Lidia Maggi Chiamati a ricominciare
(fonte) Nella riflessione precedente abbiamo conosciuto Dio, il protagonista del racconto biblico, come ostinato ricominciatore, incapace di arrendersi al non senso della vita. Di fronte a una realtà fragile, sempre a rischio di precipitare nel caos e nel fallimento, Dio reagisce con atto ri-creativo, riaprendo ulteriori possibilità.
E se fosse proprio tale attitudine a caratterizzare anche la vocazione umana? Se nel desiderio di rialzarsi, riprendere il cammino, ci fosse in noi la memoria di quell’ imprinting originario, offerto a un’umanità pensata a immagine e somiglianza di Dio? La creatura umana, impastata di polvere rossa – adamà – e riempita di soffio divino – nishmat chayim, anima di vita – vive uno strano meticciato fatto di terra e cielo, fragilità e infinito. E non solo perché tessuta di terra e soffio, ma anche perché creata per la relazione, come l’intera creazione. Ogni cosa, ogni creatura è interconnessa nella grande orchestra della vita e tutto il creato è sinfonia. Si esegue, però, il concerto della vita senza prove; e a volte, troppe volte, dimenticando lo spartito, la vocazione originale. Non è, forse, questo che ci racconta il prologo della Genesi? La bellissima melodia dell’esistenza viene gradualmente deformata fino a divenire rumore insopportabile; e tuttavia, Dio continua ad ascoltare, non si alza indignato dalla poltrona, ma cerca di ritrovare in quel frastuono pochi accordi armonici che riaprano alla melodia.
Nel mito antico della Genesi, dunque, Dio non è solo colui che dà vita alla vita
Nel mito antico della Genesi, dunque, Dio non è solo colui che dà vita alla vita: Egli stesso se ne prende cura legando la sua esistenza al mondo. Non rimane indifferente alle sue sorti. Non solo le accompagna, ma le segue con apprensione: «Purché tenga», dirà nel Talmud, commentando la sua opera. Rimaniamo sulla scena iniziale, proposta come chiave di lettura per decodificare l’intera storia che da qui prende inizio, così da capire meglio come Dio si muova rispetto ai primi fallimenti. La Genesi, pur raccontandoci con stupore e bellezza la nascita del mondo, non ci consegna una narrazione idilliaca della creazione e tanto meno delle relazioni umane. La coppia primordiale, che inaugura simbolicamente la stirpe umana, nonostante la benedizione divina, si ritrova in poco tempo a vivere una relazione incrinata.
Stupore e crisi sono gli ingredienti che caratterizzano il «primo amore».
Stupore e crisi sono gli ingredienti che caratterizzano il «primo amore». Eppure c’erano tutte le premesse perché quella storia, la prima, volasse alto, regalandoci l’atteso happy end. I due, infatti, si sono scelti dopo lunga ricerca. Nessuno ha imposto ad Adamo quella creatura di sogno. Adamo non è costretto a prenderla come compagna: la sceglie liberamente, dopo averla cercata assieme a Dio, tra mille creature del nuovo mondo. Il mito racconta che sfilano, come in passerella, tutti gli animali della terra, ma nessuno sembra trovare il consenso umano per vincere la solitudine. Eva entra in scena intessuta di ricerca e desiderio. Fa sussultare Adamo di gioia e stupore. È un legame di libertà quello che, da subito, caratterizza la prima coppia. Adamo riconosce la donna come parte di sé (osso delle mie ossa); e tuttavia sa che questa è dono. È la creatura che ha sempre sognato. E non solo metaforicamente: poiché Eva viene formata da Dio mentre Adamo dorme. Costui non partecipa attivamente all’atto creativo: non ne è il creatore. Eva, dunque, è dono. Eppure non bastano il desiderio, la scelta libera e consapevole, il riconoscimento, a rendere stabile quella relazione. Il legame si rivela fragile, attaccabile da chi, con fare sottile, strisciante, si insinua tra i due, deformando il loro sguardo sul mondo e insinuando il sospetto. La realtà che li circonda subisce una radicale trasformazione. Il giardino diventa deserto e l’albero tra gli alberi è, ai loro occhi, l’unico desiderabile: nel giardino di Eden nasce la pubblicità che deforma la realtà, imprigionando in un oggetto definito il desiderio e facendoci credere che senza di esso non è possibile essere felici.
Il mito antico racconta di una prima fragilità legata alla comunicazione
Il mito antico racconta di una prima fragilità legata alla comunicazione: a come udiamo e a come guardiamo. Possiamo possedere interi boschi e non essere più in grado di vederli, quando fissiamo gli occhi sull’unico albero che non possiamo avere. Sguardo fisso, impietrito, idolatra. Si deforma così anche l’immagine del Creatore: colui che dona abbondantemente ogni cosa (mangia pure di ogni albero del giardino…) diventa la divinità che ti impedisce di nutrirti, di crescere, perché invidiosa. Si insinua il sospetto che Dio sia in competizione con le sue creature e che quel divieto – dell’albero della conoscenza del bene e del male non ne mangiare perché nel giorno che tu ne mangerai, certamente morirai – sia stato dato non per il bene della coppia, ma per la sua rovina. Di fatto, qualcosa muore: viene deformata l’immagine di Dio, scorto come l’antagonista; e si spezza la collaborazione tra la coppia. Dall’altro, ora, bisogna difendersi. Il suo corpo nudo, sperimentato come luogo dell’intimità, giardino di delizie, diventa campo di battaglia, spazio per ferire e saccheggiare. Il linguaggio dello stupore si deforma in accusa: ognuno è solo. È la crisi della coppia, e non ci si sente più responsabili per l’altra persona. Persino l’evento fondatore che li ha fatti incontrare viene deformato attraverso parole di accusa che cancellano quelle originarie di tenerezza: la donna che tu mi hai messo a fianco… (ma non l’aveva cercata, desiderata per uscire dalla sua solitudine?); il serpente mi ha ingannata e io ne ho mangiato… (ma la creatura umana, non doveva «dominare» su tutti gli animali? Ora, invece, ubbidisce alla voce del serpente che la controlla e l’inganna). Il racconto, pur tragico, ha risvolti ironici, quasi carnevaleschi: eccoli i «dominatori del creato», comandati a bacchetta da un piccolo animale strisciante! Dio scaccerà Adamo ed Eva dal giardino di Eden; ma già da prima la coppia si era esiliata da esso sperimentato, nel sospetto, non più come luogo di vita. Adamo ed Eva sono chiamati a uscire non tanto per punizione; piuttosto, dovranno andarsene per il loro bene, come avverrà per Abramo (vattene per te stesso: Lek lekà). In quel giardino il loro amore muore. Occorre ricominciare altrove. Non prima, però, di aver ricevuto da Dio un dono: una tunica di pelle. Il Creatore non li manda «senza pelle» ad affrontare la nuova vita. Nel tentativo di ristabilire una relazione ormai incrinata, il Signore compie gesti di cura: non li lascia nudi, li protegge con una nuova pelle ora che, con le parole, sanno graffiare l’intimità invece che accarezzarla.
È un nuovo inizio per Adamo ed Eva. Esiliati, sono anche liberati dal dominio del serpente
È un nuovo inizio per Adamo ed Eva. Esiliati, sono anche liberati dal dominio del serpente e dislocati dal loro sguardo deformato sul giardino. Non potranno più abitarlo, ma quel giardino non sarà perduto per sempre: lo porteranno dentro di sé, quando sapranno riscoprirlo nel corpo dell’altro. Di questo ci parla un altro libro della Bibbia: il Cantico dei cantici. Una chiara riscrittura della Genesi, un altro finale alla storia antica, dove gli ostacoli e le difficoltà sono affrontati senza far morire una storia, senza che lo sguardo si deformi, attraverso un amore forte come la morte. Il Cantico è una seconda possibilità per l’amore, un nuovo inizio che muove i suoi passi da quella prima uscita, da quel primo fallimento, soccorso da un Dio che chiama a ricominciare (da Riforma del 15 novembre 2013).
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