiosa. Non ha paura della morte né del faccia a faccia con Dio.
Entra nelle zone proibite dell’umanità perché non ha paura di esse e non ha paura perché le guarda in faccia, le accoglie e le perdona. Non teme di esserne contagiato perché è libero, vale a dire che la sua vita e il suo cuore cercano sempre e soltanto ciò che piace al Padre. Ecco perché oggi ci chiede di gettar via la maschera dicendoci che alle radici delle nostre leggi di purità e di impurità non c’è Dio: ci siamo noi. Noi non vogliamo morire e rifiutiamo tutto ciò che ci parla di morte o ci fa avvicinare ad essa. Questa separazione tra puro e impuro è una “tradizione di uomini”, di uomini che hanno paura e sono perciò alle prese con i confini di una vita rassicurante.
Non è un caso che la nostra cultura rimuova continuamente la morte e i suoi segni. E’ come se volessimo nascondere tutto ciò che ricorda una sorta di unica certezza della vita, che cioè si deve morire. E perciò giochiamo a fare gli dèi immortali. E quindi la lista delle nuove impurità si allunga: via dai nostri ambienti le categorie di persone che hanno il torto di essere diverse, o deboli o riprovevoli, via le prostitute, via gli zingari, via i barboni.
Oggi Gesù ci guarda in faccia e ci chiede di ridare il nome giusto alle cose: la paura ci governa e perciò costruiamo regole per salvarci attribuendole alla volontà di Dio. Mentre, sembra dire Gesù, l’unico dato che ci dà accesso a Dio è proprio il non rimuovere la coscienza della nostra debolezza. Questo Dio che in Gesù entra nella nostra umanità ferita, vulnerabile, debole, indica “nel peccato l’uomo da trovare, nella morte la vita da accogliere, nell’impuro il prossimo da recuperare”.
Nessun commento:
Posta un commento