Santa Maria,

Santa Maria,
...donna del primo sguardo, donaci la grazia dello stupore.

sabato 15 dicembre 2012

Lettera agli amici per l'Avvento 2012


Lettera per l'Avvento


Quanta est nobis via?

di Enzo Bianchi
Cari amici, ospiti e voi che ci seguite da lontano,
già nella lettera di Pentecoste abbiamo voluto ricordare il 50° anniversario dell’apertura del concilio Vaticano II, riprendendo le parole di papa Giovanni nell’allocuzione Gaudet mater Ecclesia, pronunciata l’11 ottobre 1962. Ora, in questo tempo di Avvento in cui professiamo e testimoniamo con le nostre povere vite l’attesa del ritorno del Signore nella gloria, vogliamo interrogarci assieme a voi su cosa ne abbiamo fatto di quella “novella Pentecoste”, di quel “balzo innanzi” auspicato da Giovanni XXIII, della “grande grazia” concessa alla chiesa nel secolo scorso e offertaci come “sicura bussola per orientarci nel cammino del xxi secolo”, secondo le forti parole di papa Giovanni Paolo II. Sì, “quanta est nobis via?”, quanto cammino ci resta da fare nella nostra rinnovata sequela del Signore, una sequela rinfrancata dal Vaticano II, un cammino di conversione al Signore reso più spedito, ma che ha conosciuto anche passi indietro, incertezze, soste, deviazioni.
Se tentiamo non tanto un bilancio quanto una lettura di questi cinque decenni possiamo dire che sono stati anni di trepidante attesa, tradottasi talora in gioia di fronte alla conferma dello spirito del concilio e all’attuazione dei suoi propositi, talaltra in disappunto, quando il Vaticano II è stato disatteso e contraddetto nelle sue istanze e ispirazioni… Certo, se per molti aspetti si può affermare che l’evento del Vaticano II è irreversibile, e dunque irreversibili i cammini intrapresi dalla chiesa in obbedienza ad esso, va anche detto che è tuttora reale la possibilità di dimenticarlo o di minimizzarlo, anche solo ricorrendo all’insidiosa formula «ripensare il concilio».
Ora, Giovanni XXIII aveva annunciato un concilio “pastorale” per precisare che non si trattava di condannare dottrine e uomini, ma di rileggere tutta la vita della chiesa con lo sguardo del Signore, il buon pastore. Un concilio, quindi, non dalle caratteristiche giudiziali come i concili precedenti, ma piuttosto un’assise caratterizzata da sollecitudine e premura per la vita delle chiese nel mondo. Alcuni hanno preso questo aggettivo “pastorale” come pretesto per negare al concilio una portata teologica, dottrinale, in modo da indebolirlo e non riconoscergli la dignità di quelli precedenti che si erano espressi tutti con articoli di condanna e di scomunica. Si trattava invece di cogliere che l’indole pastorale del concilio costituisce un rafforzamento e un progresso nella comprensione dottrinale della verità cristiana, comprensione che è sempre pastorale, cioè sempre in rapporto alla salvezza dell’uomo nella storia, sempre visione di Dio nel suo rapporto con l’umanità. Papa Giovanni, nell’allocuzione di apertura, ribadiva che “compito del concilio è custodire e promuovere la dottrina”, ma che questo compito non poteva essere assolto rinnovando condanne di errori. Occorreva invece “fare un balzo innanzi verso una penetrazione dottrinale e una formazione delle coscienze”, discernendo tra sostanza della dottrina e sue formulazioni, nell’esteso spazio della “medicina della misericordia”.

Il Vaticano II non è stato un concilio parenetico, ma autenticamente dottrinale nella sua sollecitudine pastorale. Se si sa leggere bene il concilio, esso appare addirittura un concilio “cristologico”: Gesù Cristo, infatti, è stato sempre al centro del concilio come “Dei Verbum”, come “Lumen gentium”, come immagine della vera umanità, come mistero pasquale. Joseph Ratzinger, allora teologo al concilio, il 29 settembre 1963, scriveva così nel suo diario, a commento del discorso di papa Paolo VI per l’apertura della seconda sessione: “Ciò che mi ha colpito di più è l’aspetto decisamente cristologico del testo. Con quale enfasi risuonava l’espressione liturgica Te Christe solum novimus (noi conosciamo solo Te, o Cristo) e la conclusione: Christus praesideat!, gridò il papa, Cristo presieda questo concilio”. Sì, un concilio cristologico perché il volto di Cristo è emerso con tratti nuovi: un Cristo conosciuto meglio tramite le sante Scritture, un Cristo amico degli uomini che vuole che tutti siano salvati, un Cristo Signore della chiesa e in essa presente per plasmarla quale sposa bella in attesa del suo Sposo.
Del resto, papa Giovanni pochi mesi prima, l’8 dicembre 1962, nel suo discorso di chiusura della prima sessione, così si era espresso: «Piaccia al Signore che tali frutti [del concilio] siano raccolti non solo dai figli della chiesa cattolica, ma ridondino pure su quei nostri fratelli che si fregiano del nome di cristiani, come pure su quella schiera innumerevole di uomini non ancora illuminati dalla luce cristiana ... Essi non hanno nulla a temere dalla luce del Vangelo».

Allora la domanda decisiva che possiamo porci a cinquant’anni dall’apertura di quell’evento di chiesa è se siamo stati capaci – nonostante limiti, incertezze e contraddizioni – di riavvicinarci al Vangelo e di riavvicinare il Vangelo agli uomini e alle donne di oggi. La fedeltà allo spirito del concilio ci insegna che solo a condizione di essere vissuto e narrato sotto il segno della misericordia il cristianesimo saprà essere eloquente; solo una chiesa che saprà usare misericordia, che sempre preferirà la «medicina della misericordia» alla verga del castigo, che rifuggirà dal nascondersi dietro lo splendore di una verità che abbaglia e ferisce, solo questa chiesa sarà capace di raccontare i tratti di Gesù suo Signore e di essere così ascoltata da quanti attendono una parola di speranza. L’assise conciliare volle farsi eco del Vangelo e, se il Vangelo è sempre ben lungi dall’essere attuato pienamente, ciò che cinquant’anni fa è stato acceso come fuoco nel cuore dei credenti per ora arde e non pare in procinto di spegnersi. Davvero, come esortava papa Giovanni in un discorso pronunciato tre mesi dopo l’annuncio del concilio, si tratta anche per noi oggi di «dilatare gli spazi della carità … con chiarezza di pensiero e con grandezza di cuore».

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